mercoledì 2 dicembre 2020

Simboli fantastici (29): Gianni Rodari e la "politica" della fantasia

Dirlo non sarà rivoluzionario, ma la consapevolezza è essenziale: chi appartiene alla categoria dei #drogatidipolitica, a prescindere dall'età, dal genere, dalla formazione e anche dalla professione quotidiana, è di certo una persona che tiene alla sua fantasia e non chiede di meglio che esercitarla. Ogni scoperta di un personaggio singolare, ogni riemersione di un partito o di una lista che aveva lasciato tracce labili (ma non tanto da essere illeggibili), ogni rispuntare di un simbolo che si credeva perduto o di una variante grafica inattesa è in grado di attivare collegamenti, ipotesi, ricordi, pensieri, propositi di nuove ricerche, desideri di approfondimento: tutto ciò è "fantasia", il cui etimo richiama un'immagine che appare e si mostra davanti agli occhi, quasi stagliandosi, per invitare a indagarla, a trovarla o anche - vivaddio succede! - a godere per un poco dei frutti delle proprie ricerche. 
Spesso la fantasia è l'unico ingrediente davvero essenziale per chi si interessa alla politica: vale oggi di fronte a tante possibilità per ricercare e approfondire (per capire quale sia quella giusta, quella più promettente o, magari, per scoprirne una nascosta tra le righe), valeva ancora di più un tempo quando opportunità e mezzi erano assai più ridotti, tanto per chi guardava alla politica come spettatore quanto per chi voleva farla in prima persona. "La fantasia - ha scritto Marco Pannella in una celebre prefazione al libro Underground a pugno chiuso! di Andrea Valcarenghi - è stata una necessità, quasi una condanna, piuttosto che una scelta". Non si tratta, a ben guardare, di un pensiero troppo lontano da quello trasmesso da Gianni Rodari in un'intervista rilasciata nel 1975 a Luigi Vaccari per il Messaggero: "La fantasia, come immaginazione pratica o come immaginazione creatrice, è uno strumento indispensabile per conoscere la realtà e trasformarla con progetti umani". Bastano pochi secondi per capire che quel pensiero, benché fosse riferito ai bambini e alle storie create per loro, si adatta benissimo a chi agisce in politica e a chi si limita ad osservare attivamente.
Anche per questo, è importante rendersi conto che Rodari è un riferimento letterario irrinunciabile per chiunque ritenga di appartenere ai #drogatidipolitica. Ogni esponente della categoria è stat* bambin* e poi ragazz*, incontrando vari testi di Rodari - in prosa o in metrica - nei libri di lettura, nelle antologie o anche nelle canzoni (inevitabile pensare a Ci vuole un fiore: generazioni di bimbe e bimbi sono cresciute con la voce calda di Sergio Endrigo che nel 1974 aveva cantato la versione arricchita di Che cosa ci vuole, tratta da Filastrocche in cielo e in terra). Quelle composizioni - spesso sorridenti e ironiche senza temere di affrontare la tristezza o la delusione, ma sempre profonde e mai banali - hanno lasciato il segno in chi le ha incrociate, potendo riemergere dalla memoria a distanza di tanto tempo e adattarsi ai contesti più disparati. Soprattutto, basta una lettura attenta per capire che è sbrigativo classificare Gianni Rodari come un "autore per bambini": tutte le sue opere - anche quelle che partono dagli errori di linguaggio o da situazioni tipiche dell'infanzia - parlano e insegnano in primis alle persone adulte, ricordando loro ciò che rischiano di dimenticare o che non hanno saputo imparare quando era opportuno (ma sono ancora in tempo per rimediare).
Su tali presupposti, la biblioteca di chi senta di appartenere ai #drogatidipolitica si arricchirebbe di molto ospitando il volume dei Meridiani della Mondadori dedicato proprio alle Opere di Gianni Rodari, diffuso a partire da ottobre a ridosso del centenario della nascita dell'autore e a quarant'anni dalla sua scomparsa (nonché a cinquanta dall'assegnazione del premio Andersen, massimo riconoscimento legato alla letteratura per l'infanzia). Il Meridiano (CLXI+1767 pagine, 90 euro) è stato curato dalla critica letteraria e docente Daniela Marcheschi: proprio lei ha sottolineato la sua grande capacità non solo di rivolgersi in modo altrettanto efficace a ogni età, ma anche di "scrivere per i bambini con gli adulti e per gli adulti con i bambini". Bisogna ammettere che in queste pagine, pur essendo tantissime, non c'è tutto ciò che è stato scritto da Rodari, né sarebbe stato possibile: manca, per esempio, l'intera produzione giornalistica di Rodari (soprattutto per l'Unità e Paese Sera, ma non solo), come anche varie opere dirette ai bambini (ad esempio Tante storie per giocare, con i finali a scelta di chi legge). Ciò che è stato inserito, però, è incredibilmente prezioso e merita di essere ripercorso con attenzione, anche e soprattutto da chi alla politica tiene davvero.

