mercoledì 27 febbraio 2013

L'Alba dorata, anzi, due...


Alla fine sulle schede non ci è finita proprio. Eppure i giornali ne avevano parlato, qualcuno si era pure preoccupato del fatto che anche in Italia potesse sbarcare Alba Dorata, il partito greco di estrema destra (che, a dirla tutta, si chiamerebbe Lega popolare - Aurora dorata) che nel 2012 era riuscito a entrare in Parlamento con un drappello di deputati. E in effetti "Alba dorata Italia" era stata proprio fondata, almeno informalmente, all'inizio di novembre del 2012: alla guida c'era e c'è tuttora Alessandro Gardossi, "triestino, classe 1968, autoproclamatosi segretario politico italiano", come ha scritto Marco Pasqua sull'Huffington Post. A lui si deve l'apertura del sito internet del movimento e degli spazi su Facebook. 
Aveva scelto proprio il meandro greco (che non a caso in italiano si chiama "greca", per farla spiccia) Gardossi come simbolo per la sua formazione: a chi gli chiedeva perché avesse scelto per sé l'emblema di un partito xenofobo, il segretario ammetteva candidamente “Perché era un buon modo per far parlare di noi”. In effetti i media si sono occupati di loro, soprattutto quando il 21 dicembre, all'Assemblea costituente del partito in una sala dell'hotel Ergife di Roma, i presenti erano circa una quarantina, giornalisti compresi (vedere di nuovo il resoconto dell'HuffPost per avere le idee più chiare). A pagare la sala era stato Bruno Berardi, figlio del maresciallo di polizia Rosario Berardi ucciso nel 1978 dalle Brigate rosse: già militante della Fiamma tricolore, ne era stato espulso dopo aver incoronato come eroe Anders Breivik, il norvegese autore delle due stragi del 22 luglio 2011 e si era offerto di entrare in Alba dorata, assieme a tale Mauro Fadda. "Misero sul piatto denaro ed organizzazione - ha spiegato a gennaio Gardossi sul sito - e decidemmo di farli entrare non avendo nessuno dietro di noi che ci finanziava". 
L'idillio dev'essere finito presto, a giudicare da quello stesso post di Gardossi senza data: "Il signor Fadda si offrì di creare il simbolo del movimento. La Segreteria dette mandato al Fadda, senza impegno economico ovviamente. Dopo 2 settimane Alba dorata si è vista recapitare dal Fadda una fattura di 18.000 euro per affitto sala all'Ergife (che pagò Berardi) più hostess (mai vista alcuna) più altri ammenicoli tra cui la crezione del simbolo!" Con queste premesse, era quasi naturale che si arrivasse a una rottura. Cosa sia effettivamente accaduto in quei giorni di gennaio, a noi esterni non è dato sapere; sta di fatto che al Viminale, per il deposito dei simboli, si presentano sia i delegati di Gardossi, sia quelli di Berardi. Stesso meandro dorato circondato da corona di alloro, stesso sfondo blu scuro; unica differenza, il simbolo di Berardi riporta due volte la dicitura "Alba dorata Italia". Nient'altro.
Qualcuno ironizza sul fatto che entrambi se la siano presa piuttosto comoda: entrambi i numeri di deposito sono piuttosto elevati, come se i depositanti avessero avuto preciso sentore che anche qualcun altro avrebbe depositato il simbolo, ma non si fossero preoccupati poi più di tanto. Alla fine dei conti, comunque, il Viminale ha accolto l'emblema di Berardi, presentato col numero 116, mentre ha ricusato quello di Gardossi, col numero 189. Poco conta che sia stato proprio Gardossi l'iniziatore dell'esperienza di Alba dorata: il movimento è nato da poco e probabilmente i funzionari del Ministero non hanno strumenti per dire con certezza chi l'abbia fondato, così vale il criterio del divieto di confondibilità e chi prima arriva, anche in questo caso, meglio alloggia. 
Gardossi, manco a dirlo, non è contento: ce l'ha con il Viminale che "ha prediletto una lista civetta solo perché si è presentata per prima" a differenza di quanto è avvenuto col MoVimento 5 Stelle. Su Berardi e Fadda, dichiara: "Sicuramente noi di Alba dorata in buona fede siamo stati fregati da vecchi volponi della politica e questo lo mettiamo come pregio non come cosa negativa: siamo la gente per la gente e certi figuri hanno abusato della nostra buona fede purtroppo". L'attività di Alba dorata continua, col tentativo di presentare candidati all'interno della Fiamma tricolore per le prossime elezioni in Friuli: l'accordo è giustificato sostenendo che i due partiti sono "figli di un unico padre, una persona demonizzata per i suoi errori e mai glorificata per le grandi cose che fece per la nazione. Lui fu l'unico in vent'anni a fare cose che nessuno riuscì mai a fare in centinaia di anni. Menefregandosene di tutti, mercati in primis!" Se lo dicono loro ...

