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Libri simbolici (o, più in generale, da #drogatidipolitica)

I creativi raccontano

mercoledì 26 luglio 2017

Se Salvini pensa alla Lega dei Popoli (ma se ne parla da tre anni)

Da tempo, forse da sempre, quella fondata da Umberto Bossi, passata a Roberto Maroni prima e a Matteo Salvini poi, il partito di Alberto da Giussano è sempre stata "La Lega" (maiuscole ben avvertibili anche nella voce), un po' come dire la Lega per eccellenza, che non ha bisogno di altre specificazioni. Anche per questo, ogni volta che qualcun altro ha provato a presentare simboli con la parola "Lega" all'interno (fin da quando nel 1992 ci fu un'invasione di Leghe sui tavoli del Viminale), i fedeli di Alberto da Giussano hanno sempre cercato di impedirglielo, anche se di solito non ci sono riusciti perché "Lega" è un termine generico, che per commissioni elettorali e giudici non può essere riservato a nessuno.
Certo, ai militanti basta sentir evocare la Lega perché, all'inizio, c'era stata la Lega lombarda e prima ancora la Liga Veneta (e ci sono ancora, beninteso, ma come Leghe "nazionali"), dunque il passaggio alla Lega Nord ha mantenuto in vita la prima parola come elemento di continuità, dunque è normale identificarsi in quella. E sarà normale farlo anche in futuro, visto che - a quanto pare - il Nord sta per essere dismesso dal nome e dal simbolo. Lo ha scritto ieri Andrea Rossi sulla Stampa:
Il logo, da qualche giorno, circola tra i dirigenti della Lega. Dicono che Matteo Salvini avrebbe dovuto presentarlo nelle settimane passate, poi il lancio è stato via via rimandato, forse perché ci sono ancora aggiustamenti da fare, valutazioni da soppesare. E magari la versione definitiva sarà un po’ diversa. La svolta, però, è nei fatti: la Lega Nord sta per essere definitivamente archiviata.  
Non è dato sapere come sia quel bozzetto che gira, così come non si sa quali possano essere le ragioni che hanno suggerito di rimandare il lancio (si spera non per colpa dell'incidente che involontariamente questo sito ha creato, credendo che fosse vero il simbolo di Italia sovrana, che si immaginava condiviso da Lega Nord e Fratelli d'Italia). Ora però sembra che il passo, più volte annunciato o accennato, sia decisamente più vicino: lo stesso articolo sulla Stampa cita alcune dichiarazioni del segretario federale che andrebbero in quella direzione: "Di certo resterà il marchio della Lega, che è la nostra storia"; "sento parlare di agenzie di comunicazione, ma ce lo faremo da noi, ne siamo capaci" (cosa vera, perché così è avvenuto finora). 
Ma quale sarebbe il nome nuovo che ci si deve attendere? Rossi, nel suo articolo, parla così del futuro del Carroccio:
Si chiamerà, probabilmente, Lega dei Popoli, nome che racchiude la svolta consacrata dal congresso federale di Parma, a maggio. Salvini vuole un contenitore che sia capace di dare voce e spazio a tutte le autonomie d’Italia, da Nord e Sud. [...] A Parma, quando un plebiscito (83%) l’ha confermato segretario, Salvini ha sfoderato uno slogan che solo qualche tempo fa sarebbe stato eresia pura: «Prima gli italiani». Non prima il Nord. La base, a quanto pare, è con lui: «Ho vinto il congresso sulla base di una piattaforma che dichiarava di voler unire tutti i popoli d’Italia». E su questa base sta andando avanti. Sta girando il Paese. Sta solcando il Sud. La settimana scorsa era in Calabria: Vibo Valentia, Lametia Terme, Tropea, e altro ancora. È stato in Molise. Era stato in Sicilia, dove «Noi con Salvini» - il simbolo utilizzato finora al Sud e destinato a scomparire - oggi può contare su una sessantina di eletti nei comuni dell’isola. E ancora, Ladispoli, la Toscana, L’Aquila prima di risalire la penisola e fiondarsi in agosto da una festa all’altra della Lega, soprattutto in Lombardia. Una campagna martellante, segno di una strategia chiara, che punta a unire Nord e Sud su alcuni fronti cari al Carroccio delle origini.  
Intuizioni sensate, senza dubbio. Certo è che di una possibile Lega dei Popoli si parla almeno dall'autunno del 2014, soprattutto da quando a nome di Matteo Salvini è stato depositato presso l'Ufficio italiano brevetti e marchi un simbolo che contiene la dicitura "Popoli e identità". Ora, la domanda di marchio risulta respinta (non è dato sapere perché; al più si può sospettare che c'entri la forma rotonda del segno, visto che a suo tempo il Ministero dell'interno aveva chiesto al Ministero dello sviluppo economico di respingere le domande di marchio per segni politici dalla forma simile a quella usata per le elezioni, onde evitare confusioni nell'applicazione delle norme) e, comunque, il progetto sembrava latente, così nessuno ne aveva più parlato, ma ora il tutto potrebbe tornare di attualità.
Tra l'altro, curiosamente, nella banca dati dei marchi non si vede nemmeno più la grafica che il depositante aveva allegato alla domanda di marchio nel 2014; quando, a mesi di distanza dal deposito della domanda, era stata caricata sul server del Mise, ero però riuscito a scaricarla e posso riproporla qui. E' facile vedere che già questo segno corrispondeva ai pochi tratti che Salvini - sempre secondo La Stampa - avrebbe svelato: il mantenimento della parola "Lega" e il riferimento al segretario (elementi che erano presenti con evidenza anche nel simbolo della Lega Noi con Salvini che ha corso a Roma l'anno scorso). Quanto al nome, più che "Lega dei popoli" (che suonerebbe blasonato ma un po' antiquato) si era preferito mettere in evidenza la parola "Lega", lasciando in alto l'espressione "Popoli e identità". 
Naturalmente è tutto meno che scontato che il simbolo che sta girando in via Bellerio - ammesso che giri davvero - sia simile a questo; il dato di fatto, però, è che questo è il solo emblema che la Lega abbia direttamente prodotto o fatto produrre in modo "ufficiale", anche se il fatto che risalga a tre anni fa induce a pensare che molto nel frattempo possa essere cambiato, dai colori ai contenuti (anche il riferimento a "Basta Euro" è molto legato alla simbologia adottata nel 2014; oggi il tema è altrettanto sentito, ma sembra meno destinato a finire sull'emblema). In ogni caso, se davvero l'idea è di presentarsi "con un unico simbolo in tutta Italia", la Lega Nord dovrà essere davvero pronta a rinunciare all'ultima parola: tra qualche settimana si vedrà a cosa hanno pensato i dirigenti del Carroccio. 