Tra racconti e versi

Certamente Gianni Rodari - abilitatosi come maestro nel 1937 - ha avuto una netta militanza politica, come la ricca e dettagliata Cronologia inserita nel libro testimonia con chiarezza: dopo una breve permanenza nel seminario di Seveso e nell'Azione cattolica a Gavirate, nel 1938 si avvicinò una prima volta al comunismo e - dopo la parentesi di adesione obbligata e sofferta al Partito nazionale fascista tra il 1942 e il 1943, per la sua qualifica di dipendente statale - nel 1944 si iscrisse al Partito comunista italiano e aderì alla Resistenza. Queste esperienze e i pensieri che ne sono scaturiti emergono, a ben guardare, anche nelle opere di Rodari. A volte quelle tracce sono più manifeste, come testimonia la risposta tranchante del seriosissimo professor Grammaticus nel breve testo Un oratore (Il libro degli errori, 1964):
Una piccola folla si radunava nella piccola piazza. "Che cosa vendono?" domandò il professor Grammaticus. "Niente, - gli rispose un tipaccio. - C’è il comissio!" "Comissio? Con due esse? Ma allora sarà un discorso tutto sbagliato... Chi deve parlare?" "Il tale." "Ah, mi pareva! Un fascista! Allora tutto è chiaro." E il professor Grammaticus si allontanò, scuotendo la polvere dai suoi pantaloni.
In altri casi i riferimenti sono più sfumati, ma ben identificabili per chi desidera vederli. Viene in mente innanzitutto il finale della storia L'uomo che rubava il Colosseo, contenuta in quel capolavoro plurisaccheggiato dai volumi scolastici che è stato (ed è tuttora) Favole al telefono (1962): il protagonista senza nome, divorato dall'idea di volere solo per sé uno dei monumenti simbolo di Roma, ha trascorso anni ad accumulare in casa pietre sottratte dal Colosseo, senza tuttavia vederlo davvero scomparire. Parlano da sé le ultime righe, che descrivono la scena di quell'uomo ormai alla fine della vita che si è trascinato fino al sommo dell'anfiteatro, davanti a uno spettacolo magnifico che lui ormai non poteva più vedere: "Ed ecco, tra tante voci, il vecchio ladro distinse quella argentina di un bimbo che gridava: – Mio! Mio! Come stonava, com’era brutta quella parola lassù, davanti a tanta bellezza. Il vecchio, adesso, lo capiva, e avrebbe voluto dirlo al bambino, avrebbe voluto insegnargli a dire 'nostro', invece che 'mio', ma gli mancarono le forze".
Sempre pescando da Favole al telefono - opera rivolta fin dall'inizio, come si nota nei testi introduttivi, a "un pubblico più ampio e non solo di piccoli" - si trovano molti spunti "politici" in senso lato tra le settanta brevi storie raccolte. E non c'è solo il delicato affresco del Pozzo di Cascina Piana, in cui solo la comparsa di un partigiano ferito, soccorso innanzitutto dalle donne del paese, riesce a far superare antiche rivalità e diffidenze impossibili da spiegare. Si pensi alla "pedagogia della pace" proposta dall'avventura di Giovannino Perdigiorno nel Paese con l'"Esse" davanti (lo "scannone" serve per disfare la guerra e "può adoperarlo anche un bambino") o dal finale felicemente assordante della Guerra delle campane (i cannoni forgiati con le campane fuse dei paesi sparano lo scampanio, a dispetto di stragenerali e mortescialli); alla lotta contro le dittature e la "verità di Stato" di Giacomo di Cristallo; al valore di andare "in direzione ostinata e contraria" anche se intorno tutti sghignazzano, come Il giovane gambero e Martino Testadura che da solo trovò il castello alla fine della Strada che non andava in nessun posto; alla necessità di impegnarsi per migliorare il mondo a qualunque età che emerge da A comprare la città di Stoccolma e da Storia universale (in principio sulla terra "Non c’era nulla di niente. Zero via zero, e basta. C’erano solo gli uomini, con due braccia per lavorare, e agli errori più grossi si poté rimediare. Da correggere, però, ne restano ancora tanti: rimboccatevi le maniche, c’è lavoro per tutti quanti!".
Lo stesso spirito emerge dai testi in versi
: in Filastrocche in cielo e in terra (1960, accresciuta nel 1972) si trovano un ministro della guerra qualunque, che sta "col naso per terra", "in fondo in fondo" al sacco del cenciaiolo (Stracci! Stracci!) e Il giornalista "inviato speciale" lieto di aver portato un'unica notizia dal suo giro del mondo: "tutti i popoli della terra / han dichiarato guerra alla guerra", così come la critica ai fannulloni per scelta che "vanno a spasso, / non si sporcano nemmeno un dito, / ma il loro mestiere non è pulito". Tutti messaggi rivolti ai piccoli perché imparino e perché i grandi intendano e non dimentichino. Anche l'avvertimento a usare con cura le parole, quando hanno più di un significato, suona come una lezione umana che non ha confini: "Anche il chiodo ha una testa, / però non ci ragiona: / la stessa cosa càpita / a più di una persona" (La testa del chiodo). Lo stesso messaggio, a ben cercare, che si ritrova nell'ultima quartina di Il povero ane, contenuta nel Libro degli errori ("Vivere senza testa / non è il peggio dei guai: / tanta gente ce l’ha / ma non l’adopera mai"): chissà come reagirebbero o come hanno reagito i genitori a sentirsi dire, dopo aver letto o ascoltato quei versi, "Mamma, papà, ma anche voi avete una testa e non ci ragionate?". 

