lunedì 25 agosto 2014

Ritorneremo democristiani: la Dc "dal basso" (e di iscritti fedeli) targata Leo

Lo si è visto un mese fa: per qualcuno, l'autunno che viene scatterà l'ora della Dc o, meglio, del suo ritorno. Il comitato degli iscritti 1992/1993 alla Democrazia cristiana, presieduto da Raffaele Lisi, scalda i motori per tentare di convocare correttamente il XIX Congresso nazionale del partito, ripartendo dal punto in cui tutto si era fermato, all'inizio del 1994. Del percorso immaginato da Lisi si è già detto; c'è chi, però, non condivide quel disegno e pensa a un'altra via, per una Dc che rinasca dal basso, fatta solo da chi – dopo il 1994 – non l'ha mai "tradita" politicamente.
Il progetto è di Pellegrino Leo, di cui avevo già ospitato una lettera per il Presidente della Repubblica, scritta con uno scopo preciso: chiedere al Quirinale di intervenire per far cessare l'uso dello scudo crociato da parte di chi non ha titolo di fregiarsene. A partire, a detta di Leo, dall'Udc che alle ultime elezioni europee lo ha affiancato al simbolo del Nuovo centrodestra: il Viminale aveva riconosciuto al partito di Cesa l'uso "tradizionale" dello scudo e aveva ricusato gli emblemi degli altri soggetti che contenevano quel segno. 
Anche Pellegrino si era visto bocciare il suo contrassegno, con scudo arcuato su fondo bianco e bordo del cerchio blu; non ha impugnato la decisione del Ministero "per spirito di italianità" e per non tenere le elezioni appese a ricorsi, ma la ricostruzione del Viminale non gli è andata giù. Ma quale "uso tradizionale" per l'Udc, ha protestato nella lettera a Napolitano: "a usare lo scudo fin dalla fase costituente di questo paese è stata la Democrazia cristiana". Partito che, come ha accertato la magistratura, non è mai stato sciolto. Da lì, Leo deduce che nessun soggetto politico dal 1994 a oggi è in continuità giuridica con l'esperienza della Dc o ne ha usato correttamente il simbolo. La Democrazia cristiana, non essendosi sciolta, esisterebbe ancora, ma ora sarebbe "in sonno" e, soprattutto, del tutto priva di dirigenti locali o nazionali: ogni carica sarebbe scaduta da tempo. Come si può dunque riattivare il partito?
Secondo Pellegrino Leo, bisogna tenere conto di varie disposizioni dello statuto della Democrazia cristiana, in base alle quali l'adesione "ad associazioni o movimenti aventi finalità politiche o ideali contrastanti con quelle del Partito" è incompatibile con l'iscrizione alla Dc (art. 8, comma 1) e i soci "che si presentino come candidati alle elezioni politiche in liste e collegamenti diversi da quelli della Democrazia Cristiana o comunque non approvati dagli organi competenti del partito" sono dichiarati come non più appartenenti al partito (art. 118, comma 2, anche se la dichiarazione toccherebbe alla Direzione nazionale e ci sarebbe la possibilità di ricorrere ai probiviri per contestare quel provvedimento). 
Per Leo (a differenza di quanto pensa Lisi), chiunque dopo il 1994 si sia iscritto anche solo una volta a un altro partito, non può far parte dell'operazione di "ricostruzione". Lo stesso vale per chi si è comunque candidato in altre liste, visto che di certo il partito "dormiente" non poteva dare alcun consenso. Il discorso varrebbe innanzitutto per chi ha aderito a Ccd e Ppi (il "parto gemellare" del gennaio 1994): chi si è iscritto, per Leo, lo ha fatto spontaneamente, convinto che il percorso da seguire fosse quello, senza porsi problemi sulla "sopravvivenza" della Dc.
