lunedì 30 agosto 2021

Liberal Socialisti, nuovo simbolo elettorale (in verde) per il Nuovo Psi

Da pochi giorni in Rete è apparsa una nuova pagina Facebook denominata Liberal Socialisti NPsi, legata a un sito internet altrettanto nuovo. entrambi si distinguono con un simbolo inconfondibile - garofano rosso dentro corona circolare verde - che ha immediatamente messo in allarme vari #drogatidipolitica: è nato un nuovo soggetto politico nell'area socialista (l'ennesimo, per l'esattezza) di cui tenere conto, oppure si tratta semplicemente del Nuovo Psi con una veste grafica diversa? 
Uno sguardo più attento e qualche verifica diretta hanno consentito di sciogliere l'arcano: il soggetto politico è sempre il Nuovo Psi, che dal 2019 ha come segretario Lucio Barani e come presidente (ma fin dal 2011) Stefano Caldoro. Il garofano, del resto, è proprio lo stesso - nella stessa posizione - sfoggiato per la prima volta nel 2006: il Nuovo Psi - quello nato ufficialmente nel 2001 - era nel bel mezzo di una contesa giuridica sul "congresso - non congresso" dell'ottobre del 2005 (il quinto, straordinario) tra chi sosteneva che fosse stato eletto segretario per acclamazione Bobo Craxi e chi invece riteneva che - non essendosi individuata con certezza la base dei delegati - non si fosse celebrata alcuna assise e alla segreteria fosse rimasto Gianni De Michelis. Tra un'ordinanza e l'altra del tribunale di Roma (che prima diede ragione ai primi, poi ai secondi), c'era comunque da preparare il materiale per le elezioni politiche, contrassegno compreso (e condiviso con la Democrazia cristiana per le autonomie di Gianfranco Rotondi): nel simbolo spuntò così quel nuovo garofano rosso, realizzato "in emergenza" per l'occasione. Lo stesso fiore tornò utile nella seconda metà del 2007 quando, dopo l'ennesima scissione tra Gianni De Michelis e Mauro Del Bue da una parte e Stefano Caldoro e Lucio Barani dall'altra, questi ultimi fondarono una nuova associazione partito denominata "Nuovo Psi": come simbolo ripresero il garofano elaborato poco più di un anno prima e lo collocarono in una corona rossa che su di sé portava anche la denominazione scelta.
"Ricordo molto bene quella successione di simboli e la nascita di quel garofano in particolare - ricorda oggi Barani, interpellato espressamente sul punto da I simboli della discordia - perché il disegno di quel fiore lo commissionai proprio io a un grafico che conoscevo, Franco Pedroni, tra il 2004 e il 2005. Ricordo che mi presentò esattamente ventidue diversi disegni: tra quelle proposte scelsi proprio quel garofano quasi veritiero, che nella forma della corolla ricordava quello già usato dal Nuovo Psi. Per evitare che qualcuno potesse appropriarsene, lo tutelai con tanto di atto notarile e da allora è un mio simbolo. All'inizio non riuscii a farlo adottare come simbolo del partito mentre era segretario De Michelis e io avevo l'incarico di tesoriere, ma quando appunto ci fu la contesa giudiziaria sul congresso del 2005 e occorreva un simbolo sicuro per presentare le liste usammo quello e io stesso fui eletto deputato nel 2006 con quello. Nei mesi successivi tornò il simbolo precedente, fino a quando nel 2007 arrivò alla segreteria Caldoro e, non potendosi usare il vecchio emblema conteso, io proposi di adottare quello depositato da me: da allora è diventato il nostro simbolo ufficiale, a maggior ragione da quando Caldoro, diventato nel 2010 presidente della giunta regionale campana, non poteva più guidare anche il nostro partito e si è dimesso, per cui poi sono stato eletto io".
Tornando al simbolo rinnovato con garofano, corona verde e scritta "Liberal Socialisti", è sempre Barani a spiegarne l'origine: "Si tratta di un emblema che abbiamo lanciato in questi giorni, dopo averne deliberato l'uso a giugno in un ufficio di presidenza: il simbolo ufficiale del partito, così come consacrato nello statuto, resta quello consueto, ma nelle elezioni di ottobre in cui ci presenteremo useremo questo". Lo stesso emblema, come si diceva, sta iniziando a circolare sui social network (anche per pubblicizzare la nuova campagna di iscrizioni online), sul nuovo sito del partito e in altre iniziative, incluse quelle legate alla raccolta firme per i referendum sulla giustizia giusta proposti dal Partito radicale e dalla Lega e che il Nuovo Psi ha deliberato di sostenere.
"La base di questa variante simbolica - prosegue il segretario - è un contrassegno che avevamo già depositato in precedenza, con lo stesso garofano, che portava la dicitura 'Liberal socialisti' sulla corona". In effetti, scorrendo i simboli depositati per le elezioni politiche del 2013, si scopre che il Nuovo Psi aveva presentato al Viminale, oltre al proprio simbolo consolidato, anche la variante dei Liberal socialisti (sia pure solo per la circoscrizione Estero, cosa che permetteva il deposito di più emblemi senza particolari difficoltà). Allora non c'era alcun riferimento al nome ("Nuovo Psi" o in forma abbreviata) e la corona era rimasta rossa, mentre questa volta si è fatta un'altra scelta cromatica: "Abbiamo voluto dare in modo più tangibile l'idea del tricolore, unendo il verde della corona al bianco del fondo e al rosso della corolla del fiore. Questo è anche un modo per distinguerci da quelli che chiamerei 'pseudosocialisti', quelli che per anni hanno usato nel loro simbolo la rosa perché non volevano schierare il garofano, così come non lo volevano i partiti loro 'padroni' con cui erano alleati. Ora che anche da quelle parti si è deciso di adottare di nuovo un garofano come simbolo, noi abbiamo scelto il verde per distinguerci, per rimarcare che noi siamo sempre craxiani anticomunisti, lo siamo davvero: siamo l'originale, non un surrogato o una fotocopia". In effetti l'accordo stipulato - con scrittura privata - a metà del 2007 tra Barani e Caldoro da una parte e 
De Michelis e Mauro Del Bue dall'altra prevedeva che nessuna delle due nuove distinte formazioni politiche avrebbe potuto usare una corona circolare di colore verde (in modo che nessuno dei due gruppi politici fosse confondibile con il partito che fino a quel momento aveva operato in modo unitario); è passato però davvero molto tempo da allora ed è ben difficile che qualcuno possa lamentarsi di questo ritocco grafico (che, anzi, porta maggiore chiarezza perché si distingue dal bordo rosso spesso del simbolo del Psi guidato da Enzo Maraio).
Quanto al nuovo testo in evidenza, "Liberal Socialisti", "nessun altro usa quell'espressione ed è nostra da sempre, punto e basta. Noi eravamo e siamo liberal socialisti, lo dicevamo e ora lo scriviamo anche a chiare lettere sul contrassegno elettorale. D'altronde, nella rivoluzione post Tangentopoli, dopo vari anni di disastri e di fronte ai danni al Paese legati alla pandemia, per risollevare l'Italia si è preso un uomo della Prima Repubblica che era di fatto un collaboratore dei governi Craxi: Mario Draghi, infatti, era consulente economico di Giovanni Goria, che era appunto ministro del tesoro nei governi guidati da Craxi, così come lo è stato quando Goria è diventato a sua volta Presidente del Consiglio. Quando si è insediato, Draghi si è detto socialista liberale e io avevo sostenuto lo stesso in una mia intervista: insomma, per risollevare questo paese ci volevano e ci vogliono i liberal socialisti e noi lo mettiamo chiaro e netto nel nostro simbolo elettorale".
Il soggetto politico, come si diceva, continua a chiamarsi Nuovo Psi, nome che in questa nuova versione "ritoccata" del simbolo appare solo in forma abbreviata (NPsi): non c'è il rischio che qualcuno non si riconosca più, pensando che sia nato l'ennesimo partito dell'area socialista? "Diciamo che è una scoperta, come quelle che fanno i bambini quando crescono - risponde Barani sorridendo - si tratta di una scommessa per noi e di una scoperta per chi affronta la vita politica e, passo dopo passo, ne scopre pregi e difetti. Chi continuerà a riconoscerci anche con questa 'veste rinnovata' sarà un nostro fedelissimo: stiamo seminando e ci prepariamo a una semina diffusa in tutto il paese, avendo come obiettivo la partecipazione alle prossime elezioni politiche e avendo l'ambizione di un risultato a due cifre, sperando che la prima cifra non sia 1!"
Non sorprende affatto che Barani abbia proposto, come esperimento, il ritocco del nome ma non del garofano, e non solo perché quello - come ha spiegato forse per la prima volta - è depositato a suo nome: nel corso degli anni, infatti, l'attuale segretario si è distinto anche per il garofano sempre portato nel taschino della giacca (anche e soprattutto in Parlamento) e persino stampato sulla nota maglietta con lo slogan Je suis Craxi. "Ricordo bene un articolo di Giampaolo Pansa spiega Barani - in cui scriveva senza giri di parole che in un Parlamento in cui tutti rinnegavano la loro identità, c'era rimasta una persona che la manifesta in modo ideale e anche materiale, indossando il garofano o, prima ancora, concedendo a Bettino Craxi la cittadinanza onoraria in vita, come ho fatto quando ero sindaco di Aulla". Se si chiede a Barani se il garofano, per lui, rappresenti oggi soprattutto un simbolo socialista, liberal socialista o craxiano, non ha dubbi nella risposta: "Per me il garofano è innanzitutto e soprattutto un simbolo liberal socialista: va però dato a Cesare ciò che è di Cesare, quindi bisogna riconoscere che il primo a portarlo sulle schede elettorali con quella connotazione è stato Bettino Craxi". Il simbolo "ritoccato" del Nuovo Psi destinato alle elezioni, dunque, per Barani è soprattutto un modo per rimettere tutte le tessere ideali e grafiche al loro posto, per legare il garofano al primo uso massiccio nella storia repubblicana italiana e a chi lo ha scelto sin dalla fine degli anni '70 e confermato in seguito. Con il concorso essenziale di Ettore Vitale e di Filippo Panseca, come lettrici e lettori di questo sito sanno molto bene.

domenica 29 agosto 2021

Letta alle suppletive, il simbolo del Pd (che non c'è) e le norme elettorali

Si sta tenendo in queste ore (per l'esattezza si chiuderà alle ore 20 di domani, lunedì 30 agosto) il deposito delle candidature per le elezioni suppletive che interesseranno due collegi uninominali della Camera dei deputati. I documenti - a partire dalle sottoscrizioni necessarie, almeno 300 e non oltre 600 - devono essere consegnati presso la Corte d'appello del rispettivo Ufficio centrale circoscrizionale: a Firenze per il collegio Toscana-12 (Siena e parte della provincia di Arezzo), a Roma per il collegio Lazio 1-11 (Primavalle e altri territori).
Nei giorni scorsi ha ottenuto più attenzione il collegio di Roma, se non altro perché le candidature di Luca Palamara ed Elisabetta Trenta hanno svelato due tra i concorrenti più noti (nell'attesa che si scopra chi altro è stato in grado di raccogliere le firme necessarie, accanto a chi - come il segretario del Pd Roma Andrea Casu, candidato da Pd e "centrosinistra" - non ha bisogno di alcuna sottoscrizione perché il suo contrassegno gode dell'esonero in base alla presenza parlamentare); oggi invece è tornata sotto i riflettori il collegio toscano, nel quale era nota da tempo la candidatura di Enrico Letta.
Ironia della sorte, a far parlare della corsa elettorale del segretario Pd è stato proprio il simbolo da lui scelto e pubblicato sui suoi profili social: su fondo rosso leggermente sfumato, si trova soltanto la dicitura bianca, "con enrico LETTA", con il cognome chiaramente in evidenza (e scritto "tutto in un blocco") e un tocco di sobria leggerezza dato dal "con" proposto in una font manoscritta, meno severa del carattere "bastoni" usato per le altre parole. Il colore dello sfondo ricorda in parte i simboli già visti per le candidature alle suppletive di Sandro Ruotolo e Roberto Gualtieri e Sandro Ruotolo, ma non è certo di questo che si discute nelle ultime ore: si (stra)parla, più che di quel che c'è nel contrassegno elettorale, di quello che manca. 
 
