venerdì 30 novembre 2012

Quei circoli che fanno tanto An

Il passaggio, nei telegionali, è stato fulmineo, quasi da renderne difficile la visione a chi non si fosse trovato davanti agli schermi in quei pochi secondi. Eppure qualuno se n'è accorto, eccome. A quasi cinque anni dalla sparizione dalle schede del contrassegno di Alleanza nazionale, dopo la nascita del Pdl, spunta un nuovo marchio, che di quello che ha identificato il partito nato nel 1995 dalla svolta di Fiuggi è chiaramente debitore. Si tratta dell'emblema scelto dai "Circoli del centrodestra nazionale", circoli che "raggruppano persone che si vogliono identificare nella battaglia di partecipazione alle primarie del centrodestra" ha dichiarato su Rai3 ad Agorà il loro presidente, Massimo Corsaro, ora vicecapogruppo vicario del Pdl a Montecitorio dopo una militanza in An lunga quanto la vita politica del partito.
"Non è un simbolo di partito" si è affrettato subito a precisare Corsaro, salvo ammettere, a distanza di pochissimo tempo: “Non so se è un simbolo che ci sarà alle elezioni di marzo; non ho difficoltà a dire che, qualora ci fosse, sarei sotto quel simbolo”. Dovesse esserci, gli elettori non avrebbero poi molte difficoltà a identificare la provenienza, visti i tanti elementi che rimandano alla storia di Alleanza nazionale. Stessa campitura azzurra della parte superiore, restando bianca quella inferiore; il nome dei circoli scritto in bianco maiuscolo nell'area azzurra, con "Nazionale" che mantiene le stesse proporzioni del contrassegno di An; il cerchietto bianco bordato di nero che quasi si adagia sul fondo, anche se non contiene più la fiamma tricolore del vecchio Msi, bensì il nodo tricolore di corde che An aveva usato nella campagna "Più sicuri. C'è Alleanza" del 2008, quando nacque il Pdl. Quelle stesse corde marcano la divisione tra il campo azzurro e quello bianco, paradossalmente come aveva fatto il Movimento sociale Fiamma tricolore nel 2009, quando aveva tentato di presentare un emblema alle elezioni europee, ma il Ministero dell'interno lo ritenne troppo simile a quello di An (che da un anno non operava più politicamente).
In effetti basterebbe proprio poco a rendere "elettorabile" (che brutta parola!) l'emblema dei Circoli di Corsaro. Innanzitutto bisognerebbe "stondarlo", visto che è stato disegnato quadrato (a quello, peraltro, ci abbiamo già pensato noi su questo sito); fatto questo, resterebbe solo da togliere l'espressione "Circoli del" e quella noticina "del PDL" che occhieggia delicatamente dal cerchietto bianco. I quattro colori dell'Italia ci sarebbero tutti, la connotazione politica anche; resterebbe solo da convincere effettivamente l'elettorato di centrodestra a mettere la croce proprio lì e non su altri segni tricolori che dovessero esserci. Questa, tuttavia, è un'altra storia: ci penserà Corsaro, nel caso... 