domenica 23 luglio 2017

Anche la strada di Italia civica passa per Moncalieri?

Nemmeno a farlo apposta, è bastato aspettare giusto un paio di giorni dalla notizia - data dalla Stampa - in base alla quale Niccolò Ghedini starebbe lavorando per conto di Silvio Berlusconi alla creazione di un movimento politico contenitore per alfaniani di ritorno e altri centristi, da collocare nel centrodestra e battezzare Italia civica, per avere conferma del fatto che il nome non era esattamente nuovo, avendolo già usato qualcun altro.
Già il giorno stesso in cui il progetto era stato svelato, Formiche.net aveva fatto notare che il sito www.italiacivica.it era già stato acquistato da un ex montiano ora iscritto al Pd; su questo sito avevo già scritto che Civica Italia era un marchio registrato da Italia futura, la fondazione di Luca Cordero di Montezemolo. La partenza non era delle migliori, ma ora si sa che il nome Italia civica aveva già fatto la comparsa alle elezioni amministrative di Moncalieri nel 2007. Era stata chiamata Italia civica, infatti, la lista che sanciva l'alleanza tra Italia popolare e l'Italia di mezzo, la formazione nata qualche mese prima su impulso di Marco Follini, nel frattempo passato a sostenere l'ultimo governo Prodi.
Detta così, i berlusconiani potrebbero non avere molto da preoccuparsi: la giurisprudenza non è certo priva di decisioni in cui si dice che un uso isolato di un nome o di un simbolo in comuni non toglie la novità a segni impiegati successivamente. Il fatto è che, come detto, il simbolo in questione era stato presentato da Italia popolare e il suo candidato sindaco era Giancarlo Chiapello, il referente piemontese e responsabile organizzativo di quello stesso movimento, fondato nel 2004 da Alberto Monticone, dopo che quest'ultimo aveva rifiutato due anni prima la confluenza del Ppi nella Margherita e aveva scelto di restare "semplicemente" popolare.
Ebbene, Chiapello e Italia popolare, negli ultimi anni, hanno reagito puntualmente a ogni tentativo di vari personaggi politici di utilizzare nomi già impiegati da loro. E l'entourage di Berlusconi dovrebbe saperlo bene: all'inizio del 2011 secondo i media lui - nel tentativo di liberarsi di una sigla poco appetibile come il Pdl - aveva pensato di ribattezzare il suo partito "Popolari", volendo porsi come riferimento italiano al Ppe, ma Monticone e Chiapello si misero di traverso. Dopo qualche giorno non ci fu più traccia sui giornali o altrove dell'uso di quel nome: forse era solo una boutade, forse qualcuno ci aveva fatto davvero un pensierino ma dopo quell'avvertimento aveva fermato tutto per non avere grane. 
Alla fine del 2012, ci cascò Gianni Alemanno, organizzando una manifestazione dal titolo Italia popolare e, forse, pensando di chiamare così il suo nascente partito. Partì puntuale una nota firmata da Chiapello, per "diffidare chiunque dall'utilizzo di tale denominazione, in particolare da parte di chi è ben lontano dalla tradizione politica del popolarismo, che mai ha assunto connotazioni o interpretato posizioni di destra". Manco a dirlo, quel nome Alemanno non lo usò più, optando per Prima l'Italia (etichetta usata come slogan nel 2012 dal Pd e vent'anni prima dalla Dc).
Alla fine del 2013 Mario Mauro, uscito da Scelta civica, volle far nascere i Popolari per l'Italia: Chiapello e Monticone avviarono contatti informali, per avvertire i fondatori del nuovo partito che altri Popolari esistevano già da prima e non si erano mai sciolti. Mauro - che intanto si era preso una diffida anche da Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario politico del Ppi, perché la sigla dei Popolari per l'Italia era identica a quella dei vecchi Popolari - in effetti decise di andare avanti comunque, ma il progetto non riuscì mai a decollare: il simbolo, negli anni, si è visto pochissimo e a marzo l'ex ministro è tornato in Forza Italia.
L'ultima battaglia, per ora, è stata ingaggiata a gennaio di quest'anno, quando si seppe che tra i tanti simboli depositati come marchio da Angelino Alfano c'era anche - guarda un po' - Italia popolare. Chiapello così per sicurezza dichiarò per l'ennesima volta - anche al Tempo, intervistato da Carlantonio Solimene - che la denominazione era già occupata, con tanto di atto costitutivo notarile, dunque non era il caso di provare a usarla.
Il cerchio, dunque, sei anni dopo in qualche modo si chiude, tornando là dov'era partito: a Silvio Berlusconi. E' vero, quell'unico uso del 2007 potrebbe non fare molta paura (e la grafica sfoggiata all'epoca era francamente dimenticabile): quell'episodio moncalierese, questa volta, più che di una pietra d'inciampo ha le sembianze di qualche granellino di sabbia. Eppure, com'è noto, i granellini possono bloccare gli ingranaggi di un meccanismo, mentre una domanda risuona quasi obbligatoria: ma possibile che le strade politiche di tanti passino per Moncalieri? Sarà solo un caso o qualcuno, da quelle parti, ci ha visto lontano?

