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Libri simbolici (o, più in generale, da #drogatidipolitica)

I creativi raccontano

sabato 27 luglio 2019

Cattolici in movimento, l'esordio della Rete Bianca

Il nome circolava da un anno, portato avanti soprattutto da Giorgio Merlo (giornalista, militante Dc poi divenuto parlamentare per Ppi, Margherita e Pd, fino all'abbandono dei dem) in ambito cattolico-sociale, per definire una realtà in movimento, che avvicinava associazioni e altri gruppi di matrice popolare con l'intento di fare "qualcosa" a livello politico o prepolitico. Ora Rete Bianca è meno evanescente e più concreta: il 22 luglio a Roma (alla Sala Marcora del Palazzo della Cooperazione) si è svolta un'assemblea nazionale, significativamente intitolata Oltre la testimonianza, quasi a voler sottolineare che chi si è riunito pochi giorni fa punta ad avere un ruolo e una voce non marginali nel futuro politico dell'Italia. E, sulle grafiche che invitavano all'evento, è apparso per la prima volta un simbolo del movimento, piuttosto sobrio a costo di essere un po' anonimo: la rete è presente solo nel nome, inserito in un cerchio bianco a sua volta contenuto in uno rosso; il tricolore è un tocco lievissimo sopra la "i" del nome, al posto del puntino, e si segnala la scelta di inserire la dicitura "movimento politico", come a voler chiarire che non si tratta di una semplice rete di natura sociale. Non si usa la parola partito, ma a Roma si è deciso di iniziare comunque a muoversi seriamente. 
Non si tratta di una scelta facile, perché comporta - come scritto da Merlo - "misurarsi concretamente con le dinamiche della politica, le sue regole, le sue contraddizioni, le sue difficoltà. E anche con la sua organizzazione", ma per qualcuno ciò è parso più utile che limitarsi "alla riflessione, all'approfondimento, alla contemplazione e alla rinuncia all'organizzazione della politica". La scelta di parlare di "movimento" e non di "partito" passa forse attraverso un'altra idea espressa da Merlo, cioè che, invece di costruire un partito identitario, sia meglio "far pesare un'area culturale ed ideale - come, appunto, l'area cattolico popolare e cattolico sociale - all'interno di un soggetto politico più ampio, plurale, riformista, democratico, di governo e autenticamente costituzionale". Quale sia questo soggetto non è immediato, visto che lo stesso Merlo nega che possa coincidere con la "sinistra - o presunta tale - di Zingaretti, il neo Pds", oltre che con l'area salviniana o del MoVimento 5 Stelle e conferma che manca ora "una concreta offerta politica ed elettorale" (il che esclude, per esempio, che quello spazio possa esserci al momento in Forza Italia o nell'Udc o in altro partito esistente, come Demo.S). Di certo quel nuovo soggetto deve partire (o ripartire), per l'ennesima volta, dai territori, quelli amministrati da sindaci, assessori e consiglieri di area cattolico-popolare che si sono messi in rete per costruire qualcosa di nuovo.
Nella relazione di apertura, svolta da Dante Monda (figlio, come nota Dagospia, del direttore dell'Osservatore Romano Andrea) e scaricabile dal sito del Domani d'Italia (testata guidata da Lucio D'Ubaldo e Giuseppe Sangiorgi, attorno alla quale si sta sviluppando gran parte del dibattito legato a questa nuova realtà), risultano interessanti soprattutto le osservazioni su metodo politico da applicare e perseguire: il "combattivo, lucido e intellettualmente onesto dialogo politico, a mediazione intesa come vera creatività al potere", cioè "la creatività innovativa del progettare responsabilmente il futuro", per riproporre ovunque "uno stile autentico (cioè autenticamente creativo, propositivo) di fare politica, di esserci politicamente, proponendo con coraggio non soluzioni dall'alto, ma un'alleanza di verace e franco confronto fra società, istituzioni politiche ed economia, oltre che fra parti politiche". E se nessuno pensa o deve pensare di avere Dio e la verità dalla sua parte, per soddisfare "il bisogno di una cultura politica che dica davvero qualcosa su questo futuro, di un ambiente e di un lavoro sostenibili, cioè sintonizzati sui bisogni veri e naturali dell'uomo, da donare alle generazioni che ci succedono", occorre per forza riscoprire il "valore intrinsecamente democratico della mediazione, cioè dall'essere decisi sostenitori (e dunque riformatori) di una democrazia rappresentativa, la forma di organizzazione politica che meglio di tutte permette di sviluppare libertà e giustizia sociale riunite in una fratellanza solidale". Il contrario della "democrazia immediata" a mezzo Facebook o Twitter.
A compendio di tutto ciò, si riporta il documento finale dell'assemblea, approvato all'unanimità dai presenti. Non c'è un punto d'approdo, ma la strada tracciata sì: resta solo da vedere dove porterà e quanto sarà lunga.
Vogliamo andare oltre la semplice testimonianza. Per questo rivolgiamo l’invito a prendere sul serio l’impegno per un nuovo codice di appartenenza, iniziando ancora una volta dalle autonomie locali. Da oggi Rete Bianca declina la sua azione come stimolo alla nascita di un vasto e ramificato movimento politico.
Il divenire della storia impone ai “Liberi e Forti” di ogni epoca di guardare avanti, con piena coscienza dei “segni dei tempi”, ma con fiducia. I “segni dei tempi” che cogliamo sono quelli di un passaggio difficile per la nostra democrazia. 
La fiducia che vogliamo coltivare è in una società aperta, responsabile, solidale, sorretta da un umanesimo che si rinnova nella centralità della persona e del suo legame inscindibile con la comunità, secondo la lezione ancora viva di Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier. 
La nostra democrazia corre il serio rischio di uno svuotamento di significati e di valore, come accade sempre quando larga parte del popolo è indotta a cedere autonomia e libertà in cambio di presunta sicurezza e proclamata protezione. La deriva autoritaria è l’inevitabile ricaduta del populismo demagogico. 
Ogni risposta puramente “difensiva” dei principi sociali e liberali, ben incisi nella Carta costituzionale, risulterà tuttavia insufficiente, se non sarà accompagnata da un recupero credibile di carisma sociale della democrazia. 
I “segni dei tempi” ci parlano di una crisi profonda del compromesso tra democrazia e mercato: le disuguaglianze crescono a dismisura, il ceto medio è impoverito, le opportunità di elevazione sociale diffusamente compromesse. 
Le nuove frontiere digitali stanno cambiando le categorie di tempo e di spazio, fino al punto da evocare una dimensione “post umana”, senza che siano stati elaborati adeguati presìdi culturali ed etici. Si afferma una inedita antropologia, che spiazza ogni giorno consolidati modi di vivere le relazioni tra persone. 
Gli assetti mondiali scombinano vecchie centralità e alleanze; la crisi demografica del Nord del Mondo, i processi migratori ed il cambiamento climatico prefigurano scenari inesplorati e generano una diffusa paura del futuro. 
È un passaggio storico di portata globale. Ma ha colto il nostro Paese particolarmente impreparato per la fragilità delle sue istituzioni pubbliche e dei suoi assetti politici; la debolezza della sua base sociale e produttiva; l’insufficiente investimento sulle risorse umane degli ultimi decenni.  
L’impressionante facilità con la quale, negli ultimi anni, il Paese ha dato credito alle forze politiche populiste e alla destra sovranista evidenzia una debolezza sociale e politica di sistema e disvela – tra l’altro – le gracili basi sulle quali si era costruito l’assetto politico e della rappresentanza nella stagione della cosiddetta Seconda Repubblica. 
I Popolari, animati da una sensibilità cristiana laicamente vissuta, non possono tuttavia rinunciare alla fiducia e alla speranza, ben consapevoli che, in ogni passaggio storico, rischi di regressione e opportunità di nuovi talenti sociali si confondono assieme. Tocca alla cultura e alla politica discernere gli uni dagli altri e dare spazio ai secondi. 
Noi abbiamo fiducia nella nostra società: nei suoi vecchi e nuovi corpi intermedi; nei giacimenti non ancora inariditi di cultura e di formazione; nella scienza e nella tecnologia eticamente e socialmente presidiate; nei valori radicati – benché oggi sotto stress – che costituiscono l’ossatura del vivere civile; nelle nuove generazioni. 
Noi abbiamo fiducia in un Italia Europea e in una Europa capace di riconquistare il cuore e la mente dei propri cittadini, contro il ritorno degli incubi nazionalisti asserviti al disegno di chi, in Oriente o in Occidente, punta alla sua disgregazione 
Il Popolarismo non è una ideologia, ma un modo di essere della Comunità e di vivere ed interpretare la Democrazia, alla luce di un Umanesimo cristianamente ispirato che vive la storia con tutte le sue contraddizioni ed i suoi mutamenti. 
Per questo il nostro orizzonte non è la nostalgia ma la rigenerazione di una visione di futuro che trova, oggi come ieri, il suo primo fondamento nel contrasto di ogni declino autoritario. 
Il nostro progetto si fonda su una visione sociale e comunitaria della Democrazia. Essa è – come scriveva Aldo Moro nel 1946 – “il divenire della società nella storia secondo il suo ideale di giustizia”. Non esiste Democrazia senza spirito di apparenza comunitaria; condivisione di un destino collettivo; piena valorizzazione delle Autonomie Territoriali e delle formazioni attraverso le quali si esprime il ruolo protagonista della Comunità rispetto allo Stato e al Mercato. 
Per questo, restano per noi fondamentali le conquiste di socialità e di partecipazione che hanno segnato il completamento dell’antica idea liberale ed hanno comportato, dal secondo dopoguerra in poi, una trasformazione radicale della società nel senso della giustizia e della piena fruizione dei diritti personali e sociali. 
Richiamarsi a questa cultura politica significa opporsi senza ambiguità ad ogni progetto che punti a rispondere alla crisi della democrazia rappresentativa attraverso la tentazione del rapporto diretto tra Potere e Individuo: questa è infatti l’essenza della “post democrazia”. 
Sta qui la radice della nostra irriducibile alternatività al populismo e della nostra inconciliabilità valoriale, culturale e politica con la destra. 
Serve una “Comunità Politica Popolare” autonoma, riconoscibile, organizzata: per questo facciamo appello ai movimenti locali e nazionali che in questi mesi si sono costituiti per provare a rispondere a questa esigenza.  
Troviamo subito, entro poche settimane, il terreno comune sul quale promuovere un unico Soggetto Politico, senza gelosie, primogeniture e tentazioni auto referenziali. 
Lavoriamo poi assieme ad una nuova “forma partito”, adeguata alle mutate esigenze di una rappresentanza oggi priva di strumenti e di riferimenti e alla definizione delle condizioni e delle modalità attraverso le quali cooperare con altre culture politiche e sensibilità sociali compatibili con la nostra visione della Comunità e della Democrazia.

