Ogni tanto alle storie bisogna mettere un punto, o almeno cercare di farlo. Questo vale, per esempio, per una delle tante diatribe giudiziarie legate alla Democrazia cristiana e ai suoi segni distintivi (nome e simbolo, per capirci): tre giorni fa - giusto in coincidenza con l'evento di presentazione della Fondazione Democrazia cristiana - infatti, è stata depositata in Corte di cassazione l'ordinanza (n. 18746/2019) con cui è stata decisa in via definitiva - nell'udienza del 208 maggio scorso - la causa che a febbraio del 2006 era stata iniziata da Angelo Sandri, che riteneva di rappresentare (come segretario politico nazionale) la Dc, assieme al segretario amministrativo Palmiro Scalabrin.
Loro avevano citato in giudizio varie sigle politiche che nel corso degli anni avevano utilizzato il nome della Dc (la Democrazia cristiana guidata da Gianfranco Rotondi, poi ribattezzata Democrazia cristiana per le autonomia) o lo scudo crociato (il Ccd, il Ppi - nelle versioni del 1994 e del Ppi-gonfalone del 1995 - il Cdu e l'Udc), chiedendo che fosse inibito loro ogni ulteriore uso dei segni identificativi, nonché la condanna delle stesse (tranne la Dc-Rotondi) "alla restituzione, anche per equivalente, di tutti i beni mobili ed immobili indebitamente sottratti all'attrice e/o al risarcimento del danno, da quantificarsi per equivalente", o alla peggio, all'indennizzo pari alla "diminuzione patrimoniale subita a seguito dell'arricchimento senza causa dei convenuti" dall'attrice. Ove l'attrice era la Dc-Sandri che riteneva di coincidere in pieno con la Dc "storica" che aveva operato con certezza fino al gennaio del 1994, anche sulla base della nullità - o almeno dell'inefficacia - degli atti di trasformazione della Dc in Ppi (e degli atti successivi, compresi quelli dispositivi del patrimonio).
In questo sito ci si era già occupati, poco meno di due anni fa, di questa vicenda, quando la Dc-Sandri aveva impugnato la sentenza d'appello che a febbraio del 2017 aveva respinto il suo ricorso anche in secondo grado e Rotondi aveva fatto sapere alla stampa che una sentenza gli aveva a suo dire riconosciuto la titolarità del nome della Dc (con la possibilità di abbinarlo allo scudo crociato usato da oltre quindici anni dall'Udc). Ora alla terza sezione della Corte di cassazione (presieduta da Roberta Vivaldi e avente come giudice relatore Augusto Tatangelo) è bastata un'ordinanza di cinque pagine per respingere quel ricorso della Dc-Sandri (al quale ha resistito soltanto il Ppi), contenendo in una pagina scarsa le ragioni che hanno fatto ritenere l'impugnazione inammissibile.
Chi si aspettasse di trovare nella sentenza l'ennesima rivisitazione della storia infinita della diaspora democristiana, con tanto di spiegazioni circa l'infondatezza del ricorso, resterebbe sostanzialmente deluso. Come si è anticipato poche righe sopra, il gravame è stato ritenuto addirittura inammissibile e, come tale, nemmeno considerato in modo approfondito. I giudici, infatti, hanno notato che le censure contenute nel ricorso erano volte non "a contestare direttamente la decisione impugnata, ma la sentenza di primo grado, di cui viene chiesta la riforma" (come se si fossero semplicemente riprodotte le critiche contenute nell'atto d'appello); per il collegio di cassazione, in più, mancavano "una adeguata ed intelligibile esposizione dei fatti di causa" e, appunto, "specifiche censure avverso la decisione impugnata e la stessa prospettazione di motivi di ricorso per cassazione riconducibili alle previsioni di cui all'art. 360 c.p.c.".