 
Oggetto dei commenti, infatti, è soprattutto l'assenza del simbolo del Partito democratico all'interno del fregio elettorale. Tra le dichiarazioni più rilanciate, riprese o citate c'è quella di Matteo Salvini, per il quale a Sena "la sinistra [...] candida il segretario del partito che ha distrutto storia e patrimonio del Mps e, per la vergogna, si presenta senza il simbolo del Pd". Non è certo la prima volta che, da una parte o dall'altra, si chiama in causa la vergogna come movente della sparizione dei simboli di partito, dalle schede elettorali (nel contesto di una diffusa corsa al civismo, che fa il paio con una tendenza dei partiti a giocare a nascondino, in tempi in cui "partito" sembra una parolaccia e non la vuole usare nessuno, quindi meglio non averne nemmeno le sembianze) o più semplicemente dai manifesti (per i quali è più facile, oggettivamente, pensare che siano centrati sulla persona che si candida, piuttosto che sulle forze che la sostengono). Chi studia avvenimenti e dinamiche della politica si limita a registrare la nuova polemica; chi conosce a fondo norme e prassi elettorali - appartenendo quasi sempre alla schiera dei #drogati di politica - non riesce invece a capire critiche e attacchi di questo tipo e suggerisce a chiunque un rapido ripasso delle citate norme e prassi.
La disciplina in vigore per le elezioni politiche, così come modificata - da ultimo - dalla legge n. 165/2017 ("legge Rosato-bis"), ha reintrodotto in Italia le elezioni suppletive, che si tengono quando in corso di legislatura si liberi alla Camera o al Senato - per decesso, incompatibilità, dimissioni o altre cause - un seggio attribuito in un collegio uninominale, nel quale dunque si affrontano singole persone e non liste. Quelle elezioni erano previste anche dal sistema introdotto nel 1993, con cui si è votato nel 1994, nel 1996 e nel 2001: se però la "legge Mattarella" ammetteva che ciascuna persona candidata potesse essere sostenuta da un massimo di cinque contrassegni, le regole ora applicabili consentono di affiancare a ciascun nome sulla scheda elettorale un solo emblema. Può essere uno di quelli già depositati alle ultime elezioni politiche (nel qual caso non occorre depositarlo anche in Corte d'appello, come l'Ufficio elettorale centrale nazionale ha chiarito in occasione delle prime suppletive di questa legislatura) oppure può essere un contrassegno nuovo, in tutto o in parte (per intendersi, anche una semplice aggiunta o modifica, testuale o grafica, fa parlare di un emblema nuovo) e allora lo si dovrà depositare insieme agli altri documenti. Se poi il contrassegno è esonerato dalla raccolta firme, perché riproduce il simbolo di un partito che dispone di un gruppo parlamentare in entrambe le Camere, non ci sarà bisogno delle sottoscrizioni a sostegno; le firme dovranno invece essere regolarmente raccolte o depositate se nel contrassegno non figura alcun simbolo di partito esente, anche se - come appunto nel caso di Letta - a candidarsi è il segretario di un partito con un gruppo a Montecitorio e a Palazzo Madama.
La scelta di non impiegare il simbolo del Pd, dunque, è stata meditata e consapevole, visto che sul simbolo descritto e mostrato in precedenza sono state raccolte le firme. Questo certamente si può dire; sulle ragioni che hanno spinto a questa decisione si può ovviamente discutere, ma volerle cercare (solo) nel "vergognarsi del simbolo" sembra decisamente riduttivo e non tiene conto di questioni oggettive e pratiche. Come si è detto, alle suppletive si può affiancare un solo contrassegno al nome di chi si candida: nulla vieta, ovviamente, né di usare il simbolo del partito, anche solo leggermente integrato (come pare che accadrà con Andrea Casu, che al logo Pd di Nicola Storto sottoporrebbe un segmento rosso con la dicitura "Centrosinistra"), né di inserire più simboli di partito all'interno dello stesso cerchio.
Contrassegno di Maurizio Leo
(suppletive 2020 - Lazio 1-01)
 
"Biciclette" e "tricicli", in fondo, sono stati usati anche come emblemi di lista (alle amministrative nei comuni sotto i 15mila abitanti è la prassi, ma anche a volte in quelli superiori), quindi non c'è da scandalizzarsi; lo stesso centrodestra ha impiegato nelle precedenti suppletive di questa legislatura contrassegni compositi, sfoggiando tre o quattro cerchietti a seconda del numero di forze politiche che componevano in quel caso la coalizione. Già così, tuttavia, è facile notare che la grafica lascia abbastanza a desiderare: nessuno ha mai preteso che le schede elettorali siano esempi di finezza, ovviamente, ma bisogna ammettere che la scelta di rendere "visibili" più forze politiche nello stesso cerchio (di 3 centimetri di diametro sulla scheda) crea problemi di leggibilità, oltre che di disposizione e proporzioni. Qualche esempio: si fanno tutti i cerchietti uguali, oppure uno/alcuni di dimensioni maggiori rispetto ad altri? La soluzione andrà bene a tutti o ci saranno lamentele pronte a esplodere? E un partito piccolo ma presente in quel territorio merita visibilità o resta fuori per non complicare il contrassegno?
Ovviamente, più la coalizione si amplia, più la scelta di includere tutte le forze politiche (o quasi) diventa complessa, a meno di rischiare risultati graficamente discutibili. Il centrosinistra, almeno in un'occasione, ha provato a non scontentare quasi nessuno: alle due suppletive trentine del maggio 2019, infatti, nello stesso contrassegno sono state inserite ben sei "pulci", tra simboli nazionali e locali, rappresentanti forze piccole e grandi, tutti in ogni caso di 3,5 millimetri di diametro. L'effetto carambola (o biliardo o collana, che dir si voglia) era però assicurato: per la cronaca, in entrambi i casi il centrosinistra perse, certo non per colpa del contrassegno elettorale ma non si può obiettivamente dire che questo abbia aiutato a farsi riconoscere.
Non sembra un caso, dunque, che in seguito il centrosinistra abbia puntato su simboli decisamente centrati sulla persona candidata: lo stesso peraltro è accaduto per alcune candidature "giallorosse", non necessariamente più fortunate ma graficamente più ordinate. Quando dietro un candidato alle suppletive c'è una coalizione, quindi, la scelta "simbolica" è tra un contrassegno tanto inclusivo quanto "carambolesco" (più rispettoso delle varie comunità elettorali ma graficamente poco gestibile) e un emblema più pulito e diretto, spesso centrato sul candidato (accontentandosi necessariamente di scarsi riferimenti alle forze politiche sostenitrici, magari attraverso i colori).
A Roma-Primavalle la candidatura del segretario cittadino del Pd ha suggerito l'uso del simbolo del partito, integrato con il riferimento al centrosinistra visto che a sostenerlo saranno anche altre forze di quell'area. Se era lecito immaginare una dinamica simile nel collegio toscano che va al voto, essendo candidato il segretario nazionale del Partito democratico, occorre però ricordare che a Siena Enrico Letta ha espressamente cercato anche il sostegno di Italia viva e del MoVimento 5 Stelle: sarebbe oggettivamente più difficile ottenere i voti dei sostenitori di quelle forze politiche schierando il simbolo del Pd, né era oggettivamente pensabile che lo stesso contrassegno contenesse i simboli di Pd, M5S e Iv (o anche solo dei primi due soggetti politici: finora si sono visti affiancati, ma trovarli nello stesso cerchio farebbe un altro effetto). Si tratta certamente di una scelta di natura politica, legittima e ovviamente criticabile da parte di chi non la condivide; la vergogna, però, c'entra ben poco. Molto meno contestabile, per dire, sarebbe stato notare che la stampa del simbolo diffusa sui profili social di Letta è stata stampata davvero male, visto che sono evidenti delle "strisciate" di colore che difficilmente sono presenti nell'originale: per fortuna, dopo la conversione del "decreto semplificazioni", il contrassegno ufficiale depositato è quello in formato Pdf, certamente con i colori giusti, ed è quello che sarà riprodotto su manifesti e schede. Alla faccia delle stampanti difettose, che attaccano anche i simboli non "caramboleschi".

venerdì 27 agosto 2021

2000, un nuovo inizio per De Jorio con i Pensionati uniti

Nel 1995, scorrendo le schede relative alle elezioni regionali del Lazio, si poteva notare l'assenza di simboli legati ai pensionati, dopo che nel 1985 ne era comparso uno e un lustro più in là erano diventati due. Non si sa perché il Partito pensionati di Carlo Fatuzzo - in quel giorno candidato alla guida della Regione Lombardia - non avesse partecipato in Lazio; si spiega invece l'assenza dell'Alleanza pensionati, partito che - pur con nomi diversi - aveva concorso alle due precedenti consultazioni
Filippo De Jorio, il suo esponente di spicco (eletto nel 1985, il più votato ma non eletto nel 1990), era impegnato da mesi come membro del Comitato economico e sociale delle Comunità europee in rappresentanza dell'Italia: lo aveva indicato il governo italiano guidato da Silvio Berlusconi, su impulso di Alleanza nazionale di cui lo stesso De Jorio era stato tra i primi esponenti rilevanti. Alle regionali del 2000, invece, De Jorio era nuovamente candidato con una lista legata ai pensionati, questa volta però diversa e legata a una forza politica cofondata direttamente da lui tre mesi prima del voto, che si svoltosi il 16 aprile. il 17 gennaio 2000, infatti, era stato costituito a Roma il partito Pensionati uniti - Fipu, ove la sigla stava per Federazione italiana pensionati uniti.
Quella presenza non era affatto scontata: giusto un paio di anni prima, infatti, De Jorio era stato seriamente tentato di lasciare la politica attiva. Quando, alla settembre del 1998, il suo incarico presso il Comitato economico e sociale non era stato rinnovato, De Jorio non mancò di puntare il dito contro Gianfranco Fini, che non ne avrebbe sostenuto di nuovo la nomina (al suo posto andò Renata Polverini dell'Ugl): nel suo libro ... e le mele continuano a marcire (uscito nel 2018 per Pagine - ilibridelBorghese) scrisse senza mezzi termini che il leader di An stava iniziando "a sbarazzarsi degli ex democristiani come me", privando così i pensionati italiani di un loro rappresentante al comitato. In quegli ultimi mesi del 1998, De Jorio aveva seriamente maturato l'idea di non occuparsi più di politica, continuando la sua professione di avvocato e proseguendo nel suo impegno come presidente della Consulta dei pensionati, fondata da lui nel 1996 con Giulio Cesare Graziani, che peraltro scomparve proprio alla fine del 1998.
Proprio la mancata conferma in quell'anno, tuttavia, alla lunga finì forse per convincere De Jorio che per cercare di fare qualcosa di più per i pensionati occorreva anche una presenza politica autonoma e visibile: questa - in un'epoca decisamente bipolare, pur nella frammentazione comunque crescente - si sarebbe alleata di volta in volta con lo schieramento che sarebbe parso più in grado di appoggiare le istanze dei pensionati, pur senza legarsi a un partito in particolare o confluire in esso. L'idea, maturata nel 1999, arrivò a maturazione all'inizio del 2000, appunto in vista delle elezioni regionali che avrebbero interessato anche il Lazio: proprio nella regione di cui De Jorio era già stato consigliere, tra l'altro, nel 1995 Piero Badaloni era diventato presidente battendo il suo sfidante Alberto Michelini (giornalista Rai come lui) solo dello 0,17%, quindi anche una forza politica di nuovo conio e rivolta soprattutto a un settore della popolazione avrebbe potuto essere determinante. 
Il 17 gennaio 2000, così, varie persone si diedero appuntamento presso lo studio romano della notaia Mariagrazia Russo (che all'epoca si trovava proprio in piazza Del Fante, sede anche del "quartier generale" di De Jorio): oltre allo stesso avvocato De Jorio, c'erano il generale Pietro Di Marco (presidente dell'Associazione nazionale finanzieri - Fiamme gialle), Giuseppe Polini (presidente dei Pensionati - Uomini vivi), Michelangelo Pascasio (già magistrato e presidente di sezione della Corte di cassazione), Vincenzo De Ficchy, il generale Paolo Palmieri (presidente della Dirstat Pensionati), Elena Santinelli Girardi (presidente dell'Unione nazionali pensionati civili e militari dello stato e degli enti locali), Quintilio Rossi (segretario generale dello stesso soggetto), Marino Palese (presidente dei Pensionati ex Irite) e il generale Umberto Bernardini (presidente dei Pionieri del Volo). 
Si trattava, come ricorda sempre De Jorio nel suo libro, degli "attivisti più impegnati della Consulta dei pensionati". Furono loro a fondare il partito Pensionati uniti - Fipu, dandosi anche un simbolo che conteneva anche la dicitura "Rinascita dei Valori". Quel primo emblema non è mai finito sulle schede... e sottovoce si sarebbe tentati di dire "meno male": già a un primo sguardo, infatti, si aveva l'impressione di trovarsi di fronte a un simbolo del tutto provvisorio, composto verosimilmente con Microsoft Publisher. Lo rivelavano, più che il nome in Times New Roman grassetto corsivo o il fondo giallo, la sigla F.I.P.U. e l'espressione "Rinascita dei Valori", che avevano tutta l'aria di essere state create con lo strumento WordArt. Un perfetto esempio di grafica 0.0, probabilmente creata "in emergenza" per poter procedere subito alla costituzione del soggetto politico e giuridico, in modo da averlo pronto per le elezioni regionali (quelle che richiedevano il maggior impegno per la raccolta firme) e magari per qualche altra consultazione locale.  
Un po' di tempo per migliorare il fregio, per fortuna, ci fu: il giallo fu reso meno squillante, le scritte furono composte in colore blu scuro (invece che in nero); la parola "Pensionati" acquisì decisamente peso nel cerchio rispetto a "uniti" (e nessuno avrebbe comunque potuto lamentare confondibilità con il partito di Fatuzzo, per le differenze cromatiche e verbali), sotto al nome del partito fu inserita una sorta di sottolineatura (che ricordava un po' quella dei Liberal di Sgarbi, anche se qui era blu e non rossa) e si volle distinguere "Rinascita dei Valori" non adottando una font bastoni (Impact), ma un più tradizionale Times New Roman grassetto corsivo, con maiuscole e minuscole stavolta (ricordando comunque nella disposizione la scelta fatta dalla Lista Di Pietro con l'espressione "Italia dei Valori", non ancora diventata per tutti nome del partito).
Con quel simbolo, i Pensionati uniti - Fipu parteciparono appunto alle regionali del Lazio, appoggiando - e nessuno oggettivamente si stupì - il candidato del centrodestra Francesco Storace. Questi vinse senza grossi problemi, battendo l'uscente Piero Badaloni con il 51,29%; a Roma, peraltro, il distacco risultò più contenuto (50,12% contro 46,96%) e lì anche lo 0,6% ottenuto dalla Fipu - con 1521 preferenze di De Jorio, comunque un numero di tutto rispetto - concorse a far prevalere il candidato espresso da Alleanza nazionale. Con lo 0,54% ottenuto a livello regionale, i Pensionati uniti non riuscirono a ottenere un eletto (negato anche al Partito socialista di Gianni De Michelis, le cui liste in quell'occasione ospitavano anche candidati di Rinascita socialdemocratica di Luigi Preti e arrivarono poco sopra la Fipu, con lo 0,61%), ma ottenne comunque un risultato migliore rispetto al Partito democratico cristiano di Flaminio Piccoli (e tra i suoi candidati c'era anche Dario Di Francesco, futuro fondatore di Forza Roma), ai Liberal Sgarbi e alla lista Democrazia moderna.
Come anticipato, nello stesso giorno indicato per le elezioni regionali i Pensionati uniti parteciparono anche ad altre consultazioni locali. Tra queste, si può citare il comune di Guidonia Montecelio, in cui la Fipu sostenne il candidato sindaco del centrodestra Stefano Sassano (poi risultato vincitore al ballottaggio) insieme a Forza Italia, Alleanza nazionale e Ccd. Quella partecipazione non andò benissimo (111 voti, poco meno dello 0,3%), ma si ricorda sia per un discreto maltrattamento grafico del simbolo dei Pensionati uniti (a patto di guardarlo bene), sia perché il contrassegno di lista comprendeva anche l'emblema del Movimento nazionale disoccupati italiani, un soggetto politico che meriterebbe - e avrà in seguito - più attenzione. 
Nel 2001 i Pensionati uniti non parteciparono alle elezioni politiche (tanto più che De Jorio era rimasto comunque scottato dall'esperienza delle regionali laziali: nel suo libro ricorda che Storace avrebbe promesso di attribuire "a un rappresentante dei Pensionati la carica di Difensore civico della Regione Lazio", ma dopo la vittoria del centrodestra così non avvenne). Si decise comunque di depositare il contrassegno presso il Ministero dell'interno, anche per dare in qualche modo prova - pure attraverso il rito della fila davanti al Viminale e dell'esposizione in bacheca - della propria esistenza in modo ufficiale. Quel contrassegno era quasi identico a quello visto alle regionali dell'anno prima, salvo che per un piccolo dettaglio (la scritta "Rinascita dei valori" non era più in corsivo); in compenso, il "comparto pensionati" tra i simboli si era fatto più affollato. Oltre a quelli di De Jorio e Fatuzzo (nel frattempo eletto al Parlamento europeo nel 1999), infatti, c'erano anche i simboli dei Pensionati e invalidi (di Luigina Staunovo Polacco), di Pensioni e Lavoro (del vulcanico Gran Cancelliere Ugo Sarao) e l'Unione Pensionati (presieduta da Giovanni Parisi, ragusano di origine, trasferito a La Spezia): quest'ultimo simbolo - in un un primo tempo ammesso - fu ricusato dopo che l'Ufficio elettorale centrale nazionale ebbe accolto l'opposizione dei Pensionati di Fatuzzo, visto che portava la parola "Pensionati" blu, in evidenza, su fondo bianco. Nel conto occorre mettere anche la Lega Pensionati che figurava nella parte bassa del simbolo della Lega per l'autonomia - Alleanza lombarda (una storia di cui converrà parlare più in là).
Il partito di Filippo De Jorio per alcuni anni non avrebbe dato particolari segni di vita; sarebbe però tornato di nuovo al Viminale, con un simbolo rinnovato e una presenza più diffusa sul territorio nazionale. Il tempo sarebbe arrivato nel 2006 e tutto si sarebbe consumato nel giro di poche settimane; la storia, però, merita di essere trattata in futuro, con lo spazio che occorre. 