venerdì 19 luglio 2019

Scudo crociato, botta e risposta infinito

Chi è abituato a frequentare questo sito se n'è probabilmente accorto: poche vicende sono in grado di autogenerare nuove puntate come quella legata allo scudo crociato e, più in generale, alla Democrazia cristiana. Gli ultimi due episodi, curiosamente contemporanei essendo datati entrambi 12 luglio 2019 (vale a dire lo scioglimento del Cdu e il varo della Fondazione Democrazia cristiana, da una parte, e la sentenza di Cassazione che ha messo fine a una delle tante liti giudiziarie sorte nel corso degli ultimi anni, dall'altra) sono state al centro di un botta e risposta tra due personaggi di primo piano di quell'area  - entrambi membri dell'attuale Parlamento - e c'è da giurare che non sarà l'ultimo.
Tutto è iniziato con una videointervista che Alfonso Raimo dell'agenzia Dire ha registrato ieri con Antonio De Poli, senatore dell'Udc, a margine di un'assemblea del partito. Nel ricordare che quello alle spalle del politico era "un simbolo storico", il giornalista ha detto che si era recentemente appreso che "sarebbe stato consegnato a una fondazione e quindi che uscirebbe di scena dalla politica", chiedendo a De Poli se fosse effettivamente così. De Poli, ovviamente non si è fatto pregare: 
Mah, alle fake news ormai siamo abituati tutti i giorni: assolutamente no. Lo scudo crociato è chiaramente in uso all'Udc. Appena due giorni fa la Corte di Cassazione ha ribadito questo aspetto, per cui noi siamo molto tranquilli. Dopo di che lasciamo che gli amici facciano la loro parte rispetto ai percorsi. Ma nella realtà dei fatti lo scudo crociato è in utilizzo all'Udc.
La dichiarazione è stata diffusa con un cappello ben preciso: "Lo scudo crociato non va in soffitta. E non viene consegnato alla Fondazione Sullo, come annunciato da Gianfranco Rotondi e Rocco Buttiglione, meno di una settimana fa", con le parole di De Poli presentate come una contestazione di quanto detto da Rotondi.
Tanto è bastato perché Rotondi replicasse:
Stupisce che il senatore De Poli colleghi il simbolo dell'Udc - che comprende lo scudo crociato, e viene legittimamente usato - alla decisione mia e di Buttiglione di consegnare alla fondazione Fiorentino Sullo i simboli dei nostri movimenti, ossia il Cdu fondato nel 1995 e la Dc del 2004. Cosa c'entri il simbolo dell'Udc non è chiaro. Ci sono altri 67 partiti che si rifanno alla Dc e nessuno va a contestare i loro diritti. Resta il fatto che il simbolo originale difeso dai militanti del 1995 oggi è consegnato alla fondazione Sullo presieduta dall'ultimo segretario del Ppi ossia il prof. Buttiglione.
Inevitabile che, leggendo queste cose, il lettore comune, curioso o anche mediamente esperto di queste vicende, provi un grande senso di confusione e cerchi un colpevole per tutto questo. Ebbene, in parte lo sono (lo siamo?) tutti, in fondo non lo è nessuno. E alla base di tutto c'è il desiderio legittimo non tanto di chiarire, ma di semplificare e ridurre una vicenda che non è né semplice né riducibile, perché a tentare di farlo si perdono pezzi importanti che finiscono - anche non volendolo - per distorcere la realtà.


Cos'è successo davvero

Quindi, andiamo per punti: è vero che qualcuno - nella fattispecie Rotondi - aveva detto che lo scudo crociato sarebbe stato sottratto alla competizione politica? Non proprio. Leggendo in filigrana le dichiarazioni del deputato forzista e soprattutto badando a ciò che è stato detto il 12 luglio durante l'evento alla Camera dei deputati, si capisce che, in seguito allo scioglimento del Cdu - terminata, a quanto pare di capire non disponendo dei documenti originali, la sua liquidazione - il simbolo dello stesso Cdu è stato trasmesso alla Fondazione Fiorentino Sullo, che è stata ribattezzata Fondazione Democrazia cristiana (o forse sta per esserlo, non si dispone ancora dello statuto ufficiale), anche grazie al conferimento del diritto all'uso di quel nome da parte della Dc-Rotondi (poi Democrazia cristiana per le autonomie). 
Il 12 luglio - ma anche nell'intervista rilasciata a questo sito - Rotondi ha chiarito che l'uso "culturale" di quel simbolo da parte della fondazione (che potrà sostenere dei partiti ma non potrà presentarsi alle elezioni) non impedirà alle formazioni che già utilizzano lo scudo crociato e hanno acquisito diritti su di esso di continuare nel loro uso: il riferimento all'Udc è chiaro. Certo, è innegabile che tanto per il Cdu quanto per l'Udc l'elemento centrale del simbolo è costituito dallo scudo crociato, dunque per qualcuno era facile pensare che consegnare il simbolo e toglierlo dall'arena politica volesse dire consegnare anche lo scudo (e forse non è nemmeno troppo malizioso credere che Rotondi, nei giorni precedenti l'incontro romano del 12 luglio, non abbia corretto questi pensieri non corretti, visto che hanno richiamato per l'ennesima volta l'attenzione sull'ennesima puntata della saga democristiana); si tratta però di simboli diversi di partiti diversi, mai in disputa giuridica tra loro.