sabato 22 luglio 2017

L'Italia civica berlusconiana per chi torna all'ovile (ma già opzionata)

Il simbolo scelto non sarà così,
#sischerza ma neanche troppo
Che si voterà nel 2018 ormai è chiaro; il problema è capire come, cioè con quale legge elettorale, dopo che nelle scorse settimane gli accordi sono saltati. La questione, per prevedere gli schieramenti elettorali, non è di poco conto. 
Con un proporzionale, anche nella forma del sistema tedesco, probabilmente si vedrebbero varie liste (specie se lo sbarramento non fosse esagerato): ognuno correrebbe per sé, poi "si vedrà". Un maggioritario potrebbe complicare le cose, specie se non consentisse di coalizzarsi: si dovrebbero inventare contenitori o accoppiare simboli per aggregare consensi e vincere. Se spuntassero le coalizioni, però, il discorso cambierebbe: si potrebbe correre "a più punte" e colpire uniti, sperando che ciascuno guadagni qualcosa; varrebbe per il maggioritario, ma anche in caso di sistema proporzionale, visto che al Senato in qualche modo le coalizioni sono rimaste e oggi allearsi conviene ai partiti minori, visto che si abbatte la soglia di sbarramento (ma sono i partiti grandi a decidere se la coalizione si fa e, dunque, se l'asticella si abbassa). 
Nel caso di un sistema a premio di maggioranza eventuale, con possibilità di coalizioni, non ci sarà spazio per gli schizzinosi: se qualcuno vorrà tornare nell'area di origine dopo un'avventura (vantaggiosa) nello schieramento avverso, non sarà facile lasciarlo alla porta. Silvio Berlusconi lo sa, fin dal giorno del ritorno a Forza Italia. La platea dell'ultimo consiglio nazionale Pdl gridava "Tra-di-to-ri" ad Angelino Alfano e compagni, usciti il giorno prima per creare il Nuovo centrodestra, ma lui la placò: "Non fate dichiarazioni nei loro confronti: quel gruppo ora apparirà un sostegno al Pd, ma dovrà poi necessariamente far parte della coalizione dei moderati, comportiamoci con loro come facciamo abitualmente con la Lega e con Fratelli d’Italia". I suoi non gli hanno dato troppo retta (e anche lui, a volte, si è dimenticato delle sue parole), ma ora le elezioni si avvicinano e la musica cambia.
Non ci si stupisce, allora, se ieri La Stampa, in un articolo a firma di Ugo Magri, parla di un Berlusconi pronto a lanciare "una vasta offensiva che mira a impossessarsi rapidamente dell’area centrista, sgretolando lo Stato cuscinetto di Alfano". Un'operazione che mira a costruire un nuovo contenitore che in breve tempo "prenderà le sembianze di un vero e proprio movimento, destinato a fiancheggiare il partito berlusconiano". 
Lo spazio per gli alfaniani pentiti (e magari anche per lo stesso Alfano, anche se a qualche forzista convinto il suo ritorno potrebbe provocare una gastrite) e per altri soggetti interessati viene definito, da parlamentari in vena di facezie, alternativamente "un bel secchio in cui accogliervi a braccia aperte" (parole molto trash di Franco Carraro) o "la bad company di Forza Italia" (copyright di Fabrizio Cicchitto, che chiama così l'eventuale casa degli "impresentabili" del centrodestra). Eppure il piano ci sarebbe e, per Magri, il nome già pronto sarebbe Italia civica. Il nome ricorda le esperienze civiche che ormai da anni fioriscono nei comuni, a volte solo per nascondere i partiti che non vogliono mostrarsi come tali. Da un po' di tempo a questa parte qualcuno aveva cercato di portare lo stesso spirito nella politica nazionale, a partire dalla montiana Scelta civica, il cui cammino non è stato proprio glorioso. 
Anche questo dettaglio, peraltro, potrebbe non essere un passo falso. Perché per quel progetto politico, cui starebbe lavorando Niccolò Ghedini con pieno mandato berlusconiano, quel nome potrebbe calzare a pennello. Intanto consentirebbe di far entrare un ampio spettro di soggetti: oltre agli alfaniani, infatti, l'articolo della Stampa cita anche il gruppo di Flavio Tosi, l'Udc rimasta fedele al segretario Lorenzo Cesa, addirittura il Partito pensionati (negli ultimi anni stabilmente nel centrodestra) e forse addirittura il Movimento animalista di Michela Vittoria Brambilla (la sorpresa ovviamente non sarebbe lei, ma quella sigla, lanciata con tanto clamore per poi essere destinata a stemperarsi in un italico civismo, con relative candidature).