Scrivendo più a lungo

Questo spirito e questo atteggiamento non si perdono nemmeno nelle forme testuali più ampie, come i romanzi
, a partire da Le avventure di Cipollino (1951-1957) con la sconfitta del cavalier Pomodoro e la proclamazione della Repubblica ad opera di soggetti umili e considerati - a torto ovviamente - di poco valore dai più). Non sono meno interessanti, per lettrici e lettori politicamente attent*, le imprese di Gelsomino nel paese dei bugiardi (1959), il tenore dalla voce potentissima e, almeno in origine, piuttosto sgraziata: parlando e cantando distrugge lavagne e finestre, libera gatti disegnati sui muri, ma una volta arrivato nel paese dei bugiardi - quello in cui "la verità è una malattia" - con la sua stessa potenza vocale riesce a mandare in briciole il manicomio in cui gli amici sono stati rinchiusi dal malvagio re Giacomone e a mettere in fuga lo stesso sovrano dal passato discutibile; imperdibile, poi, il finale, in cui si sconsiglia di pronunciare discorsi dal balcone e si trasforma una guerra in una partita di calcio ("Ci sarà qualche stinco ammaccato, ma scorrerà in ogni caso pochissimo sangue"), scena che fa il paio con il rifiuto del pittore Bananito di usare il suo disegno realistico per realizzare cannoni (che dunque non vanno usati, ma neppure disegnati). 
Ristorati dal classico clima fiabesco della Freccia azzurra - che è stata ben tradotta anche in disegni animati da Enzo D'Alò - e dopo la golosa scorpacciata della Torta in cielo (nata come poesia e trasformata in romanzo con una classe elementare romana del Trullo nel 1974), si può tornare a riflettere sulle ricadute in politica del romanzo breve C'era due volte il barone Lamberto (1978): il protagonista - proprietario di 24 banche e tormentato da 24 malattie - paga cinque persone perché pronuncino continuamente il suo nome e lui possa restare in vita e ringiovanire (ma non si dà pace perché in quelle pronunce non si sente la maiuscola, "La 'Elle' iniziale del mio nome suona esattamente come la 'elle' di lumaca, lucertola, lecca-lecca: è deprimente"). Si tratta di un lavoro strano per i più (ma "Ce n’è anche di più strani - dice una "pronunciatrice" - Ho conosciuto uno che ha lavorato trent’anni a contare i soldi degli altri"), ma essenziale: quando il nipote malvagio in caccia di eredità narcotizza i pronunciatori e il nome non risuona più, il barone Lamberto invecchia di colpo e muore. Ma quando al funerale il nome passa di bocca in bocca e viene ripetuto di continuo, il barone si risveglia e ringiovanisce: ha una seconda possibilità per essere migliore, rischia di sprecarla e di rovinarsi con le sue stesse mani, ma all'ultimo fa la cosa migliore e decide - finalmente - di pensare con la propria testa