sabato 24 novembre 2012

"Vogliamo vivere", abbiate Fede

Domani, per chi non lo sapesse, scoccherà l'ora F. F come Fede. Nel senso di Emilio. Già, perché domani pomeriggio a Milano, in un teatro di piazza San Babila (in zona "predellino", sarà un caso?), l'ex direttore del Tg4 terrà il primo raduno della sua creatura politica, "Vogliamo vivere". Parlare di "raduno" fa pensare molto di più a un fan club che a un partito che, a detta dello stesso Fede, è accreditato da qualche sondaggio al 3% dei voti (con tutto il rispetto per Mannheimer, dovessimo sommare tutte le percentuali sciorinate dai vari partiti viventi e nascenti in questi giorni, rimarremmo sotto il 300%?)
Intendiamoci, non è la prima volta che l'Emilio scende in campo, e non solo perché è stato il più fedele ufficio stampa del Cavaliere per anni. Nel 1979 si candidò alle elezioni politiche per il Psdi, lo stesso partito di Italo De Feo, di cui sposò la figlia Diana, eletta al Senato nel 2008 sotto le insegne del Pdl. Ora, invece, Fede prova a mettersi in proprio, scegliendo una propria sigla e vedendo chi lo segue: all'appuntamento di domani si è preparato a dovere, facendo scodellare anche un inno al dj Paolo Manila, "cantato" addirittura da Valeria Marini (ohilà!) e candidato ad essere il successo di non si sa quale hit parade
Mentre Fede ritocca il programma da proporre, pur non volendosi porre come candidato a dutti gli effetti, ha messo in circolo mille copie contate del suo manifesto politico - ha detto di non avere abbastanza soldi per farne di più - con lo slogan "La dignità è un diritto" (potrebbe dirlo chiunque, da un'associazione di consumatori a chi invoca carceri meno affollate o la possibilità di staccare la spina) e un simbolo verde e blu. "Ho chiesto al grafico di mettere qualcosa che ricordasse una foglia che cresce" ha spiegato Fede a Libero, anche se l'effetto non è chiarissimo, sembra essenzialmente quello di una V a forma di "tick" un po' alato e ricorda cose già viste (ad esempio questa). Stavolta, però, niente tricolore, né a bandierina né ad arcobalenino: a prima vista, sembra la cosa meno berlusconiana che Fede abbia mai fatto negli ultimi vent'anni. 

venerdì 23 novembre 2012

I moderati di Samorì alla rivoluzione. Anche loro

Ma poi chi l'ha detto che i moderati non possano fare la rivoluzione? E chi ha detto che i rivoluzionari possano stare solo a sinistra? Deve averci pensato seriamente Gianpiero Samorì, modenese, avvocato, docente di diritto fallimentare poi divenuto banchiere, prima di decidere di candidarsi alle primarie del Pdl, volendo proiettarsi alla Presidenza del Consiglio in caso di vittoria del centrodestra. Magari ha pensato anche al suo (ormai ex) potenziale compagno di viaggio Vittorio Sgarbi, che qualche mese prima aveva creato, senza crearsi alcun problema, il Partito della rivoluzione. Sta di fatto che il nome di Samorì figura tra la ventina di candidati alla guida dello schieramento di centrodestra e la presentazione è avvenuta in pompa magna, sotto l'insegna dei "Moderati italiani in rivoluzione".
L'ossimoro lo hanno visto quasi tutti, in quella convention a Chianciano del 18 novembre che ha svelato alla più parte degli Italiani l'esistenza di una nuova formazione politica. Lasciate perdere la storia dei pullman di vecchietti dirottati all'incontro e convinti di fare una gita (c'è chi si porta il pubblico da casa anche in partiti più grandi, chi è senza peccato prenda il secondo pullman) e non pensate all'ennesimo candidato indagato, di cui si stanno occupando i giornali in questi giorni: pensate solo che i media domenica hanno certificato l'esistenza in vita di un nuovo potenziale leader e di una nuova sigla politica, quasi spaziale a leggerla Mir (un po' troppo sovietica, per i più diffidenti).
Non sarà un partito magari, solo un movimento, nato anche da poco, ma già con due simboli al proprio attivo. Già, perché ancora domenica scorsa il sito riportava ancora il primo emblema, con una grafica piuttosto cheap e autoprodotta, in stile "fine prima Repubblica", con tre freccette a comporre il tricolore e indicare le tre parole fondamentali del nome del movimento, la sigla puntata bianca (feralmente bordata di nero) a sovrastare tutto, lo sfondo azzurro-Pdl (del resto da lì Samorì viene) e l'Italia regionalizzata azzurrina. A Chianciano, invece, un grafico doveva averci messo lo zampino: il poco elegante carattere Stencil ha lasciato il posto a un "bastoni" più pulito, giusto con un filo di ombreggiatura, la sagoma dello Stivale si è rimpicciolita e il tricolore, più fine e sfumato sullo sfondo quasi blu oltremare, è in basso, quasi in posizione Pdl. Il simbolo nuovo, in effetti, è proprio quello e nel giro di qualche giorno finisce anche sul sito.
Tutto bene? Non tanto. All'indomani di questa new entry politica, abbiamo provato a telefonare alla segreteria del Mir, per chiedere le riproduzioni dei due simboli da usare in questo articolo. Ha risposto una voce femminile, giovane e cortese, che però ha richiesto di mandare la solita e-mail al solito indirizzo, dicendo di dover aspettare «di essere autorizzata a inviare il materiale». Ovviamente, nel momento in cui questo post viene pubblicato, non si è ricevuto un bel niente e le immagini mostrate sono in qualche modo recuperate dalla Rete e adattate alla bisogna: se questa è la partenza, quanto a trasparenza e fluidità, c'è poco da sperare.