Se le cose stanno così, quale strada potrebbe far tornare la Dc? Pellegrino Leo crede di averla trovata in un provvedimento del Tribunale civile di Roma emesso il 23 giugno 2014, a seguito di un'istanza presentata da lui, nonché da Alberto Alessi e Nino Luciani (che mesi prima hanno fondato la Democrazia cristiana nuova, un "partito ponte" che consenta di portare avanti gli ideali della Dc fino al suo ritorno anche giuridico). I tre a maggio avevano chiesto al Tribunale di convocare l'assemblea nazionale degli iscritti alla Dc a norma dell'art. 20 del codice civile. La norma, tuttavia, prevede che la convocazione dell'assemblea sia richiesta da almeno un decimo degli associati e per il giudice designato era "notorio" che Leo, Alessi e Luciani non rappresentassero un decimo degli iscritti alla Dc. Il loro ricorso è stato dichiarato inammisibile, ma nella risposta del magistrato può esserci la strada da percorrere: per convocare l'assemblea (che coinciderebbe con il congresso, l'organo sociale più simile all'assemblea del codice civile) ci vuole il 10 per cento degli associati.
Il problema, però, sono i numeri: quanti sarebbero gli iscritti alla Dc, sui quali calcolare quel decimo? Per il giudice, i ricorrenti non avevano prodotto "le ultime liste disponibili degli iscritti" all'associazione: quegli elenchi, relativi al 1993 o tutt'al più al 1992, in effetti non sono facili da trovare. Di certo il numero da raggiungere sembra alto: nel 1988, al XVIII Congresso nazionale parteciparono 1.862.000 iscritti. Al 1992/1993 il numero dovrebbe calare di molto, un po' per la crisi che la Democrazia cristiana stava affrontando (si parla di 850mila soci del 1993), un po' perché dal conto dei tesserati bisognerebbe togliere i morti – non pochi, compresi tanti nomi eccellenti – e coloro che dal 1994 hanno aderito ad almeno un partito, a partire da chi (secondo questa ricostruzione) si è legato dall'inizio al Ccd e al Ppi. Senza liste, però, fare conti e supposizioni sulla quota da raggiungere è inutile.
Come fare allora? Pellegrino Leo un sistema ritiene di averlo trovato. Se la Dc non è mai stata sciolta, pur priva di dirigenti, sarà ancora dotata di iscritti (quelli dell'ultimo tesseramento valido del 1993, tolti i defunti e coloro che sono passati ad altri partiti) e le stesse sezioni, pur chiuse da anni, non sono mai state soppresse. Basterebbe dunque che anche solo una persona tra coloro che sono rimasti iscritti "riaprisse", anche fisicamente, le sezioni paese per paese. In mancanza di organi dirigenti, toccherebbe a quell'iscritto convocare una riunione degli iscritti e darne notizia con avviso affisso al di fuori della sezione; per abbondare (ed evitare che qualcuno non si senta chiamato in causa), la convocazione sarebbe resa nota anche attraverso la pubblicazione nell'albo pretorio comunale e i mezzi di comunicazione locali. 
Coloro che si presenteranno alla riunione e risulteranno conformi ai requisiti visti prima, saranno considerati iscritti (al limite, potrebbe non venire nessuno) e la sezione potrà riprendere la sua attività come da statuto; gli altri, almeno in questa fase, dovranno aspettare. Una volta che lo stesso procedimento sarà completato in tutta l'Italia – magari cercando di svolgere quelle assemblee tutte negli stessi giorni nei territori vicini – si avrà la mappa completa dei democristiani di oggi. Solo allora si potrà sapere il numero totale degli iscritti e, dunque, quanti dovranno chiedere – rappresentando un decimo dei soci – la Convocazione del congresso nazionale della Dc al presidente del Tribunale di Roma.
Solo allora, dunque, la macchina della Democrazia cristiana potrà finalmente ripartire. Ad avviarla, nel caso, sarà un manipolo di illustri sconosciuti, visto che i nomi più noti della Dc – tra quelli rimasti in vita – hanno quasi tutti militato sotto altre sigle, da Forza Italia ad An, dalla Margherita al Pd, oltre ovviamente alla popolata galassia parademocristiana (Ppi, Ccd, Cdu, Udc, Dca e tutte le varie formazioni che hanno tentato di far rivivere lo storico partito). Convocato per via giudiziaria il congresso e ricostituiti i nuovi organi, ci sarà di nuovo spazio per tutti, a partire dai vecchi campioni di scudo crociato ancora in salute. Da qui ad allora, però, Leo e gli altri compagni di viaggio avranno molto da fare, città per città, sezione per sezione. E, soprattutto, dovranno convincere chi di dovere che Dc e Ppi giuridicamente erano due soggetti diversi: non sarà facile, ma ci proveranno.