lunedì 23 agosto 2021

1994: la Lega immigrazione no di Gremmo mancò l'approdo in Liguria

Il 1994 si prospettava come un anno davvero difficile per Roberto Gremmo, soprattutto dopo le novità assai poco gradevoli che gli aveva riservato l'anno precedente. La mancata rielezione in consiglio regionale in Valle d'Aosta era stata un brutto colpo per lui, così come l'abolizione dell'esonero dalla raccolta firme alle elezioni amministrative e regionali per i partiti che erano rappresentati in Parlamento lo era stato per il suo progetto politico autonomista. Per essere presenti alle elezioni comunali e provinciali - per le quali si sarebbe continuato ad applicare il sistema a elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia - occorreva infatti di nuovo andare territorio per territorio in cerca di sottoscrizioni o avere referenti locali in grado di fare lo stesso. Una cosa relativamente facile per un partito strutturato a livello nazionale o almeno regionale (ugualmente tenuto a raccogliere le firme), ma ben più onerosa per un gruppo che disponeva di minor forza e, pur essendo riuscito con abilità e un po' di fortuna ad approdare in Parlamento con un rappresentante, avrebbe dovuto faticare molto di più per farsi conoscere comune per comune.
La situazione per Gremmo non era semplice neanche nel suo Piemonte. Da una parte, la Lega Nord era cresciuta moltissimo, arrivando al 23,35% alle comunali di Torino, risultando il primo partito (ma Domenico Comino era rimasto fuori dal ballottaggio per aver avuto meno voti personali di Valentino Castellani, che poi al secondo turno aveva battuto lo sfidante Diego Novelli); dall'altra si profilava una concorrenza insidiosa. 
Da La Stampa del 10 febbraio 1993, pag. 35
Alle stesse elezioni del 1993, infatti, si era proposto come sindaco anche 
Claudio Pioli, eletto nel 1992 deputato con la Lega Nord, ma iscritto al gruppo misto dal 23 febbraio 1992, giusto un paio di settimane dopo la chiusura del congresso piemontese leghista che aveva confermato segretario Gipo Farassino (di stretta osservanza "bossiana"), alla fine non sostenuto da Pioli. Proprio Pioli era stato indicato come possibile candidato alla segreteria da Renzo Rabellino, eletto nel 1990 consigliere regionale con la Lega Nord Piemont nella circoscrizione di Torino (dietro a Farassino, nel 1992 divenuto deputato). Rabellino, espulso dalla Lega e passato anch'egli al gruppo misto, all'indomani dell'espulsione aveva annunciato una rifondazione della Lega nel segno del federalismo, del liberismo economico e dell'attenzione alle minoranze. 
Il progetto sarebbe diventato più concreto in seguito (come Lega per il Piemonte), ma già alle elezioni comunali del 1993 c'era stato il tempo per mettere in piedi una lista a sostegno di Pioli, denominata Lega per Torino e contrassegnata da una stilizzazione della Mole Antonelliana blu (come il profilo del centro cittadino) su fondo giallo. La Lega Nord aveva protestato contro l'ammissione di quel simbolo (e anche di quello della Lega vento del Nord, a sostegno del candidato dei Verdi-Verdi Maurizio Lupi e con all'interno la "pulce" della Lega alpina lumbarda di Gremmo e De Paoli), ma l'emblema era rimasto al suo posto. Alla fine Pioli aveva ottenuto l'1,73%, ma la Lega per Torino aveva raccolto il 2,12%: se quei voti fossero andati a Comino, al ballottaggio ci sarebbe andato certamente lui e la sfida con Novelli sarebbe stata di sicuro interesse. A Gattinara, addirittura, dove la Lega Nord non era riuscita a presentare la propria lista, la Lega per Gattinara (sempre del gruppo Pioli-Rabellino) era arrivata al 31,18%, poco più di quattro punti sotto la lista vincitrice. Farsi strada in Piemonte, dunque, era sempre più difficile, anche per chi - come Gremmo - per anni era riuscito a emergere in varie situazioni, a dispetto delle tante batoste ricevute.
Nel 1994 erano previste le elezioni europee, ma finita l'esperienza del governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi erano sempre più vicine anche le elezioni politiche. Le norme con cui si sarebbe votato erano note da mesi, cioè fin dall'entrata in vigore delle leggi nn. 276 e 277 del 1993, nate sulla spinta del referendum elettorale di quell'anno (che aveva cancellato la distribuzione proporzionale dei seggi al Senato): proprio quelle ribattezzate da Giovanni Sartori - sul Corriere della Sera nell'editoriale del 19 giugno 1993 - Mattarellum, visto che relatore di quelle disposizioni alla Camera era stato Sergio Mattarella (e il nomignolo affibbiato al deputato Dc, attuale Presidente della Repubblica, non era proprio un complimento).
Non solo le leggi elettorali erano note per tempo; dalla fine del 1993 erano ufficialmente noti anche i collegi uninominali che l'apposita commissione - guidata dal presidente dell'Istat, Alberto Zuliani e composta da vari docenti ed esperti, incluso Antonio Agosta, viceprefetto e capo dell'ufficio legislativo del ministro per le riforme elettorali ed istituzionali, Leopoldo Elia - aveva individuato per la Camera e per il Senato (i collegi plurinominali - circoscrizioni della Camera, invece, si trovavano già come allegato alla legge n. 277/1993, mentre al Senato la distribuzione dei seggi non assegnati nei collegi uninominali sarebbe avvenuta su base regionale, accogliendo l'indicazione dell'art. 57 della Costituzione). C'erano dunque tutti gli strumenti per poter riflettere a dovere sulle candidature, cercando di prevedere il funzionamento della nuova legge elettorale.
Anche Gremmo, dunque, rifletteva sugli spazi che avrebbe potuto trovare con la nuova legge, anche fuori dal Piemonte. "La distribuzione dei seggi al Senato, in effetti, era molto interessante per noi - spiega Gremmo oggi - proprio perché prevedeva la ripartizione proporzionale su base regionale dei seggi che non venivano assegnati nei collegi uninominali". Il meccanismo, un po' complesso, merita di essere ripercorso in breve. Per Palazzo Madama non erano previste due schede come per Montecitorio (una per il rispettivo collegio uninominale, una per il relativo collegio-circoscrizione plurinominale): ce n'era una sola, di colore giallo, sulla quale erano stampati i nomi delle persone candidate nel rispettivo collegio uninominale; a ciascun nome era affiancato un solo contrassegno (alla Camera i simboli a fianco della persona candidata potevano essere fino a cinque). 
Circa i tre quarti dei seggi assegnati (su base demografica) a ogni regione erano attribuiti nei collegi uninominali al candidato più votato; il restante 25% dei seggi era invece distribuito tra i gruppi di candidati contrassegnati dallo stesso simbolo in ragione proporzionale. Il modo in cui ciò avveniva però era interessante per le forze minori: per non favorire troppo i partiti e i "cartelli" tra forze politiche che avevano già vinto nei collegi uninominali, il numero di voti di ciascun gruppo di candidati distinto dallo stesso simbolo si calcolava sommando solo i voti ottenuti dai candidati non eletti nei collegi uninominali. In questo modo, anche qualche forza politiche che avesse ottenuto con i suoi candidati buone percentuali (pur non vincendo nemmeno un collegio) avrebbe potuto sperare di ricevere un seggio in seconda battuta. Ovviamente, però, i posti da distribuire non erano infiniti, trattandosi del 25% dei posti disponibili in ogni Regione: si andava dall'unico seggio non uninominale del Trentino-Alto Adige ai 12 della Lombardia. Più basso era il numero dei seggi da distribuire con il "recupero" proporzionale, meno c'era spazio per forze diverse da quelle che avevano vinto almeno un collegio uninominale in regione (anche se i simboli più vittoriosi erano altri); al contrario, con l'incremento dei seggi della quota proporzionale aumentavano anche le possibilità di ottenere eletti per i contrassegni che si erano distinti pur senza vincere nemmeno un seggio e non arrivando nemmeno secondi o terzi a livello regionale.
Si trattava di puntare di nuovo sul Senato per cercare di ottenere un seggio
, come aveva fatto nel 1992 la Lega Alpina Lumbarda, ma stavolta le possibilità erano meno e i calcoli erano più difficili. Come detto, poi, si trattava di capire dove e come presentarsi per sperare di avere qualche possibilità. Si è già accennato alle difficoltà per Gremmo in Piemonte: al di là dell'exploit del Carroccio del 1993 (che avrebbe senz'altro giovato alle candidature comuni con Forza Italia che i leghisti si apprestavano a presentare), si stavano già muovendo Renzo Rabellino e Claudio Pioli con la loro Lega per il Piemonte, il cui simbolo - con il classico drapeau piemontese accostato al giallo e al blu, presi direttamente dalla cromia torinese - aveva già iniziato a circolare da qualche mese, per cui era difficile pensare che ci fosse altro spazio (Gremmo ricordava bene gli effetti deleteri della corsa separata dei piemontesisti alle politiche del 1987, in più il nuovo sistema elettorale avrebbe reso la corsa ancora più difficile). Anche la Lombardia era già al completo: fuori dai due schieramenti principali che si stavano formando, c'era appunto la Lega alpina lumbarda del senatore uscente 
Elidio De Paoli, in cerca di riconferma, ma era probabile che pensasse a candidature autonome anche il gruppo legato a Pierangelo Brivio e alla moglie Angela Bossi, sorella di Umberto, da tempo in rotta con il Senatùr ma anche non in ottimi rapporti con De Paoli.
Dove altro, dunque, si poteva tentare la presentazione? L'ideale sarebbe stato scegliere una regione non troppo lontana, così da poterla raggiungere senza troppi problemi, in cui si poteva contare già su qualcuno in loco e nella speranza che non ci fossero troppe liste a contendersi i seggi del "recupero proporzionale". A conti fatti, l'unica regione che rispondeva almeno ai primi due requisiti era la Liguria: lì infatti c'era Aldo Coppola, con cui nella seconda metà degli anni '80 Gremmo aveva fondato la Lega ligure, presentandosi anche ad alcune elezioni amministrative e cercando di unire le forze nella circoscrizione Nord-Ovest in vista della presentazione della lista dell'Union Piemonteisa (Piemont - Lombardia autonomista), poi sfumata a causa della mancanza di un pugno di certificati elettorali.
Di certo però in quell'occasione non si sarebbe potuta rispolverare la Lega ligure, come non avrebbe avuto senso schierare un movimento dichiaratamente piemontesista nel nome; quanto alla Lega alpina, non doveva essere parsa una proposta appetibile in Liguria. Occorreva qualcosa di diverso, che andasse oltre lo "steccato" autonomista e che fosse in grado di fare breccia tra le persone. Gremmo a quel punto ripensò al progetto di lista contro la droga e l'immigrazione clandestina, concepito e lanciato con grande clamore nel 1989 in vista delle comunali torinesi dell'anno dopo, ma mai finito sulle schede perché nel 1990 poco prima delle elezioni il Parlamento aveva sensibilmente aumentato le firme necessarie per sostenere le liste. Quel progetto poteva tornare buono una manciata di anni dopo, un po' rivisitato: Gremmo ritenne opportuno lasciare da parte il tema della droga (e il simbolo del teschio con la siringa, d'impatto ma decisamente macabro) per concentrarsi sull'immigrazione clandestina, avvertita come un problema da varie persone in molte regioni del Nord, Liguria inclusa.