Quei voti farebbero comodo - l'articolo azzarda una quota intorno al 2% - ma Berlusconi sarebbe più interessato a mantenere la partnership con Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Così, il nome Italia civica servirebbe a non inquietare i leader di Lega Nord e Fratelli d'Italia (hanno ripetuto sempre "niente riciclati", è il caso di confonderne le insegne d'origine) e soprattutto a far "pagare dazio" a certi figliuoli prodighi di ritorno a casa: per candidarsi nel centrodestra e sperare nell'elezione, dovrebbero accettare di stare in un contenitore anonimo e dal blasone nominale poco appetibile. E, pure se non si parla (ancora) di simboli, il colmo sarebbe se a Italia civica venisse data la veste grafica del Popolo della libertà, una sigla che Berlusconi aveva voluto, ma l'ha cambiata dopo essersi reso conto che "il Pdl" non suscitava emozioni. Quale miglior nemesi, per gli ex alfaniani e altri compari aggregati, del dover accettare un nome similmontiano con una grafica pidiellina?
Unico ostacolo sulla strada del progetto, al momento, sembra essere il fatto che qualcuno sul nome avrebbe già messo una bandierina. Lo si legge in un articolo pubblicato sempre ieri da Formiche.net, scritto da Lorenzo Bernardi:
Quel nome è già stato opzionato, e non certo da un berlusconiano. Semmai, ironia della sorte, da un montiano, o ex montiano. Si tratta di Gianmarco Gabrieli. È lui il titolare del dominio Italiacivica.it, e digitando il nome del sito su Google spunta proprio il suo blog personale. Gabrieli, classe 1974, è un imprenditore nel settore informatico, navale e dell’abbigliamento, attivo nell'associazionismo imprenditoriale e già presidente dei Giovani di Confindustria Bergamo. Sul fronte politico, è stato membro del comitato di presidenza di Scelta Civica, oltre che portavoce regionale della Fondazione Italia Futura, che fa capo a Luca di Montezemolo. Attualmente iscritto al Pd, ma l’unica etichetta che gradisce vedersi appuntata è “semplicemente liberale”. 
Se fosse così, al momento in realtà Berlusconi potrebbe sempre utilizzare quel nome. In fondo gli era già andata bene quando aveva pensato di utilizzare l'espressione "Partito della libertà", dopo che la Federazione dei liberali aveva già acquistato il dominio www.partitodellaliberta.it: la questione finì in tribunale e i giudici decisero che aver acquistato il sito senza averlo realmente usato - come qui: c'è un semplice redirect - e senza aver utilizzato il nome in altre occasioni fa sì che un eventuale uso della stessa etichetta da parte di altri non produca alcuna usurpazione.
Certo è che qualcuno dell'entourage di Luca Cordero di Montezemolo, nel momento in cui guardava alla politica, a fare qualcosa di italiano e di civico doveva averci pensato prima di Monti: il 7 novembre 2012 risulta depositata la domanda di marchio per Civica Italia, ossia per il marchio che è riportato a destra ("un'impronta raffigurante la dicitura Civica Italia in caratteri di fantasia, le due porzioni essendo poste l'una sopra l'altra e racchiuse tra due segmenti verticali, rientranti verso l'interno rispettivamente alle estremità superiore ed inferiore"). Titolare del segno distintivo risulta essere proprio Italia Futura, la fondazione legata a Montezemolo. Potrebbe mettersi di traverso rispetto al disegno berlusconiano? Non è dato saperlo, anche perché - tanto per dire - "Civica Italia" e "Italia civica" non sono esattamente la stessa cosa; in passato, però, Carlo Giovanardi ha dovuto rinunciare a denominare i suoi Popolari liberali, dopo il ricorso (accolto) dei Liberal popolari. Previsioni, allora, è meglio non farne: tanto, magari, tempo qualche settimana e tutto cambia, nomi compresi.