"Diritti e libertà", la versione di Donadi

«Saremo un partito che non avrà segretari né presidenti, che non chiede e non chiederà mai finanziamenti pubblici». Non sarebbe nemmeno poi così male come presentazione, per Diritti e libertà, il nuovo soggetto politico fondato da Massimo Donadi e Aniello Formisano, dopo la loro uscita dall'Italia dei valori. Con loro, anche un ex fedelissimo Idv come Stefano Pedica, che pure era entrato nel partito dopo essere transitato dalla Dc al Ccd di Mastella all'Udr cossighiana, salvo fondare alla sua dissoluzione i Cristiano democratici europei con l'ex Fi-Udr Alessandro Meluzzi; nel 2005 il movimento fece nascere la Democrazia cristiana di Rotondi, ma Pedica l'anno dopo lo fece aderire all'Italia dei valori.
Già persi? Stiamo all'attualità allora: oggi Donadi, Formisano e compagni hanno presentato alla stampa Diritti e libertà, una denominazione che sembra uscita direttamente da un manuale di diritti pubblico o costituzionale, e invece contraddistingue l'ennesimo movimento battezzato in questa XVI legislatura. «Libertà» ovviamente qui non ha nulla di berlusconiano, sembra piuttosto declinata al plurale al pari dei «Diritti», lasciando intendere che l'oggetto di tutela e azione del partito sia proprio questo. La sigla, Dl, a dire il vero, è già un po' rubacchiata: a ben guardare, era l'acronimo con cui si indicavano dal 2001 al 2008 gli esponenti della Margherita, il cui nome integrale era «Democrazia è libertà - La Margherita», col nome del fiore che inizialmente non era nemmeno messo per iscritto nel contrassegno. Volendo, tuttavia, Donadi si può anche assolvere: anche Rutelli e compagni, infatti, non erano stati poi così originali, visto che Democrazia e libertà era lo slogan che campeggiava, tra le bandiere d'Italia ed Europa e una bilancia, sul simbolo del «Centro di cultura e di iniziativa politica "Leonardo da Vinci"» (così stava scritto sulla bacheca del Viminale) già presentato nel 1996: il Centro aveva sede ad Avellino e non a caso servì a Ciriaco De Mita per la sua elezione a deputato.
Il simbolo, invece, è tutto diverso, niente fiorellini o bilancine: giusto un cerchio arancione, con il nome del partito scritto in bianco all'interno poco più che a semicerchio; nella parte superiore c'è l'immancabile tricolore a campire un settore dai lati ricurvi e un po' staccati dal resto del cerchio, con ombrette blu distribuite qua e là. Cosa sia quello spazio bianco nel mezzo, è lasciato alla fantasia di ognuno: può diventare, a seconda delle letture, una V di vittoria benaugurante (e anche un po' "grillina", se si vuole), un segno di "spunta" (il tick inglese) come elemento positivo, un paio d'ali stilizzate come emblema di libertà e chissà cos'altro. «Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo, ci siamo messi in gioco per dimostrare che un’altra politica è possibile, senza certezze e senza paracaduti» ha detto ancora Donadi: in effetti, un paio d'ali farebbe proprio comodo.

giovedì 8 novembre 2012

Donadi lascia l'Idv: e se fosse un Moderato?



