mercoledì 28 marzo 2018

Il simbolo del Carroccio? Nacque prima della Lega (lombarda)

1982, protosimbolo leghista
Lo si è detto pochi giorni fa: sparita la Padania, il Sole delle Alpi, il nomi di Bossi e di Maroni e, da ultimo, anche il riferimento al Nord, nel simbolo della Lega una sola cosa non è mai sparita, oltre ovviamente a quella parola di quattro lettere: la figura armata che riproduce il monumento al Guerriero di Legnano. Tutti lo identificano come Alberto da Giussano, incuranti del fatto che quella sia stata una figura dichiaratamente inventata. Sarà che certe leggende sono davvero dure a morire, sarà che ci siamo abituati quel nome di fantasia tutto d'un fiato, come se non conoscesse spazi (AlbertodaGiussano): di fatto, quel simbolo è talmente parte dell'immaginario politico leghista (e non solo) da sembrare del tutto inamovibile, al punto tale da essere l'emblema con maggior storia tra quelli entrati in Parlamento, fatta eccezione per la stella alpina della Svp stavolta condivisa con il Patt (cui si sarebbe potuto aggiungere il fregio dei quattro mori del Partito sardo d'azione, il più antico di tutti i simboli della politica italiana, se solo avesse presentato liste proprie invece che accordarsi proprio con la Lega). 
A dispetto dello tsunami che, ancora più che nel 2013, ha travolto lo scacchiere politico italiano, il guerriero leghista è rimasto saldo al suo posto, con il piede sinistro ben piantato a terraGià, solo quel piede, perché ormai dalle elezioni politiche del 1992 siamo abituati a vedere Alberto... cioè il guerriero così, con il piede sinistro giù e il destro più alto, come se il simbolo lo avesse colto in una posa sospesa e insolitamente instabile per un combattente, un fermo immagine in cui alla spada sguainata nella mano destra fa da contrappunto la gamba destra alzata. Eppure chi ha memoria di ciò che è accaduto prima dell'anno di Mani Pulite sa che non è stato sempre così e il guerriero in origine era più stabile.
La prima volta in cui il cuore del simbolo leghista è comparso (da solo) sulle schede elettorali risale al 1987, quando ancora il progetto politico messo in campo era la Lega lombarda: in occasione delle elezioni politiche di quell'anno, il guerriero sguainò la spada per la prima volta, con la lama posta giusto tra le due parole del nome (scritto già con una font della famiglia Optima, probabilmente ExtraBlack). Attorno a sé aveva la sagoma della regione Lombardia (l'unica in cui la lista si presentò, ma tanto bastò a ottenere un seggio da deputato per Giuseppe Leoni e uno da senatore per Bossi), ma soprattutto il piede era appoggiato su una specie di masso, cosa che certamente lo rendeva meno precario.
Quello del 1987, però, non era  un mero contrassegno elettorale. Per averne una prova, si può fare un viaggetto fino a Varese in centro, per poi ripartire avendo tra le mani una copia di quell'atto costitutivo datato 12 aprile 1984 che fece nascere ufficialmente la Lega autonomista lombarda, fondata ovviamente da Umberto Bossi (allora di professione "editore"), ma anche dalla futura moglie Manuela Marrone, dal cognato Pierangelo Brivio, nonché da Marino Moroni, da Emilio Sogliaghi e da Giuseppe Leoni. L'articolo 2 dello statuto allegato all'atto costitutivo contiene la descrizione del primo simbolo: "un cerchio racchiudente il profilo della Regione Lombardia con all'interno la figura di Alberto da Giussano come rappresentato nel monumento di Legnano e la scritta Lega Lombarda". In quell'occasione non fu allegato l'emblema in forma grafica, ma la descrizione non lascia dubbi: a dispetto del nome più lungo del partito, si trattava esattamente dello stesso simbolo che sarebbe apparso tre anni dopo, restando nel cassetto alle europee del 1984 (Bossi e altri si presentarono col simbolo della Liga veneta) ed essendo abbinato al leone di San Marco alle regionali lombarde dell'anno successivo.    
Già due anni prima che la Lega lombarda fosse ufficialmente fondata, però, il guerriero di Legnano - la cui statua è così importante per la città da aver fatto battezzare il luogo in cui si trova Piazza del Monumento - era già leghista, a suo modo. Porta la data del 1° marzo 1982, in effetti, il primo numero (anche se si trattava, in quell'occasione, di un "numero unico") di Lombardia autonomista, pubblicazione che di fatto si poneva come organo della nascente Lega autonomista lombarda: "Lega autonomista lombarda" era proprio il titolo dell'editoriale (quello che iniziava con "Lombardi! Non importa che età avete, che lavoro fate, di che tendenza politica siete: quello che importa è che siete - che siamo - tutti lombardi") di quelle poche pagine cartacee. Nella testata (scritta già in font Optima, stavolta solo Bold, lo stesso che sarebbe stato utilizzato sempre dalla Lega dal 1992 in avanti) e a centro pagina, campeggiava enorme la figura del Guerriero di Legnano, sempre inserita nel profilo della Lombardia, il cui territorio in quel caso era tinto. A ben guardare, c'era un'altra differenza: la statua del guerriero non era stilizzata e semplificata, ma se ne potevano vedere bene tutti i particolari, come se fosse stata tracciata a china; in quella versione, tra l'altro, si vedeva bene che il piede destro poggiava sulla parte inferiore del monumento nel suo complesso, dunque almeno inizialmente il richiamo alla statua legnanese era più esplicito.
Non è dato sapere quanti leghisti della prima o dell'ultim'ora conoscano questa prima apparizione della loro immagine più significativa. Bossi raccontò così la scelta nel libro Vento dal Nord, firmato con Daniele Vimercati: 
Il simbolo fu una mia invenzione, ci pensai a lungo e mi convinsi che bisognava trovare qualcosa di radicalmente nuovo, rispetto ai marchi dei movimenti autonomisti 'classici', basati su leoni veneziani, aquile asburgiche, stemmi di antiche dinastie. [...] Un giorno finalmente arrivò l'idea giusta: il 'mito' più adatto era senza dubbio la lega dei venti Comuni lombardi, ma anche piemontesi, veneti ed emiliani, che si allearono, nel dodicesimo secolo, per cacciare l'imperatore Federico Barbarossa, portabandiera del centralismo medievale. Quale simbolo più adatto, allora, dell'Albertùn, la grande statua di Alberto da Giussano che campeggia nella piazza centrale di Legnano? Corsi a fotografarla; nell'occasione mi tornò utile la passione per la fotografia che avevo coltivato da ragazzo. Purtroppo la statua, vista così, a venti metri di distanza, era un po' tozza e pesante, non si prestava a essere riprodotta su uno stemma di partito. Passai mezza giornata a fare le inquadrature più diverse, finché trovai, quella giusta: ripresa da sotto, con un grandangolo, l'immagine acquistava tutt'altro vigore, si faceva più slanciata. La spada era molto più evidente, la forza plastica del gesto risultava moltiplicata. Quella era la sagoma che mi serviva! Riportai la foto su un foglio, ricalcai il profilo all'interno di un cerchio entro il quale disegnai anche i confini della Lombardia. Il tutto, stilizzato, divenne il simbolo della Lega.