lunedì 17 luglio 2017

Cambiare il simbolo del Pd? Forse, ma chi lo dice?

Il 21 novembre il simbolo del Partito democratico, disegnato da Nicola Storto, compirebbe dieci anni: tanto sarà passato dal 21 novembre 2007, quando Walter Veltroni tolse il drappo verde dal pannello che conteneva la gigantografia del logo. Il condizionale però è d'obbligo, se si vuole dar retta alle voci che, negli ultimi giorni, danno quasi per certo un intervento più o meno robusto su quell'emblema. E non per desiderio di una persona qualunque, ma del segretario in persona, Matteo Renzi.
Ad aprire il gioco di supposizioni e retroscena è stato un articolo uscito ieri su Libero, a firma di Elisa Calessi (e ripreso persino da Dagospia). L'autrice ha buon gioco a ricordare che "la tentazione di rottamare il Pd o, per meglio dire, di dargli una riverniciata, di cambiare nome, marchio è, per Matteo Renzi, antica": andare alle prime Leopolde l'emblema dei dem nemmeno c'era, "come se quel popolo che si riuniva alla stazione antica di Firenze avesse un’ambizione più grande, che non si poteva confinare in quel marchio che già allora pareva vecchio, sebbene con pochi anni di vita".

Cambiare un marchio logorato

Al di là del flashback sugli inizi, ai lettori interessa sapere che quella voglia di mettere mano al partito e al suo logo sarebbe di nuovo viva in Renzi: 
Negli ultimi tempi è rispuntata. La tentazione, cioè, di fare un tagliando al Pd, di rinfrescarne l’immagine, il simbolo. Persino di cambiarlo. Perché, come accade ai prodotti di mercato, anche nel caso del Pd il marchio si è logorato. Non ha più la freschezza degli inizi. Ed essendo giovane, non può nemmeno contare sul legame affettivo rappresentato dai simboli dei vecchi partiti. Troppo recente per creare legami di appartenenza, troppo vecchio per rappresentare una novità.
Sarebbero una prova della voglia di svecchiare l'immagine del partito tanto la stipula di un contratto con Proforma, l'agenzia di comunicazione di Enzo Pasculli e Giovanni Sasso (la stessa che ha già alle spalle molti lavori per soggetti politici e per lo stesso Pd), perché agisca su vari fronti (dai social network alla propaganda), come pure l'affidamento a Matteo Richetti del coordinamento dell'area comunicazione e a Marco Agnoletti dell'incarico di portavoce dello stesso Renzi (lo era già quando l'attuale segretario era sindaco di Firenze) e di capoufficio stampa del partito. 
I cambiamenti, però, sembrerebbero riguardare anche l'elemento centrale della comunicazione politica del Pd: il suo simbolo. 

sabato 8 luglio 2017

Msi, la fiamma è di tutti?