Trovata l'idea, la prima cosa da fare era concepire il contrassegno. Si optò per una grafica in bianco e nero, per renderla comunque efficace e diretta. Dagli ultimi progetti politici di Gremmo il simbolo riprese la parola "Lega", scritta in carattere bastoni con la "A" a forma di triangolo rettangolo; la difficoltà di visualizzare in modo immediato e non troppo attaccabile il contrasto all'immigrazione portò a scrivere semplicemente "immigrazione no", ponendo la parola "immigrazione" su una fascia nera (non a caso...) che veniva tagliata e squarciata da una spada impugnata. 
"Devo anche dire - ricorda Gremmo - che, al di là del tema scottante dell'immigrazione, non potevano escludere che qualche elettore, vedendo sulla scheda un simbolo con la scritta 'Lega no' e una spada impugnata, senza pensarci troppo avrebbe potuto dare il voto a noi invece che allo spadone di Alberto da Giussano". Non era certo automatico che le cose potessero andare così, ma non era nemmeno un'idea del tutto campata in aria: a quelle elezioni, infatti, le schede del Senato non avrebbero contenuto candidature legate al 
simbolo del Carroccio puro e semplice, bensì a quello del Polo delle libertà, con la statua del guerriero di Legnano sopra la bandierina di Forza Italia alla prima uscita. Con quella nuova grafica, dunque, poteva essere meno immediato riconoscere il simbolo della Lega Nord e gli elettori avrebbero potuto votare con qualche esitazione in più. 
Fatto preparare il simbolo, occorreva depositarlo al Ministero dell'interno
, tra l'11 e il 13 febbraio 1994. Ci andò Anna Sartoris, la moglie di Gremmo, con una certa calma, come dimostra il numero d'ordine piuttosto alto (219) con cui figura tra i contrassegni ammessi: collocato subito dopo gli emblemi del Polo delle libertà, del Ppi e della Lega alpina lumbarda, quello della Lega immigrazione no si sarebbe potuto presentare soltanto in Piemonte e in Liguria (alla Camera e al Senato). In quell'anno da record per i simboli depositati (ne risultarono ammessi addirittura 304, rispetto ai 320 depositati, entrambi numeri da primato assoluto), peraltro, tra i primi spiccava il contrassegno della Lega per l'autonomia del Nord, presentato da Pierangelo Brivio e Angela Bossi per il deposito delle liste in varie regioni settentrionali. 
Quanto al gruppo di Rabellino, depositò la Lega per il Piemonte, insieme ad altri emblemi che sarebbero tornati utili alla Camera: oltre al Piemont Liber già visto nel 1992 (ecco svelato, probabilmente, chi lo aveva concepito...), furono depositati Unione per il federalismo, Ivrea provincia, Gruppo autonomia ossolana e Alba provincia. Questi, in particolare, sarebbero serviti come simboli di appoggio ai candidati della Lega per il Piemonte, messi accanto all'emblema di quest'ultimo sulla scheda rosa dei collegi uninominali della Camera interessati: Sergio Sbaffo a Verbania fu appoggiato da Lega per il Piemonte, Unione per il federalismo e Ossola libera; quest'ultimo venne sostituito da Alba provincia per la candidatura dello stesso Rabellino nel collegio di Alba e così via. Quei simboli sarebbero stati anche un test: in base ai voti presi qua e là, si sarebbe forse capito quali simboli sarebbero tornati utili anche in futuro, per nuovi appuntamenti elettorali.
L'esame del Viminale non riservò sorprese a Gremmo e a Rabellino, i cui emblemi furono tutti ammessi. Ebbe disco rosso, invece, il simbolo della Lega per l'autonomia del Nord, perché la combinazione di parole "Lega" e "Nord" in evidenza fu ritenuta confondibile con il simbolo della Lega Nord. Brivio e sua moglie Angela Bossi dovettero correre in fretta ai ripari: conservarono la rosa camuna presente sul fondo azzurro (che nessuno aveva contestato) e modificarono la dicitura presente sul contrassegno in "La Lega di Angela Bossi". Il simbolo in quel caso fu ammesso: probabilmente Umberto, fratello di Angela, non era contento, ma allora la Lega Nord non aveva inserito il cognome del suo leader nel simbolo e in ogni caso l'inserimento del prenome (peraltro con la stessa grandezza del cognome e non furbescamente più piccolo, come in seguito spesso sarebbe avvenuto) aveva scongiurato ogni ulteriore confondibilità. 
Nessun problema invece per un altro emblema depositato dal gruppo di Brivio, cioè Alleanza lombarda, per esteso Lega per l'autonomia - Alleanza lombarda, evoluzione del soggetto che nel 1990 aveva portato lo stesso Brivio in consiglio regionale in Lombardia e che nel 1993 era apparso sulle schede elettorali delle comunali a Milano, a sostegno appunto della candidatura di Angela Bossi. Questa volta era sparita la rosa camuna (anche perché era stata già usata nel contrassegno depositato poco prima) e il fondo era stato colora di blu, con un cerchio azzurro al centro (in stile 45 giri, ma un po' eccentrico) recante l'ulteriore riferimento alla Lombardia. Difficile pensare che i depositanti pensassero davvero di usare l'emblema, tanto più che come circoscrizioni erano state indicate Toscana e Lazio: una destinazione oggettivamente improbabile.
Il simbolo di Roberto Gremmo e Anna Sartoris, dunque, aveva superato l'esame del Viminale (e in fondo non era scontato: è vero che anche in seguito contrassegni contrari all'immigrazione, anche più irritanti sul piano grafico, sarebbero ugualmente stati ammessi, ma oggi forse un emblema simile avrebbe qualche difficoltà in più). Il vero ostacolo da superare, tuttavia, era ancora una volta costituito dalla raccolta delle firme: per la nuova legge ne servivano tra 500 e 1000 per ogni collegio uninominale alla Camera (e un numero variabile di firme, a seconda della popolazione, per presentare liste nelle circoscrizioni per la quota proporzionale) e tra 1000 e 1500 per ogni collegio uninominale al Senato. Oggettivamente non erano poche, ma agli occhi di Gremmo valeva comunque la pena tentare quella "operazione Liguria", cercando di coprire almeno i tre collegi di Genova, cioè i più popolosi e dunque più appetibili per la ricerca dei voti; del resto, secondo l'ideatore del progetto proprio nel capoluogo era più forte la tensione legata all'immigrazione, quindi sarebbe stato più semplice trovare persone disposte a firmare e magari anche a votare per il simbolo della Lega immigrazione no.
"Decisi di investire un po' di soldi in quell'impresa - racconta ancora Gremmo - e andai più volte a Genova con mio figlio Gabriele per raccogliere le firme: là ci davano una mano Coppola e un paio di altre persone che pagavamo per il supporto. Il ritmo della raccolta era buono, nonostante il freddo: una volta addirittura nevicò e, per proteggerci durante i banchetti, ricordo che comprai un passamontagna per me e mio figlio". Il tempo a disposizione non era molto; in ogni caso, le firme arrivavano e Gremmo iniziava a pensare che l'obiettivo fosse a portata di mano.
Dopo circa una settimana dall'inizio della raccolta, però, arrivò una telefonata da Coppola: "Gremmo, è il caso che vieni qui: abbiamo un problema". Lui per l'ennesima volta partì e chiese a Coppola cosa fosse successo: "Mi disse - continua il suo ricordo - che la persona che avevamo chiamato per autenticare le firme, in qualità di giudice conciliatore, di fatto non aveva più quell'incarico e dunque non aveva più titolo nemmeno per autenticare le firme; i fogli con le sottoscrizioni, però, li aveva tenuti lui e si rifiutava di consegnarceli. Io mi arrabbiai molto, anche perché per quelle autenticazioni era già stato profumatamente pagato, quindi chiesi a Coppola quali alternative avessimo: lui mi disse che avremmo potuto denunciarlo, ma non lo avrei mai fatto anche perché non saremmo comunque riusciti a riottenere quei moduli pieni di firme in tempo. Non c'era nemmeno il tempo di ripartire daccapo con la raccolta firme cercando un altro autenticatore: non potemmo far altro che rinunciare". 
La sortita elettorale ligure di Gremmo con il nuovo simbolo, dunque, non ci fu: lui, certamente deluso per la nuova battuta di arresto, dovette accontentarsi di inserire la moglie Anna Sartoris come candidata della Lega alpina lumbarda nel collegio senatoriale di Vigevano (dove comunque avrebbe ottenuto il 4,35%). Alla fine le persone candidate con quel simbolo - incluso il già citato Attilio Daniele Capra de Carré e vari altri membri di quella famiglia - il 27 e 28 marzo 1994 ottennero a livello regionale il 4,31% al Senato: meno di Alleanza nazionale al suo esordio (6,66%) ma più della Lista Pannella - Riformatori (3,82%). Queste tre formazioni, grazie anche all'alto numero di seggi distribuiti con il "recupero proporzionale", elessero un rappresentante a testa a Palazzo Madama: l'eletto per la Lega alpina lumbarda fu di nuovo Elidio De Paoli, confermato stavolta nel collegio di Albino. 
La partita in Liguria sarebbe stata comunque difficile: i Progressisti vinsero 4 collegi uninominali su 6, il Polo delle libertà si aggiudicò gli altri 2 e si vide assegnare altri 2 seggi nella quota proporzionale; l'ultimo rimasto toccò al Patto per l'Italia, che a livello regionale aveva ottenuto il 14,84% (sarebbe stato davvero arduo raggiungere quel livello per un progetto nuovo, non nazionale e non nato in Liguria, peraltro con una presenza nei soli collegi di Genova). Quanto al Piemonte, si divisero i seggi il Polo delle libertà, i Progressisti, il Patto per l'Italia e Alleanza nazionale (8,66%), mentre la Lista Pannella - Riformatori con il 4,4% rimase fuori: per la Lega per il Piemonte, che si fermò all'1,83%, non ci fu nulla da fare, ma anche per Gremmo ottenere un seggio sarebbe stato quasi impossibile.
Alle europee tenutesi il 12 giugno 1994 Pierangelo Brivio riprovò a presentare il simbolo originario della Lega per l'autonomia del Nord, ma fu bocciato di nuovo; questa volta si oppose alla sostituzione, ma la sua opposizione fu rigettata dall'Ufficio elettorale nazionale per il Parlamento europeo per la mancata notifica di quella stessa opposizione alla Lega Nord, evidente controinteressata. Tornò invece in bacheca e sulle schede il simbolo della Lega alpina lumbarda, agevolato dall'esenzione dalla raccolta firme, vista la presenza in Parlamento di De Paoli; questa volta, però, al posto dell'alpino e del profilo montuoso, furono inseriti i riferimenti agli stemmi di Piemonte (lambello), Lombardia (croce di San Giorgio) e Veneto (leone di San Marco), tutti interpretati in bianco, azzurro e blu. E proprio perché non c'era bisogno di firme, le liste furono presentate in tutte e cinque le circoscrizioni, anche dunque al Centro, al Sud e nell'Italia insulare: in tutte le liste era presente Anna Sartoris, ma c'erano altri nomi riconducibili a Gremmo, come Alberto Seghesio e Gianpiero Carlo Riva Vercellotti. A livello nazionale, tuttavia, la lista si fermò allo 0,34% e nella circoscrizione Nord-Ovest non andò oltre lo 0,67%, superata anche dalla Lega di azione meridionale di Giancarlo Cito (0,72%) anche grazie all'adesione di Maurizio Lupi dei Verdi-Verdi. Lui aveva preso 757 preferenze, Anna Sartoris 743: si era battuta bene, ma non era bastato.
Oggettivamente il 1994 non era stato facile per i progetti di Gremmo. Da lì in avanti lui sarebbe tornato essenzialmente al suo lavoro di maestro e avrebbe intensificato la sua attività di studioso (producendo numerose pubblicazioni proprio dal 1994); sarebbe venuto il tempo di altre battaglie, ma conviene parlarne in un'altra occasione.