Tanto è bastato per ritenere inammissibile il ricorso, senza nemmeno valutare i singoli punti in esso contenuti: com'è noto, le sentenze di secondo grado possono essere impugnate solo per "errori di diritto", vale a dire per motivi attinenti alla giurisdizione o per violazione delle norme sulla competenza, per "violazione o falsa applicazione di norme di diritto", per "per nullità della sentenza o del procedimento" (dunque per violazioni di particolare gravità) o "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
Stando così le cose, è il caso di riprendere il contenuto della sentenza di primo grado del tribunale di Roma (c.d. "sentenza Vannucci", dal nome del giudice relatore), che assai meglio di quella d'appello chiarisce i motivi che hanno portato a respingere il ricorso della Dc-Sandri già nel 2009. In quell'occasione si disse che la decisione di cambiare il nome della Democrazia cristiana in Partito popolare italiano (presa "in tre tempi" tra il 18, 21 e 29 gennaio 1994 da tre diversi organi del partito, anche se - come si è ricordato più volte - nessuno dei tre era competente a fare quella modifica) non poteva in alcun modo essere tradotta come volontà di costituire un nuovo partito denominato Ppi (e, per i giudici, non si poteva nemmeno parlare di inesistenza della decisione di cambiare il nome da Dc a Ppi, anche se nel 2009 la Corte d'appello di Roma ha detto l'esatto contrario); la nascita del Ccd nel 1994 e del Cdu nel 1995, d'altra parte, dovevano considerarsi un recesso collettivo dal Ppi - ex Dc; il Cdu aveva contestualmente ricevuto l'uso dello scudo crociato prima sulla base degli "accordi di Cannes" del 1995 stipulati tra Gerardo Bianco e Rocco Buttiglione, poi in seguito alla transazione del 1999 - a soluzione di una delle numerose cause sorte tra le due fazioni - tra i legali rappresentanti di Ppi-gonfalone e Cdu. Lo stesso Cdu avrebbe poi conferito - senza sostanziali reazioni da parte degli altri soggetti politici interessati - l'uso dello scudo crociato all'Udc, dalla quale nel 2004 si è scissa la Dc-Rotondi (poi Dca), alla quale il Ppi nel 2004 aveva concesso l'uso del vecchio nome.
Ricostruite così le vicende storiche, il tribunale di Roma rilevò che, al di là delle "'scaramucce' in sede solo giudiziaria", tra il 1994 e il 2004 nessun partito aveva partecipato alle elezioni con il nome della Dc: il che non è del tutto vero, se non altro perché almeno alle amministrative qualche tentativo era stato fatto ed era anche riuscito (così come non era andata in porto per poco la partecipazione della Dc alle regionali del Friuli del 1998) e alle europee del 2004 aveva regolarmente partecipato al voto la lista Democrazia cristiana - Paese nuovo (anche se nel contrassegno non c'era traccia del nome della Dc, dopo che il Viminale non ne aveva ammesso l'uso). Questa mancata partecipazione, però, per i giudici era sufficiente a rendere "quanto mai problematico affermare che 'Dc-Sandri' sia lo stesso partito denominato 'Democrazia cristiana'".attivo fino al 1994 e, dunque, possa reclamare diritti sul patrimonio; quanto all'uso di nome e simbolo della Dc, il loro uso fatto in quel momento rispettivamente da Dc-Rotondi e dall'Udc avveniva con il consenso di tutti i partiti "di ispirazione 'cattolica', raggruppanti persone che avevano avuto significative esperienze politiche in seno" alla Dc, quindi anche in questo caso la Dc-Sandri - che per il giudice risultava essere esistente solo dagli anni 2000 - non avrebbe avuto alcun titolo per rivendicare diritti sui segni distintivi democristiani (in quella sede peraltro erano state respinte anche le censure del Ppi contro la Dc-Sandri, perché per il giudice il Ppi aveva "volontariamente dismesso" il nome della Dc a favore di Rotondi).
L'ordinanza di cassazione - che, oltre a respingere il ricorso della Dc-Sandri, decide di compensare le spese del giudizio di legittimità viste "le peculiarità della vicenda sostanziale e processuale nonché dei rapporti tra i soggetti giuridici coinvolti" - conclude dunque almeno quel filone litigioso. "A venticinque anni dalla fine della Democrazia cristiana la Cassazione scrive la parola (forse) definitiva nella disputa tra gli eredi del partito che ha governato l’Italia per quasi mezzo secolo", ha scritto il giorno stesso del deposito della decisione - incredibilmente quasi in tempo reale - Riccardo Ferrazza sul Sole 24 Ore: difficile però dargli ragione, perché per due vicende giudiziarie definitivamente chiuse con pronuncia di cassazione (questa e quella conclusa con la famosa sentenza n. 25999/2010) altre, molto più recenti, sono ancora aperte, a partire da quelle con cui si contesta tanto l'assemblea della Dc del 26 febbraio 2017, quanto la celebrazione del congresso del 14 ottobre 2018. E queste, se si dovessero concludere in un certo modo, porrebbero una pietra quasi tombale sul tentativo di riportare in vita la Dc. Quasi, perché chi finora ha voluto e tuttora vuole vedere nome e simbolo dei democratici cristiani di nuovo in azione sulla scena politica - pur nell'ampia differenza di vedute sul modo per tornare in attività - ha dimostrato una tenacia e una resistenza invidiabili. Democristiani erano, democristiani vogliono rimanere...