Si è parlato ieri del progetto politico elettorale - Alleanza della destra nazionale - cui sta lavorando da alcune settimane il Movimento sociale italiano - Destra nazionale di Gaetano Saya e Maria Antonietta Cannizzaro: si è visto anche come l'uso della storica fiamma tricolore all'interno del contrassegno sarebbe garantito, secondo i dirigenti dello stesso (Nuovo) Msi, dalla sentenza della Corte d'appello di Firenze del 2016 che aveva negato ad An e alla Fondazione An il titolo a impedire al Msi l'uso dei segni distintivi missini. 
Meno fortunata è stata, ma solo in apparenza, un'altra decisione - questa volta un'ordinanza - emessa dal Tribunale di Roma un mese fa, il 7 giugno esattamente, a seguito di un ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile presentato a febbraio dallo stesso Msi, per chiedere come provvedimento d'urgenza l'inibizione a Fratelli d'Italia dell'uso della fiamma tricolore (contenuta nel simbolo-"pulce" di An). Il partito di Saya e Cannizzaro l'aveva chiesto proprio in virtù di quella sentenza della Corte d'appello fiorentina che, avendo - a detta del Msi - accertato la dismissione del simbolo da parte di An, rendeva illegittimo l'uso dello stesso emblema da parte di Fdi (che dalla Fondazione An l'aveva ricevuto, prima provvisoriamente e ora in modo più stabile): un uso che, secondo Cannizzaro, oltre a confondere gli elettori, creava un danno economico al suo partito, intenzionato a vendere gadget con il marchio missino. La giudice Cecilia Pratesi ha rigettato la richiesta, anche se le ragioni sono da guardare con attenzione, perché le conseguenze potrebbero essere di non poco conto. 
Da una parte, infatti, la giudice ha negato la confondibilità dei due emblemi, sufficientemente distinti sul piano cromatico (l'azzurro dominante di Fdi e il bianco del Msi) e per la diversa proporzione della fiamma, per cui non vi sarebbe alcun effetto decettivo sul piano merceologico e, secondo chi ha emesso l'ordinanza, anche elettorale, essendo i due simboli "nettamente distinguibili"; dall'altra, nella decisione si è negata anche la lesione dell'identità personale del Msi, poiché - basandosi proprio sulla sentenza fiorentina citata prima - la fiamma sarebbe stata il simbolo di "un patrimonio ideologico ben radicato nella storia politica italiana" e, venuto meno il Msi "storico", "non può essere inibito ad altre entità politiche, figlie della medesima identità ed ispirazione, di richiamare - nel proporsi al pubblico - la simbologia storicamente propria della stessa unica matrice".
Nei giorni successivi sui media il contenuto dell'ordinanza è stato diffuso come riconoscimento della legittimità dell'uso della fiamma fatto da Fratelli d'Italia (ma nel testo dell'ordinanza, che si inserisce in un procedimento a cognizione sommaria, non si valuta la legittimità della ricezione della fiamma dalla Fondazione An) o, addirittura, come riconoscimento dell'esclusiva a beneficio di questo partito (cose che nella decisione proprio non c'è). Leggendo bene il provvedimento, in realtà, le due affermazioni della giudice hanno qualcosa di innovativo e di favorevole al partito di Cannizzaro.
Agli occhi dello studioso, in effetti, è strano che un giudice civile abbia detto che l'uso del simbolo composito di Fratelli d'Italia, rispetto a quello del Msi, non comporta "effetto decettivo" (cioè ingannevole) neanche sul piano elettorale, visto che l'ambito delle elezioni è considerato "speciale" ed è retto da regole specifiche rispetto a quello civile, più ampio, dei titoli di proprietà industriale; eppure, se il tribunale si è sentito di poter e dover dire questo, la sua decisione potrebbe spiegare effetti anche nel procedimento che precede le elezioni.  
Certo, tali conclusioni hanno un peso relativo, essendo contenute in un'ordinanza ex art. 700 c.p.c.; se però fossero confermate nel giudizio di merito conterebbero di più. Il valore aumenterebbe se diventasse definitiva la sentenza della Corte d'appello di Firenze del 2016, su cui la decisione del tribunale di Roma si basa nel riconoscere il diritto di chiunque si ritenga "erede politico" di un partito a reinterpretare il simbolo originale di questo, purché non si confonda con gli altri eredi. Il punto debole dell'ordinanza è l'accettazione acritica della tesi alla base della sentenza fiorentina, in contrasto con quanto deciso fino ad allora sulle scissioni seguite a una virata ideologica in un partito (prima sulla lite tra la futura Rifondazione comunista e il Pds e poi proprio sul Msi di Rauti, non ancora Fiamma tricolore, contro An): solo chi resta nel partito - anche se ha cambiato idee, nome e simbolo - mantiene i diritti sui segni del passato, a differenza di scissionisti e altri emuli. Detto questo, è vero che dagli eventi di Fiuggi del 1995 - e dal presunto abbandono del vecchio simbolo, anche se per chi scrive reale abbandono non fu - sono passati oltre vent'anni: sebbene Fratelli d'Italia abbia ricevuto in uso il simbolo di An dalla fondazione, sembra difficile continuare a privare un gruppo che voglia seguire gli ideali missini della possibilità di avere un simbolo molto vicino a quello storico (tanto più che An, specie alla fine della sua storia, fu cosa molto diversa rispetto al Msi). 
"Quelli di Fratelli d'Italia - precisa Candida Pittoritto, portavoce del Msi - si sono incastrati con le loro mani. Giusto poche settimane prima, quando avevamo fatto ricorso contro l'esclusione delle nostre liste alle elezioni comunali di Verona e Lecce, loro avevano sostenuto la tesi della confondibilità del simbolo; davanti al tribunale di Roma, invece, hanno negato che gli emblemi di Msi e Fdi fossero confondibili, puntando tra l'altro sulla protezione che darebbe loro la rappresentanza parlamentare e sul loro disinteresse per la vendita di gadget con quel marchio che noi abbiamo registrato. A questo punto, la decisione del giudice ci mette in condizione di utilizzare senza problemi in ambito elettorale il simbolo, proprio perché è stato ritenuto non confondibile; io stessa, del resto, mi sono candidata a sindaco a Cerveteri col simbolo del Msi, in una delle coalizioni c'era anche Fratelli d'Italia e i due simboli hanno convissuto sulla scheda".
Lo scontro, c'è da giurarci, è ben lontano dall'essere risolto. Anche perché, al di là dell'aspetto elettorale, c'è quello dell'uso del marchio e nemmeno su questo il Msi intende demordere: "Visto che poi non è stato messo in discussione il nostro diritto sul marchio - continua Pittoritto - dai vertici del Msi partirà presto una denuncia-diffida a Fratelli d'Italia, perché loro non possono utilizzare la fiamma per farne gadget, nemmeno le bandiere, dunque saranno chiesti i danni. In sede di elezioni politiche, poi, non solo ci presenteremo al Viminale con il nostro simbolo, a questo punto legittimato, ma attraverso quest'ordinanza ci opporremo all'uso delle bandiere di Fdi in campagna elettorale". Se il ministero accetterà questo punto di vista, ora non è dato sapere; per conoscere il finale della storia, comunque, basterà aspettare qualche mese. Il tempo di finire la legislatura, sciogliere le Camere, mettersi in fila e depositare i simboli. 