giovedì 19 agosto 2021

Toscana Futura alle regionali 2005: un "buco bianco" della democrazia?

Fu un anno rilevante il 2005 nella storia delle elezioni regionali
. Per la seconda volta, in seguito alla riforma costituzionale del 1999, il corpo elettorale poteva scegliere direttamente la persona che avrebbe presieduto la giunta regionale (anche se già nel 1995, alla prima applicazione della "legge Tatarella", si sapeva che il capolista del "listino" maggioritario di coalizione sarebbe stato indicato come futuro presidente). Soprattutto, però, nel 2004 si era dato avvio al "federalismo elettorale", consentendo a ciascuna Regione - una volta rivisto il proprio statuto - di dotarsi di proprie norme per regolare l'elezione del presidente e del consiglio regionale. 
La prima Regione a provvedere era stata la Toscana (con la legge regionale n. 25/2004), la stessa che in quell'occasione - con la l.r. n. 70/2004 - aveva introdotto un sistema di "primarie pubbliche" per la scelta delle candidature nelle circoscrizioni provinciali o per la presidenza della giunta. Proprio in Toscana, peraltro, elettrici ed elettori trovarono sulla scheda uno strano simbolo "vuoto", giustificabile solo in parte con l'immagine anonima che spesso caratterizza i contrassegni pensati per i "listini" o le candidature presidenziali (per evitare che elettrici ed elettori segnino quell'emblema, invece che uno dei contrassegni di lista, unico voto in grado di concorrere davvero alla ripartizione dei seggi). Quello legato al candidato presidente Renzo Macelloni, in effetti, più che un simbolo "vuoto" era un simbolo "svuotato", privo di ogni grafica riconoscibile e persino del nome originario del progetto, Toscana Futura, che pure doveva stare sulla fascetta bianca rimasta visibile sul cerchio in primo piano. Dietro a quell'emblema "svuotato" c'era una storia complessa, fatta di accordi, progetti mutati in corsa, primarie "ritirate" ma ugualmente svolte (perché le norme non consentivano altre soluzioni), simboli recuperati e ricorsi per impedirne l'uso. Si tratta di una vicenda poco nota, che merita di essere ricostruita e ripercorsa, carte alla mano.

I primi passi di Toscana Futura

La storia che si racconta iniziò ufficialmente l'8 novembre 2004
, quando i media diedero notizia di una riunione, tenutasi il giorno prima all'hotel San Gallo Palace di Firenze, che aveva posto le prime concrete basi di un possibile "terzo polo", come ormai c'era l'abitudine di chiamare quasi ogni proposta alternativa alle coalizioni di centrosinistra e di centrodestra. Il lavoro, tuttavia, era iniziato varie settimane prima, essenzialmente su impulso di due soggetti politici. 
Il primo era il Gruppo I Centouno, fondato e guidato da Nicola Cariglia (a lungo giornalista e dirigente Rai, vicesindaco di Firenze negli anni '80 e tuttora presidente della Fondazione Filippo Turati, fondata dal fratello Antonio Cariglia, già segretario del Psdi). Si trattava di un soggetto laico e votato alla libertà di pensiero (come testimoniava anche il sito a questo collegato, www.pensalibero.it, ancora attivo), attivo soprattutto nel fiorentino, cui facevano riferimento persone di area socialista, socialdemocratica, liberale e repubblicana (aderenti o meno a un partito): si trattava di un'aggregazione nata dal "profondo disagio [...] di chi si rende conto che tutta un'area liberale e laica, legata ai valori che sottendono la civiltà liberal-democratica e a quelli altrettanto importanti di equità sociale ('meriti e bisogni'), non trova più una efficace rappresentazione nei due 'poli' né sulle questioni interne, né sulle questioni internazionali" e con l'intenzione di cogliere le opportunità offerte da varie lacerazioni politiche a livello nazionale e da un numero consistente di elezioni in pochi anni. L'emblema, a suo modo, stilizzava la corolla di una rosa o di un garofano; quanto al numero - ancora non legato ai franchi tiratori che avrebbero impallinato Prodi nel 2013 nei voti per il Quirinale - questo era apparso sulla scheda elettorale delle amministrative a Firenze in quello stesso 2004, all'interno della lista Liberali Saldarelli Sgarbi, nella quale Cariglia era risultato il più votato dei candidati dopo il critico d'arte (la lista ottenne l'1,06%, con una propaganda elettorale e una "pubblicità" ridotta al minimo).
Il secondo soggetto politico promotore del "terzo polo" era rappresentato dalla Federazione dei Liberali, vale a dire la formazione che rappresentava la maggiore continuità politica (e in un certo senso giuridica) con il Partito liberale italiano, visto che si costituì il 6 febbraio 1994, al "congressificio" dell'hotel Ergife di Roma, da quasi tutte le stesse persone che poche ore prima - nello stesso albergo - avevano deciso lo scioglimento del Pli. Quella prima assemblea, che aveva indicato come presidente Alfredo Biondi, aveva eletto due vicepresidenti, uno dei quali era Raffaello Morelli (nato a Pisa ma da anni attivo a Livorno). Questi (già vicepresidente del Pli) sarebbe diventato in seguito coordinatore della Fdl (di cui era stata confermata l'iscrizione all'Internazionale liberale e all'Eldr), poi - dal secondo congresso del 1995 - segretario e più in là di nuovo presidente. Da alcuni anni l'attività della Federazione dei Liberali è decisamente ridotta, ma nel nel 1996 e nel 2001 il partito aveva sostenuto l'Ulivo (pur rimarcando l'idea che dovesse restare una coalizione senza mai diventare un partito unico, entrando dunque in frizione con chi sosteneva questa tesi), mentre proprio nel 2004 aveva stretto un accordo con il Patto Segno-Scognamiglio, in base al quali lo stesso Carlo Scognamiglio Pasini si sarebbe dovuto iscrivere al gruppo Eldr se fosse stato eletto (cosa che non avvenne).
Entrambi i gruppi, dunque, erano animati dall'idea di proporre un progetto convincente per l'area laica, ma soprattutto realmente alternativo sia al centrosinistra che aveva governato la regione, sia al centrodestra che - tra l'altro - aveva concorso all'approvazione della nuova legge elettorale con cui si erano abolite le preferenze, in favore delle liste "bloccate". I primi accordi tra Cariglia e Morelli avevano già prodotto, negli ultimi giorni di ottobre del 2004, un appello formalmente lanciato dal Gruppo I Centouno (il soggetto più radicato dei due nella società civile) per preparare "un incontro tra i partiti e le organizzazioni di ispirazione laica, liberale e socialista, allargato anche ai radicali e alle decine di liste civiche presentatesi un po’ dovunque, in Toscana, alle recenti elezioni amministrative", volto a concordare un programma competitivo per le regionali del 2005.
Oltre ai Centouno e alla Federazione dei Liberali, al primo incontro del 7 novembre 2004 parteciparono esponenti di varie forze politiche, interessate a vario titolo a rendere concreto quel progetto elettorale nei mesi che restavano prima dell'appuntamento con le urne. La più rilevante di tutte, anche per notorietà a livello nazionale e per organizzazione a livello regionale, era il Partito socialista - 
Nuovo Psi, che da pochi mesi esprimeva il sindaco di Villafranca in Lunigiana: non si trattava certo di un soggetto qualunque, rispondendo al nome di Lucio Barani, già sindaco di Aulla (dal 1990 al 2004), futuro segretario del partito e parlamentare ultracraxiano e a dir poco vulcanico nelle sue iniziative.
Oltre al Nuovo Psi, al "tavolo" c'erano anche il Partito liberale di Stefano De Luca (che nel giro di un mese avrebbe ripreso il nome originario del Pli), il Partito repubblicano italiano, il Psdi, nonché rappresentanti dell'area e delle associazioni radicali, delle altre forze socialiste che avevano partecipato alla lista dei Socialisti uniti per l'Europa pochi mesi prima alle europee (coloro, in particolare, che facevano riferimento a Claudio Signorile e Lino Formica) nonché di varie liste civiche operanti sul territorio regionale (quelle interessate erano, secondo i giornali, una sessantina); la stampa aveva segnalato anche la presenza di Pierluigi Piccini, già sindaco di Siena, dirigente di Mps in Francia ed espulso dai Democratici di sinistra.
Alle riunioni successive - senza i radicali - la costruzione del progetto continuò, anche se soprattutto il Nuovo Psi (cui faceva riferimento anche l'ex deputato Psi Ottaviano Colzi) cercava di prendere tempo, adducendo tra l'altro la necessità di aspettare il proprio congresso regionale - programmato per l'inizio di gennaio del 2005 - per decidere se partecipare o meno al "terzo polo". Le altre forze interessate, invece, premevano per accelerare i tempi, anche per avere la possibilità di partecipare alle primarie per la scelta del candidato alla Presidenza della giunta: la legge regionale che le prevedeva stava per concludere il suo iter (e tutte le norme elettorali regionali sarebbero state applicabili senza problemi, visto che la Corte costituzionale avrebbe respinto le censure mosse dal Governo al nuovo testo dello statuto regionale e la legge elettorale approvata pochi mesi prima sarebbe così stata pienamente valida) e cogliere l'opportunità di informare il corpo elettorale e coinvolgerlo avrebbe permesso al "terzo polo" di guadagnare in visibilità prima della vera campagna elettorale. Già a novembre, in ogni caso, circolava con sempre maggiore insistenza il nome per il progetto, cioè Toscana Futura: la denominazione - di cui Morelli rivendica la paternità - guardava espressamente ad alcune esperienze civiche fino ad allora soddisfacenti, a partire da Peccioli Futura, lista che aveva portato sulla poltrona del sindaco Renzo Macelloni. E proprio Macelloni - che, dopo essere stato sindaco del comune pisano dal 1988 al 2004, era diventato consigliere provinciale con la lista Pisa futura e, in ogni caso, nel 2014 e nel 2019 sarebbe stato eletto di nuovo sindaco dello stesso comune, sempre con Peccioli futura - era parso fin dall'inizio uno dei possibili candidati alla presidenza della Regione, dunque uno dei probabili concorrenti alle primarie cui c'era appunto l'idea di partecipare.