domenica 10 agosto 2014

Federare i Democristiani, un piano regione per regione

Mentre si aspetta di capire se almeno una delle strade immaginate per rimettere in moto la macchina della Democrazia cristiana, c'è chi tenta di tenere insieme almeno un po' di pezzi dello scudo (specie quelli sparsi regione per regione), provando ugualmente a contribuire alla riattivazione della Dc.
Da alcuni mesi, infatti, è nata la Federazione nazionale dei partiti regionali Democristiani (Federazione nazionale Democristiani per gli amici): con essa un gruppo di persone si è ripromesso di aggregare, nel rispetto dell'autonomia di ciascuno, "tutti i movimenti di matrice cattolica, liberale e riformista", nel nome dei "valori culturali occidentali, e nella specie i modelli delle moderne democrazie occidentali" e degli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. L'interesse, tuttavia, prima di tutto va i partiti regionali Democristiani che sono stati creati via via (dopo una decisione del 2009 del consiglio nazionale di quella Dc che all'epoca era guidata da Giuseppe Pizza), per portare avanti gli ideali diccì pur salvando l'autonomia di ogni realtà locale: la regionalizzazione era in qualche modo proseguita anche dopo la sentenza della Cassazione di fine 2010, anche se per qualcuno non c'era più motivo di andare avanti e bisognava ridare la parola agli iscritti del 1992-1993.
A guidare come segretario quest'aggregazione di gruppi, figli diretti o indiretti della Dc storica, è Ugo Grippo, attualmente anche segretario regionale della Dc Campania e originariamente proposto come Presidente del Consiglio nazionale della Dc-Fontana (poi a quella carica altri hanno candidato e fatto eleggere Ombretta Fumagalli Carulli, ovviamente prima che i giudici cancellassero a colpi di pronunce almeno un annetto di operazioni "riattivatorie"). A scorrere il nome dei consiglieri nazionali, si ritrovano nomi già noti a chi aveva frequentato gli ambienti delle varie sedicenti Democrazie cristiane, dal lombardo Achille Abbiati ad Armando Lizzi (segretario amministrativo della gestione Pizza), fino ad Alessandro Duce, mitico ultimo amministratore della Dc e primo del Ppi, prima di diventarlo del Cdu.Il sito della Federazione, www.democristiani.com, ha peraltro il pregio (raro, bisogna ammetterlo) di illustrare nel dettaglio il contrassegno scelto per quest'aggregazione politica, anche se l'immagine sa parlare da sé. Non poteva ovviamente mancare un accenno allo scudo crociato, collocato in alto a sinistra: esso, stando al sito, è lì "per indicare l’eredità lasciata e l’ispirazione dello storico partito della Democrazia cristiana", anche se il disegno è più simile a un triangolo stiracchiato, un po' come se fosse una vela e il risultato non è dei migliori.
I bracci della croce, in compenso, stavolta sono molto sottili, così la scritta maiuscola Libertas deve traslocare al di fuori, ma diventa l'elemento più evidente di tutto il contrassegno: "È grande e al centro, ad indicare – si legge sempre nel sito – i valori sani che vogliamo portare avanti, quelli della storica Democrazia Cristiana, in trasparenza a simboleggiare un po' la colonna portante delle intenzioni"
Il logo gioca molto sui colori rosso e blu, gli stessi del vecchio simbolo della Dc ("per poterne valorizzare l’identità"), ma ecco farsi strada delicatamente l'immancabile elemento tricolore, un nastrino ripiegato (anche se la posizione era quella dei "destri" di Democrazia nazionale). Ogni elemento di quel disegnino non sembra fatto a caso: "Il nastro tricolore per indicarne la nazionalità, l’intreccio per indicarne il forte legame con il Paese e il movimento ad indicarne la libertà e lo sguardo verso il futuro". Futuro nel quale, come è scritto a rosse lettere su fondo grigino, l'obiettivo è andare "verso il Ppe": "Una dicitura fondamentale – assicura il compilatore del sito – ad indicarne l’europeismo e la modernità". 
Prima di pensare al Ppe, tuttavia, la Federazione Democristiani ha un orizzonte assai più italiano da rincorrere: ci sarà la sfida della politica attiva, magari con la partecipazione alle elezioni se si riuscirà a mettere in campo un'organizzazione adatta e, soprattutto, a trovare un po' di risorse. La sfida sarà dura, ma i federati vedono praterie da conquistare. 