martedì 26 febbraio 2013

Penultime notizie sulla Dc

Alle ultime elezioni, come è noto, non si è vista, anche perché il suo simbolo era stato ricusato dal Viminale e l'Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte di cassazione aveva confermato l'esclusione: sulle schede, quindi, non è finito lo scudo crociato della Democrazia cristiana guidata da Gianni Fontana (come pure quello del comitato di democristiani guidato da Franco Mortellaro e quello presentato da Alessandro Duce come ultimo segretario amministrativo della Dc, nominato nel 1994 giusto prima del cambio di nome in Ppi). 
Non è dato sapere cosa sarebbe accaduto se la Dc-Fontana si fosse sottoposta agli elettori - anche se, a giudicare dalla fine che ha fatto l'Udc di Casini, ci sarebbe stato poco da sperare - ma, nel frattempo, il partito sta cercando di ripartire (si sarebbe tentati di dire, per l'ennesima volta) e per farlo ha tentato di sanare una ferita che si era creata a dicembre, quando Ombretta Fumagalli Carulli era diventata presidente del consiglio nazionale su impulso del redivivo diccì Paolo Cirino Pomicino, mentre una parte di coloro che avevano contribuito a riattivare il partito (e avrebbero voluto vedere in quel ruolo il campano Ugo Grippo o Silvio Lega) se n'era andata via, "mortificata".
Sul sito www.dccampania.eu si legge che, giusto un mese fa, quella frattura sarebbe stata ricomposta, con l'ingresso nella direzione nazionale di "dodici amici" che in un primo tempo erano usciti e il proposito di ripartire dalle elezioni amministrative di maggio. Che la ferita sia stata sanata del tutto è lecito dubitare (non pare che del progetto Dc facciano di nuovo parte proprio Silvio Lega e lo stesso Alessandro Duce, che con lui aveva scelto di allontanarsi), che il percorso verso l'appuntamento elettorale sia in discesa altrettanto. Sulla Dc-Fontana, infatti, pende sempre l'ordinanza emessa a gennaio dal Tribunale civile di Roma che - sia pure in via cautelare - aveva sospeso a gennaio l'efficacia degli atti del consiglio nazionale che il 30 marzo del 2012 aveva dato ufficialmente il via alla riattivazione dello storico partito cattolico: un vizio formale, riconosciuto dal giudice, "congelerebbe" tutti gli atti compiuti da lì in avanti, comprese le elezoni del segretario e il congresso fatto in autunno.
Ora, all'ultima riunuone della direzione nazionale, svoltasi il 13 febbraio, il segretario Gianni Fontana ha proposto di formare una commissione che lo aiutasse a gestire proprio gli impegni legati alle controversie sul nome e sul simbolo. A farne parte, assieme alla Fumagalli e a Vittorio Adolfo (nuovo tesoriere dopo Duce), ci sono vari altri componenti tra cui Ugo Grippo e soprattutto Paolo Cirino Pomicino, tutt'altro che un giovanotto; saranno loro a dover valutare il da farsi, in base all'esito del reclamo contro la sentenza del Tribunale di Roma. La riserva dovrà essere forse sciolta probabimente il 5 marzo, quando ai giudici toccherà pronunciarsi a cognizione piena sulla vicenda: comunque vada, l'impressione è che la guerra per restituire vita alla Dc sia ancora lunga.