Verso le primarie, con nome e simbolo (e le prime difficoltà)

Quando si parla di primarie, qui, ci si riferisce ovviamente a quelle per scegliere il candidato presidente, sicuramente in grado di dare più visibilità al "terzo polo" rispetto a quelle per individuare i candidati delle liste (ugualmente previste dalla legge regionale in approvazione), magari meno conosciuti. La questione delle primarie, in ogni caso, per la nascente Toscana Futura era piuttosto delicata, per almeno due ragioni. Innanzitutto, gli esponenti del Nuovo Psi si erano dimostrati poco propensi a svolgere le primarie (che, del resto, non piacevano all'intera coalizione di centrodestra cui il partito si era legato da tempo a livello nazionale, pur con più di un malumore in varie occasioni), anche per le difficoltà legate alla tempestiva raccolta di firme prescritta dalla legge regionale. Secondariamente, l'eventuale scelta di svolgere le primarie per le candidature di lista (anzi, dei gruppi di liste) sarebbe stata strettamente legata alla decisione sul numero di liste da mettere in campo, a dicembre tutt'altro che definita.
Buona parte dei promotori del progetto politico, infatti, ragionava su uno schieramento "a tre punte", che sarebbero potute diventare quattro se Radicali italiani avesse scelto di presentare una propria lista (cosa che in quella fase sembrava già piuttosto improbabile, anche se ancora a gennaio si sarebbe demandata la scelta a decisioni del livello nazionale): un primo gruppo di liste avrebbe riunito le forze laiche (in particolare la Federazione dei Liberali, il Pli di De Luca, il Psdi, il Pri e parte del gruppo I Centouno), un altro sarebbe stato interamente socialista (guidato dal Nuovo Psi, ma comprendente anche le altre compagini di quell'area) e un terzo sarebbe stato espressione delle varie liste civiche coinvolte in Toscana Futura. Questa era, appunto, la posizione di Centouno, liberali, repubblicani e liste civiche; in casa socialista, invece, le posizioni erano più disomogenee. Se i sostenitori di Signorile e Formica erano incerti sulle primarie, ma concordavano con l'idea di organizzare tre liste distinte, il Nuovo Psi continuava ad avversare le primarie e - il 5 gennaio 2005, in un incontro pubblico tenuto a Firenze, a Villa Arrivabene (sede di una delle circoscrizioni) - disse esplicitamente di preferire la presentazione di una sola lista, chiaramente riconducibile al Nuovo Psi, pur aperta all'apporto di altre forze laiche e civiche; in questa opzione, anche il candidato alla presidenza della Regione sarebbe stato socialista, ma - come ricorda Morelli in un lungo post sul suo blog, dal quale qui si attinge in un buona parte per ricostruire la vicenda - il Nuovo Psi sarebbe stato disponibile a discutere con le altre forze della coalizione per individuare il nome più adatto.
Il fac simile della scheda pubblicato sul BURT
La scelta tra le due opzioni non era solo influenzata da ragioni e visioni politiche, ma era legata anche a valutazioni tecnico-tattiche sugli effetti della nuova legge elettorale: per approfondire il funzionamento ci si permette di rinviare a un contributo scritto nel 2017 con Antonio Folchetti per la rivista giuridica Diritti regionali, ma qui basterà richiamare alcuni dettagli importanti. 
La nuova legge elettorale prevedeva che si affrontassero candidati alla presidenza della giunta regionale, ciascuno dei quali poteva essere sostenuto da un unico gruppo di liste provinciali (distinte ovviamente dallo stesso contrassegno) oppure da una coalizione di gruppi di liste provinciali (ognuno dei quali distinto da un emblema diverso); lo stesso candidato alla presidenza era dotato di un proprio contrassegno (che, qualora fosse stato legato a un solo gruppo di liste provinciali, poteva anche essere uguale al simbolo di quella lista, ma non era certo un obbligo). Per partecipare alla distribuzione dei 63 seggi disponibili (prima della revisione dello Statuto erano 50; due, in ogni caso, erano riservati al Presidente e al suo miglior sfidante) era previsto un singolare sistema di soglie di sbarramento, diverso da quello stabilito dalla normativa nazionale "cedevole": se la persona candidata alla presidenza della giunta aveva raggiunto il 5%, le liste potevano accedere alla ripartizione dei seggi raggiungendo anche solo l'1,5% a livello regionale; in caso contrario, il gruppo di lista doveva aver raggiunto autonomamente il 4% per ottenere almeno un rappresentante in consiglio. 
La lista delle europee 2004
Traducendo in concreto questo meccanismo e seguendo la ricostruzione della vicenda proposta da Raffaello Morelli, gli esponenti del Nuovo Psi "puntavano al 4% con il loro solo simbolo ed erano sicuri di raggiungerlo se nella loro lista fossero entrate anche le altre componenti", senza dunque fare affidamento sul risultato del candidato alla presidenza (o su eventuali voti disgiunti che gli avrebbero potuto consegnare un risultato migliore rispetto a quello del gruppo di liste collegato); i socialisti vicini a Signorile e Formica, peraltro, si erano detti disponibili a entrare non in una lista del Nuovo Psi, ma solo in un'aggregazione simile a quella cui avevano partecipato alle elezioni europee del 2004. 
Le altre forze laiche e civiche, invece, insistettero sulla "scarsa possibilità di aggregare l'elettorato socialista con quello proveniente dalle civiche (quasi tutte di provenienza Ds e sinistra) e anche dai laici" (è sempre Morelli a ricordare) e sottolinearono che forse sarebbe stato più facile far arrivare al 5% il candidato presidente schierando tre liste (immaginando che quella laica potesse arrivare all'1%, mentre tanto quella socialista quanto quella civica avrebbero potuto aspirare almeno al 2%).
Nel frattempo, a quella stessa assemblea del 5 gennaio 2005 in cui erano comunque emerse due posizioni diverse quanto al modo di procedere, si era formalizzato il nome "Toscana Futura" per la coalizione, mentre si stava lavorando anche al simbolo: ricorda Morelli che "sulla parete, durante il dibattito, venivano di continuo proiettati [...] i vari loghi della coalizione tra i quali scegliere". Nei giorni successivi di gennaio si arrivò alla scelta definitiva del contrassegno della coalizione, di cui si fissò pure la descrizione, sempre riportata da Morelli: "corona circolare  color petrolio  con all'interno dita stilizzate intrecciate e multicromatiche di due mani, sullo sfondo di paesaggio collinare a colori e con una banda orizzontale nella parte inferiore riportante la scritta Toscana Futura in nero".

Primarie a tutti i costi, nonostante il ritiro

La scelta del simbolo era un tassello importante, anche perché il tempo stringeva: il 30 dicembre 2004, infatti, il presidente della giunta regionale toscana Claudio Martini aveva indetto le primarie "pubbliche", fissando come data il 20 febbraio 2005 e prevedendo la fine di gennaio come termine per la raccolta delle firme per presentare le candidature (in quella prima applicazione della legge servivano tra 2500 e 3500 sottoscrizioni per ogni coalizione interessata a partecipare alle primarie). Occorreva dunque sbrigarsi e non sembrava opportuno aspettare che il Nuovo Psi celebrasse il suo congresso alla metà di gennaio per decidere cosa fare: chi credeva nelle primarie doveva iniziare a raccogliere le firme subito.
Si mossero dunque il gruppo I Centouno, la FdL, il Pli, il Pri e le liste civiche, decidendo insieme di presentare un solo gruppo di liste: questo - è di nuovo Morelli a ricordare - si sarebbe chiamato Laici e Liste civiche "per avere tranquillità sulle firme e perché, stante la legge elettorale, se la coalizione avesse ottenuto il 5%, questo gruppo di liste avrebbe preso almeno due consiglieri regionali" (e altrettanti sarebbero andati all'eventuale altra lista socialista, con un risultato superiore al 2%) e avrebbe ripreso il simbolo della coalizione Toscana Futura, inserendo nel contrassegno il nome scelto per il gruppo di liste. Come anticipato, i candidati naturali alle primarie sarebbero stati due, cioè Nicola Cariglia per l'area laica e Renzo Macelloni per quella civica: in base a una regola interna, ricordata da Morelli, il secondo arrivato sarebbe stato comunque stato "recuperato" come "candidato regionale" alle elezioni, così da essere certamente eletto se Toscana Futura avesse ottenuto almeno un seggio.
Restava la possibilità di un terzo aspirante candidato alla presidenza, indicato dal Nuovo Psi (che peraltro insisteva, ritenendosi evidentemente più forte e strutturato, per evitare le primarie e far convergere tutti i voti del "terzo polo" su un proprio candidato e su un'unica lista con il garofano); il partito, nelle intenzioni di laici e civici, avrebbe comunque potuto presentare senza problemi una propria lista, fondamentale per il successo della coalizione. Morelli ricorda anche che si stava immaginando pure una terza lista, questa volta legata al Codacons, che pochi mesi prima alle europee aveva ottenuto lo 0,7% con la Lista Consumatori in Toscana, quindi poteva fare comodo perché la coalizione arrivasse al 5%: la trattativa fu portata avanti dallo stesso Morelli e da altri esponenti della FdL insieme ai rappresentanti regionali della Lista Consumatori (che aveva chiesto essenzialmente di essere aiutata a raccogliere le firme richieste dalla legge regionale in alcune province). Ovviamente, l'eventuale partecipazione anche dei radicali alla coalizione (insieme a socialisti e consumatori) per i promotori del gruppo di liste Laici e Liste civiche avrebbe facilitato di molto la corsa elettorale: lo misero nero su bianco, nell'accordo sottoscritto per far nascere la coalizione e il movimento che avrebbe presentato la lista.
Alla fine la richiesta per la partecipazione alle primarie fu presentata il 31 gennaio (da Morelli), con le firme raccolte solo per Cariglia e Macelloni; il giorno dopo, peraltro, Morelli e i due candidati alle primarie scrissero al presidente della Regione Claudio Martini e al presidente del consiglio regionale Riccardo Nencini, chiedendo di intervenire rapidamente per ridurre una tantum il numero delle firme necessarie per la prima applicazione della legge elettorale toscana (si era lamentato come chi avesse chiesto e ottenuto le primarie, potendo raccogliere le firme per le candidature solo dopo l'esito delle primarie stesse, avrebbe avuto meno di dieci giorni a disposizione per raccogliere le sottoscrizioni). Nencini investì della questione i capigruppo; se ne occuparono le commissioni competenti e poi il consiglio, ma non se ne fece nulla: pesarono, a quanto si sapeva, i veti di alcune forze politiche che non volevano in alcun modo favorire possibili concorrenti (in particolare è noto il veto di Alleanza nazionale, volto a non spianare la strada ad Alternativa sociale con Alessandra Mussolini: quel partito riuscì a presentare liste soprattutto grazie a molte firme autenticate da assessori provinciali dei Ds o della Margherita, con prevedibile corredo di polemiche).
Il Nuovo Psi, nel frattempo, aveva celebrato il famoso congresso regionale (eleggendo alla segreteria Ottaviano Colzi e alla presidenza Barani), aveva ribadito la propria intenzione di muoversi in alternativa ai due poli di centrodestra e centrosinistra, ma al tavolo del "terzo polo" - secondo quanto racconta ancora Morelli - aveva confermato tutte le sue richieste: il ritiro dalle primarie, la presentazione di un candidato Presidente del Nuovo Psi, la costruzione di una lista unica. Se sulle primarie e sulla candidatura a Presidente altre forze erano decisamente contrarie, qualche margine in più poteva esserci sulla questione della lista unica, ma con molti dubbi politici e tecnici, per i quali conviene lasciare la parola a Morelli (le considerazioni che seguono sono relative a un incontro dei laici con Macelloni del 9 febbraio 2005):
Quanto alla terza richiesta, eravamo tutti d’accordo che non poteva essere una lista del Nuovo Psi perché questo avrebbe avuto gravi controindicazioni politiche ed elettorali, tanto che non vi sarebbe stata neppure la disponibilità degli altri gruppi socialisti; si poteva se mai esaminare una possibilità di lista unica con il logo Toscana Futura sotto il quale inserire tre cerchietti uguali con simboli generici, bandiera, edera, garofano, per indicare le aree e non partiti precisi. 
Comunque io continuavo a ripetere quanto dicevamo da giorni come FdL e cioè che la lista unica aveva due gravi difetti. Primo, se anche si fosse riusciti ad avere un simbolo accettabile, sarebbe stato arduo escludere la sua successiva trasformazione in una lista Nuovo PSI di centrodestra, e ciò per la superiore forza mediatica nazionale di De Michelis. Secondo, una sola lista era un suicidio tecnico, perché se la lista unica fa il 4,01%  allora le due liste separate Laici-Civiche e Nuovo PSI farebbero almeno il 4,7/4,8 e dunque con i consumatori (i quali avevano nel frattempo dato l'assenso di massima) sarebbe stato agevole raggiungere il 5,0%; se la lista unica non fa il 4,00%, è impossibile sperare che il Codacons faccia più dell'1%. 
Nel giro di pochi giorni, tuttavia, la situazione mutò profondamente. Il 13 febbraio, in base al resoconto di Morelli, il Nuovo Psi si mostrò disponibile ad appoggiare Macelloni come candidato presidente (senza primarie), ma pretendeva di esprimere l'unico candidato regionale (Giuliano Sottani al posto di Cariglia) e manteneva ferma la richiesta di lista unica, il cui simbolo sarebbe stato da concordare (evidentemente con un certo rilievo per l'emblema del Nuovo Psi, che avrebbe avuto più peso anche nelle candidature); Cariglia, per parte sua, si sarebbe detto disposto a rinunciare alla posizione di candidato regionale (che, come detto, avrebbe dato maggiori garanzie di elezione, a patto ovviamente che si fossero superati gli sbarramenti previsti), ma non avrebbe mai accettato di "trasformarsi in Nuovo Psi". Morelli era invece convinto che, per rimarcare l'alterità dal centrodestra come dal centrosinistra, non si sarebbero potuti toccare né il contrassegno su cui si era raggiunto l'accordo e che aveva comunicato una certa immagine di novità (posto che la scelta della lista unica per lui restava profondamente sbagliata), né il candidato regionale (anche indicarne due, come pure la legge regionale permetteva di fare, per Morelli sarebbe stato un atto degno di "un altro disegno politico").
La scheda delle primarie di Toscana Futura
Il 14 febbraio iniziarono a circolare le prime voci di un ritiro di Toscana Futura dalle primarie
 (evidentemente per cogliere in concreto la disponibilità del Nuovo Psi ad accettare una candidatura espressa da altri), un'ipotesi fermamente respinta dalla Federazione dei Liberali, visto che tra l'altro al voto mancava meno di una settimana e la Regione aveva già fatto partire la campagna informativa, indicando espressamente i partecipanti. Dopo vari tentennamenti, il 17 febbraio Cariglia accettò di ritirarsi dalle primarie insieme a Macelloni, formalizzando il ritiro con una richiesta alla Regione perché le schede delle "loro" primarie non fossero consegnate ai seggi, adducendo anche ragioni legate a una scarsa informazione "personale" del corpo elettorale e a possibili violazioni della privacy nelle primarie così organizzate; Morelli, per parte sua, ritenendo che quel gesto togliesse molta credibilità al percorso di Toscana Futura, ribadì la propria contrarietà a quella decisione.
Sempre il 18 febbraio, tuttavia, il presidente Claudio Martini ritenne irricevibile la richiesta di ritiro di Cariglia e Macelloni: questa era stata presentata solo tre giorni prima dell'apertura dei seggi, quando "i termini di un procedimento elettorale hanno un carattere perentorio e quindi non possono essere prese in considerazione dichiarazioni di accettazione o di rinuncia di candidature presentate oltre i termini scaduti il 31 gennaio"; per il presidente della Regione l'obbligo informativo era stato ampiamente assolto e non c'erano i problemi di privacy lamentati da Cariglia e Macelloni (in effetti il Garante per la protezione dei dati personali aveva mosso alcuni rilievi informali, sia pure di altro tipo, su cui il consiglio regionale e il presidente della giunta erano però rapidamente intervenuti). 
Morale, alla fine le primarie si tennero ugualmente, tra le critiche dei due ex aspiranti candidati presidenti (che puntavano il dito contro i presidenti di seggio che ad elettrici ed elettori chiedevano se avessero voluto la scheda delle primarie dei Democratici di sinistra o quella di Toscana Futura, violando la riservatezza). Nonostante il ritiro "ufficioso", alle primarie di Toscana Futura votarono 35478 persone; le schede bianche furono un numero spaventoso (16041, pari al 45,2% delle schede votate), quelle nulle 2244, ma tra quelle valide prevalse nettamente Renzo Macelloni (9623 voti) rispetto a Nicola Cariglia (7570 voti). 