Immagine a sn tratta da Contro Roma (1992) di Roberto Gremmo
I racconti dei protagonisti hanno sempre fascino e, come le leggende consolidate, sono difficili da smentire, quindi ne prendiamo atto. Certo è che il racconto sarebbe meno completo se non si ricordasse che proprio l'idea del guerriero di Legnano (o, se non proprio lui, qualcuno di molto simile) all'interno della sagoma della Lombardia era già stata usata nel 1959 nel periodico La Regione Lombarda, organo del Movimento autonomista padano fondato da Guido Calderoli, nonno dell'ex vicepresidente del Senato: lo aveva ricordato nel 1992, nel suo Contro Roma, Roberto Gremmo, figura imprescindibile per lo studio dei movimenti autonomisti, che aveva riprodotto per l'occasione quella pagina nel libro. Sempre lì, Gremmo aveva svelato come lo stesso Bossi gli avesse chiesto lumi sulla possibilità di riprodurre senza grane l'immagine del guerriero della marca di biciclette Legnano (che caso...): lui riteneva lo si potesse fare, magari avendo cura di riferire la raffigurazione al monumento legnanese, cosa che sarebbe stata garantita proprio dalla riproduzione della pietra sotto al piede destro. 
Quel masso, privo del resto della base del monumento, sarebbe rimasto al suo posto per un decennio (anche nella versione del 1989 dell'Alleanza Nord): quando sparì - in corrispondenza con il passaggio alla Lega Nord - la statua di Alberto da Giussano (essì, lasciatecelo chiamare così, sennò ogni volta ci vogliono due ore a spiegare tutto) non cadde, anzi, tra il 1994 e il 1996 sembrò più stabile e salda di prima. In molti la videro vacillare tra il 1999 e il 2006 (con il punto più basso nel 2001, quando il centrodestra vinse le elezioni ma il Carroccio per un nonnulla rimase sotto la soglia del 4%); i suoi sostenitori gioirono nel 2009 per una decisa fiammata, si preoccuparono per un calo netto nel 2013, ma seppero aspettare la risalita, iniziata già l'anno dopo. Nemmeno loro, forse, immaginavano che nel 2018, ben oltre trent'anni dopo il suo esordio, il Guerriero di Legnano avrebbe ribaltato gli equilibri del centrodestra (in tutta Italia, non solo al Nord) a favore proprio e di Matteo Salvini. Che, alla fine, togliere la pietra abbia portato bene?

domenica 25 marzo 2018

Nati per sostenere (i governi), partiti per garantire (una maggioranza)

Passata la sbornia elettorale e archiviato il necessario periodo di disintossicazione per la troppa politica parlata dei giorni immediatamente successivi alla chiusura dello spoglio (che peraltro formalmente non è ancora chiuso: mancano ancora 27 sezioni che non hanno ancora consentito di assegnare ufficialmente 10 collegi uninominali alla Camera e 7 al Senato), lasciato trascorrere il tempo dedicato alle elezioni dei presidenti delle Camere (un'operazione più istituzionale che politica, in fondo), è tempo di tornare prepotentemente a parlare di partiti (e dei loro simboli), anche se in questa legislatura in Parlamento ne sono entrati pochi. 
E, visto che la formazione di un governo in questo momento non sembra la cosa più facile di questo mondo per ragioni puramente numeriche, mentre si parla di larghe intese, inciuci, governi di minoranza, appoggi esterni e ritorni della non sfiducia, il vero drogato di politica ha un sogno nel cassetto: tirar fuori dal cilindro un partito nuovo, che sulla scheda elettorale non c'era, ma in Parlamento può essere utile per consentire la nascita di un governo e dare una rappresentazione plastica di una maggiore solidità. 
Certo, i suddetti drogati di politica sanno che queste operazioni difficilmente avvengono a inizio legislatura: sarebbe troppo maleodorante nei confronti degli elettori, al massimo si sono registrati singoli passaggi tra le file dei governanti (vedi Giulio Tremonti - al più grazie alla FLD, ma non era un vero partito - ed Elio Vito nel 1994 per garantire al Senato la maggioranza al governo Berlusconi). Passati almeno sei mesi dal voto, invece, questi episodi sono stati frequenti: per questo, il drogato di politica non perde mai la speranza. Così può capitare che la pagina Facebook Malati di politica, con molto seguito tra gli aderenti alla categoria suddetta, decida di scodellare per i suoi follower una domanda irrinunciabile: "qual è il partito più nostalgico nato con lo scopo di sostenere un governo?", ha chiesto nei giorni scorsi, mentre tutti o quasi si lambiccavano il cervello sulle presidenze delle Camere. Qualcuno ci ha solo pensato, qualcuno ha scelto di rispondere.