Insegnare le regole dell'inventare

Visto e ricordato tutto ciò, è forse più chiaro che non c'è nulla di più politico della consapevolezza che, come sottolinea Daniela Marcheschi nei suoi testi introduttivi al volume, "lavorare per i bambini e con loro significa confidare nella possibilità di costruire l’avvenire, di contribuire a creare una umanità futura libera, sicura, serena, insomma migliore". Rodari ha fatto tutto questo da "fabbricante di giocattoli" (come lui stesso ha chiamato filastrocche e raccontini nell'introduzione del Libro degli errori), ma per fortuna ha insegnato anche a fabbricarli, mettendo la sua esperienza a disposizione di chi aveva e ha interesse a "inventare storie". Lo ha fatto in tanti incontri con le scuole, ma anche e soprattutto incontrando insegnanti e lavorando con loro, in uno scambio sperimentale continuo. Ciò è accaduto soprattutto a Reggio Emilia nel 1972 e proprio da quell'esperienza di cinque giorni è nato uno dei volumi più significativi contenuti nel Meridiano, cioè Grammatica della fantasia.
Per l'autore non è un "trattato di Fantastica" (anche se agli occhi dei principianti così sembrerebbe), un manuale o un saggio, ma uno strumento utile "a chi crede - scrive sempre Rodari nell'Antefatto - nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola. 'Tutti gli usi della parola a tutti' mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo". Un pensiero tanto politico quanto bello e potente.
Si impara così - o si ricorda, perché ormai lo si è sperimentato da tempo - che "da un lapsus può nascere una storia", che si possono rendere produttive le parole deformandole, che ipotizzando si crea e si può guardare il mondo dall'alto di una nuvola, invece che ad altezza umana o di bimbo; si capisce che limitare le possibilità dell'assurdo a bambine e bambini è un errore (anche perché esistono persino le dimostrazioni per assurdo in una pretesa scienza esatta come la matematica), così come che è bello non fermarsi alla parola "Fine" e non lasciarsene spaventare. Anche così, certamente, ci si prepara a essere cittadine e cittadini migliori - quasi senza rendersene conto - e si impara a non avere paura di scomparire (dalla scena, dai riflettori, dalla vita) perché vale sempre la pena di agire con la propria testa.  