Le parole di De Poli

Certo è che, se si chiede a un dirigente dell'Udc - che per giunta in più occasioni (anche nel 2018, per conto di Noi con l'Italia) si è occupato di depositare il simbolo al Viminale prima delle elezioni - se sia vero che lo scudo crociato viene tolto dalla competizione politica con la consegna a una fondazione, non potrà che negare, sostenendo che "nella realtà dei fatti lo scudo crociato è in utilizzo all'Udc". Non spetta a De Poli, ne ad altre figure di vertice dell'Unione di centro, spiegare che Rotondi non ha tolto dalla scena politico-partitica il simbolo dell'Udc, ma quello del Cdu, che hanno in comune l'ingrediente fondamentale (anzi, l'Udc utilizza lo scudo proprio perché il Cdu lo aveva apportato): su questo può limitarsi a dire "lasciamo che gli amici facciano la loro parte rispetto ai percorsi" (in altre parole: lasciamo che il Cdu concluda la sua storia come meglio crede). 
Ciò che gli interessa davvero è mettere in chiaro che l'uso dello scudo crociato resta là dove è rimasto fin dal 2002, cioè a casa dell'Udc, anche solo per evitare che a qualcun altro - magari uno degli "altri 67 partiti che si rifanno alla Dc" di cui parla Rotondi - venga voglia di approfittare di una supposta dismissione dell'emblema da parte del partito guidato da Lorenzo Cesa, provocando nuovi contenziosi: quell'interesse viene perseguito, tra l'altro, citando a proprio favore una pronuncia fresca fresca della Cassazione. Tutto bene, se si sorvola sul fatto che la pronuncia in questione - l'ordinanza n. 18746/2019 - non può aver detto nulla sull'uso dello scudo crociato fatto dall'Udc, sia perché non è entrata nel merito (si è limitata a dire che il ricorso della Dc-Sandri non era stato fatto secondo quanto previsto dalla legge), sia perché l'Udc non era nemmeno tra le parti di questo grado di giudizio (basta leggere la decisione per rendersene conto). 
Ovviamente - va aggiunto subito - le parole di De Poli hanno un fondamento: l'Udc non era (più) parte del processo semplicemente perché, già in secondo grado, la Corte d'appello di Roma aveva dichiarato improcedibile il gravame nei confronti del partito di Cesa (e del Ccd), visto che la notifica dell'atto d'appello non era andata a buon fine e, pur avendo ottenuto la possibilità di rinnovarla, la Dc-Sandri aveva poi rinunciato. In primo grado, tuttavia, il giudice aveva rilevato che "il simbolo dello scudo crociato, [...] relitto da Ppi e Cdu, è dal 2002 utilizzato da Udc, col consenso del medesimi partiti" di ispirazione "cattolica", raggruppanti persone che avevano avuto significative esperienze politiche in seno alla Dc: essendo stato dichiarato improcedibile l'appello, il rigetto della domanda della Dc-Sandri nei confronti dell'Udc è passato in giudicato. Non si è espressa la cassazione, insomma, ma in effetti in quella vicenda giudiziaria un giudice aveva detto che l'uso dello scudo crociato da parte dell'Udc era stato sostanzialmente accettato dagli altri principali partiti post-diccì. In effetti almeno un altro giudice - la Corte d'appello di Roma nel 2009 - aveva detto anche qualcosa di diverso e leggermente meno favorevole all'Udc, ma ora non è il caso di complicare le cose.


Le parole di Rotondi

Quanto alla replica di Rotondi, essa si basa non tanto sulla dichiarazione reale rilasciata da De Poli, quanto sul lancio di agenzia che parla di contestazione da parte del dirigente dell'Udc. Ovviamente il deputato eletto con Forza Italia ha buon gioco nel ricordare la legittimità dell'uso dello scudo crociato da parte dell'Udc (all'interno del proprio simbolo composito, che ancora mantiene in filigrana le vele di Ccd e De), come pure la legittimità della scelta del Cdu e della Dc-Rotondi di consegnare i rispettivi emblemi alla Fondazione Sullo (o Fondazione Dc). "Cosa c'entri il simbolo dell'Udc non è chiaro", si domanda Rotondi: non c'entra nulla, se non per il fatto che bisognerebbe mettersi d'accordo se per simbolo si intenda lo scudo crociato in sé (come ha fatto De Poli, il giornalista che lo ha intervistato e probabilmente la maggior parte delle persone che hanno seguito e seguono da lontano la vicenda) o l'intera raffigurazione grafica che identifica il partito Cdu e che "incidentalmente" contiene anche lo scudo crociato (come ha fatto Rotondi e, più modestamente, il sottoscritto). Per quanto possa sembrare una questione strana o di lana caprina, non è la stessa cosa: se si adotta la seconda lettura tra quelle proposte, l'uso elettorale dello scudo fatto dall'Udc e quello culturale fatto dalla Fondazione Dc grazie al Cdu possono convivere senza problemi. 
Non è un caso che, per capire esattamente quale emblema avesse adottato la Fondazione Sullo-Dc (ed evitare di scrivere qualcosa di impreciso o di scorretto), l'amministratore di questo sito abbia ritenuto opportuno informarsi direttamente alla fonte, apprendendo dallo stesso Rotondi che la fondazione avrebbe utilizzato il simbolo del Cdu, con tanto di denominazione integrale (compreso il riferimento al Ppe utilizzato alle europee del 1999, vale a dire nell'unica competizione di livello nazionale cui abbia partecipato da solo, senza unirsi ad altre forze) e che solo "nell'uso pratico" si sarebbe aggiunta sotto o accanto l'etichetta "Fondazione Democrazia cristiana". L'uso per la fondazione di un simbolo che reca un nome diverso può sembrare in parte spiazzante, ma - a pensarci bene - la legge non obbliga la fondazione ad avere un simbolo né, ove se ne dia uno, la obbliga a inserire quel nome all'interno dell'emblema (la stessa Dc, fino al 1992, non ha messo il suo nome nel contrassegno elettorale).
Tutto chiarito ora? In sostanza sì, ma resta un ultimo dettaglio da analizzare, perché le note diffuse da Gianfranco Rotondi non possono essere lette con superficialità. Questa infatti si conclude con "il simbolo originale difeso dai militanti del 1995 oggi è consegnato alla fondazione Sullo presieduta dall'ultimo segretario del Ppi ossia il prof. Buttiglione". Il riferimento alla difesa dei militanti del 1995, ovviamente, è a coloro che - come lo stesso Rotondi - nella "guerra di Piazza del Gesù" (che a tratti apparve piuttosto una guerriglia) si schierarono a favore della linea del segretario eletto dal congresso del 1994, vale a dire Rocco Buttiglione: il "simbolo originale" è verosimilmente lo scudo crociato ottenuto in uso in seguito agli "accordi di Cannes" del 24 giugno 1995 e allegato agli accordi confermativi del 14 luglio dello stesso anno. 
La parte più interessante, tuttavia, è il finale della dichiarazione (in cauda venenum?), quando dice che Buttiglione è stato "l'ultimo segretario del Ppi". Qualcuno potrebbe pensare a una svista di Rotondi, visto che i popolari in seguito sono stati guidati, oltre che da Gerardo Bianco, anche da Franco Marini e Pierluigi Castagnetti. Può darsi che sia così, ma per chi lo conosce bene riesce difficile credere che le parole di Rotondi siano frutto di un errore: seguendo questa pista, si dovrebbe arguire che per il deputato campano davvero Buttiglione è stato l'ultimo segretario del Ppi e qualche maligno di professione sarebbe tentato di dare a ciò una spiegazione giuridica. 
Alcuni di quelli che sostengono la tesi di una Dc "dormiente" per anni, infatti, lo fanno dicendo che nel 1995 i già citati "accordi di Cannes" avevano parlato espressamente di "due distinte formazioni politiche", entrambe eredi politicamente e moralmente della Dc e del Ppi (accordo del 24 giugno) ma da considerarsi "parti separate del Partito popolare italiano" (accordo del 14 luglio). Su questa base, costoro sostengono che ciascuno dei due partiti che hanno operato dopo i patti del 1995 è un partito nuovo e distinto rispetto al Ppi che fino all'inizio del 1994 si era chiamato Dc: ciò varrebbe senz'altro per il Cdu (costituito con atto notarile il 4 ottobre 1995), ma anche per il Ppi guidato da Bianco (e poi da Marini e Castagnetti), perché comunque nel 1995 cambiò - oltre al simbolo, come previsto dagli accordi, adottando lo scudo nel gonfalone - anche il codice fiscale, dunque non ci sarebbe continuità tra il Ppi-scudo e il Ppi-gonfalone.
La tentazione di credere a quest'ipotesi maliziosa, però, va respinta subito. A dispetto del cambio di simbolo, non si è mai avuta traccia di un atto costitutivo del Ppi-gonfalone, dunque si deve presumere che quello che ha operato dall'estate del 1995 al 2002 sia lo stesso soggetto giuridico che aveva agito come Partito popolare italiano (e prima come Dc). Soprattutto, c'è anche la firma di Rotondi (quale tesoriere, legale rappresentante del Cdu e procuratore di Buttiglione) sulla transazione che nel 1999 ha estinto una delle cause nate nel 1995 tra le fazioni legate a Bianco o a Buttiglione per capire quale delle due rappresentasse correttamente il Ppi: in questa transazione, tra l'altro, si parla di "Ppi [...] meglio identificato come Ppi-gonfalone", il che significa che il soggetto giuridico è lo stesso, pur avendo cambiato il proprio segno identificativo. Rotondi, insomma, probabilmente voleva dire proprio quello che ha detto, cioè che Buttiglione è stato l'ultimo segretario del Ppi. Di quel Ppi, beninteso, cui Rotondi apparteneva, firmando gli editoriali del Popolo come condirettore politico e ostentando una fede incrollabile nello scudo crociato e nella Dc (anche se non si chiamava più così). Simbolo e nome che, in un modo o nell'altro, ora sono arrivati a riunirsi, anche se non in un partito (e senza ostacolare l'Udc).