martedì 5 agosto 2014

Per un pugno di simboli: la presentazione all'istituto Sturzo (6 giugno)

Finalmente mi è possibile mettere a disposizione di tutti la registrazione audio (diffusa da Radio Radicale) e una piccola galleria fotografica della prima "uscita pubblica" del mio libro Per un pugno di simboli, avvenuta il 6 giugno 2014 presso l'istituto Luigi Sturzo a Roma, per interessamento del suo segretario generale Giuseppe Sangiorgi, che ha pure guidato gli interventi. Parlo di uscita pubblica più che di presentazione perché la mia presenza si è accompagnata a quella di Girolamo Rossi, autore del volume Lo scudo crociato, pubblicato da Armando. 
Proprio il simbolo del Partito popolare di Sturzo prima e della Democrazia cristiana poi è stato al centro di questo evento romano, organizzato proprio nella "ultima dimora" del segno, almeno secondo gli auspici di tre campioni diccì tutti passati a miglior vita (Andreotti, Cossiga e Scalfaro), che avrebbero voluto consegnare l'emblema del loro partito all'istituto di via delle Coppelle pur di non vederlo strattonato e conteso tra litigiosissime parti in causa.
A discutere con noi della forza comunicativa e del valore storico politico dello scudo sono stati chiamati Gianpiero Gamaleri, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi (Uninettuno) e Gerardo Bianco, già parlamentare e segretario del Ppi che ha vissuto da quella posizione uno dei momenti più drammatici della storia del simbolo, conteso senza risparmio di spintoni, porte sfondate, utenze tagliate all'improvviso e insulti sotto i crocifissi.
Quel 6 giugno il libro ha mosso il primo passo, alla presenza di un pubblico interessato (e in parte non rassegnato all'idea di vedere sparire quell'emblema ricco di storia); mi auguro che anche in futuro e altrove possa avere una buona accoglienza. A partire dall'evento-presentazione che si terrà il 26 settembre a Piacenza (ore 16, Galleria Ricci Oddi), nel programma del Festival del Diritto 2014: l'invito agli interessati è valido fin d'ora.

domenica 3 agosto 2014

Popolari Liberali o Liberal Popolari? Scambiando gli addendi, il risultato cambia