domenica 24 febbraio 2013

Divertissement infraelettorale: il Partito del Pinzimonio

Secondo qualcuno le bacheche del Viminale traboccanti di 219 contrassegni, in fondo, non erano vere bacheche e nemmeno un simbolario (nel senso di raccolta): gli osservatori avevano di fronte un vero e proprio bestiario, in cui a essere oggetto degli sguardi erano tanto i simboli, quanto la mente di chi li aveva creati (anche se non era lì presente, magari per evitare le botte di chi, a vedere certi emblemi, ha avuto la gastrite). E viene da dire che, per fare cifra più tonda, non ci sarebbe stato male nemmeno questo emblema, naturalmente falso: chissà, però, se Roberto Benigni, coniatore del Partito del Pinzimonio, lo avrebbe accettato. E chissà, nel caso, in quanti sarebbero stati disposti a votarlo...

Noi vogliamo... siamo per la riforma, uninominale, secca, all'inglese, con il doppio turno alla francese, e il ballottaggio e lo scorpolo del proporzionale, al Senato e alla Camera, per il presidenzialismo e il cancellierato alla tedesca, il problema alla Sartori, e vogliamo il presidenzialismo all'americana, la soluzione alla francese, e l'uninominale all'inglese, i bucatini all'amatriciana e la bistecca alla fiorentina! E noi vogliamo, elettori, il bagno alla turca! Noi vogliamo... [applausi] grazie per la fiducia, elettori, grazie per la fiducia!
Roberto Benigni
da TuttoBenigni 95/96 

 