giovedì 18 luglio 2019

Riformatori liberali: 14 anni fa i primi movimenti, aspettando il salmone

Chi l'ha detto che la politica d'estate si ferma? L'idea per un nuovo partito può sorgere anche nel caldone di metà luglio, quando molti pensano alla tintarella e a un bagno; qualcun altro, invece, nel 2005 si preparava a risalire la corrente. Era il caso di Benedetto Della Vedova, già europarlamentare della Lista Bonino dal 1999 (anno dell'exploit) al 2004 e dal 2001 aderente ai Radicali italiani (dopo essere stato alla guida dei Club Riformatori-Pannella). Proprio lui fu l'anima dei Riformatori liberali, partito che sarebbe ufficialmente nato il 6 ottobre 2005, con i piedi ben piantati nel centrodestra berlusconiano, ma con l'idea di portare avanti le battaglie liberali e libertarie anche da quelle parti, a dispetto dell'allergia di qualcuno. 
Già, ma il caldone estivo? C'entrava eccome, perché se la nascita sarebbe arrivata in ottobre, già il 22 luglio Della Vedova aveva lanciato - con un'intervista ad Adalberto Signore sul Giornale, il primo avviso su "qualcosa di radicale" che stava nascendo in seno al centrodestra. Perché a lui l'idea che i Radicali italiani si fossero avvicinati ai Socialisti democratici italiani di Enrico Boselli e Pannella avesse buttato lì l'idea di fare una lista comune laica alle elezioni politiche del 2006, o comunque di presentarsi nell'ambito dell'Unione guidata da Romano Prodi, non era proprio andata a genio. Soprattutto perché "quando io parlavo di alleanze mi rispondevano che la mia era 'la politica del nulla'; Emma Bonino si è spinta a dire che se fosse prevalsa la mia linea lei non avrebbe avuto più nulla a che spartire con i Radicali mentre Marco Pannella mi ha invitato a guardare altrove, in particolare alla Margherita". Ma se per Della Vedova c'era sicuramente più sintonia col centrosinistra sulla laicità, questo non poteva giustificare il tentativo di tornare in Parlamento "a fianco sì di alcuni liberali, ma pure dei pacifisti 'senza se e senza ma', degli antiamericani espliciti, dei giustizialisti, del verdi ogm-free e dei comunisti contrari alla legge Biagi" e sostenendo "un pezzo storico del sistema di potere come Prodi".
Per la forza che, tra gli anni '90 e 2000 era stata "la più radicalmente liberale e filoamericana, quindi più 'antisinistra italiana'. Non solo sulla guerra, ma pure sulle politiche economico-sociali, sul mercato del lavoro, sulla giustizia", al punto da essere definita eversiva o reazionaria dai dirigenti di sinistra, lo sguardo a sinistra "senza neanche il tempo di discuterne negli organismi del movimento" secondo Della Vedova sarebbe stato per lo meno azzardato: qualche risultato politico in più sarebbe potuto arrivare dal centrodestra, che forse avrebbe finalmente potuto fare la riforma liberale da tempo cercata (e fino ad allora incompiuta) sempre sotto il segno di Berlusconi, rivedendo lo spirito del 1994. 
Per questo, nel centrodestra si poteva costruire "un nuovo spazio di politica liberale e liberista". Per costruirlo, si stava avvalendo del concorso di varie persone "di storia politica radicale, liberale e riformista", a partire da compagni del Partito radicale transnazionale che però militavano in Forza Italia, come Giuseppe Calderisi, o che erano già stati eletti con il partito di Berlusconi, come Marco Taradash. Poteva starci un partito unitario di centrodestra, come il bipolarismo avrebbe suggerito ("sarebbe una sfida affascinante per i Radicali"), ma anche se non ci si fosse riusciti, ci sarebbe stato più spazio per esprimere idee liberali e liberiste nel centrodestra, "a partire dalla forza politica e riformatrice ancora inespressa di Forza Italia", troppo ammalata di moderatismo ma ancora valorizzabile. 
Della Vedova, Taradash, Calderisi e Carmelo Palma (anche lui risulta tra i fondatori della forza politica) non riuscirono a convincere Pannella e gli altri a convergere verso il centrodestra, come avevano sperato ("La cosa migliore - aveva riconosciuto Della Vedova - sarebbe avere il simbolo dei Radicali"): questi ultimi loro si misero in società con lo Sdi e riesumarono il simbolo della Rosa nel pugno per liste - dell'associazione omonima costituita da rappresentanti della Lista Pannella e dello Sdi, con la partecipazione dell'Associazione Luca Coscioni e della Federazione dei giovani socialisti - collocate nel centrosinistra. 
Quanto all'area più liberale, sfumò anche il progetto di partito unitario - l'idea di proporzionale aveva finito per prevalere - cosi il gruppo si preparò a concorrere alle elezioni con il nome e il simbolo presentato alla stampa a novembre del 2005: un salmone - infilato tra le iniziali del partito - scelto per segnalare la decisione di risalire la corrente e andare nel verso opposto a quello seguito da Pannella & co. E, dal momento che la Rosa nel Pugno aveva scelto di indicare nel simbolo il riferimento ai "laici, liberali, socialisti, radicali", Della Vedova e gli altri decisero che l'emblema doveva essere più riconoscibile, così inserirono l'originale fregio a fondo arancione (con il salmone inspiegabilmente sfumato) in un cerchio blu, sopra la dicitura "Radicali per le libertà", con la prima e l'ultima parola in grande evidenza, per identificarsi e per marcare la scelta di campo. 
Il 19 febbraio 2006 fu dunque presentato il contrassegno che tra il 24 e il 26 febbraio sarebbe stato depositato in vista delle elezioni del 9-10 aprile. In effetti lo si vide soltanto sulle schede del Senato (e solo in Veneto, Puglia e Sicilia, perché altrove non si riuscirono a raccogliere le firme), perché alla Camera il partito preferì federarsi con Forza Italia, inserendo propri candidati nelle liste della bandierina berlusconiana: la coalizione tuttavia perse le elezioni e, dei candidati schierati in Fi, fu eletto solo Della Vedova. 
Prima, peraltro, durante la campagna elettorale, c'era stato il tempo di dedicarsi ai "grandi scherzi" anche nel centrodestra: a marzo era uscito Il caimano di Nanni Moretti e il 1° aprile - che caso... - le agenzie batterono un'indimenticabile dichiarazione di Calderisi e Taradash: "Per esprimere la loro piena solidarietà a Silvio Berlusconi e per dare la migliore risposta liberale all'infamante campagna accusatoria messa in atto dalla sinistra, i RL hanno deciso di modificare il loro simbolo, sostituendo il salmone con un caimano. Nelle Regioni dove siamo presenti con nostre liste, gli elettori troveranno ancora il nostro vecchio contrassegno perché è quello il simbolo depositato ufficialmente al Ministero degli Interni per questa competizione elettorale. Ma dall'11 aprile, adotteremo ufficialmente il nuovo simbolo, che affianca al nome Riformatori Liberali la sagoma di un caimano con gli stessi colori del salmone. Sarà un caimano salmonato".
Manco a dirlo, il caimano non comparve - ma chissà se un bozzetto qualcuno l'aveva preparato... - e, quando alla fine del 2007 si iniziò a parlare con insistenza del progetto che si sarebbe chiamato Popolo della libertà, i Riformatori liberali decisero di essere fin dall'inizio della partita. Della Vedova e Calderisi furono candidati ed eletti nelle liste del Pdl e, un anno dopo le elezioni del 2008, il partito del salmone optò per lo scioglimento (e per il contemporaneo lancio dell'associazione Libertiamo) poco prima che - a fine marzo 2009 - si arrivasse al congresso costituente che vide Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini approdare ufficialmente nello stesso partito. L'idillio durò poco, al punto tale che alla fine di luglio del 2010 i finiani costituirono Futuro e libertà per l'Italia: tra gli aderenti al gruppo parlamentare, c'era anche Della Vedova. Nel 2013 sarebbe stato eletto al Senato tra le file dei montiani e avrebbe aderito a Scelta civica (per poi diventare sottosegretario agli esteri), fino al lancio di Forza Europa nel 2017 e alla costituzione - con Radicali italiani e, in seguito, Centro democratico di Bruno Tabacci - di +Europa, di cui è divenuto segretario nel 2018. Il simbolo è decisamente più colorato di quello sorto nel 2005, ma quel salmone - mai utilizzato prima, mai più utilizzato dopo da altri, una delle pochissime escursioni ittiche della politica italiana - aveva lasciato il segno: chi si ritiene un cultore della Seconda Repubblica non può non considerare i Riformatori liberali come una pagina imprescindibile, anche se di breve durata.