In effetti, i gestori della pagina hanno dato subito il buon esempio, iniziando con una pagina dimenticata da troppi: quella del Movimento dei Comunisti unitari, nato poche settimane dopo la nascita del governo di Lamberto Dini da un dissenso interno a Rifondazione comunista: a gennaio del 1995 quasi tutto il Prc (tranne il senatore Umberto Carpi) aveva negato la fiducia al nascente esecutivo dell'ex direttore generale della Banca d'Italia, ma in seguito vari deputati e senatori ne approvarono la manovra economica e, a marzo, votarono anche sì alla questione di fiducia alla Camera. Il capogruppo del Prc a Montecitorio, Famiano Crucianelli, fu sostituito e proprio lui divenne il riferimento dei comunisti unitari, i primi a mettere la doppia bandiera che fu del Pci (ridisegnata) su fondo blu. L'esperienza durò poco, ma lasciò il segno: Mauro Guerra e Marida Bolognesi furono tra i protagonisti delle successive stagioni politiche, anche se molti non ricordavano quel loro breve passaggio com-unitario.
Aperta la strada con il post, i commenti successivi l'hanno proseguita. Così il "malato" (non è un'offesa, ma un titolo onorifico) Marco Rosichini ha avuto gioco facile a ricordare l'Unione democratica per la Repubblica, partito concepito e fondato da Francesco Cossiga nel 1998, nelle ultime settimane del primo governo di Romano Prodi, un po' per rievocare la Dc fuori dai poli (del resto, tra i fondatori c'erano il Cdu di Buttiglione e i Cdr di Mastella, quindi il microscudo crociato ci stava perfettamente), un po' per essere pronti a sostenere il Professore qualora Bertinotti e Rifondazione comunista avessero fatto le bizze. Le bizze arrivarono e Prodi cadde, così Cossiga e i suoi compagni di viaggio post-diccì finirono per sostenere il governo del primo post-comunista a Palazzo Chigi, Massimo D'Alema.
Ha pensato poi il "malato" Francesco Magni a tirare fuori una pagina molto più recente, quella di Futuro e libertà. In effetti, a rigore, non si è esattamente di fronte a un partito nato in prossimità di un governo da sostenere, visto che il progetto politico di Gianfranco Fini era stato varato in pieno governo Berlusconi-quater; difficile dimenticare, tuttavia, il sostegno convinto dei parlamentari finiani al governo guidato da Mario Monti, al punto tale da entrare a far parte della coalizione "Con Monti per l'Italia" alle elezioni del 2013. Come andò - male - si sa e fu, sostanzialmente, l'inizio della fine per un progetto nato non benissimo, cresciuto così così tra luci e ombre, ma sicuramente finito peggio.
Andando appena un po' più indietro, ci pensa il "malato" Giuseppe Lauri a rievocare un'altra pagina imperdibile: "MRN di Scilipoti ce lo siamo già dimenticati?". Già, come dimenticare il Movimento di responsabilità nazionale di Domenico Scilipoti, non solo perché fu il perno e il tratto politico guida dei cosiddetti "Responsabili" (quelli che alla Camera costituirono il gruppo Popolo e Territorio, ricordato sul post da Lorenzo Pregliasco, mentre al Senato diedero vita a Coesione nazionale), ma anche perché riuscì nell'impresa di utilizzare tre simboli diversi nel giro di poche settimane, tutti caratterizzati però dallo stesso simbolo esoterico del Taijitu in salsa tricolore.
E se il "malato" Matteo Sturla ha avuto gioco relativamente facile a ricordare il Nuovo centrodestra, troppo recente per poter essere dimenticato, sono ancora i gestori della pagina a tirare fuori l'episodio fondamentale (per i veri drogati) denominato "L'Italia di mezzo": il progetto varato da Marco Follini in effetti, più che far nascere un nuovo governo, finì per cercare di non far cadere l'ultimo soggiorno di Prodi a Palazzo Chigi. Ci riuscì per un po', ma dopo alcuni mesi non bastò nemmeno il suo contrassegno semplicemente tricolore a sostenere quella compagine. E mentre gli aspiranti governanti pensano a come trovare i numeri in Parlamento, viene spontanea al sottoscritto una domanda: come mai chi ha citato l'Udr non ha tirato fuori anche l'Unione per la Repubblica, che Cossiga varò - come anticipo dei suoi "quattro gatti" - per reggere il governo D'Alema-bis?