venerdì 22 febbraio 2013

Falce e martello in tribunale

Alla fine, come era prevedibile, in tribunale la falce e il martello ci finiscono sul serio, e non certo come strumenti di un omicidio. Oddio, una specie di morto in realtà c'è, almeno secondo Garavini, Cossutta e compagni: con quel congresso di Rimini dell'inizio del 1991, infatti, la maggioranza dei delegati del Pci non si era limitata a cambiare il nome al partito, ma aveva "ripudiato la sua precedente identità politica" e operato - come suggerito probabilmente da uno dei difensori degli scissionisti, l'esperto di diritto industriale Giorgio Floridia - una "dismissione volontaria e irreversibile del suo precedente patrimonio simbolico". Morale: avete cambiato faccia, nome e simbolo, volete pure impedire a noi di chiamarci come ci siamo sempre chiamati?
Messo così, ovviamente, il discorso al Partito democratico della sinistra non va bene per niente: "Siamo noi a essere gli stessi di prima, il nome l'abbiamo cambiato ma secondo le regole, eppoi il simbolo l'abbiamo tenuto anche se in piccolo - assicurano da via delle Botteghe oscure -. Voi invece ve ne siete andati e avete fondato un altro partito". Quando i dirigenti del Pds vengono citati davanti al tribunale di Roma dal Pci di Garavini, i loro avvocati - compreso un gigante della materia come Francesco Galgano e Romano Vaccarella non ancora arcinoto come difensore di Fininvest - precisano che, se c'è qualcuno deve smettere di usare il vecchio segno e la sigla del Pci, quello è proprio Garavini. E deve smetterla subito.
A decidere la questione è una sezione del tribunale civile, presieduta da Mario Delli Priscoli - lo stesso, a quanto pare, che molti anni dopo da procuratore generale della Corte di cassazione, avrebbe avviato azioni disciplinari contro Luigi De Magistris e Clementina Forleo. Il caso è molto delicato, l'attenzione e la prudenza con cui viene trattato lo mostrano: l'ordinanza che risolve in prima battuta (e in sede cautelare) il caso, la numero 9043 del 26 aprile 1991 (scritta dallo stesso Delli Priscoli), diventa una sorta di pietra miliare per tutti coloro che devono occuparsi delle scissioni dei partiti e delle loro conseguenze in tema di nomi e simboli.
Per prima cosa, i giudici ricordano che i partiti sono associazioni non riconosciute, ma godono comunque di diritti della personalità, specie quelli relativi al nome, alla sigla e al simbolo (cioè gli unici segni con cui quei soggetti possono essere identificati dalla società); partiti e sindacati, poi, meritano su questo piano una tutela ancora maggiore rispetto alle altre associazioni, per il ruolo che la Costituzione riconosce loro. Forse il discorso non è nuovo, ma è la prima volta che viene esposto in modo piuttosto completo: da qui in avanti nessuno ne dubiterà più.
Ai partiti in gioco, tuttavia, questa premessa preme relativamente poco. I giudici mettono subito in chiaro che non si può chiedere loro di valutare la continuità ideologica di un'associazione: fare gli esami del sangue ai soggetti di una scissione per decidere chi sia più rispettoso delle tradizioni - chi sia più comunista o davvero comunista, in questo caso - equivale a dare un giudizio politico e i giudici non possono farlo. Il parametro di giudizio, quindi, dev'essere un altro. Per Garavini e Cossutta, il simbolo del "vecchio" Pci appartiene alla tradizione comunista e non permetterne l'uso è una lesione dell'identità personale; per Occhetto, invece, quel simbolo nella sua interezza appartiene all'associazione che si chiamava Pci e ora si chiama Pds, per cui non possono usarlo altri.
Il fatto è che, secondo il giudice, il Pds non ha affatto "dismesso" la falce e il martello: li ha rimpiccioliti, sì, ma alla base dell'albero della sinistra si vedono bene e, se li usasse qualcun altro, la gente si confonderebbe e si creerebbero equivoci tra gli elettori. Sono le stesse regole, in fondo, che valgono per le elezioni e per un ambito solo apparentemente diverso, quello dei marchi: alla base c'è sempre "una esigenza di carattere generale di chiarezza e non confondibilità". In più, se il Pds è lo stesso soggetto che prima era noto come Pci, significa che chi è rimasto al suo interno (pur col cambio di nome, simbolo e idee) è ancora titolare dei vecchi segni: chi come Garavini e gli altri se n'è andato, anche se per perseguire gli antichi ideali, ha fondato un soggetto nuovo e sul vecchio patrimonio (anche simbolico) non ha più diritti.
A vincere la prima battaglia, dunque, è il Pds, che può tenere la falce e il martello alla base della quercia; il Pci di Garavini e Cossutta, invece, deve cambiare nome e simbolo. La vecchia etichetta della mozione, "Rifondazione comunista", torna utile; quanto al simbolo, c'è tempo per pensarci. Almeno fino alle elezioni del 1992, in tempo per un altro litigio epico.