lunedì 15 luglio 2019

Scudo crociato, ricorso di Sandri respinto in Cassazione. Ma non finisce qui

Ogni tanto alle storie bisogna mettere un punto, o almeno cercare di farlo. Questo vale, per esempio, per una delle tante diatribe giudiziarie legate alla Democrazia cristiana e ai suoi segni distintivi (nome e simbolo, per capirci): tre giorni fa - giusto in coincidenza con l'evento di presentazione della Fondazione Democrazia cristiana - infatti, è stata depositata in Corte di cassazione l'ordinanza (n. 18746/2019) con cui è stata decisa in via definitiva - nell'udienza del 208 maggio scorso - la causa che a febbraio del 2006 era stata iniziata da Angelo Sandri, che riteneva di rappresentare (come segretario politico nazionale) la Dc, assieme al segretario amministrativo Palmiro Scalabrin. 
Loro avevano citato in giudizio varie sigle politiche che nel corso degli anni avevano utilizzato il nome della Dc (la Democrazia cristiana guidata da Gianfranco Rotondi, poi ribattezzata Democrazia cristiana per le autonomia) o lo scudo crociato (il Ccd, il Ppi - nelle versioni del 1994 e del Ppi-gonfalone del 1995 - il Cdu e l'Udc), chiedendo che fosse inibito loro ogni ulteriore uso dei segni identificativi, nonché la condanna delle stesse (tranne la Dc-Rotondi) "alla restituzione, anche per equivalente, di tutti i beni mobili ed immobili indebitamente sottratti all'attrice e/o al risarcimento del danno, da quantificarsi per equivalente", o alla peggio, all'indennizzo pari alla "diminuzione patrimoniale subita a seguito dell'arricchimento senza causa dei convenuti" dall'attrice. Ove l'attrice era la Dc-Sandri che riteneva di coincidere in pieno con la Dc "storica" che aveva operato con certezza fino al gennaio del 1994, anche sulla base della nullità - o almeno dell'inefficacia - degli atti di trasformazione della Dc in Ppi (e degli atti successivi, compresi quelli dispositivi del patrimonio).  
In questo sito ci si era già occupati, poco meno di due anni fa, di questa vicenda, quando la Dc-Sandri aveva impugnato la sentenza d'appello che a febbraio del 2017 aveva respinto il suo ricorso anche in secondo grado e Rotondi aveva fatto sapere alla stampa che una sentenza gli aveva a suo dire riconosciuto la titolarità del nome della Dc (con la possibilità di abbinarlo allo scudo crociato usato da oltre quindici anni dall'Udc). Ora alla terza sezione della Corte di cassazione (presieduta da Roberta Vivaldi e avente come giudice relatore Augusto Tatangelo) è bastata un'ordinanza di cinque pagine per respingere quel ricorso della Dc-Sandri (al quale ha resistito soltanto il Ppi), contenendo in una pagina scarsa le ragioni che hanno fatto ritenere l'impugnazione inammissibile.
Chi si aspettasse di trovare nella sentenza l'ennesima rivisitazione della storia infinita della diaspora democristiana, con tanto di spiegazioni circa l'infondatezza del ricorso, resterebbe sostanzialmente deluso. Come si è anticipato poche righe sopra, il gravame è stato ritenuto addirittura inammissibile e, come tale, nemmeno considerato in modo approfondito. I giudici, infatti, hanno notato che le censure contenute nel ricorso erano volte non "a contestare direttamente la decisione impugnata, ma la sentenza di primo grado, di cui viene chiesta la riforma" (come se si fossero semplicemente riprodotte le critiche contenute nell'atto d'appello); per il collegio di cassazione, in più, mancavano "una adeguata ed intelligibile esposizione dei fatti di causa" e, appunto, "specifiche censure avverso la decisione impugnata e la stessa prospettazione di motivi di ricorso per cassazione riconducibili alle previsioni di cui all'art. 360 c.p.c.". 
Tanto è bastato per ritenere inammissibile il ricorso, senza nemmeno valutare i singoli punti in esso contenuti: com'è noto, le sentenze di secondo grado possono essere impugnate solo per "errori di diritto", vale a dire per motivi attinenti alla giurisdizione o per violazione delle norme sulla competenza, per "violazione o falsa applicazione di norme di diritto", per "per nullità della sentenza o del procedimento" (dunque per violazioni di particolare gravità) o "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
Stando così le cose, è il caso di riprendere il contenuto della sentenza di primo grado del tribunale di Roma (c.d. "sentenza Vannucci", dal nome del giudice relatore), che assai meglio di quella d'appello chiarisce i motivi che hanno portato a respingere il ricorso della Dc-Sandri già nel 2009. In quell'occasione si disse che la decisione di cambiare il nome della Democrazia cristiana in Partito popolare italiano (presa "in tre tempi" tra il 18, 21 e 29 gennaio 1994 da tre diversi organi del partito, anche se - come si è ricordato più volte - nessuno dei tre era competente a fare quella modifica) non poteva in alcun modo essere tradotta come volontà di costituire un nuovo partito denominato Ppi (e, per i giudici, non si poteva nemmeno parlare di inesistenza della decisione di cambiare il nome da Dc a Ppi, anche se nel 2009 la Corte d'appello di Roma ha detto l'esatto contrario); la nascita del Ccd nel 1994 e del Cdu nel 1995, d'altra parte, dovevano considerarsi un recesso collettivo dal Ppi - ex Dc; il Cdu aveva contestualmente ricevuto l'uso dello scudo crociato prima sulla base degli "accordi di Cannes" del 1995 stipulati tra Gerardo Bianco e Rocco Buttiglione, poi in seguito alla transazione del 1999 - a soluzione di una delle numerose cause sorte tra le due fazioni - tra i legali rappresentanti di Ppi-gonfalone e Cdu. Lo stesso Cdu avrebbe poi conferito - senza sostanziali reazioni da parte degli altri soggetti politici interessati - l'uso dello scudo crociato all'Udc, dalla quale nel 2004 si è scissa la Dc-Rotondi (poi Dca), alla quale il Ppi nel 2004 aveva concesso l'uso del vecchio nome.
Ricostruite così le vicende storiche, il tribunale di Roma rilevò che, al di là delle "'scaramucce' in sede solo giudiziaria", tra il 1994 e il 2004 nessun partito aveva partecipato alle elezioni con il nome della Dc: il che non è del tutto vero, se non altro perché almeno alle amministrative qualche tentativo era stato fatto ed era anche riuscito (così come non era andata in porto per poco la partecipazione della Dc alle regionali del Friuli del 1998) e alle europee del 2004 aveva regolarmente partecipato al voto la lista Democrazia cristiana - Paese nuovo (anche se nel contrassegno non c'era traccia del nome della Dc, dopo che il Viminale non ne aveva ammesso l'uso). Questa mancata partecipazione, però, per i giudici era sufficiente a rendere "quanto mai problematico affermare che 'Dc-Sandri' sia lo stesso partito denominato 'Democrazia cristiana'".attivo fino al 1994 e, dunque, possa reclamare diritti sul patrimonio; quanto all'uso di nome e simbolo della Dc, il loro uso fatto in quel momento rispettivamente da Dc-Rotondi e dall'Udc avveniva con il consenso di tutti i partiti "di ispirazione 'cattolica', raggruppanti persone che avevano avuto significative esperienze politiche in seno" alla Dc, quindi anche in questo caso la Dc-Sandri - che per il giudice risultava essere esistente solo dagli anni 2000 - non avrebbe avuto alcun titolo per rivendicare diritti sui segni distintivi democristiani (in quella sede peraltro erano state respinte anche le censure del Ppi contro la Dc-Sandri, perché per il giudice il Ppi aveva "volontariamente dismesso" il nome della Dc a favore di Rotondi).
L'ordinanza di cassazione - che, oltre a respingere il ricorso della Dc-Sandri, decide di compensare le spese del giudizio di legittimità viste "le peculiarità della vicenda sostanziale e processuale nonché dei rapporti tra i soggetti giuridici coinvolti" - conclude dunque almeno quel filone litigioso. "A venticinque anni dalla fine della Democrazia cristiana la Cassazione scrive la parola (forse) definitiva nella disputa tra gli eredi del partito che ha governato l’Italia per quasi mezzo secolo", ha scritto il giorno stesso del deposito della decisione - incredibilmente quasi in tempo reale - Riccardo Ferrazza sul Sole 24 Ore: difficile però dargli ragione, perché per due vicende giudiziarie definitivamente chiuse con pronuncia di cassazione (questa e quella conclusa con la famosa sentenza n. 25999/2010) altre, molto più recenti, sono ancora aperte, a partire da quelle con cui si contesta tanto l'assemblea della Dc del 26 febbraio 2017, quanto la celebrazione del congresso del 14 ottobre 2018. E queste, se si dovessero concludere in un certo modo, porrebbero una pietra quasi tombale sul tentativo di riportare in vita la Dc. Quasi, perché chi finora ha voluto e tuttora vuole vedere nome e simbolo dei democratici cristiani di nuovo in azione sulla scena politica - pur nell'ampia differenza di vedute sul modo per tornare in attività - ha dimostrato una tenacia e una resistenza invidiabili. Democristiani erano, democristiani vogliono rimanere...