La guerra sui simboli, anche in tribunale

La situazione, peraltro, era già del tutto sfuggita di mano da alcuni giorni. Il pomeriggio del 16 febbraio, infatti, a Morelli era stato annunciato un accordo per modificare il simbolo di Toscana Futura, "con scritta socialisti e Macelloni, previa aggiunta [...] dei tre simboletti generici" (cioè un garofano, un'edera e una bandiera tricolore) e per indicare due candidati regionali, entrambi del Nuovo Psi (in seguito ridotti al solo Sottani); già questo per Morelli era inaccettabile ("una follia") e chiese un incontro immediato per ristabilire i termini degli accordi precedenti (un incontro che non si tenne mai). 
Il tavolo saltò però del tutto quando, il 18 febbraio, in una conferenza stampa venne presentata la coalizione Toscana Futura - Laici, Civiche e Nuovo PSI con Macelloni Presidente: il simbolo del gruppo di liste provinciali portava la scritta Socialisti e laici - Liste civiche; graficamente si presentava come una variante del simbolo del Nuovo Psi e sotto al garofano conteneva le miniature dei simboli di Pri e Pli. Non c'era praticamente alcun rilievo grafico per le formazioni civiche locali, visto che il simbolo era frutto di un accordo nazionale tra Gianni De Michelis (Nuovo Psi), Francesco Nucara (Pri) e Stefano De Luca (Pli): non a caso, il contrassegno era quasi identico a quello che sarebbe stato presentato pochi giorni dopo in Abruzzo e comunque simile a quello di "Socialisti e liberali" che sarebbe finito sulle schede di Piemonte e Abruzzo. 
Per contraddistinguere la propria candidatura a presidente, invece, Renzo Macelloni avrebbe voluto usare il simbolo di Toscana Futura, sia pure leggermente rielaborato: nella corona color petrolio, in particolare, avrebbe inserito le stesse diciture - "Socialisti e laici" e "Liste civiche" - presenti nel contrassegno di lista, ma eliminando i riferimenti grafici ai partiti (che naturalmente restavano però nell'altro emblema). 
A quel punto la Federazione dei Liberali, attraverso un comunicato di Fabrizio Prosperi (tra i fondatori di Toscana Futura), lanciò un segnale netto, che suonava come un avviso di guerra: diffidò Macelloni affinché non usasse il simbolo di Toscana Futura "per operazioni politiche difformi da quanto pattuito nell'atto costitutivo", che prevedeva l'impegno a presentare alle regionali "una lista comune con proprio simbolo per avviare il cambiamento superando i compromessi deteriori tra centrosinistra e centrodestra" (e non certo una lista legata a un accordo tra forze collocate nella Casa delle Libertà); mise poi in luce di nuovo l'errore di una "farsesca rinuncia" alle primarie e all'apertura ai cittadini "essenzialmente per compiacere il Nuovo Psi" e rilevò che anche varie liste civiche erano decisamente contrarie al nuovo corso del progetto politico di Toscana Futura. Se la diffida fosse caduta nel vuoto, la Federazione dei Liberali si sarebbe riservata di agire a tutela degli accordi precedenti.
Tempo qualche giorno e sfumò anche la possibilità di una seconda lista curata dal Codacons: secondo il racconto di Morelli, gli organizzatori non erano più disposti, vista la presenza di un'unica altra lista, ad assumersi lo sforzo di partecipare alla campagna elettorale - che verosimilmente non avrebbe dato risultati - senza contare su un rimborso spese (che però dal candidato di Toscana Futura, a quanto si apprende, non c'era disponibilità a riconoscere). Con il passare del tempo, infine, parte delle liste civiche e delle forze politiche (incluse alcune articolazioni del Pri) finivano per allontanarsi dal progetto di Toscana Futura, per il suo progressivo snaturamento e il concreto avvicinamento al centrodestra. 
il 1° marzo Raffaello Morelli - in qualità di legale rappresentante della Federazione dei Liberali, ma di fatto anche quale rappresentante di Toscana Futura, avendo lui provveduto a depositare la richiesta di elezioni primarie - presentò al tribunale civile di Firenze un ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile. Al suo interno si rilevava, tra l'altro, che nell'accordo del 31 gennaio 2005 che aveva costituito Toscana Futura (e che anche Cariglia e Macelloni avevano sottoscritto) si subordinava l'ampliamento della coalizione all'accordo unanime dei contraenti, senza prevedere l'allargamento del gruppo di liste; la scelta di presentare il gruppo di liste Socialisti e laici - Liste civiche aveva invece violato i patti e l'accostamento a quel contrassegno di lista del simbolo di Toscana Futura - tra l'altro depositato presso la Regione Toscana, per le primarie, proprio da Morelli - era considerato un'ulteriore, indebita violazione. Considerando che le candidature si sarebbero dovute presentare tra il 4 e il 5 marzo, in sede cautelare il ricorrente aveva chiesto di inibire immediatamente a Macelloni l'uso del nome e del simbolo alle elezioni e in tutto il procedimento preparatorio, onde evitare danni all'immagine del ricorrente (per l'accostamento al simbolo del Nuovo Psi) e non far credere ad elettrici ed elettori che Macelloni fosse sostenuto da tutti coloro che avevano preso parte a Toscana Futura.
Il giorno dopo un decreto della seconda sezione civile del tribunale di Firenze inibì inaudita altera parte a Macelloni l'uso del nome "Toscana Futura" e del simbolo (o di un emblema con esso confondibile), fissando l'udienza di comparizione per il 22 marzo (cioè poco più di dieci giorni prima delle elezioni, con il quadro delle candidature ovviamente già cristallizzato); Morelli, per parte sua, nello stesso giorno si rivolse insieme a Prosperi all'Ufficio centrale regionale presso la Corte di Appello di Firenze (che avrebbe dovuto esaminare i documenti legati alle candidature), ricordando la partecipazione di Toscana Futura alle primarie e ritenendo inammissibile un uso del simbolo impiegato in quell'occasione (o di un emblema con questo confondibile) "per operazioni politiche difformi" dagli accordi che avevano portato a partecipare a quelle primarie. 
A quel punto mancavano solo poche manciate di ore alla presentazione delle candidature. Il 4 marzo, alle 10 e 40, Ottaviano Colzi - che, come gli altri esponenti della lista Socialisti e laici - Liste civiche, nulla sapeva del provvedimento del giudice fiorentino - depositò i documenti relativi alla candidatura di Macelloni, contrassegno incluso; nello stesso giorno Morelli fece depositare in Corte d'appello il decreto di inibizione emesso dal tribunale di Firenze. Proprio sulla base di questo, il contrassegno legato a Macelloni fu ritenuto inammissibile nel pomeriggio del 5 marzo. Si può immaginare la sorpresa con cui Macelloni, Colzi e altri accolsero la notizia della ricusazione, non avendo avuto notizia dell'inibizione pronunciata inaudita altera parte
Colzi ovviamente presentò ricorso contro quell'esclusione, rivendicando innanzitutto di essere presentatore della candidatura per conto dello stesso gruppo politico che aveva partecipato alle primarie con il simbolo ritenuto non ammissibile: quell'emblema avrebbe dovuto essere usato anche alle elezioni proprio per rispettare l'esito delle primarie e tutelare l'affidamento del corpo elettorale. Colzi negò poi che il decreto del giudice civile potesse avere effetto nei confronti di Macelloni, al quale non era stato notificato e che dunque riteneva di poter legittimamente usare quel contrassegno (tanto più che l'Ufficio centrale regionale non era parte di quel giudizio), o che potesse comunque interferire con il procedimento elettorale regionale, regolato da norme speciali e "imperative di diritto pubblico" improntate al favor voti e sottoposto alla giurisdizione amministrativa; rivendicava poi come Morelli e la Federazione dei Liberali non avessero mai impiegato il simbolo, non potendosi parlare di un preuso da tutelare (quello sarebbe anzi il primo impiego elettorale, al di là delle primarie).
Come extrema ratio (forse sperando che non ce ne fosse bisogno o magari temendo che fosse l'unica possibilità concretamente praticabile), Colzi chiese di poter essere ricevuto dall'Ucr e di poter ritoccare il contrassegno, togliendo ogni riferimento al nome e alla grafica di Toscana Futura, allegando già le copie dell'emblema sostitutivo. Si trattava di una vera e propria operazione chirurgica, come se qualcuno con un cutter avesse tagliato via il nome "Toscana Futura" dalla fascetta bianca e la grafica a colori del vecchio simbolo dal cerchio centrale. Il 6 marzo, riunitosi di nuovo, l'Ucr ritenne ammissibile il nuovo simbolo (precisando che quello precedente avrebbe avuto bisogno di una "sostanziale modifica") e quindi Macelloni rientrò regolarmente in corsa per le regionali.