giovedì 21 febbraio 2013

I Verdi dell'anemone

Ricapitolando, i Verdi si erano già moltiplicati, mostrando che un colore poteva in realtà nascondere una tavolozza o, per lo meno, una striscia con molte sfumature, pronte a trasformarsi puntualmente in altrettanti partiti (e simboli). Accanto alla Federazione dei Verdi (quelli del sole che ride) erano già spuntati i Verdi Verdi (dell'orsetto), i Verdi Federalisti (del girotondo di bimbi) e altri gruppuscoli, eppure non erano sufficienti. Forse, erano semplicemente troppo piccoli per contare davvero e portare avanti quelle battaglie e quei progetti che - a detta di chi era della partita - sotto il sole ridente erano stati pressoché abbandonati.
Doveva essere la fine del 1993 o l'inizio del 1994, quando presso la sede dell'associazione ambientalista Kronos 1991, iniziarono a riunirsi un po' di persone: il presidente stesso di Kronos, Silvano Vinceti (non ancora alla guida del Comitato nazionale per la salvaguardia dei beni storici, culturali e ambientali e soprattutto non ancora noto come cercatore di Caravaggio e di Monna Lisa, o per lo meno di ciò che restava di loro), Maurizio Lupi dei Verdi Verdi, Laura Scalabrini dei Verdi Ambientalisti, Enrico Balducci del pugliese Ambiente Club, ma anche alcuni ex esponenti dei Verdi (o, per lo meno, sedicenti tali) come Lele Rizzo e Federico Clavari, già portavoce e tesoriere del sole che ride. Si capì presto che quello che occorreva era un nuovo partito, autenticamente ambientalista, da proporre in alternativa alla Federazione dei Verdi: per prima cosa occorreva battezzarlo. 
Per qualcuno era meglio prendere una strada diversa, scegliere un nome che puntasse all'ambiente ma lasciasse perdere il verde, per distinguersi davvero dagli altri; alla fine, però, si preferì coniare la denominazione "Verdi liberaldemocratici", che a qualcuno piaceva proprio perché permetteva di dire che c'erano "altri" Verdi e non c'era alcun motivo per un ambientalista per stare per forza a sinistra. Che verso destra si muovesse qualcosa, fu chiaro a tutti proprio a febbraio del 1994: "Un terzo dei Verdi è con noi" fu pronto a dichiarare ai giornali il generale Luigi Caligaris a nome di Forza Italia, riferendosi a suoi contatti con Vinceti, Rizzo e Clavari. "Quelli? Sono tre carneadi strumento di Pannella quando nel 1985 pensava di impadronirsi anche dei Verdi - ribattè piccato Gianni Mattioli per il sole che ride -. Sono tre radicali mai diventati Verdi: se ora vanno con la Lega o con Forza Italia non fanno che continuare la loro migrazione".
Carneadi o no, il partito nacque: al nome associò come simbolo un anemone azzurro, ovviamente piazzando la parola "Verdi" maiuscola e in bella vista, col fiore seminascosto proprio come il sole che ride. Qualcuno, a dire il vero, si sfilò prima ancora di cominciare (i Verdi federalisti della Scalabrini), qualcun altro pensò effettivamente più a Forza Italia o a partiti di quell'area che al nuovo progetto. "Molti dei personaggi confluiti nel nuovo soggetto politico - avrebbe scritto vari anni dopo Roberto De Santis, che del partito divenne il segretario - conservavano nel loro Dna caratteristiche e modalità tipiche dei loro cugini presenti nello schieramento di centro sinistra: solo meri e semplici calcoli elettorali che potevano utilizzare per proiettarli sulla scena politica. Nessuno di questi signori era particolarmente interessato alla nuova elaborazione culturale e programmatica dei Verdi liberaldemocratici, in quanto ancora legati ed ancorati a vecchie campagne ideologiche e dogmi del movimento verde quali ad esempio il No al nucleare, la forte presenza dello stato nei beni ambientali, etc." 
Nel 1995 i Verdi liberaldemocratici si avvicinarono alla proposta di Assemblea costituente lanciata da Mario Segni, mentre l'anno dopo presentarono il loro simbolo alle elezioni politiche: quella volta l'accordo con Forza Italia sembrava cosa fatta, con la possibilità di avere un rappresentante in Parlamento. Qualcuno, tuttavia, remò contro (forse perché non amava la presenza di altri ambientalisti, forse perché semplicemente il posto in Parlamento serviva a qualcun altro) e non se ne fece niente. Quella volta il Polo perse, di poco ma perse: forse non sarebbero bastati i voti dei Verdi liberaldemocratici, ma certamente avrebbero fatto comodo.  Fu quello uno degli ultimi atti dei Verdi dell'anemone: tra il 1997 e il 1999 fecero perdere del tutto le loro tracce. Ma De Santis e altri sarebbero tornati: le sfumature del colore verde non erano certo finite.