domenica 14 luglio 2019

Sinistra: il nuovismo simbolico-organizzativo che porta alla disfatta (di Roberto Capizzi)

Periodicamente l'ultraframmentazione della sinistra italiana finisce oggetto di articoli, analisi, volumi (come Déjà vu di Francesco Cundari, ripercorso in questo sito), ironie, persino test di conoscenza politica (aveva iniziato L'Espresso). Non ci si ferma mai abbastanza a riflettere, però, su quanto i continui cambi di insegne e di contenitori - non necessariamente di persone - siano dannosi, per il morale dei sostenitori e in generale per la credibilità di ogni singolo, nuovo e (almeno) penultimo progetto. Cedo per questo volentieri la voce a Roberto Capizzi, consultatore seriale di questo sito ma soprattutto portatore di un sogno per nulla celato: che a sinistra un simbolo duri almeno quattro elezioni politiche di fila (non anticipate, non facciamo i furbi). Leggendo le parole di Capizzi, verrebbe da sperare che a sinistra, almeno sul piano simbolico, avessero voglia di aderire all'invito datato ma intatto di Aldo Moro: "Non fate nulla. Nulla. E se proprio non ce la fate a non fare assolutamente niente, fate pochissimo". E quel pochissimo sarebbe comunque troppo.

Dalla fine dei partiti di massa, avvenuta più o meno in contemporanea con la stagione giudiziaria passata alla storia come “tangentopoli”, non passa elezione senza che nuovi simboli, nuovi partiti o nuovi finti partiti (in realtà poco più che comitati elettorali o liste"di scopo", nel senso "con lo scopo di far eleggere qualcuno"), nuovi soggetti "civici" (qualsiasi cosa voglia dire il termine) appaiano sulle schede. 
Nel campo largo del centro-sinistra e in quello della sinistra rimasta al di fuori del primo, questo continuo rinnovamento simbolico, associato spesso (ma non sempre, si pensi alla lista della Sinistra - l'Arcobaleno del 2008) a una moltiplicazione dei soggetti esistenti, ha trovato una propria sublimazione.
Il fenomeno è facile da verificare. Ad ogni elezione - fosse essa comunale, provinciale (quando ancora si poteva votare per le province), regionale, politica o europea - nuovi simboli venivano partoriti dall'accrocchio del momento, che però doveva essere eterno o quantomeno destinato a durare, almeno secondo i dirigenti di turno.
A ogni elezione il risultato negativo conduceva poi a nuove separazioni e alla nascita dalle ceneri delle esperienze unitarie (dalla Federazione della Sinistra a Liberi e Uguali) di nuovi soggetti.
Si è creduto, in altri termini, tra i dirigenti ma anche tra larga parte del settore militante della sinistra (forse nella sua maggioranza) che scorciatoie organizzative potessero fornire quel risultato - in termini di consenso nel cuore del Paese e nelle urne - che invece soltanto la politica può portare.
Paradossalmente, i continui cambi di nomi e simboli dei partiti della sinistra nonché le loro continue frantumazioni (anche se l'unità a prescindere dai contenuti è anch'essa un dramma del quale sarebbe utile liberarsi: è, ad esempio, la malattia che affligge Giuliano Pisapia) hanno contribuito a quei risultati negativi
La confusione, lo smarrimento per non aver trovato il proprio simbolo sulla scheda, la delusione per non avere di nuovo il simbolo che si è votato la volta prima, sono stati anch'essi cause, sia pure minori, del declino della sinistra in Italia.
A questo elemento che concerne l'aspetto simbolico va ovviamente aggiunta la politica: la rincorsa al centro, l'abbandono di un'idea alternativa di società, le privatizzazioni da un lato; il settarismo, il dogmatismo, il minoritarismo dall'altro. Tutto questo ha confinato la sinistra a essere certa, e sempre più ridotta, minoranza. 
Quale strategia dunque è necessario percorrere in un'epoca di crescita delle destre - anche di quelle che possono ritenersi apertamente "fasciste", come il risultato della Lega in Italia e di Bolsonaro in Brasile ci dicono - su scala globale?
Premessi i dati politici, ideologici (e sarebbe anche il caso che la parola ideologia riprendesse il proprio posto, scacciando quell'obbrobrioso termine liberale di "programma"), di visione del mondo, radicalmente alternativi alle destre, occorre che sul piano organizzativo si abbia il coraggio di mettere un punto fermo alla frantumazione e alle scorciatoie nuoviste.
Per quanto concerne il frazionismo, il lavoro da compiere è arduo e riguarda ogni militante della sinistra preso singolarmente. Abiurando a un'idea collettiva della politica, allo spirito di partito, alla convinzione di fare qualcosa anche se non convinti perché "è il partito che lo chiede", ogni singolo militante si crede in diritto di poter contestare pubblicamente - ma anche farlo sulle proprie reti sociali, ad esempio, vuol dire farlo pubblicamente - la linea del proprio partito, di scegliere candidati da esso non designati, di muoversi liberamente se eletto in qualche incarico pubblico, ecc. Tale atteggiamento (che è di destra, antropologicamente di destra) porta poi, quando coinvolge qualche dirigente o qualche eletto al parlamento, alla fondazione di nuovi partiti che aggiungono confusione alla confusione. L'unica strada per combattere questo male è anche l'unica strada per battere per sempre le scorciatoie nuoviste: la politica di una volta.
L'umiltà, la disciplina di partito, l'impegno nel partito anche dopo le sconfitte (cosa che non implica ovviamente la stupidità, che hanno i settari, di seguire sempre la medesima via nonostante si perda sempre) sono l'unica strada che può condurre a Partiti con la "P" maiuscola, che durino almeno vent'anni e che siano casa sicura, accogliente, rassicurante e insieme educatrice per generazioni di militanti. 
Chi vi scrive è iscritto dalla propria fondazione ad Articolo Uno: si tratta certamente di un soggetto politico nato da una scissione, anzi forse si dovrebbe più correttamente parlare di due scissioni (quella dal Pd, la più nota, e quella da un pezzo di Sel, mia penultima casa politica), eppure erano scissioni politicamente motivate.
Nel tentativo di far prevalere la politica sulla ragioni di un'unità fine a sé stessa, Articolo Uno ha contribuito alla nascita di Liberi e Uguali, una coalizione politica che sarebbe dovuta diventare partito subito dopo le elezioni, celebrando un congresso nel quale si sarebbe scelto il gruppo europeo al quale aderire e quindi la propria direzione futura.
Per motivi che in futuro qualche tesista di Scienze Politiche forse ci spiegherà (io sinceramente non ho capito perché non si sia celebrato un congresso, anche se ho capito chi non lo ha voluto), quanto promesso il 5 marzo 2018 è finito carta straccia, generando nuovo scoramento e nuovi abbandoni nel sempre più anemico tessuto militante. 
Da allora Possibile ha ripreso la propria attività autonoma, tingendosi di verde a qualche settimana dalla presentazione delle liste; da una scissione di Articolo Uno e dalla sua confluenza con settori di "autoconvocati di LeU" è nata èViva, ennesimo partito autonomo sia pure per l'uomo comune esso sì del tutto indistinguibile programmaticamente dalla già esistente Sinistra Italiana; da una scissione di Sinistra Italiana è nata l'associazione Patria e Costituzione, soggetto che mischia spunti interessanti con suggestioni poco accettabili; vi sono poi Sinistra Italiana, che continua a esistere, e Futura, comitato elettorale di Laura Boldrini che raccoglie parte delle personalità che erano state prossime a Giuliano Pisapia nella breve esperienza di Campo Progressista (tra essi l'eurodeputato fresco di elezione Massimiliano Smeriglio, anch'egli tra i transitati per Articolo Uno).
In ultimo Articolo Uno ha celebrato di recente il proprio congresso nazionale, confermando la propria permanenza come partito autonomo, ma allo stesso tempo non spegnendo le suggestioni circa nuovi soggetti da fondare, magari nel caso remoto in cui il Pd decidesse, finalmente, di sciogliersi.
Ritengo che lasciare aperte queste suggestioni sia sbagliato: se i primi a non credere nella durevolezza della nostra proposta politica (e simbolica e organizzativa) siamo proprio noi, perché gli altri dovrebbero crederci?
Si abbia il coraggio di compiere un percorso; si vincolino gli eletti di cui disponiamo a un sacro patto di rispetto delle decisioni provenienti dagli organismi interni; si discuta con franchezza con altri pezzi della sinistra sulla possibilità - in fine litis, oramai - di ridar vita a un simil-LeU, si tagli la strada a ogni ciarpame civista o da società civile (non è sempre vero, ma spesso dietro il civismo sta soltanto l'esigenza di non versare la quota al partito e fare ciò che si vuole una volta eletti) e si aprano e si comprino col poco denaro di cui disponiamo sedi e bandiere, il cui simbolo dovrà poi apparire sulle schede almeno un numero di volte sufficiente da farci riconoscere dagli elettori. 
Si mettano, in altri termini, radici materiali nella società e si consenta a chi ospita questa mia riflessione sul suo blog di scrivere in futuro: "nessuna novità grafica per la sinistra di Articolo Uno, presente ormai da anni sulle schede con lo stesso simbolo".