mercoledì 14 marzo 2018

Lega, vietato pensionare Alberto da Giussano

Il partito più votato alle ultime elezioni è stato sicuramente il MoVimento 5 Stelle, che rispetto al 2013 ha conservato l'intera struttura del simbolo, cambiando solo la dicitura nella parte inferiore del cerchio (da Beppegrillo.it a Ilblogdellestelle.it, passando per Movimento5stelle.it, finito solo sulle schede delle elezioni comunali e mai su quelle nazionali). Quel partito è uscito certamente vincitore, ma probabilmente deve condividere il titolo con la Lega, orfana del Nord ma sempre ben riconoscibile. 
L'emblema attuale leghista, se si fa partire la sua storia dal 2000-2001, è certamente frutto di sottrazioni e sostituzioni: la sparizione del Nord è solo l'evento più recente. 
Il primo elemento ad andarsene, volendo, è stato la scritta "Padania", inizialmente ospitata nel segmento blu posto nella parte inferiore del cerchio simbolico, introdotto nel 1999 (per contenere, in occasione delle elezioni europee, il concetto di Libertà): nel 2006 fu rimpicciolita e sfrattata, prima per fare posto al Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo (con cui il Carroccio era alleato alle politiche di quell'anno), poi per lasciare spazio al cognome di Umberto Bossi nel 2008, quando la febbre del leader aveva contagiato un po' tutti (nessuno degli altri quattro partiti maggiori rappresentati in Parlamento dopo quelle elezioni - Pdl, Pd, Italia dei valori e Udc - aveva evitato di inserire il nome del proprio segretario o presidente all'interno dell'emblema).
Il nome di Bossi rimase al suo posto per gran parte della XVI legislatura, almeno fino a quando non finì al centro di uno scandalo a base di trote e cerchi magici. Alle elezioni del 2013 si arrivò con un simbolo dalla struttura simile - al di là dell'inserimento della "pulce" del movimento 3L di Giulio Tremonti - ma con il nome di Roberto Maroni (nuovo segretario federale dal 1° luglio 2012) al posto di quello di Bossi: per qualche tempo, nell'interregno dei reggenti Maroni - Calderoli - Dal Lago, si era provvisoriamente rimessa la Padania dove stava all'inizio, ma il richiamo elettorale del leader finì per prevalere. La Padania c'era ancora, verde sotto al Sole delle Alpi, ma entrambi si erano rimpiccioliti da tempo. 
Alle elezioni europee del 2014, la Padania sparì del tutto (forse perché, come ha scritto ieri sul Giornale Maria Teresa Santaguida, "la Padania è rimasta sempre e solo un miraggio") e fu sostituita dal riferimento alle "Autonomie"; lo stesso antico segno padano-camonico divenne del tutto ancillare, ridotto a contrappeso della "pulce" del partito Die Freiheitlichen, in quell'occasione ospitato nelle liste della Lega Nord. Al timone del Carroccio c'era già, con una certa saldezza, Matteo Salvini, ma nessun nome di leader apparve in quel contrassegno elettorale: si preferì piazzare lo slogan "Basta €uro", da mostrare con orgoglio in una competizione che puntava a Bruxelles e Strasburgo. 
Per vedere il nome del nuovo segretario federale sul simbolo, si dovette aspettare il 2015: lo statuto approvato al congresso di quell'anno continuava a citare il riferimento alla Padania, ma dopo vari esperimenti alle regionali (a partire, in realtà, da quelle emiliano-romagnole dell'anno precedente), nella parte inferiore dell'emblema fu piazzato sempre più spesso il nome di Salvini, proprio là dove Bossi e Maroni avevano sostituito la Padania (senza però cancellarla, almeno allora). Il Sole delle Alpi si era reingrandito, vista la sparizione di altri elementi grafici, ma la rediviva gloria sarebbe stata breve: giusto qualche manciata di mesi, destinati a concludersi con l'avvicinarsi delle elezioni. 
Alla fine del 2017, infatti, alla presentazione del nuovo simbolo leghista, colpirono inevitabilmente la sparizione del Nord ("lo strappo più doloroso", ha notato ieri Santaguida, perché "il Nord 'è e non può non essere', ma soprattutto è stato la ragione politica del partito") e dello stesso Sole verde (anzi, con quello sparì ogni traccia del colore legato tanto alla rosa camuna lombarda, quanto alle camicie di bossiana memoria). L'unica cosa che non era cambiata in tutti quegli anni, oltre al concetto di Lega, era l'elemento grafico centrale, ossia la statua di Alberto da Giussano a spadone sguainato.
Il guerriero medievale ha resistito a tutti i cambiamenti grafici, agli avvicendamenti alla segreteria e - soprattutto - all'estensione del progetto leghista all'intera penisola. A quanto pare, sembra aver resistito anche alle tentazioni di chi lo avrebbe ritenuto "pensionabile" dopo le elezioni. Ipotesi, però, seccamente smentita da più parti: dallo stesso Salvini (che due giorni fa, alla fine del consiglio federale, avrebbe risposto "Chi l'ha detto? No assolutamente. Leggo cose bizzarre, non ho capito perché avrei dovuto toglierlo", così come riportato sempre da Santaguida sul Giornale), ma anche dai millennials leghisti di tutta l'Italia. Per loro, come riporta l'articolo, la statua sul simbolo non è "un simbolo del Nord, ma di tutto il Paese" e in fondo per loro porta fortuna, visto che "era nel marchio elettorale che ha permesso alla Lega di Salvini di prendere il 18%". Chissà se quei giovani sanno com'era il simbolo all'inizio della storia del Carroccio, quando nacque la Lega lombarda: questa, però, è un'altra storia, che merita di essere raccontata a parte...

martedì 6 marzo 2018

La telenovela del simbolo (sbagliato) del Pd in Lombardia

A volte basta aspettare una manciata di ore perché una notizia, potenzialmente rilevante e foriera di conseguenze, venga fortemente ridimensionata nei suoi effetti, diventando un mero elemento di colore. Tutti i media, a urne aperte, hanno dato notizia delle schede per l'elezione del presidente e del consiglio della Regione Lombardia, relative alla circoscrizione di Mantova, sulle quali è stato stampato il simbolo del Pd nazionale - puro e semplice, all'interno del cerchio - privo dunque del segmento verde inferiore con la dicitura "Gori presidente", che invece era stata prevista nel contrassegno per le elezioni regionali del 2018.
Proprio domenica, quindi, ci si era affannati a capire cosa sarebbe accaduto: probabilmente l'errore sarebbe avvenuto a monte, con la trasmissione del materiale grafico dalla Regione alla Prefettura mantovana (già nel fac simile di scheda presente nel sito della Lombardia, come scrive Marco Persico su Corriere.it, con riguardo alla sola provincia di Mantova risulta proprio impresso il simbolo nazionale Pd e non quello scelto per le regionali). La questione era emersa già sabato sera, probabilmente dopo che nei seggi gli scrutatori avevano autenticato le schede.
In un primo momento il Pd aveva solo segnalato la questione al Viminale, chiedendo anche che fossero ristampate correttamente le schede prima che si aprissero i seggi; cosa che non è stata fatta. Se però per la Regione la questione fondamentale era garantire il corretto svolgimento delle elezioni, anche con le schede sbagliate, si era detto subito che il Pd avrebbe potuto presentare un esposto per chiedere di annullare il voto, proprio per il "vizio simbolico" delle schede. Qualche precedente a loro favore, in fondo, c'era, soprattutto con riferimento alle elezioni comunali o circoscrizionali: definiti i risultati, si sarebbero potuti impugnare gli atti di proclamazione degli eletti, facendo valere proprio l'errore sul simbolo, come in quei casi.
Il problema è che, proprio in quelle occasioni, i giudici avevano annullato le elezioni, ordinandone la ripetizione, perché il simbolo in questione era stato riconosciuto come determinante per l'esito elettorale: è più difficile dirlo in questo caso, considerando che il logo del Pd occupava comunque la più parte del contrassegno (mentre la "lunetta" verde era di estensione minore) e che il collegamento con Gori risultava chiaro dagli altri emblemi della coalizione. 
A seppellire eventuali velleità litigiose dei dem lombardi, tuttavia, deve aver provveduto il risultato delle elezioni regionali: la vittoria schiacciante del leghista Attilio Fontana, arrivata con il 51,26%, deve aver suggerito al Pd (fermo al 19,24%, mentre Gori è arrivato a superare di poco il 29%) di non presentare alcun ricorso, visto che ben difficilmente il giudice avrebbe potuto concludere che la mancanza della scritta "Gori presidente" avrebbe potuto spostare decine di migliaia di voti. Così la questione del simbolo sbagliato sulle schede lombarde a Mantova si è trasformata presto in una nota di colore, in una curiosità da dire e da archiviare in fretta. Era andata in tutt'altro modo negli anni '90, in una città come Pisa e in un piccolo centro come Piscinas; le vicende, però, sono particolarmente interessanti e varrà la pena considerarle altrove.