mercoledì 20 febbraio 2013

Poeti da votare, purché siano d'azione

D'accordo, per la famosa scritta sul Palazzo della Civiltà italiana a Roma (il "Colosseo quadrato" dell'Eur, per capirci) gli Italiani sono «Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori». Ai santi, in qualche modo, pensava la Dc; ai pensatori e agli scienziati ora sembra pensare il Partito della rivoluzione culturale (quello con il cervello sul simbolo); per i navigatori (e i migratori) c'era la vela del Ccd e, in altro senso, c'è il Partito internettiano; al reparto "eroi" si era già provveduto addirittura nel 1948 con il volto di Garibaldi sulla stella, mentre gli artisti per un po' di tempo hanno preferito esserci direttamente, candidandosi in questa o in quella lista. Ai poeti, invece, nessuno sembrava avere pensato.
Dev'essere stata una riflessione simile ad aver attivato, nella mente di tale Alessandro D'Agostini - romano, classe 1972, di professione «poeta, attore, presentatore e autore radiotelevisivo» - un pensiero semplice ma determinato: «Ai poeti ci penso io». Un pensiero datato 1994, quando D'Agostini fonda il Movimento Giovani poeti d'azione: qualcosa di decisamente insolito, anche per il popolo abituato a rovistare nei contrassegni depositati al Ministero dell'interno. Grafica decisamente elementare per il simbolo, con il nome del movimento, del soggetto fondatore e addirittura l'indirizzo del sito, ma con quel colore arancione sfumato che non si vede su nessun altro emblema e rimane impresso.
Il simbolo nel 2006
A scorrere il programma pubblicato all'interno del sito, si legge che il Movimento «si apre a tutti coloro che siano capaci di sognare un mondo e un futuro nuovi perché per essere 'poeti' in questa società ci vuole coraggio». Inizialmente l'invito era rivolto essenzialmente a chi era in giovane età: «D’Agostini fondò il movimento nel 1994 - spiega di nuovo il programma - dopo aver raccolto attorno a sé numerosi giovani e meno giovani poeti interessati a confrontarsi fra loro, far conoscere e pubblicare i propri scritti, innovare con le proprie proposte ed i propri slanci ideali la cultura come la società tutta. I Poeti d’Azione scelsero da subito di fare tutto quello che era in loro potere per cambiare il mondo circostante illuminando le coscienze e iniettando 'bellezza nelle anime e amore nei cuori' e la necessaria 'forza e coraggio' per combattere».
Il simbolo nel 2008
Nel frattempo la parola "giovani" è stata tolta dal contrassegno (che è stato presentato al Viminale solo nel 2006 e nel 2008), per cui nessuno ora può sentirsi escluso. Chi pensasse che il movimento "estetico-politico" di D'Agostini si occupi solo di battaglie romantiche e sufficientemente "poetiche", sbaglia: nel citato programma ci sono spunti operativi sulla liberazione sociale, sull'identità etno-culturale, sull'uso dei media e su uno scenario necessario di Europa dei Popoli. Altro che robetta, insomma. E se non avete ancora capito chi sia un Poeta d'azione, giovane o meno, nel sito vi viene servita questa definizione: «I Poeti d'Azione diversamente da molti “praticanti” il verso, non indirizzano i propri sforzi creativi e producono le proprie opere per destinarle esclusivamente alla ristretta cerchia di cultori e intenditori, ma portano la poesia verso il pubblico che intendono scuotere e conquistare. Ritengono che l'arte debba riappropriarsi di una centralità perduta nel mondo di oggi. Il poeta per loro può e deve tornare ad avere un 'ruolo sociale', ruolo che in epoche passate possedeva». Vorrebbero insomma ricavarsi un ruolo da bardo o da cantore di gesta, figure che «sapevano tramandare oralmente la storia di un popolo e veicolarne la grandezza e i valori intrinseci». Vi sembra poco e non vi viene una voglia irrefrenabile di votare i Poeti d'azione? Poco male: sulle schede, almeno questa volta, il simbolo giallo-arancio sfumato non ci sarà.

martedì 19 febbraio 2013

Verdi, ma quali?