sabato 13 luglio 2019

Al via la Fondazione Democrazia cristiana, con Rotondi e il simbolo del Cdu

Dopo gli annunci, ieri è arrivato il giorno della "rinascita a nuova vita", più culturale che politica, dello scudo crociato, attraverso la presentazione della Fondazione Democrazia cristiana. Così almeno l'ha intesa Gianfranco Rotondi, deputato eletto in Forza Italia ma soprattutto ultimo legale rappresentante (quale tesoriere) dei Cristiani democratici uniti, il partito nato ufficialmente il 4 ottobre di 24 anni fa - davanti al notaio Edmondo Maria Capecelatro - ma in realtà frutto dei dissidi interni al Partito popolare italiano sorti a partire dalla decisione di stipulare accordi con il centrodestra comprensivo di Alleanza nazionale, che videro opporsi la fazione legata al segretario in carica Rocco Buttiglione a quella vicina al neoeletto Gerardo Bianco. 
Com'è ben noto ai #drogatidipolitica e ai semplici curiosi e interessati, quello scontro conobbe numerose scaramucce a Piazza del Gesù e varie puntate in tribunale (anche di molto successive rispetto a quegli eventi), ma trovò una prima, transitoria sistemazione con i cosiddetti "accordi di Cannes", stipulati tra Buttiglione e Bianco il 24 giugno e formalizzati il 14 luglio: proprio in quegli accordi si decise la spartizione politica dei segni identificativi, per cui Bianco avrebbe conservato il nome del Ppi, mentre il gruppo di Buttiglione ottenne l'uso dello scudo crociato (il nome invece, un chiaro omaggio sia alla storia democristiana sia a quella della Cdu di Helmut Kohl - che si era speso perché la diatriba nel partito cattolico terminasse - lo avrebbe suggerito a Buttiglione lo stesso Rotondi, allora giovane direttore del Popolo).
Quella storia, dopo la decisione del Cdu nel 2002 di confluire all'interno dell'Udc (apportando l'uso dello scudo crociato), è rimasta in sospeso fino ad agosto dell'anno scorso, quando Buttiglione aveva dato incarico a Rotondi di chiudere il partito, attivando tutte le procedure per la liquidazione e la sistemazione di ciò che era ancora pendente. Un mese fa, poi, era stato annunciato l'ultimo passaggio, vale a dire lo scioglimento del Cdu e - a patto che si sia ben inteso - la sospensione delle attività della Democrazia cristiana (già Dca) guidata dallo stesso Rotondi, con il conferimento di nomi e simboli alla Fondazione Fiorentino Sullo, ribattezzata per l'occasione Fondazione Democrazia cristiana: proprio quella presentata ieri alla Camera, alla Sala della Regina, all'interno di un incontro intitolato "Il futuro del cattolicesimo politico. Ci rivediamo in centro?", con Rotondi, Buttiglione e Mario Tassone, ultimo presidente del consiglio nazionale del Cdu, nonché segretario del Nuovo Cdu rinato nel 2014 e ieri presente con funzione di moderatore.
Correttamente ieri Rotondi ha detto che ieri non si era di fronte al funerale della Dc o dello stesso Cdu, visto che le loro vite politiche continuano sia pure con un'altra forma, ma solo a "un passaggio giuridico cui abbiamo voluto dare una certa solennità". Eppure, i presenti a quello che lui stesso ieri ha chiamato "rito sacrificale" - ma solo perché "in un venerdì di luglio, alle tre del pomeriggio, può venire qui solo chi è terribilmente affezionato alla Democrazia cristiana" - non hanno assistito ad alcuna firma di atti (notarili o no), né alla consegna dello scudo crociato alla Fondazione Democrazia cristiana. Allo scioglimento del Cdu si è fatto solo rapido cenno, con un riferimento da parte di Rotondi ("Come legale rappresentante del Cdu dico che oggi si conclude questa lunga vicenda attraversata da una serie infinita di cause civili, liti sul simbolo e sul patrimonio, una quantità di esposti che se li pubblicassimo tutti faremmo un romanzo di appendice, ma dico con orgoglio che non abbiamo mai ricevuto un'iscrizione nel registro degli indagati") e il ricordo da parte di Tassone, secondo il quale a Buttiglione "tutti dobbiamo molto, perché abbiamo fatto rivivere il Ppi e non abbiamo perso lo scudo crociato".
Qualcosa di più sulla Fondazione Dc (già Fondazione Fiorentino Sullo, nome che campeggia ancora in qualche pagina del sito www.fondazionedemocraziacristiana.it) Rotondi l'ha detto, chiarendo innanzitutto che questa sarà vicina a tutti i soggetti che si richiamano alla storia e ai valori democristiani, a iniziare da partiti come l'Udc, il Nuovo Cdu e la Dc guidata da Renato Grassi, ma senza toccare il ruolo che spetta a questi ultimi, "visto che una fondazione non può svolgere attività politico-elettorale, tanto più che si tratta di una fondazione partecipata anche da enti pubblici, compreso il Mibact; i partiti per possono aderire alla fondazione come associazioni, se lo desiderano". 
Logo della Fondazione Sullo
Il deputato ha poi spiegato che la fondazione vorrà rappresentare "un luogo nel quale noi pensiamo di poter richiamare i democratici cristiani a discutere, a produrre pensiero e quindi politica: non è un passo indietro, ma ha l'ambizione di essere un passo avanti". Lo farà avendo nella propria insegna (eccolo qui) lo scudo crociato passato politicamente dalla Dc al Ppi al Cdu, ma non nella versione che ora si vede nel sito, che accosta il simbolo della Dc al volto di Fiorentino Sullo: è lo stesso Rotondi a spiegare a questo sito che sarà mantenuto proprio il simbolo del Cdu (quello effettivamente conferito alla fondazione) con tanto di denominazione del partito e riferimento al Ppe, ma nell'uso pratico sarà aggiunto al di sotto il nome intero della fondazione. "Lo scudo crociato - ha continuato Rotondi durante l'evento - rinasce a nuova vita, perché come effigie di questa fondazione si affaccia sul mercato culturale: chi conosce la legge sa che nomi e simboli si possono declinare in vari modi, possono avere un esercizio politico elettorale ma anche culturale. Il fatto che ci sia una Fondazione Dc non impedisce né l'uso elettorale del simbolo da parte di chi ha nel frattempo acquisito il diritto né che altri diano vita alla Democrazia cristiana, superando tutte le divisioni che vi sono state in questi anni: questo è l'augurio che sta in tutti i nostri cuori e, nel caso, la fondazione sarà ancora più impegnata a sostegno di quel soggetto, ma se anche le cose non dovessero andare così non dobbiamo perderci di vista: ci siamo e ci saremo ancora". 
Contestualmente, Rotondi ha annunciato che "la fondazione ha acquisito anche l'acronimo editoriale della Dc, con un sacrificio grande perché quando si tocca l'aspetto editoriale ci si accollano anche i debiti". Per un attimo si sarebbe tentati di restare interdetti: quale acronimo editoriale della Dc? Ovviamente non ci si riferisce alle testate storiche, Il Popolo e la Discussione, entrambe dirette da Rotondi, sia pure in tempi diversi (solo la seconda è in qualche modo sopravvissuta, passando dal Cdu all'Udc, fino alla gestione editoriale di Giampiero Catone e attualmente diretta da Giovanni Masotti; quanto al Popolo, la sua storia ufficiale è finita nel 2002, anche se in seguito è stato rieditato in altra forma dalla Dc-Sandri, che ancora ne cura la presenza online); Rotondi non parla nemmeno della testata Democrazia cristiana, fondata nel 2001, di cui lui stesso è stato direttore politico, mentre direttore responsabile era il suo portavoce Alfredo Tarullo (formalmente, peraltro, risultava quotidiano del movimento politico Magna Graecia Sud Europa di Fausto Sacco). Il parlamentare spiega - contattato da I simboli della discordia - che per acronimo editoriale intendeva "la registrazione del marchio a fini editoriali, in modo da poter editare il sito www.fondazionedemocraziacristiana.it". Sara questo, evidentemente, l'organo (telematico) della fondazione: si troveranno lì, tra l'altro, le notizie relative all'attività della fondazione, che prevede "un bellissimo programma autunnale e invernale di eventi, da tenere nei luoghi simbolici dei convegni della storia della Dc e delle correnti, da Saint Vincent a Belgirate, da Chianciano a Sorrento". 
La fondazione - che si doterà presto di altri organi oltre al presidente (lo stesso Rotondi) e al presidente d'onore (Buttiglione, mentre della Fondazione Sullo era Gerardo Bianco), a partire dal "consiglio nazionale" composto da tutti coloro che sono stati parlamentari di area Dc (presieduto, su richiesta di Rotondi, da Mario Tassone) - andrà avanti col contributo tanto dei soci fondatori (che hanno messo più risorse), quanto di chiunque vorrà aderire, pagando la quota di dieci euro (nulla per disoccupati e sotto i trent'anni), con la possibilità di organizzare sezioni (territoriali, d'ambiente, tematiche) ogni dieci aderenti: "l'organizzazione avverrà in piena autonomia, proprio perché la fondazione non è un partito: a livello locale potrà sostenere realtà sociali e politiche diverse, ma a livello nazionale avrà una sola idea, emergente dalla votazione online degli aderenti". 