sabato 3 marzo 2018

Divagazioni pre-voto: "la cosa dei simboli" secondo il professor Pluti

Oggi, come ognuno sa, è giornata di silenzio elettorale: per qualcuno è arrivata come una liberazione (dopo una campagna oggettivamente da dimenticare), per altri è soltanto un rito ipocrita, considerando che non saranno 24 ore di silenzio a far venir meno pressioni o altri condizionamenti. In base a questi, più di qualcuno andrà a votare, ma non pochi altri preferiranno stare a casa, schifati dalla situazione. 
Tra coloro che diserteranno le urne, probabilmente ci sarà anche il professor Pino Pluti, personaggio del tutto imperdibile per chi cerca un punto di vista ALTRO e dissacrante su qualunque avvenimento o fenomeno umano (o subumano, chissà). Il professor Pluti, infatti, vanta i titoli di Magnifico Ruttore dell'Università di Puntarraisi e di Ordinario di Palermitanitudine applicata (una disciplina evidentemente richiestissima) e da anni è il protagonista indiscusso della videorubrica Intellettuale e Spirituale, presente in un imprecisato numero di puntate su Youtube: ognuna di queste va in onda dal Centro di Raccolta Differenziata gestito dal professore stesso e, dall'alto della sua chioma bionda rigorosamente posticcia (e incalzato dal suo invisibile interlocutore DottorDavid), il professore enuncia la sua oscena, indiscutibile verità (si tratti di una critica cinematografica o un'analisi di costume). 
Ma perché, dunque, il professor Pluti dovrebbe stare lontano dai seggi? Il fatto è che, giusto pochi giorni fa, lui si dichiarava del tutto schifato da un particolare che, in fondo, non era affatto un particolare, specie per i frequentatori di questo sito: "la cosa dei simboli elettorali". Già, perché "non è possibile che in un paese che dice che non è del Terzo Mondo arrivino 98, 92 simboli elettorali... quanti sono": per l'esimio professore, si trattava di uno scenario del tutto inconcepibile e, soprattutto, inaccettabile. "Allora - si lamentava - cominciamo a fare pure le figurine dei calciatori, le figurine dei politici divisi per squadra, siamo al delirio, è veramente la Africa 'sto paese!".



A sentirlo parlare, può venire da pensare che il problema sia il numero, che non sia bastato piucchedimezzarlo rispetto al 2013, che quei loghi finiti nelle bacheche del ministero siano ancora troppi e forse siano troppi anche quei 32 che effettivamente sono finiti sulle schede che stanno per essere consegnate agli elettori. Eppure, se si ha la pazienza di aspettare, si può scoprire che sia proprio l'intero sistema dei simboli a non convincere il luminare del pensiero: qualche manciata di secondi e lui, in piena luce psichedelica violastra, se ne esce con la sua "proposta plutica" a tutti i partiti: "Loro devono fare un prezziario: a seconda dei voti che volete, ... se siamo nel libero mercato, che è in grado di disciplinare qualunque attività umana, fate il mercato! Vi mettete le mani dint' 'a sacchetta, invece di fare questi loghi cretini di margherite, non margherite, levate i loghi e dite: io pago questo per questo, questo e questo!"
Ed è così, ascoltando il Verbo Plutiano (o Plutico, come dice lui), che si capisce che non c'è nulla di meno simbolico dei denari: sporchi, maledetti e subito, e possibilmente non pochi! Nel giorno del silenzio imposto, surreale e anche un po' ipocrita, una sana scarica di politicamente scorretto sembra quasi un toccasana. Ragionato, per di più: "c'è anche il rischio, gioia mia, che l'elettore fa quello che vuole, che si piglia i piccioli e poi...". La sa lunga, il professore, ma lui stesso spiega che "gioia mia, il rischio nel mercato c'è sempre!": è il mercato, bellezza, e tu non puoi farci niente. Se non promettere e pagare, ovviamente, altro che simboli! Sembra così facile, la Plutiricetta: "fare un sito con i prezzi, liberalizzare il voto, deregolamentarlo, dare spazio al mercato e all'iniziativa privata", magari inventando anche derivati e scommesse per rendere dinamico il mercato dei voti. 
Il fatto è che, così, si rischia di aspettare troppo, di dover attendere l'anno del poi (o del mai) per mettere in pratica alla luce del sole il rito liberalizzato del prezzario, probabilmente più comprensibile per tutti rispetto alla carica dei loghi più disparati: nel frattempo, che si fa? Nel frattempo, si cerca di convincere il prof. Pluti che anche i simboli hanno un loro lato interessante, che anche se ora qualcuno ha cercato di imbrigliarli con le regole abbiamo conosciuto grandi stagioni di Liberalizzazione simbolica (anche a costo di produrre paccottiglie grafiche a buon mercato o imitazioni di quart'ordine). Senza contare che, per qualcuno, anche i simboli hanno un prezzo, e pure salato. Così ecco che, prima che il giorno di silenzio finisca e inizi il rito della fila davanti ai seggi, il professor Pluti ha voluto vestire i panni e la parrucca del testimonial, facendo la sua personalissima (e oscena) pubblicità di Per un pugno di simboli. Con la certezza che, quanto prima, arriverà la fattura, da saldare in piccioli arrubbati.