Che poi uno se lo potrebbe anche chiedere: che fine hanno fatto i Popolari liberali di Carlo Giovanardi? Per lui è facile la risposta – ultimamente ha cercato di fare il sindaco di Modena, senza esagerata fortuna – ma che ne è del partito nato a febbraio del 2008 dalla corrente omonima dell'Udc, con il chiaro intento di rimanere nel centrodestra (a differenza di Casini e soci) per poi approdare nel Pdl, cose puntualmente accadute?
In effetti, a spulciare in rete, il sito www.popolariliberali.it c'è ancora, anche se sembra piuttosto fermo, per lo meno al 2010; il simbolo campeggia ancora nella pagina web del senatore Giovanardi, c'è addirittura l'invito ad aderire al gruppo, ma il link rimanda direttamente alle adesioni al Pdl. Questo nonostante la nuova casa politica di Giovanardi sia il Nuovo centrodestra, di cui – a dare retta a Wikipedia – i Popolari liberali sarebbero diventati una corrente o, per lo meno, un elemento di apporto politico. Tutta questa esposizione, tuttavia, il simbolo non ce l'ha e, a spulciare un po' in giro, si scopre qualcosa di interessante: quel nome, infatti, a qualcuno non era proprio andato giù.
Sì, perché in quel di Roma esistevano già i Liberal Popolari ed erano nati da un pezzo, esattamente il 10 novembre 1995. Confondere i due segni, dal punto di vista della grafica, è difficile. L'emblema dell'associazione guidata da Alfio Pulvirenti è così descritto: "In un cerchio esterno di colore blu viene riportata la scritta, in negativo, 'Liberal Popolari'. Un cerchio lo separa da un tondo blu nel cui interno vengono raffigurati due delfini contrapposti, uno di colore rosso e bianco ed uno di colore verde e bianco; sullo sfondo degli stessi compaiono in forma circolare sette stelle". Tutt'altra cosa, evidentemente, rispetto al cerchio carta da zucchero con filetto tricolore centrale di Giovanardi. Le parole del nome, però, erano praticamente identiche: cambiava l'ordine e c'era una "e" di differenza, ma secondo Pulvirenti non era sufficiente a scongiurare il rischio di confusione o di associazione tra i due gruppi (e in effetti qualche giornale più di una volta ci è cascato).
La questione inevitabilmente è finita davanti al tribunale di Roma e il partito di Giovanardi – stando all'ordinanza del 23 dicembre 2010 – ha avuto la peggio. Il giudice infatti ha riconosciuto, oltre alla quasi identità dei nomi, che "gli scopi associativi sono analoghi, concernendo entrambi la promozione del dibattito nella cittadinanza in materia politico economica nel’area moderata, a cui storicamente si iscrive la cultura popolar-liberale, e il cittadino che culturalmente e politicamente si riconosce in tale area". Il conflitto tra i due nomi, dunque, era del tutto plausibile e, almeno per quanto riguardava i nomi, doveva concludersi con la vittoria di Pulvirenti. Da una parte la sua associazione è nata almeno dieci anni prima del gruppo di Giovanardi e ha sempre fatto uso del suo nome; dall'altra, è vero che a luglio del 2008 era stato depositato presso l'Ufficio italiano brevetti e marchi l'emblema dei Popolari liberali (registrato quasi due anni dopo, evidentemente senza che il Viminale in quel caso si sia opposto), ma il logo dei Liberal Popolari era stato depositato presso l'Ufficio per l'armonizzazione del mercato interno già a dicembre del 2007 e un anno dopo era arrivata la registrazione come marchio comunitario. 
Giovanardi e soci, insomma, erano comunque arrivati tardi, per cui la giudice Gabriella Muscolo aveva inibito loro in via cautelare l'uso del nome "Popolari Liberali". Non sembra che l'etichetta sia stata abbandonata del tutto – del resto non è nemmeno noto se la vicenda processuale sia andata avanti – ma di certo tra i motivi della parziale sparizione dell'ennesimo simbolo a cromia nazionale allargata (il tricolore e l'azzurro/blu) potrebbe esserci anche questo piccolo e poco conosciuto inciampo legale.