Ai mal di pancia hanno fatto seguire la loro personale cura, levandosi di torno. Massimo Donadi e Aniello Formisano, fino a ieri tra i volti più noti dell’Italia dei valori, hanno annunciato oggi il loro addio al partito guidato da Antonio Di Pietro. Nella sala delle conferenze stampa della Camera sono state pronunciate parole pesanti: «“Attacchi sconsiderati” al Presidente della Repubblica; “continue aggressioni” al teorico principale alleato, il Pd; mancanza di un indirizzo politico; gestione “verticistica e carismatica” del partito; distruzione della foto di Vasto, continui “ondeggiamenti inaccettabili”; drastico calo dei consensi in Sicilia» riassume il sito di Rai News, citando proprio Donadi.
Lui e Formisano si sono già iscritti al gruppo misto, ma dovranno fare altrettanto i “superstiti” Idv a Montecitorio, poiché ora non sarebbero più in numero sufficiente per costituire un gruppo autonomo, secondo il regolamento della Camera. Gli occhi, ora, sono puntati sul futuro di questi due esponenti, per capire quale strada prenderanno dopo aver lasciato il gabbiano iridescente.
Qualche dritta, in realtà, l’hanno data loro stessi: in conferenza stampa hanno detto che da ora lavoreranno «alla costruzione di un nuovo soggetto politico che prende le mosse dalle centinaia di dirigenti dell'Idv che ci hanno contattato e ci hanno chiesto di andare fino in fondo; un soggetto che sarà presentato entro la fine del mese con il suo simbolo e la sua squadra», magari con un occhio di riguardo per persone come Luigi De Magistris, che nell’Italia dei valori hanno iniziato un percorso salvo poi distaccarsi da quel soggetto politico, pur senza rinnegarne le idee.
Sarebbe da attendere un nuovo partito dunque, di area moderata, e non l’ingresso in una formazione già esistente. Proprio ieri, tuttavia, ci sarebbero stati contatti – lo ricorda anche Il Messaggero – tra Donadi e Giacomo Portas, eletto nel 2008 alla Camera come indipendente nelle liste del Pd, in quanto segretario del partito «I Moderati». Portas è sardo di origine, ma il movimento «I Moderati» è nato e si è radicato in Piemonte a partire dal 2005, quando si presentò per la prima volta a Torino. Gran parte dei suoi aderenti della prim’ora provenivano da Forza Italia e almeno in parte il simbolo sembra rivelarlo: il tricolore nel segmento circolare superiore e l’azzurro (con tanto di dodici stelle europee) in quello inferiore rimandano almeno in parte al linguaggio cromatico cui il mondo berlusconiano ci aveva abituato negli ultimi anni. Poi, per carità, Ilvo Diamanti (e con lui molti tra storici, politologi ed esperti di comunicazione) lo ricordano da tempo, verde, bianco, rosso e azzurro sono i colori dell’Italia e usarli non significa affatto essere berlusconiani – tutt’al più, usare solo quelli può significare poca fantasia o la difficoltà di stabilire un’identità precisa – ma di certo l’idea di moderazione viene ampiamente comunicata.
Dal 2008 i Moderati sono vicini al Pd e in questo periodo stanno sostenendo Bersani nella campagna per le primarie; anche Donadi ha dichiarato che alle primarie voterà Bersani, in quanto «federatore». Lui, tra l’altro, non sarebbe il primo idivino a prendere la via dei Moderati: uno dei fondatori del partito era Giovanni Pizzale, già responsabile nazionale per la sicurezza dell’Italia dei valori. Moderati vogliono esserlo di certo, Donadi e Formisano; probabilmente non saranno pronti a traslocare a casa Portas, ma potrebbero tranquillamente essere buoni vicini.