Il fatto è che a qualcuno l'idea che degli ex demoproletari fossero diventati tutt'a un tratto verdi non è andata proprio giù. Per loro i Verdi Arcobaleno erano stati né più né meno che una lista farlocca, di quelle create per spillare voti ai Verdi quelli veri, che stavano fuori da ogni schieramenti; la fusione di quella lista con la Federazione delle Liste Verdi non era stata per loro un rafforzamento, ma una sorta di colonizzazione, che aveva distrutto il movimento ambientalista autentico e messo il partito nelle mani di marxisti che avevano riproposto le loro idee, pur ammantandole di un contesto "verde". "Una certa sinistra - scrive Roberto De Santis nel suo libro Da una "grigia" ad una "verde" politica - colse nel movimento ambientalista un’opportunità per rimodulare i vecchi temi di sinistra in un nuovo contenitore sostenendo la tesi che entrambi i movimenti avevano come comune denominatore un nemico comune, ovvero il progresso, dunque il consumismo, che aveva determinato la crisi della nostra civiltà".
Fosse vero o meno, qualcuno lo pensava sul serio: così, quando quella volpe sarcastica di Andreotti aveva scodellato quella frase "I Verdi? Sono come i cocomeri, verdi fuori e rossi dentro" (che poi si rifaceva al paragone spregiativo che Mussolini aveva stabilito tra gli operai della Fiat e i fichi, appunto neri fuori e rossi dentro), si erano affrettati a dargli ragione. Qualcuno non si era accontentato di assentire e aveva cercato di costruire qualcosa di alternativo, anche solo per dispetto.
Così, nel 1992, la Federazione dei Verdi consegna il suo contrassegno del sole che ride, riprodotto finalmente a colori, anzi ne consegna diverse varianti (compresa quella dei Verdi Arcobaleno e con la colomba al posto del sole, perché non si sa mai che qualcuno copi); i presentatori degli emblemi, in compenso, scoprono che in bacheca sono finiti anche altri emblemi che mettono in allarme i big del partito. Uno, ad esempio, è stato depositato da Maurizio Lupi, un piemontese - niente a che vedere con il suo omonimo che in seguito sarebbe stato tra gli esponenti più noti del Pdl - che, in uno sforzo di fantasia, ha chiamato la sua creatura politica "Federazione nazionale dei Verdi-Verdi", come a dire che erano ancora più verdi, loro. La parola "Verdi", non a caso, era l'unica presente sul contrassegno (la prima volta scritta molto grande, la seconda più in piccolo, subito sotto) e risaltava, scritta in giallo, sul fondo verde chiaro; al di sopra della parola, come elemento figurativo, un orsetto sorridente colto nell'atto di salutare.
Dal Lazio, invece, spunta un altro contrassegno, destinato anch'esso a venire depositato prima di vari appuntamenti elettorali: è quello dell'ex consigliere regionale Laura Scalabrini (che, per quanto è dato sapere, aveva militato proprio nella Federazione dei Verdi). E' suo il simbolo dei Verdi Federalisti che tiene in bella evidenza la parola "Verdi" nella metà inferiore del cerchio, mentre quella superiore è caratterizzata, su fondo giallo, da un mezzo girotondo di sagome verdi di bambini che si danno la mano: una figura che, in una riproduzione piccola come quella sulle schede, potrebbe confondersi con il sole giallo su fondo verde. Allo stesso modo, ci sono altri contrassegni che emergono, a partire da quello dei Verdi di Centro già utilizzato nel 1987 (un timone sopra alla scritta "Verdi") o dal logo tricolore (caratterizzato da una grossa V e dal profilo dell'Italia) dei Verdi d'Italia.
Manco a dirlo, i Verdi sole che ride non ci stanno: per un ambientalista fresco fresco come Francesco Rutelli, quei simboli sono "forme di sciacallaggio e truffa di gruppetti a danno dei Verdi" e non possono restare impunite. A tempo debito ricorre contro quei contrassegni, ma per l'Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Cassazione "Verdi" è un termine talmente generico che non si può impedire a un altro soggetto di utilizzarlo, se si riconosce nelle idee legate al pensiero verde. Nel frattempo, Rutelli e compagni hanno cercato un moto interessante per cercare di difendersi: quando il termine per la presentazione degli emblemi non è ancora scaduto, si presentano al Viminale con tre simboli dichiaratamente falsi. Uno tarocca quello del Psi, un'altro quello della Dc, un terzo scrive due volte la parola "Lega". Li presentano apposta, certi che saranno ricusati, ma con lo scopo di mettere i bastoni tra le ruote a quei disturbatori spuntati nel frattempo. Il tentativo, in ogni caso, non va a buon fine: sulla scheda i Verdi Verdi e i Verdi Federalisti ci arrivano comunque, passando attraverso l'esame del Viminale e quello - già ricordato - dell'Ufficio elettorale presso la Cassazione. Con quegli emblemi, la Federazione dei Verdi dovrà convivere a lungo, oltre dieci anni: di storie da raccontare non ne mancano di certo.