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giovedì 1 marzo 2018

Lazio, simboli e curiosità sulla scheda

Dopo il post di ieri che dava conto dei simboli che gli elettori lombardi troveranno sulla scheda verde dedicata alle loro elezioni regionali, oggi è il turno del Lazio. Anche qui, ironia della sorte, le liste circoscrizionali presentate sono 19, proprio come in Lombardia; a differenza delle norme valide in questa regione, tuttavia, la legge regionale laziale prevede anche l'adozione di un simbolo legato al candidato alla presidenza. Si racconterà tutto questo, seguendo l'ordine del sorteggio valido per la circoscrizione di Roma.

Giovanni Paolo Azzaro

1) Democrazia cristiana

Volendo, la prima sorpresina (almeno il diminutivo ci sta) riservata dalla scheda per le regionali del Lazio è data dalla prima posizione: se un tempo, prima che l'ordine fosse determinato dal sorteggio, quel posto era costantemente occupato dal simbolo del Pci, questa volta la sorte ha piazzato in alto a sinistra la ridestata Democrazia cristiana, quella la cui assemblea dei soci è presieduta da Gianni Fontana e che candida alla presidenza del Lazio Giovanni Paolo Azzaro, già coordinatore regionale di Noi Sud di Micciché. Il simbolo, ovviamente, non è lo scudo crociato tradizionale, ma una bandiera bianca con croce rossa di San Giorgio, leggermente mossa. Come dire, la croce c'è, lo scudo mettilo tu...


Elisabetta Canitano

2) Potere al popolo!

In Lombardia non ci sarà, ma in Lazio il simbolo di Potere al popolo! c'è e lotta insieme ai suoi sostenitori. La lista è la sola a sostenere la candidatura di Elisabetta Canitano (curiosità: nella lista della circoscrizione di Roma, oltre a Sandro Medici, c'è anche un "Alessandro Bondi", ma naturalmente non ha nulla a che vedere con l'ex ministro un tempo forzista-pidiellino) e l'emblema utilizzato è proprio lo stesso coniato - non senza difficoltà e contrasti - per le elezioni politiche: la scritta con le parole nere "Potere" e "popolo!" in evidenza, i due archi e la stella in tinta bordeaux. Anche qui, naturalmente, la parola "sinistra" non c'è, ma non figura nemmeno in altri contrassegni, quindi nessuno se ne avvantaggerà.


Roberta Lombardi

3) MoVimento 5 Stelle

Il primo nome di rilevanza nazionale, tra le candidature alla presidenza della regione è quello di Roberta Lombardi, deputata uscente del MoVimento 5 Stelle, formazione che continua a rappresentare anche in questa consultazione. Il simbolo utilizzato, naturalmente, è lo stesso mostrato per la prima volta al Viminale il 19 gennaio e in corsa anche per le regionali lombarde: nella parte inferiore, dunque, è riportata la stringa "ilblogdellestelle.it", inserita quasi a voler marcare una "fase 3" nel MoVimento. Lombardi ovviamente corre solo con quella lista e si prepara a contendere la poltrona di guida della regione soprattutto all'uscente Luca Zingaretti e a Stefano Parisi.


Mauro Antonini

4) CasaPound Italia

Non rappresenta una novità per le elezioni regionali laziali la lista di CasaPound Italia, già presente al precedente appuntamento elettorale del 2013. 
Rispetto ad allora è cambiato il candidato (allora era Simone Di Stefano, attualmente capo della forza politica alle elezioni nazionali; ora invece è Mauro Antonini), mentre non è affatto cambiato il simbolo della tartaruga col carapace-casa ottagonale su fondo grigio, con l'arco tricolore e il nome dell'associazione-partito a contenere il nucleo grafico dell'emblema. All'epoca la lista sfiorò lo 0,7%, questa volta il risultato potrebbe essere maggiore: toccherà agli elettori determinarlo. 


Stefano Parisi

Primo dei candidati alla presidenza della regione a essere sostenuto da una coalizione è Stefano Parisi, scelto in extremis come guida per il centrodestra laziale. La maggiore pubblicità è stata data ai contrassegni delle singole liste (sono loro a contendersi il voto dei cittadini, determinando poi la composizione del consiglio), mentre quasi nessuno ha saputo del simbolo di coalizione, Lazio 2018, per la verità piuttosto anonimo. Fondo carta da zucchero, il nome impilato con la "I" perfettamente allineata con la cifra "1" (identiche nella font bastoni utilizzata): lo stesso carattere ripetuto anche in alto crea una sorta di asta alla quale si appende un tricolore decisamente stilizzato. Nemmeno così brutto, in realtà, ma difficile immaginare un simbolo più anonimo (potrebbe essere di chiunque). 


5) Noi con l'Italia - Udc

Ad aprire lo spazio dedicato alla coalizione che sostiene Stefano Parisi è stata sorteggiata la lista di Noi con l'Italia - Udc. Il simbolo, senza alcuna variazione è proprio lo stesso che è stato coniato per le elezioni politiche dalla "quarta gamba" del centrodestra, unendo la grafica simil-Pdl del progetto nato intorno a Maurizio Lupi e Raffaele Fitto al simbolo già composito dell'Udc, naturalmente con lo scudo crociato in primissimo piano (pur se leggermente compresso in verticale). Curiosità: come capolista della circoscrizione di Roma è stato scelto il consigliere regionale uscente Pietro Sbardella, figlio di Vittorio, storica e contestata figura chiave della Dc romana.