Per i cultori della vicenda giuridica democristiana, va registrato anche l'intervento di Renato Grassi, segretario della "Democrazia cristiana storica" (così l'ha chiamata Rotondi, anche se in realtà quel nome si riferisce piuttosto ad altri soggetti): nel suo saluto ha accolto il nuovo inizio della fondazione come evento che "rimette in moto un processo di confronto politico di cui si sentiva la mancanza, offrendo un laboratorio per la formazione di idee e di una classe dirigente". Ritenendo che questo nuovo contenitore abbia comunque bisogno di luoghi (politici, s'intende) per concretizzare quelle idee, Grassi ha ricordato di aver avviato, assieme ad altre persone, "un percorso di ricomposizione dell'area tradizionale Dc e abbiamo avuto, grazie a una sentenza di Cassazione, la possibilità di recuperare anche formalmente il nome della Dc e lavoriamo per ricomporre un mondo che si richiamava a quei valori, in un progetto politico con una prospettiva più ampia". Sulla sincerità d'intenti di molti partecipanti a quel percorso non ci sono dubbi; sul fatto che possa proseguire con nome e simbolo tradizionali ce ne sono molti (ma se n'è parlato parecchie volte e se ne dovrà riparlare a breve).  

* * *

Il resto dei contenuti del pomeriggio di ieri - che hanno occupato la maggior parte dell'evento - è legato agli interventi che si sono succeduti, sull'effettivo spazio che l'iniziativa della fondazione potrà avere, in un panorama politico in evoluzione. "Noi auspichiamo fortemente che si affacci una novità - ha detto Rotondi - mi pare che questa legislatura sia simile a quella del 1992, per cui i partiti che ora sono in Parlamento penso non arriveranno vivi alle politiche e, come allora, credo che il favorito della vigilia (allora il Pds, oggi la Lega) sarà lo sconfitto. Il rosario ostentato, le provocazioni costanti al Papa e la caduta di laicità sono preoccupanti per i democratici cristiani: per questo non ci alleiamo con Salvini". 
Francesco Verderami del Corriere della Sera, per parte sua, ha riconosciuto alla Dc di essere stata "il collante politico di una nazione divisa, un partito che sul piano dei rapporti istituzionali è stato il perno del paese, facendosi carico anche delle esigenze degli alleati e a volte degli avversari; sul piano interno è stata invece l'unico esempio di forza democratica, visto che il segretario era rappresentante di una maggioranza ma anche il garante delle minoranze tutelate dal tanto vituperato manuale Cencelli". La sua colpa più grave è invece il non avere lasciato un'eredità mentre si era persa a trovare eredi, mentre si preparava la stagione in cui "si cambiavano i partiti per non cambiare i capi dei partiti e si facevano partiti sempre più piccoli per garantire leadership sempre più piccole": oggi, per Verderami, è necessario che la politica si faccia trovare pronta con una classe dirigente nuova e competente, "e non si tratta di ricostruire la Dc, perché il passato non ritorna, ma di usare le esperienze della Dc per garantire un rientro della politica, una nuova tenda per nuovi uomini".
Assai meno convinto che ci si spazio per un soggetto che si ispiri ai valori cristiani, anche solo in senso culturale, è apparso David Allegranti del Foglio, "in questo trionfo del populismo la vedo difficile, ma la sfida, pur complicata, è preziosa e il valore è tanto". Con la fine della Prima Repubblica, com'è noto, sono scomparsi i partiti tradizionali o "pesanti", per usare le parole di Fabrizio D'Esposito del Fatto Quotidiano: "Da allora è mancato un vero luogo fisico, dove contarsi, parlare, emozionarsi e selezionare la classe dirigente. La fine della Democrazia cristiana, poi, ha indotto una deriva clericale della vita politica italiana, il risultato è che lo spazio che fu della Dc ora è occupato da Salvini".
Solidarietà all'iniziativa di Rotondi è stata espressa anche da Mariastella Gelmini, presidente del gruppo forzista alla Camera, Ubaldo Livolsi (Semplice Italia, ex manager Fininvest, per il quale "per far ripartire l'economia italiana in una fase così critica servirebbero un governo e una classe politica con idee molto chiare, ma mancano. Occorre ripartire dalla meritocrazia e da proposte di medio periodo: la Fondazione Dc può essere un punto di partenza per questo") e Achille Colombo Clerici (presidente dell'Istituto Europa Asia: "Non ci sono più i referenti che sapevano tutti delle istanze popolari e dei loro bisogni: chi ha vissuto la diaspora dei politici cattolici come una diluizione dei valori cristiani nei vari ideali non può che vedere con favore il rafforzamento di una fondazione cui affidare la custodia e la declinazione dei valori cristiani nella società, nell'economia e nella politica"). 
La chiusura del rito è stata affidata a Rocco Buttiglione: "In questo momento in Italia interessi e valori si sono scissi e per questo non fondiamo un partito: visto che i valori non muoiono, mettiamo in campo una fondazione per fondare la nuova classe dirigente. Quando abbiamo fondato il Cdu avevo alcune idee, che sono ancora attuali perché purtroppo non sono state attuate, anche per una nostra poca capacità di comunicazione: dobbiamo riuscire a formare persone ragionando a partire dai fatti, aderendo alla realtà e non alla sua rappresentazione". 
Si resta in attesa, dunque, del programma di iniziative della fondazione, che quasi sicuramente coinvolgerà in futuro (lo ha fatto capire Rotondi) figure da Berlusconi al presidente del Consiglio Giuseppe Conte: chi ostinatamente vuol essere e sentirsi democristiano, anche senza partito, avrà la possibilità di farlo.