venerdì 7 luglio 2017

Alleanza per la destra nazionale, un progetto targato Msi

No, non chiedete a loro se "la Fiamma è spenta o è accesa", come faceva dire a Lucio Battisti il venerato maestro Mogol. Non chiedeteglielo perché la risposta la sapete già: la Fiamma, con la maiuscola, è accesissima per loro. Per "loro" s'intendono i militanti del Movimento sociale italiano - Destra nazionale, noti anche come Nuovo Msi, anche se quell'aggettivo forse non piace proprio a tutti: loro sentono, in fondo, di essere quel Msi, in diretta discendenza politica (anche se formalmente e giuridicamente l'hanno dovuto rifondare poco più di dieci anni fa, l'8 dicembre 2005).
E come il Msi del passato volle poter incarnare la destra più di ogni altro soggetto politico, quello di oggi - fondato da Gaetano Saya e oggi guidato da Maria Antonietta Cannizzaro - vorrebbe essere il motore di una nuova aggregazione politica, aperta a tutti i soggetti che si riconoscono nell'ideologia e nel programma della destra missina "repubblicana, democratica, conservatrice". 

Un simbolo inequivocabile

Il nome e il simbolo con cui il progetto politico vorrebbe distinguersi circolano da alcuni giorni in Rete, soprattutto su Facebook, e non possono passare inosservati: la denominazione scelta sarebbe Alleanza per la Destra Nazionale - Partito unico della Destra; la seconda parte del nome è quasi invisibile sull'emblema, mentre la prima è composta in modo tale che della scritta - gialla su fondo blu - si legga essenzialmente "Alleanza nazionale"; il tutto è sormontato, manco a dirlo, dal simbolo del Nuovo Msi, dunque dalla fiamma tricolore con base trapezoidale nera (e l'effigie bianca "Nuovo Msi" sopra) e la dicitura "Destra nazionale" intorno.
"Questo simbolo - spiega la portavoce nazionale del Msi Candida Pittoritto - è stato registrato nel 2005 e lo stiamo per aggregare persone e partiti intorno a un'idea. Ogni partito, naturalmente, rimane con il proprio statuto, la propria organizzazione, i propri bilanci: l'emblema si pone di fatto come un contenitore di partiti che vorremmo presentare alle prossime elezioni. Qualcuno ha già aderito a questa proposta, altri potranno unirsi successivamente: ci sarà tempo per comunicare chi ha scelto di far parte del progetto".
In effetti nella banca dati dei marchi non risulta la richiesta di registrazione di quel segno distintivo - mentre si trova, invece, il simbolo del Nuovo Msi (senza l'aggettivo però), registrato come marchio il 14 dicembre 2011 a nome del partito - per cui è probabile che il deposito di cui parla la portavoce sia come opera dell'ingegno, dunque sul fronte del diritto d'autore. Posto che colpisce il fatto che sul simbolo domini la scritta "Alleanza nazionale" (visto che rimanda a una scelta, a una svolta politica per la quale i rifondatori del Msi hanno avuto parole tutt'altro che positive), una cosa è certa: se sarà davvero utilizzato in sede elettorale, quell'emblema avrà vita tutt'altro che facile