Altre carte bollate

Quella sostituzione, tuttavia, non fu affatto indolore: "Toscana Futura - iniziava così una nota diffusa il 7 marzo - è stata espropriata del suo simbolo attraverso una serie di provvedimenti adottati senza che sia stato consentito ad alcuno dei suoi esponenti di esprimere le proprie ragioni". L'aver tolto il riferimento al simbolo che aveva corso alle primarie (le stesse primarie da cui Macelloni si era peraltro ritirato) era, secondo i presentatori delle liste Socialisti e laici - Liste civiche collegate a Macelloni, un modo per "subire, senza condividere l'oscumento" di quell'emblema causato da quei provvedimenti. Si denunciava l'esistenza in Toscana di "zone grigie che rendono difficoltoso, talvolta, l'esercizio dei più elementari diritti di democrazia" e della volontà di togliere di mezzo "la vera ed unica novità" di quelle elezioni regionali, intenzionata a rompere un "equilibrio di interessi" in essere da tempo. "Il simbolo del candidato presidente Renzo Macelloni - concludeva la nota - sarà una corona circolare con [...] l’interno completamente bianco, a sottolineare non solo lo scippo del logo e della scritta di Toscana Futura; lo spazio vuoto intende anche significare la volontà ferma di riappropriarci rapidamente di quanto ci appartiene, in ragione del fatto che lo abbiamo creato e utilizzato ormai da molti mesi [...]. Tale riappropriazione avverrà quando, finalmente, ci saranno forniti un modo ed una sede per esprimere le nostre ragioni". 
Rincarò la dose Marco Cecchi, di Radicali italiani - LiberaPisa: "L'amara constatazione dei radicali circa l'impraticabilità democratica per chi si trova collocato al di fuori dei Poli della partitocrazia italiana si è dimostrata in Toscana quanto mai azzeccata". Nel passare in rassegna varie storture ricondotte alla nuova legge elettorale e alla sua applicazione pratica, Cecchi definì un episodio "ancora più surreale" quello relativo al contrassegno di Macelloni: "Accogliendo il ricorso di due esponenti di una fantomatica Federazione dei Liberali il Tribunale di Firenze, a liste ormai depositate e senza ascoltare i diretti interessati dal provvedimento, ha inibito l'uso del nome (Toscana Futura) e del simbolo del Terzo Polo toscano. Cosicché i cittadini toscani che andranno a votare il 3 e 4 aprile si troveranno sulla scheda elettorale, accanto al nome del candidato presidente, un simbolo fantasma: alcune parole in cerchio [...] attorno ad un vuoto bianco [...]. Emblematica rappresentazione di quella Toscana che da oggi sarà più corretto definire 'buco bianco' della democrazia". 
Buco bianco o no, la strada della carta bollata non era ancora esaurita. Innanzitutto Macelloni e Colzi si rivolsero al Tar della Toscana, per chiedere l'annullamento della decisione dell'Ufficio centrale regionale che non aveva ammesso il simbolo del candidato presidente, ma anche di quella successiva che aveva ammesso il contrassegno sostitutivo dopo una "sostanziale modifica". Ribadendo che il decreto regionale che aveva approvato l'esito delle primarie di Toscana Futura faceva identificare senza dubbi agli occhi del corpo elettorale l'emblema con Renzo Macelloni, Colzi lamentava come l'Ucr non avesse in alcun modo esaminato i motivi di diritto del suo ricorso, dunque ribadì le medesime censure fatte valere davanti ai magistrati della Corte d'appello, chiedendo di consentire a Macelloni di partecipare alle elezioni con il simbolo originario (che aveva corso alle primarie), sospendendo in via cautelare le due decisioni dell'Ucr fondate sul provvedimento del tribunale fiorentino (di cui, peraltro, i ricorrenti non erano ancora riusciti ad avere copia). Morelli, per parte sua, ribadì come il simbolo di Toscana Futura potesse essere usato solo con il consenso unanime di tutti coloro che avevano costituito il soggetto politico-giuridico, aggiungendo comunque che fino a che fosse stato efficace il decreto emesso inaudita altera parte dal tribunale di Firenze, Macelloni non avrebbe potuto usare nome e simbolo di Toscana Futura, mentre era stato salvaguardato il suo diritto di partecipare alle elezioni con l'emblema sostitutivo (ma proprio per questo non ci sarebbe stato motivo di sospendere entrambe le decisioni dell'Ucr). 
Il 17 marzo la terza sezione del Tar respinse la domanda cautelare, ritenendo che le decisioni dell'Ufficio centrale regionale non avessero impedito a Macelloni di partecipare alle elezioni e che fosse solo ipotetico il calo di voti che il candidato avrebbe potuto accusare per il mancato impiego del simbolo usato per la prima volta alle primarie. I giudici amministrativi negarono poi che si potesse escludere "la rilevanza del collegamento funzionale, sul proposto thema decidendum, tra la vicenda contenziosa in esame ed il provvedimento cautelare ante causam adottato dal tribunale di Firenze, in base al quale, allo stato, il ricorrente non è legittimato ad utilizzare il simbolo contestato". La sentenza di primo grado arrivò solo alla fine di maggio (a voto passato da quasi due mesi), limitandosi a dire che il ricorso era improcedibile, visto che i ricorrenti non avevano più interesse a coltivarlo.
L'11 aprile, invece, si era già espresso il tribunale civile di Firenze (sia pure solo con ordinanza), accogliendo il ricorso di Raffaello Morelli e confermando il decreto emesso inaudita altera parte all'inizio di marzo. In particolare, l'ordinanza precisò che non si era di fronte a una lite elettorale (dunque iniziata davanti al giudice sbagliato), ma a una controversia di diritto privato, "antecedente e soltanto eventualmente prodromica ad ogni successiva operazione elettorale" (e per dimostrare che di controversia giusprivatistica si trattava, tra soggetti collettivi comunque dotati di diritto al nome ex art. 7 c.c., il giudice citava anche l'ordinanza del tribunale di Roma relativa al contenzioso tra la futura Rifondazione comunista e il Pds - ex Pci). Per l'ordinanza, poi, l'accordo stipulato ufficialmente il 31 gennaio in forma di scrittura privata per creare il gruppo di liste Laici e Lite civiche (sottoscritto da Centouno, Federazione dei Liberali, liste civiche toscane rappresentate da Macelloni, Pli e Pri), con cui si era deciso che il simbolo avrebbe rappresentato la coalizione Toscana Futura, prevaleva su ogni uso o accordo precedente. Del simbolo era titolare l'associazione Toscana Futura: se era venuto meno il comune intento di presentare liste col nome di Toscana Futura nel modo che si era concordato, nessuna parte di quell'accordo poteva usare unilateralmente quel nome e quel simbolo e ciascun'altra parte contraente poteva reagire contro quell'uso indebito.

Le battute finali

La scheda elettorale della circoscrizione di Firenze
Quella decisione, in ogni caso, era arrivata una settimana dopo l'esito delle elezioni regionali. Il 3 e il 4 aprile 2005, dunque, Renzo Macelloni e il suo simbolo "svuotato" finirono sulla scheda elettorale: questi ottennero 30062 voti (l'1,5%), mentre la lista Socialisti e laici - Liste civiche dovette accontentarsi di qualcosa di meno (23379, l'1.3%); a tenere basso il risultato del gruppo di liste contribuì il non essere riusciti a presentare la lista nella provincia di Grosseto, a causa di contrasti tra il Nuovo Psi e l'articolazione locale del Pri (dal Tirreno si apprende che i rappresentanti dei due partiti di fatto avevano raccolto le firme su due liste diverse - i primi su candidati solo socialisti, come si era deciso in un primo tempo, i secondi su due candidati socialisti e due repubblicani, come si era deciso in seguito - e le firme raccolte sulle due liste non potevano certo sommarsi. 
I numeri forse non erano del tutto insoddisfacenti: gli oltre 30000 voti ottenuti da Macelloni erano sicuramente meno rispetto alle oltre 35000 schede ritirate alle primarie di febbraio (che nelle intenzioni dei due sfidanti nemmeno si sarebbero dovute tenere), ma erano comunque ben di più degli oltre 17000 voti validi e degli oltre 9600 andati allo stesso Macelloni ed erano arrivati nonostante il "simbolo svuotato". Di certo però l'1,5% dei consensi raccolto dal candidato presidente era lontanissimo dal 5% che avrebbe garantito l'accesso alla ripartizione dei seggi; allo stesso modo il risultato delle liste provinciali trainate dal Nuovo Psi era lontano dalla soglia del 4%, ma anche dal 2,44% ottenuto un anno prima dalla lista Socialisti uniti per l'Europa (in cui il Nuovo Psi aveva certo parte rilevante, ma c'erano anche i gruppi di Signorile e Formica), nonostante la lista delle regionali potesse contare anche sull'apporto di Pli, Pri e civiche.
Difficile dire se e quanto lo "svuotamento" del simbolo di Macelloni abbia influito sul risultato finale del voto; di certo non ha aiutato, in generale, a stabilire o mantenere un clima di serenità che avrebbe potuto portare più voti alle candidature in campo. La situazione oggettivamente era complessa e delicata: è vero che Macelloni era stato votato alle primarie sotto al simbolo di Toscana Futura, che dunque dagli elettori poteva essere ricondotto a lui; è altrettanto vero però che quelle primarie di fatto erano state "disconosciute" dai candidati con la loro scelta di ritirarsi (e di questo, nei vari ricorsi di Macelloni e Colzi, curiosamente non c'era traccia). Allo stesso modo, era difficile negare che il simbolo di Toscana Futura fosse nato come emblema comune di varie componenti politiche (di cui il Nuovo Psi non faceva parte) e in seguito l'uso era stato rivendicato sì dal vincitore delle primarie, ma per associarlo a un emblema elettorale profondamente diverso nella forma e nella sostanza. 
Finivano per confliggere due concezioni diverse: quella consensuale che aveva mosso la nascita del progetto di Toscana Futura (e che non poteva tollerare, secondo l'idea portata avanti da Raffaello Morelli, che l'emblema fosse usato in modo diverso rispetto a quanto concordato in precedenza) e quella leaderistica-monocratica, assai più vicina al vigente assetto statutario-elettorale delle Regioni, per cui il leader che si era già in qualche modo legato a un emblema aveva diritto di continuare a usarlo per distinguersi, anche nel rispetto degli elettori che con quell'emblema l'avevano conosciuto (magari senza sapere che il progetto politico nel frattempo si era trasformato). I giudici diedero maggior peso alla tesi consensuale, certamente aiutati dal fatto che esisteva un accordo scritto tra varie parti (incluso il futuro candidato presidente) e che questo sembrava non essere stato pienamente rispettato da uno dei sottoscrittori. Certamente nulla sarebbe accaduto se nessuno si fosse opposto all'uso dell'emblema in questione: proprio perché Macelloni aveva partecipato (suo malgrato) alle primarie sotto quel simbolo, l'Ucr avrebbe ritenuto verosimilmente legittimo che il candidato presidente continuasse a fregiarsene alle regionali, senza (poter) valutare il grado di rispetto dei patti precedenti. Qualcuno, invece, proprio in virtù di quei patti cui aveva partecipato, ha ritenuto di potersi opporre all'uso indebito del simbolo e le cose sono andate diversamente.
Ogni tentativo di sminuire la legittimazione della Federazione dei Liberali, ritenendola un soggetto marginale o "fantomatico", appare infondato, vista la storia che quel gruppo aveva avuto (e solo un paio di anni dopo avrebbe cercato di impedire a Silvio Berlusconi di usare per il suo nuovo soggetto politico l'espressione "Partito della libertà"); resta però, certamente, l'anomalia del decreto inaudita altera parte, della cui esistenza Macelloni apprese solo in sede di bocciatura del proprio contrassegno e di cui non ebbe contezza nemmeno all'atto del ricorso al Tar. Infine, è vero che le norme sui diritti delle associazioni e quelle elettorali sono diverse e tendenzialmente le prime non dovrebbero influire sulle seconde; è però altrettanto vero che sarebbe difficile non tenere conto in sede elettorale di alcune decisioni valide in ambito civile, specie quando si tratta di decisioni inibitorie (certo, possibilmente seguenti a un accertamento meno sommario di quello che precede un provvedimento reso inaudita altera parte).
Sembra difficile, dunque, avallare in pieno l'immagine di "buco bianco della democrazia" coniata nel 2005 per questo caso e per l'intera vicenda elettorale toscana: alla base c'era, senza dubbio, un accordo in parte sconfessato e in parte snaturato e non può stupire che qualcuno abbia preteso che chi non aveva rispettato i patti non avesse vantaggi indebiti. Questo non significa che tutti i passaggi siano stati gestiti nel modo migliore o più condivisibile: il buco (bianco) forse non c'era, qualche ombra obiettivamente sì. Oltre, come al solito, a tanta confusione, ma chi appartiene alla schiera dei #drogatidipolitica ci ha fatto l'abitudine. E, in fondo, mentre tenta di farsi largo in quel caos si diverte pure.

Per le indicazioni e il materiale che hanno consentito la stesura di questo articolo ringrazio soprattutto Antonio Floridia e Lucia Bora (Regione Toscana); ringrazio pure di cuore l'ottimo Antonio Folchetti, con il quale nel 2017 ho approfondito le evoluzioni e le applicazioni delle norme elettorali toscane, tra una disquisizione su come spiegare correttamente il funzionamento del "metodo Adams" (ammesso che in Toscana si fosse applicato proprio quello per distribuire i seggi), un video del miglior Fiorello che imitava Mike e una puntata da Frontoni per rifornirci di pizza al sesamo.