lunedì 18 febbraio 2013

Una "vecchietta" politicamente scorretta

Si fa presto a dire "confondibile". Sembra facile, a leggere il comma 3 dell'articolo 14, all'interno del decreto legislativo n. 361/1957 (detto anche Testo unico per l'elezione della Camera dei Deputati), sostenere che "Non è ammessa la presentazione di contrassegni identici o confondibili con quelli presentati in precedenza ovvero con quelli riproducenti simboli, elementi e diciture, o solo alcuni di essi, usati tradizionalmente da altri partiti". Cioè, quando sono identici, davvero non c'è problema, ma quando sono confondibili? Chi lo dice e in base a cosa?
In effetti, ci sarebbe (almeno dal 1993 in poi) il comma 4, che mette molti dettagli al fuoco, precisando che "costituiscono elementi di confondibilità, congiuntamente od isolatamente considerati, oltre alla rappresentazione grafica e cromatica generale, i simboli riprodotti, i singoli dati grafici, le espressioni letterali, nonché le parole o le effigi costituenti elementi di qualificazione degli orientamenti o finalità politiche connesse al partito o alla forza politica di riferimento anche se in diversa composizione o rappresentazione grafica". Molto complessa come disposizione (comprese le ultime otto parole, che sono state inserite a forza dalla Lega nell'ultima riforma elettorale del 2005), ma si dimentica di spiegare che tipo di elettore bisogna avere in mente quando si valuta la confondibilità.
Sul fatto che chi va a votare non sia tenuto a conoscere nei minimi dettagli il panorama delle forze politiche, non sembra esserci dubbio: stare dietro a gemmazioni, scissioni, arcipelaghi, spaccature e filiazioni politiche varie è quasi opera da professionisti, non si può pretendere che chiunque si tenga aggiornato. Si è così coniato un prototipo, quello dell'elettore "di ordinaria diligenza" o "di normale attenzione", che non ha una faccia ben precisa, ma non è né troppo esperto, né troppo ignorante. Un Italiano medio, in qualche maniera, anche se l'immagine, dati i tempi, non è molto lusinghiera.
Molto meno fine, se ci si pensa, era l'immagine della "vecchietta" che non conosce le differenze tra i simboli e in ogni caso ci vede poco, che era diffusa come parametro fino a qualche anno fa e, non di rado, sopravvive nella mente di chi valuta i contrassegni. Solo qualche decennio fa, per dire, i giudici non avevano difficoltà a scrivere - era il 1975 - che: "Si deve [...] tener presente che nel corpo elettorale sono comprese persone anziane con facoltà visive attenuate; che in un ambiente rurale o di montagna, se anche l'analfabetismo è sulla via di scomparire, non sono pochi gli elettori che leggono con difficoltà specialmente quando i caratteri tipografici sono molto piccoli". Per qualche giudice la consapevolezza degli elettori è aumentata nel tempo, ma la questione non si è spostata di molto da allora.
I giudici del 1975, peraltro, dovevano essere in vena di strafare: "Solo chi ha una certa esperienza di elezioni sa con quanto imbarazzo, in quale stato di orgasmo, quasi di timore reverenziale larghi strati del corpo elettorale ancora oggi si avvicinino alla cabina elettorale per esercitare il loro diritto civico". Sì, "orgasmo": una parola impronunciabile ancora da molti a metà degli anni '70 trovava tranquillamente posto in una sentenza del Tar di Bologna, per descrivere l'atteggiamento di chi entra in cabina per votare. Li avesse incontrati Francesco Di Gesù, in arte Frankie Hi-Nrg Mc, li avrebbe guardati attraverso gli occhialoni e avrebbe rappato davanti a loro la sua verità: "quando sei in cabina / e giochi la schedina / ricordati che sei / colonna di un sistema". Altro che orgasmo.