Epilogo paraelettorale

Nel Meridiano dedicato a Rodari, infine, c'è persino un piccolo riferimento elettorale sui generis: si tratta del "gran ballo per l'elezione del Presidente della repubblica di Venere", contenuto in Miss Universo dagli occhi color verde-Venere, racconto inserito nella raccolta Gip nel televisore e altre storie in orbita (1967). Vale la pena di leggerne poche righe, giusto per apprezzare l'ironia di una narrazione che non può non ricordare in parte la fabula di Cenerentola: 
Al gran ballo per l’elezione del Presidente della repubblica di Venere non ci va. Ci vanno la zia e le cugine, con l’astronave della Camera di Commercio. Ci va mezza Modena, mezza Europa. A guardare in cielo si vedono centinaia di razzi dalla coda infuocata, come tante stelle cadenti che cadono all’insù, invece che all’ingiù. Dicono che le feste da ballo su Venere siano una splendidezza. Ci arrivano giovanotti e ragazze da ogni angolo della Via Lattea. Aranciata a volontà, lecca-lecca gratis per tutti.
Delfina sospira e rientra in negozio. Deve finire di stirare il vestito della signora Foglietti, che lo metterà domani sera all’Opera, dove danno la Cenerentola del maestro Rossini. Un bel vestito, tutto nero, ricamato d’oro e d’argento: pare una notte stellata. Al ballo su Venere la signora Foglietti non lo può indossare, perché lo ha già portato due mesi fa per l’elezione di un altro presidente. Lassù fanno tanti presidenti per poter fare tante feste da ballo.
Naturalmente Delfina si trova proiettata al ballo venusiano e proprio indossando il suddetto vestito: apprende che i suoi occhi non sono di un brutto verde-cicoria ma di un bel verde-Venere da un misterioso giovanotto che si scopre essere il nuovo Presidente che la vuole proclamare Miss Universo. A mezzanotte Delfina fugge in tutta fretta a Modena, ma il Presidente di Venere la fa cercare anche lì dai suoi ambasciatori (confrontando il colore degli occhi con la pietra dell'anello nuziale) e la trova in una lavanderia di corso Canal Grande: il riconoscimento avviene sotto gli occhi della proprietaria del vestito che non si era accorta di nulla, ma invece che arrabbiarsi per l'appropriazione indebita e la mancata stiratura se ne esce con "Quel vestito è tuo! Che onore per me! Che onore per Modena e per Campogalliano! La nostra Delfina diventa Presidentessa del pianeta Venere!" (e chissà che avrà detto di questa sortita Guglielmo Zucconi, che da modenese di crescita aveva una certa idea su "quelli di Campogalliano", come ricordato dal campogallianese Edmondo Berselli...). Ultima scena: dopo il matrimonio, il Presidente si dimette e, mentre torna a lavorare in un distributore di carburante per astronavi, è tempo di nuove elezioni. Uno scenario che i #drogatidipolitica non possono che apprezzare.
Eppure proprio i #drogatidipolitica sentono inevitabilmente la mancanza di urne, seggi e schede in tutte quelle pagine (peccato che manchino, tra l'altro, proprio gli articoli scritti da Rodari come inviato per seguire varie tornate elettorali); a dirla tutta, manca anche forse un po' di colore, assente nei Meridiani ma tipico di tanti volumi di Rodari (e in ogni caso quasi palpabile nelle parole di rime, racconti e romanzi). A quest'ultima mancanza, in effetti, la stessa Mondadori ha posto in parte rimedio, allegando al Meridiano classico un volume più piccolo (Rodari a colori, curato da Grazia Gotti, autrice del saggio Segni, forme e colori per Gianni Rodari), che raccoglie un gran numero di copertine e disegni legati alla produzione rodariana. Tra i nomi illustri, italiani e stranieri, di autrici e autori che si scorrono uno non può non saltare agli occhi: quello di Bruno Munari, colui che ha finito per illustrare gran parte dei volumi pubblicati da Einaudi, arrivando anche ad assecondare Rodari nella sua richiesta di "inventare per ogni pagina uno dei suoi bei giochetti, delle sue illustrazioni praticabili e smontabili, dei suoi 'calembours a colori' eccetera".
In questa pagina ci si è così azzardati a rimediare anche alla prima mancanza avvertita dai #drogatidipolitica, attingendo proprio all'opera di Munari, particolarmente adatta allo scopo: lo stesso Rodari - in un testo che Marcheschi pregevolmente riporta nella Cronologia - definì peraltro l'artista un "giocoliere" che "si diverte a trasformare le possibilità tecniche della stampa in divertimento" (macchine utilissime, si direbbe parafrasando le sue note "macchine inutili"). Si è presa così una delle sue creazioni rodariane più famose, cioè la copertina di Favole al telefono: nel cerchio nero trasformato in disco combinatore di un vecchio telefono (di quelli che bambine e bambini di oggi possono vedere giusto nei film) c'erano nove fori, riempiti di altrettante illustrazioni colorate. Quei disegni a matita, in fondo, erano già dei piccoli simboli e, per giunta, erano già inseriti in piccole circonferenze nere: non c'era altro da fare, a quel punto, che prenderli sul serio e trasformarli in contrassegni elettorali, piazzandoli su una vera e propria scheda e abbinandoli ad alcuni dei personaggi più noti dell'universo donatoci da Gianni Rodari per candidarli a sindaco. L'operazione è stata semplice e rapida: in poche manciate di minuti, la scheda era già pronta, non prima però di avere tolto un po' di seriosità alla trama che caratterizza il retro e il fondo del bollettino elettorale, scegliendo di interpretare la texture a pennellate diagonali di blu (quello delle elezioni comunali) e grigio (che accompagna ogni scheda da decenni). 
Non si può immaginare, messo davanti alla scheda che apre questo articolo, cosa avrebbe votato Rodari (e, a monte, se avrebbe preferito schierare altri personaggi per la candidatura): ci si limita a dire che la fantasia offerta dall'autore di Favole al telefono ha permesso anche questo, dimostrando una volta di più che i #drogatidipolitica dalla lettura di Rodari possono solo guadagnare. Come ogni altra persona, del resto.

2 commenti:

  1. Gentilissimo, grazie! Penso che la Sua bella recensione sarebbe piaciuta tanto a Rodari, che ha sempre amato la buona politica, quella che fa crescere individui e società, l'essere INSIEME per migliorare le cose, Daniela Marcheschi

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  2. Un lavoro bello e bene articolato. Felice di leggere e di scoprire una voce come la sua. Ce ne fossero...
    Caterina

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