domenica 4 novembre 2012

Quando la lite si inFiamma - gli inizi

Quando, il 27 gennaio del 1995, “nasce” Alleanza Nazionale, cambiando il nome storico del Movimento sociale italiano, «Rauti Giuseppe detto Pino» si era già preparato a dovere. L’idea che si voltasse del tutto pagina, politicamente e anche nominalmente, proprio non gli andava giù, come non piaceva ad altri sodali di partito, da Raffaele Bruno a Silvio Vitale a Roberto Bigliardo: l’Msi non poteva sparire quasi senza colpo ferire, cancellando di fatto il percorso iniziato con Almirante nel 1946 (per chi aveva seguito Gianfranco Fini, ovviamente, non si cancellava un bel nulla, casomai si doveva parlare di evoluzione).
Detto, fatto: un atto notarile del 21 gennaio 1995 costituisce il «Movimento sociale italiano, nella continuità del Movimento sociale italiano - Destra nazionale», a condizione che al congresso di Fiuggi l’Msi di Fini avesse deliberato di sciogliere l’Msi o di trasformarlo in un altro soggetto politico. «Continuità un fico secco, gli eredi siamo noi, loro sono un partito nuovo» proclamano da Alleanza nazionale, che per mettere le cose ben in chiaro piazza nel suo contrassegno – lo stesso già usato alle elezioni del 1994, quando il Msi ufficialmente si chiamava ancora così e si dovette creare un’associazione ad hoc – la fiamma tricolore ultima maniera (sia pure con la sigla M.S.I bianca e non giallo-oro, sulla base rossa), giusto un po’ più piccola rispetto al passato ma ben evidente. Quella fiamma, però, la vuole anche Rauti, anzi, è convinto che spetti solo a lui e ai suoi: «Altro che cambio di nome, a Fiuggi è stato sciolto illegittimamente l’Msi e chi ha seguito Fini ha aderito ad An, che già c’era da un anno, quindi non possono rivendicare niente».
Tanto per cambiare, si finisce in tribunale, ma prima bisogna votare (il 9 aprile) alle elezioni suppletive di Padova – Emma Bonino è diventata commissario europeo e deve lasciare la Camera – e un simbolo va comunque presentato. Rauti fa un tentativo e fa depositare un emblema che richiami il più possibile quello del Msi: c’è solo la fiamma con la base rossa e la sigla bianca (proprio la stessa di An), inscritta perfettamente in un cerchio, tracciato in fretta a mina, con un compasso. Manco a dirlo, il Ministero dell'interno boccia l’emblema, perché è confondibile con quello di Alleanza nazionale visto che le fiamme sono uguali; ci sono giusto 48 ore di tempo per presentare un altro emblema e salvare la partecipazione alle elezioni.
Il partito propone alcune varianti e una, per il Viminale, va bene: il nuovo contrassegno contiene la dicitura maiuscola «Movimento sociale Fiamma tricolore» – il font utilizzato è stato appositamente disegnato dai grafici – con la parola «Fiamma» evidente in posizione centrale; la prima «A» (più grande rispetto alle altre lettere) nasconde parzialmente il disegno tradizionale della fiamma tricolore, stavolta senza basamento. An però non ci sta: «Quel simbolo è ancora troppo simile» tuona Ignazio La Russa, il partito ricorre all’ufficio elettorale presso la Cassazione, ma il ricorso è respinto e Rauti può utilizzare indisturbato il contrassegno alle elezioni del 1995.
Nel frattempo, la questione finisce davanti al tribunale di Roma: per i giudici, a parte qualche piccola differenza, il caso è la copia carbone di quanto avvenuto quattro anni prima, quando il Pci si era trasformato in Pds e aveva perso per strada gli agguerriti compagni di Rifondazione comunista, che volevano a tutti i costi il vecchio nome e il simbolo tradizionale della doppia bandiera, con falce e martello. In sostanza, da una parte c’è un partito che, nell’adottare una nuova linea politica, cambia nome e modifica radicalmente il contrassegno (pur senza rinunciare del tutto al vecchio); dall’altra c’è una formazione giuridicamente nuova (tant’è che viene costituita con apposito atto) che però si richiama integralmente alla vecchia linea politica e chiede di conservare i segni distintivi ad essa legati. In una situazione come questa, solo An può mantenere il nome e il simbolo del Msi, perché giuridicamente è lo stesso partito, anche se è molto cambiato: non c’è spazio, insomma, per chi può vantare una continuità solo ideale. Rauti per il momento incassa (il contenzioso in realtà continua e se ne darà conto), ma la sua nuova creatura politica – che tutti ormai chiamano Fiamma tricolore – è solo agli inizi: di strada da raccontare ce n’è ancora parecchia.

venerdì 2 novembre 2012

Alle "vere primarie" voto Cetto (ma anche Frengo o Olfo). Garantisce Antonio Albanese