6) Forza Italia

Al secondo posto, all'interno della coalizione di centrodestra, il sorteggio ha collocato la lista di Forza Italia. Quanto all'emblema, la fisionomia è la stessa vista in Lombardia: da quando è stato di nuovo ingrandito il nome di Berlusconi (per raccogliere il maggior numero di voti, soprattutto alle elezioni politiche che si svolgono in contemporanea), l'indicazione del candidato locale da sostenere - in questo caso Parisi - è stata spostata di nuovo, com'era in origine, nella parte inferiore del contrassegno, lasciando che la parte superiore fosse occupata dalla bandierina tricolore (a costo di far uscire i vertici superiori dal cerchio). Capolista a Roma è l'irpino Antonio Aurigemma, consigliere uscente in cerca di conferma.


7) Energie per l'Italia

La terza posizione, all'interno della compagine che appoggia Parisi, è stata assegnata alla lista che in assoluto gli è più vicina: Energie per l'Italia. Le lampadine - rigorosamente spente - volute da Stefano Parisi e che non sono finite sulle schede delle elezioni politiche (dopo l'accordo che ha portato lo stesso ex aspirante sindaco di Milano a candidarsi contro l'uscente Zingaretti) si vedranno in Lazio: più delle lampadine, tuttavia, a spiccare è il cognome del candidato e fondatore, impossibile non vederlo nel suo blu carta da zucchero su fondo bianco, nella collaudata font Nexa. Come capolista a Roma si rivede Donato Robilotta, già Nuovo Psi - Pdl - Socialisti riformisti, già consigliere regionale.


8) Lega 

Lo si deve ammettere, la presenza di Alberto da Giussano accanto alla bandierina tricolore al vento e alla fiammella rimpicciolita non è certo un fatto nuovo (accade ciclicamente dal 1994). Il vero elemento di novità rispetto al passato, anche solo alle regionali di cinque anni fa, è l'apparizione della Lega, proprio con il guerriero a spada spiegata e senza più riferimenti al Nord, nella competizione elettorale del Lazio. Nessun riferimento a Parisi: l'unico nome sul simbolo (come in Lombardia) è quello di Salvini, unica personalizzazione concessa è l'indicazione della regione nel segmento blu in basso. Sarà curioso, a quel punto, vedere come andrà a finire.


9) Fratelli d'Italia

Quinto e ultimo simbolo della coalizione di centrodestra è quello di Fratelli d'Italia, che in Lazio ha uno dei suoi territori di maggior radicamento. L'emblema, ovviamente, è esattamente lo stesso presentato in vista delle elezioni politiche, vale a dire il "cannocchiale" del simbolo rinnovato di Fdi (con fiammella, senza cordicelle e senza tracce visibili di An) inserito in un cerchio dall'analoga struttura cromatica e contenente in grande evidenza il nome di Giorgia Meloni. Proprio il consenso di cui la leader del partito gode in Lazio potrebbe catalizzare un numero consistente di voti; nessun riferimento, invece, al candidato presidente Parisi, che pure è romano di nascita.


Jean Leonard Touadi

10) Civica popolare

Dopo il centrodestra, il sorteggio ha collocato una lista singola, quella di Civica popolare che, a differenza di quanto accade a livello nazionale e in Lombardia, in Lazio ha scelto una strada autonoma, candidando alla presidenza Jean Leonard Touadi, già deputato eletto - nella XVI legislatura - con l'Idv e poi rimasto per una decina di anni all'interno del Pd. Il simbolo ha la stessa struttura di quello nazionale, ma il cognome di Lorenzin - mantenuto probabilmente perché lei è romana - è stato notevolmente sacrificato per fare posto alla dicitura "per Touadi presidente". L'impressione, però, è che questo sia stato fatto con scarsa attenzione al risultato grafico: la font utilizzata è diversa da quella del nome della lista e la parte inferiore del cerchio sembra davvero troppo piena e "ammassata".


Sergio Pirozzi

Non sono solo centrodestra e centrosinistra a presentarsi in coalizione alle regionali in Lazio: ci sono anche le due liste che sostengono la candidatura a presidente del sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi. Dovendo scegliere il simbolo della sua coalizione, il primo cittadino con gli scarponi ha fatto una scelta dirompente: non una parola nel contrassegno coalizionale, solo il suo volto, noto dopo che tutti i media per mesi l'hanno cercato e rilanciato. Anche questo simbolo non era sostanzialmente stato divulgato, fino a quando non hanno cominciato a circolare i fac simile delle schede, scatenando ora l'ilarità, ora l'indignazione di alcuni frequentatori della Rete, che hanno parlato di "pochezza" del candidato. Per lui, invece, è solo la scelta di "metterci la faccia", di non nascondersi "dietro una bandiera". 


11) Lista Nathan

Quello che non si era concretizzato nel 2016 per le elezioni comunali di Roma sembra essere diventato realtà questa volta: una lista presentata nel nome di Ernesto Nathan, sindaco di Roma dal 1907 al 1913. A campeggiare accanto al nome della Lista Nathan è proprio il suo ritratto in bianco e nero: all'interno ci sono anche il simbolo del Pli di Giancarlo Morandi e Stefano De Luca e il tralcio di foglie d'edera di IRepubblicani.com (utilizzato in realtà in prima battuta dall'associazione Unità repubblicana). Sono queste le due componenti della lista che non ha dovuto raccogliere le firme grazie all'esenzione concessa dal gruppo consiliare del Movimento nazionale identitario di Francesco Storace.


12) Sergio Pirozzi presidente

Eccolo qui, il simbolo con l'impronta di scarpone che aveva fatto storcere la bocca a più di qualche esponente del centrodestra sia quando era stato presentato all'inizio della campagna elettorale di Pirozzi verso la presidenza della regione, sia soprattutto quando era apparso nelle bacheche del Viminale tra i simboli che sarebbero potuti finire sulle schede (anche se poi concretamente non ci è arrivato). In ogni caso, l'emblema con la dicitura Sergio Pirozzi presidente c'è ed è pronto a raccogliere il consenso personale del sindaco di Amatrice, candidato presidente ma anche capolista della sua formazione, per lo meno nella circoscrizione di Roma.