venerdì 1 agosto 2014

Cdu, nuovo simbolo ad ali spiegate

Lo aveva dichiarato proprio al sottoscritto, quando era stato intervistato per Termometro Politico: "Se lo scudo crociato dovesse bloccarci l’attività e l’impegno, lo scudo se ne va. Non sono semplicemente disponibile a impegnarmi in controversie giudiziarie, punto e basta". Proprio per evitare nuove scaramucce in tribunale o prima delle elezioni, Mario Tassone e gli altri dirigenti del risvegliato Cdu hanno deciso di rinunciare (non senza dispiacere) allo scudo crociato. 
Tassone, che del partito era stato il presidente del Consiglio nazionale fino alla sospensione dell'attività politica con la confluenza nell'Udc, aveva espresso con chiarezza il suo proposito fin dal 1° luglio, quando sulla sua pagina Facebook aveva invitato iscritti e simpatizzanti a votare sul sito del partito (www.cdu-italia.it, terribilmente simile a quello del suo partito di provenienza, www.udc-italia.it) per individuare il nuovo simbolo: "Tale scelta si rende necessaria per evitare, ad ogni tornata lettorale, contenziosi con altre formazioni poltiche che si ritengono i "legittimi proprietari" dello scudo crociato e per non rischiare la ricusazione dello stesso, come è avvenuto per le elezioni europee". 
Quella ricusazione, per prevedibile che fosse - ne avevamo già parlato qui - non era andata giù allo stesso Tassone, a Francesco Pilieci (che lo aveva depositato, anche se lo scudo era stato improbabilmente stiracchiato e dotato di un'ombra tricolore non troppo efficace, sperando forse che i nuovi dettagli bastassero a evitare la bocciatura) e alla direzione nazionale dei Cristiani democratici uniti appena ricostituita. Non a caso, per Tassone la bocciatura era fondata su "motivazioni inaccettabili, che si riferiscono a una possibilità di confondere questo simbolo con quello dell'Udc", mentre il contrassegno depositato era "graficamente diverso, pur richiamando quello originale dello scudo crociato": non era mancata l'occasione di infilzare gli ex compagni dell'Udc, "colpevoli" di avere tradito lo spirito autonomo delle origini del partito, "senza confusione e senza nessuna umiliante soggezione verso un altro leader", cioè Alfano. 
Alla fine, tuttavia, il boccone amaro era stato ingollato senza fare ricorsi (del resto non ci sarebbero stati i numeri per presentare la lista, per cui le elezioni europee erano state giusto l'occasione per ricordare al mondo la propria esistenza): il simbolo sostitutivo aveva fatto sparire lo scudo crociato deformato, giocava esclusivamente sulla sigla, identica al partito dei democratici cristiani tedeschi, di cui era stato ripreso anche il lettering. Il colore del fondo era blu (insolito per la Germania, non certo per il nostro paese) con il già visto semicerchio stellato, era rimasta una striscetta tricolore, ma la sigla CDU in rosso continuava a spiccare.
27 giugno, Consiglio nazionale Cdu
(dal profilo Twitter di Maurizio Eufemi)
L'emblema, ovviamente, restò sulle bacheche del Viminale senza finire sulle schede, ma quell'idea grafica doveva essere piaciuta a più di qualcuno: nella rosa dei contrassegni sottoposti al voto di iscritti e simpatizzanti, tutti avevano la stessa presenza della sigla, scritta giusto con una font più panciuta per farla risaltare meglio. A ben guardare, era l'unica vera costante, pur abbandonando il colore rosso: quasi sempre l'acronimo risultava bianco o (per esigenze di "fondo") blu, ma a cambiare era il contesto grafico. A volte c'era una croce rossa, su tutto il cerchio o solo sulla parte inferiore (un po' come la croce di san Giorgio della Lombardia), a volte la sigla era nel mezzo di un tricolore; in qualche caso ricompariva anche lo scudo crociato, in versione tradizionale o stilizzata e timidamente 3D.
Alla fine, tuttavia, lo scudo è stato messo da parte e il nuovo simbolo, frutto della consultazione, è stato presentato il 29 luglio in occasione del nuovo Consiglio nazionale del Cdu. Niente croce, con o senza scudo: a dominare è la sigla panciuta bianca, che risalta sul fondo blu color carta da zucchero; appena sopra, tra l'altro, si legge che questo è il "nuovo Cdu", anche se giuridicamente l'associazione è la stessa (probabilmente si sono volute evitare contestazioni di qualunque tipo). Il filetto tricolore, con un piccolo gomito, si è spostato verso l'alto, appena sotto il disegno di una colomba ad ali spiegate: "È un simbolo – spiega Maurizio Eufemi, già senatore per due legislature – di moderazione, di politica non gridata di confronto sereno, pacato". Se poi quel partito spiegherà le ali con la colomba, è presto per dirlo: certamente, in questo modo non rischia di aprirsi un nuovo capitolo di scontri in carta bollata tra antichi e nuovi compagni di scudo (crociato, ovviamente).