In principio fu Cetto. Anzi, solo Cetto. Già, perché alle primarie dell’ineffabile Partito du Pilu si raccoglievano le primarie per un unico candidato, Cetto Laqualunque: non mancava nulla, moduli per le firme, adesivi, bandiere, spillette, il tutto sotto il gazebo montato nella piazza che di volta in volta era stata scelta. Lo scopo era la promozione del film Qualunquemente, uscito a gennaio 2011 nelle sale con Antonio Albanese come protagonista, ma il fenomeno non passò inosservato.
Ora l’attore si accinge a tornare da mattatore con una nuova pellicola imperdibile, Tutto tutto niente niente. Stavolta, però, per Cetto Laqualunque – che come unico punto programmatico sceglie «la depenalizzazione di tutti i reati», un ossimoro in piena regola – il compito si fa maledettamente più difficile, perché alle primarie avrà due concorrenti: Frengo Stoppato, convinto liberalizzatore del fumo e assertore della beatificazione in vita, nonché «Favaretto Rodolfo detto Olfo» (così, c’è da giurarci, sarebbe scritto sulla scheda), secessionista impenitente in salsa veneta. La campagna elettorale inizierà domani, con tanto di autobus a due piani a scorrazzare per l’Italia e tutti – proprio tutti: «italiani residenti, italiani non residenti, stranieri regolari e irregolari», come recita il sito www.levereprimarie.it – potranno sostenere i candidati, fondare comitati e soprattutto votare.
Regista di queste due curiose consultazioni è il creativo Federico Mauro: «Per Qualunquemente le primarie di Cetto erano più una attestazione del gradimento del “politico” inventato da Albanese – ci ricorda –. Io fui coinvolto come Art Director di Fandango, fu un successo straordinario e inatteso, ma era una sorta di sottoscrizione al suo programma. Assieme alla divisione marketing di Fandango e 01 Distribution abbiamo ideato e definito la campagna: io mi sono occupato dell'aspetto creativo (online soprattutto), della realizzazione grafica e dell’art direction della campagna. Le contingenze politiche del periodo ci aiutarono molto: addirittura un sondaggio del Corriere rilevò un potenziale 9% di elettori disposti a votare per il Partito du Pilu... quando la realtà supera la fantasia».
Per il lancio del nuovo film, con una vera competizione tra più candidati (pure se interpretati dallo stesso attore) il gioco è diventato più serio e accurato: «L’idea delle primarie, paradossalmente, è nata anche qui molto prima della contingenza politica che ora viviamo – chiarisce Mauro –. Essendo stavolta tre i personaggi l’idea di “vere” primarie è stata piuttosto naturale. Poi i personaggi erano così divertenti e ricchi di suggestioni...  Faccio notare che la nostra è una campagna elettorale vera e propria: ci sarà un tour che girerà l’Italia per diffondere materiale, programmi e far conoscere i candidati, c’è un sito web dove per la prima volta si potrà votare da casa, con un clic, il proprio candidato, ci sarà una App per iPhone e iPad... insomma in un certo senso abbiamo anche arricchito questa campagna con idee e modalità che, prima o poi, dovranno essere realmente sperimentate. Come il voto elettronico, per esempio...»
I simboli della campagna elettorale
Sembra quasi di stare dall’altra parte del mondo, a giudicare dallo stile della campagna, piena di stelle e con i colori degli Stati Uniti dovunque: pure i simboli dei tre candidati si adeguano a questa Emerican Uei. «Volevamo distaccarci un po’ dallo stile del primo film, però – precisa l’art director – dovendo veicolare una competizione elettorale e politica, bisogna comunque adeguarsi e creare un rimando chiaro alle forme della comunicazione politica. L’idea di rendere simili le primarie a quelle americane era anche per dare più enfasi ai personaggi. rendendoli più “importanti”».
Morale, ci aspettano tre settimane di campagna elettorale fino alle primarie (che anticipano di poco quelle del Pd): inutile chiedere a Federico Mauro una presentazione dei candidati («Sul sito ci sono i loro divertentissimi programmi elettorali con tanto di spot: valgono più di ogni presentazione»), mentre dice qualcosa di più sulle speranze riposte in questa insolita campagna, in termini di votanti e di traino per Tutto tutto niente niente: «Sono fenomeni imprevedibili. Per ora registriamo un interessante gradimento: il pubblico si diverte e ci fa piacere. Speriamo segua l’intero mese di campagna e poi vada a divertirsi al cinema il 13 dicembre, perché il film è davvero esilarante». Viene da chiedersi quanto, questa volta, la nuova pellicola di Albanese riuscirà ad anticipare la realtà: senza Qualunquemente, tale Marco Di Nunzio non si sarebbe mai presentato agli uffici elettorali piemontesi a depositare alle ultime elezioni la lista «Bunga Bunga – Più pilo per tutti». Avremmo voluto vedere le facce del depositante e della commissione, per ora ci basta il commento di Federico Mauro, art director: «Al peggio non c'è davvero mai fine». Gli crediamo sulla parola.