Stefano Rosati

13) Riconquistare l'Italia

Prima della coalizione di centrosinistra, il sorteggio ha piazzato sulla scheda il simbolo e le liste di Riconquistare l'Italia. L'emblema, in sé, potrebbe non dire molto, ma per chi ha l'occhio allenato è abbastanza facile riconoscere i colori e la grafica del Fronte sovranista italiano, al cui consiglio direttivo appartiene anche il candidato alla presidenza della regione, Stefano Rosati. La sigla Ri è scritta in verde e con la stessa font che in passato era usata per l'acronimo Fsi; da quel simbolo (e prima ancora da quello dell'Associazione Riconquistare la Sovranità) viene anche la Stella d'Italia, aperta, incompleta e in crescita, utilizzata come metafora del percorso dell'associazione e del progetto politico sovranista.


Nicola Zingaretti

Ultimo tra i candidati alla presidenza sorteggiati, Nicola Zingaretti si presenta sostenuto da ben sei liste. Qualcuna è nuova, qualcuna si è già vista alle elezioni precedenti, così come si è già sperimentato cinque anni fa il simbolo coalizionale unitario, denominato Per il Lazio (nome che, curiosamente, nel 2010 era stato invece usato dal centrodestra per la candidatura di Renata Polverini). Già nel 2013, infatti, era stato usato il profilo della regione Lazio tratteggiato a mano di verde su fondo giallo-arancio, campito a fasci radiali. In sé non è nemmeno bruttissimo, ma è solo leggermente meno anonimo dell'emblema utilizzato dal centrodestra in questa tornata elettorale.


14) +Europa

Ad aprire le danze della coalizione di centrosinistra è la lista +Europa con Emma Bonino. Il progetto politico, che mette insieme le forze di Radicali italiani e di altre figure a partire da Benedetto Della Vedova, presenta anche in Lazio propri candidati (alcuni dei quali sono noti: nella lista della circoscrizione romana il capolista è Alessandro Capriccioli, segretario di Radicali Roma, ma nell'elenco delle candidature c'è anche Mina Welby). Nel contrassegno, proprio come in Lombardia, non è stata introdotta la miniatura del simbolo di Centro democratico, necessaria solo a livello nazionale per conservare l'esenzione dalla raccolta firme (che invece in regione è stata fatta).


15) Liberi e Uguali

Al secondo posto è stata sorteggiata la lista di Liberi e Uguali, che in Lazio ha scelto di non confermare la propria corsa solitaria, ma di aderire alla coalizione che sostiene il presidente uscente Zingaretti, in cerca della riconferma. Come si è detto con riguardo alla Lombardia, il contrassegno utilizzato alle elezioni regionali conserva la stessa struttura di quello presentato a livello nazionale, sostituendo il riferimento al capo della forza politica Pietro Grasso con quello alla regione; se "Lazio" è più visibile di "Lombardia" perché la parola è più breve e dunque può essere ingrandita, la preposizione "nel" è del tutto illeggibile e decisamente "fuori centro", poco gradevole alla vista.


16) Centro solidale per Zingaretti

La grafica della terza lista che appoggia il tentativo di riconfermare Nicola Zingaretti è una delle due più semplici e spoglie. Centro solidale per Zingaretti si propone come formazione composta da persone legate all'associazionismo, al volontariato e alla società civile (capolista a Roma è Paolo Ciani, tra i responsabili romani della Comunità di Sant'Egidio e segretario della Consulta diocesana delle Aggregazioni laicali e confraternite per la Diocesi di Roma. L'emblema è per metà bianco e metà verde: nel semicerchio superiore la parte principale del nome della lista è scritta in blu, il nome del candidato trova posto nel semicerchio inferiore, mentre il "per" posato a metà, più leggero per il suo corsivo rosso, tenta di muovere graficamente, almeno in parte, una composizione altrimenti statica.

17) Insieme - Italia Europa

Anche alle regionali del Lazio la lista Insieme partecipa alla coalizione di centrosinistra. Rispetto al contrassegno presentato al Viminale per le elezioni politiche, la parte superiore dell'emblema regionale - dalla parola "insieme" in su - è identica; cambia leggermente, invece, quella inferiore, visto che le tre "pulci" del Psi, dei Verdi e di Area civica sono poste alla stessa altezza, così da lasciare spazio a un segmento circolare verde che contiene l'espressione "con Zingaretti presidente", ovviamente con il cognome del candidato in discreto rilievo. Alla fine il simbolo non è troppo sgradevole, anche se appare eccessivamente pieno proprio nella parte inferiore.

18) Lista civica Zingaretti presidente

Se, tra le liste a sostegno della riconferma di Zingaretti, se ne vuole individuare una sua "personale", non si può che indicare questa: la Lista civica Zingaretti presidente è davvero una formazione che guarda alla società civile perché chi ne fa parte viene quasi tutta da lì (in particolare dal mondo accademico). Guidata dal giornalista della Repubblica Carlo Picozza, la lista ha una composizione grafica piuttosto semplice, con l'espressione "Zingaretti presidente" contenuta in una barra bianca, mentre il riferimento alla lista civica si trova in alto, nella parte colorata e sfumata di rosso mattone o arancione (niente invece nella parte inferiore blu). 

19) Partito democratico

Può stupire, volendo, che anche in questo caso il simbolo del Partito democratico possa chiudere la coalizione di centrosinistra. Invece, proprio come in Lombardia (Milano), anche a Roma l'emblema del partito ora guidato da Matteo Renzi è stato sorteggiato come ultima - oltre che di tutte le formazioni - delle sei liste della compagine a sostegno di Zingaretti. Ed è proprio il riferimento al candidato alla guida della regione l'unica modifica introdotta nel contrassegno: qui non si è pensato di ridurre le dimensioni del logo, ma di aggiungere semplicemente un segmento verde con la dicitura "Zingaretti presidente". Nel 2013 non c'era, ma stavolta potrebbe servire a portare qualche voto in più.