Problemi all'orizzonte

Difficilmente le commissioni elettorali e - soprattutto - i funzionari del Viminale accetteranno la presenza di un emblema con la scritta "Alleanza nazionale" in evidenza e la presenza della fiamma: la Fondazione An si opporrebbe di certo e probabilmente lo farebbe anche Fratelli d'Italia, che con quegli elementi testuali e grafici opera anche in Parlamento dal 2014 (ammesso, naturalmente, che voglia mantenere al suo interno l'emblema che fu del partito di Fini).
Questo, tuttavia, non ferma per niente il Msi, che anzi si fa forte della sentenza della Corte d'appello di Firenze che, a febbraio del 2016, aveva sostenuto che An non avrebbe potuto impedire al Nuovo Msi l'uso di nome e fiamma perché nel frattempo erano stati dismessi (e addirittura il simbolo che conteneva la fiamma è stato poi ceduto alla Fondazione An, quando per i giudici il diritto al nome era indisponibile) e comunque chi si richiamava allo stesso filone ideologico doveva poter usare i segni distintivi a esso collegati. Quando mi sono occupato di quella sentenza sul mio sito, avevo espresso molti dubbi sulla correttezza della decisione e qui non posso che ribadirli, rimandando all'articolo; resta il fatto, però, che quella sentenza c'è e non è possibile far finta che non ci sia, non tenendone conto.
Ovviamente, però, la decisione non è ancora definitiva e il verdetto potrebbe cambiare segno. Era improbabile che Alleanza nazionale, sia come associazione in liquidazione sia come fondazione, accettasse l'esito di quel grado di giudizio e infatti ha presentato ricorso in Cassazione ("Ma lo hanno fatto in ritardo - sostiene Pittoritto - per cui il loro ricorso verrà rigettato, anche se non è ancora stata fissata l'udienza"). Quella vicenda in ogni caso non ferma il progetto verso l'Alleanza per la destra nazionale e la fiamma del vecchio (e nuovo) Msi potrebbe restare ben piantata sul simbolo, anche per altri sviluppi giudiziari che si sono avuti nel frattempo. Ma di questo è bene parlare a parte.

mercoledì 5 luglio 2017

Civici e innovatori, addio al gruppo. La continuità nel Palazzo non basta

Dal 10 luglio, alla Camera ci sarà un gruppo parlamentare in meno: quello di Civici e innovatori, che all'inizio si chiamava Scelta civica per l'Italia. Si tratta dell'ultimo atto di una querelle iniziata praticamente un anno fa, il 14 luglio 2016, con l'uscita di Enrico Zanetti - segretario di Scelta civica e allora viceministro del governo Renzi - dal gruppo della stessa Scelta civica e passata, a ottobre, per la costituzione di un nuovo gruppo che fondesse Sc, i verdiniani di Ala e i sudamericani del Maie. Gruppo che, comprendendo allora come oggi meno di venti deputati, fu creato sfruttando una deroga espressamente prevista dal Regolamento di Montecitorio, che permetteva che nascessero gruppi ufficiali anche con meno componenti, purché rappresentassero "un partito organizzato nel Paese", che abbia presentato col proprio simbolo liste in almeno 20 collegi e abbia eletto almeno un deputato direttamente, ottenendo almeno 300mila voti. 
Tutti questi requisiti Scelta civica li aveva, in abbondanza. Ed Enrico Zanetti ne era (e ne è) il segretario. Il problema è che, formalmente, per la Camera Zanetti e gli altri risultavano alla stregua di scissionisti, visto che se n'erano andati dal gruppo che era stato costituito nel 2013 da Scelta civica all'indomani delle elezioni. E, com'è noto, di norma chi se ne va di casa perde tutti i diritti sul patrimonio, nome compreso. Per questo, forte del mandato che sosteneva di aver già ricevuto a luglio 2016 dalla direzione del partito, Zanetti in qualità di segratario aveva rivendicato per il suo nuovo gruppo il nome di Scelta civica presso l'Ufficio di presidenza della Camera, chiamato a verificare se la deroga per la nascita della compagine potesse essere concessa. Quelli che non volevano cambiare gruppo, peraltro, sarebbero a loro volta scesi sotto i venti membri e non avrebbero certo apprezzato l'idea di perdere il nome (pur essendo rimasti in Scelta civica) e con esso la possibilità di continuare a configurarsi come gruppo, visto che la deroga non l'avrebbero più avuta loro. 
Com'è noto, il 12 ottobre, l'Ufficio di presidenza della Camera si era riunito per discutere anche di questo e, nel bel mezzo del dibattito, era piombata una lettera di Mario Monti, ispiratore e fondatore di Sc, anche se dal 25 febbraio 2015 aveva lasciato il partito. Nella lettera, a quanto pare con toni molto fermi, lo stesso Monti precisava di essere titolare tanto del nome quanto del simbolo di Scelta civica e, forte di questo, negava che quei segni distintivi potessero essere utilizzati per avallare la nascita in deroga di un gruppo con "soggetti che sono in totale contrasto con i valori in base ai quali circa 3 milioni di cittadini diedero il loro voto nel febbraio 2013" a Scelta civica. A Giovanni Sanga (Pd), segretario d'aula cui spettava l'approfondimento giuridico e regolamentare sul caso, toccò valutare quest'altro dettaglio molto delicato.