giovedì 1 novembre 2012

L'Italia dei valori, senza (più) nome



Lo ricorda spesso Pierluigi Castagnetti: «Il primo a mettere il suo nome nel simbolo di un partito politico, destando molta impressione perché allora non usava proprio così, fu Marco Pannella». È probabile che abbia ragione, ma sicuramente dopo il buon Giacinto ne sono venuti molti e molti altri. E non si parla solo di quelli che, soprattutto dagli anni Duemila in poi, hanno piazzato il loro nome nell’emblema (Berlusconi certo, «ma anche» Veltroni, Casini, Fini, Boselli, Bossi, Pionati, per citare solo alcuni che non hanno saputo resistere, per non parlare ovviamente di tutta la pletora di candidati alle elezioni regionali e amministrative): per qualcuno, il cognome del leader sembra essere parte integrante dell’emblema, ben difficile da rimuovere.

Proprio ieri, Antonio Di Pietro ha ripetuto di nuovo una cosa ben precisa: «Alle elezioni toglierò il mio nome dal simbolo». Già nel 2010 però, a un congresso dell’Italia dei valori – lo ha ricordato Il Post – disse esattamente questo: «È inimmaginabile che negli anni a venire si possa continuare a fare politica sotto la coperta di un partito che porta nel proprio simbolo il nome di una persona sola, anche se quel nome è il mio che ne sono stato il fondatore. [...] Dobbiamo togliere appena possibile dal simbolo il mio nome». Ora, lasciamo stare – ma non troppo – l’effetto Report (che non è affatto detto che possa far morire l’Idv, a differenza di quanto dichiarato dal suo fondatore): le elezioni ormai sono vicine e se quel nome deve sparire, sparirà.

Ancora più che con Bossi, questa è proprio la fine di un’epoca. Già, perché quel nome, «Di Pietro», sul contrassegno c’è dal 1998, quando l’Idv nacque come movimento e si presentò qua e là alle elezioni amministrative (prima di dare vita all’esperienza dei Democratici). Nel 2001 ricomparve e finì sulle schede elettorali delle elezioni politiche: da allora non si è mai schiodato da lì, mantenendo sempre lo stesso font, accanto al gabbiano color arcobaleno.

Qualche manovra, a dire il vero, era stata fatta, ad esempio nel 2004, quando alle europee a Di Pietro si aggiunse Occhetto e si volle marcare la presenza della «società civile», oppure nel 2005, quando alle regionali si cercò di dare più rilievo al nome del progetto politico, facendo scivolare il riferimento al leader in basso: non dovette sembrare una grande trovata, infatti dall’anno dopo le scritte sul simbolo erano tornate come prima. Che succederà al gabbiano ora, senza più quel riferimento rimasto fermo per quasi quindici anni? Si accettano pronostici su dove potrebbe planare.

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P.S. Dal momento che occorre essere precisi, faccio ammenda rispetto all'immagine precedente. Quello con la dicitura "1998" in realtà è il simbolo presentato dall'Idv alle politiche del 2001. Ho appena scovato il simbolo che alla fine del 1998 fu utilizzato dal movimento politico per presentarsi ad alcune elezioni amministrative. Non sposterà granchè, ma per la precisione, errori non se ne possono lasciare (soprattutto se uno se ne accorge...)