Loro avevano citato in giudizio varie sigle politiche che nel corso degli anni avevano utilizzato il nome della Dc (la Democrazia cristiana guidata da Gianfranco Rotondi, poi ribattezzata Democrazia cristiana per le autonomia) o lo scudo crociato (il Ccd, il Ppi - nelle versioni del 1994 e del Ppi-gonfalone del 1995 - il Cdu e l'Udc), chiedendo che fosse inibito loro ogni ulteriore uso dei segni identificativi, nonché la condanna delle stesse (tranne la Dc-Rotondi) "alla restituzione, anche per equivalente, di tutti i beni mobili ed immobili indebitamente sottratti all'attrice e/o al risarcimento del danno, da quantificarsi per equivalente", o alla peggio, all'indennizzo pari alla "diminuzione patrimoniale subita a seguito dell'arricchimento senza causa dei convenuti" dall'attrice. Ove l'attrice era la Dc-Sandri che riteneva di coincidere in pieno con la Dc "storica" che aveva operato con certezza fino al gennaio del 1994, anche sulla base della nullità - o almeno dell'inefficacia - degli atti di trasformazione della Dc in Ppi (e degli atti successivi, compresi quelli dispositivi del patrimonio).
In questo sito ci si era già occupati, poco meno di due anni fa, di questa vicenda, quando la Dc-Sandri aveva impugnato la sentenza d'appello che a febbraio del 2017 aveva respinto il suo ricorso anche in secondo grado e Rotondi aveva fatto sapere alla stampa che una sentenza gli aveva a suo dire riconosciuto la titolarità del nome della Dc (con la possibilità di abbinarlo allo scudo crociato usato da oltre quindici anni dall'Udc). Ora alla terza sezione della Corte di cassazione (presieduta da Roberta Vivaldi e avente come giudice relatore Augusto Tatangelo) è bastata un'ordinanza di cinque pagine per respingere quel ricorso della Dc-Sandri (al quale ha resistito soltanto il Ppi), contenendo in una pagina scarsa le ragioni che hanno fatto ritenere l'impugnazione inammissibile.
Chi si aspettasse di trovare nella sentenza l'ennesima rivisitazione della storia infinita della diaspora democristiana, con tanto di spiegazioni circa l'infondatezza del ricorso, resterebbe sostanzialmente deluso. Come si è anticipato poche righe sopra, il gravame è stato ritenuto addirittura inammissibile e, come tale, nemmeno considerato in modo approfondito. I giudici, infatti, hanno notato che le censure contenute nel ricorso erano volte non "a contestare direttamente la decisione impugnata, ma la sentenza di primo grado, di cui viene chiesta la riforma" (come se si fossero semplicemente riprodotte le critiche contenute nell'atto d'appello); per il collegio di cassazione, in più, mancavano "una adeguata ed intelligibile esposizione dei fatti di causa" e, appunto, "specifiche censure avverso la decisione impugnata e la stessa prospettazione di motivi di ricorso per cassazione riconducibili alle previsioni di cui all'art. 360 c.p.c.".
Tanto è bastato per ritenere inammissibile il ricorso, senza nemmeno valutare i singoli punti in esso contenuti: com'è noto, le sentenze di secondo grado possono essere impugnate solo per "errori di diritto", vale a dire per motivi attinenti alla giurisdizione o per violazione delle norme sulla competenza, per "violazione o falsa applicazione di norme di diritto", per "per nullità della sentenza o del procedimento" (dunque per violazioni di particolare gravità) o "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
Stando così le cose, è il caso di riprendere il contenuto della sentenza di primo grado del tribunale di Roma (c.d. "sentenza Vannucci", dal nome del giudice relatore), che assai meglio di quella d'appello chiarisce i motivi che hanno portato a respingere il ricorso della Dc-Sandri già nel 2009. In quell'occasione si disse che la decisione di cambiare il nome della Democrazia cristiana in Partito popolare italiano (presa "in tre tempi" tra il 18, 21 e 29 gennaio 1994 da tre diversi organi del partito, anche se - come si è ricordato più volte - nessuno dei tre era competente a fare quella modifica) non poteva in alcun modo essere tradotta come volontà di costituire un nuovo partito denominato Ppi (e, per i giudici, non si poteva nemmeno parlare di inesistenza della decisione di cambiare il nome da Dc a Ppi, anche se nel 2009 la Corte d'appello di Roma ha detto l'esatto contrario); la nascita del Ccd nel 1994 e del Cdu nel 1995, d'altra parte, dovevano considerarsi un recesso collettivo dal Ppi - ex Dc; il Cdu aveva contestualmente ricevuto l'uso dello scudo crociato prima sulla base degli "accordi di Cannes" del 1995 stipulati tra Gerardo Bianco e Rocco Buttiglione, poi in seguito alla transazione del 1999 - a soluzione di una delle numerose cause sorte tra le due fazioni - tra i legali rappresentanti di Ppi-gonfalone e Cdu. Lo stesso Cdu avrebbe poi conferito - senza sostanziali reazioni da parte degli altri soggetti politici interessati - l'uso dello scudo crociato all'Udc, dalla quale nel 2004 si è scissa la Dc-Rotondi (poi Dca), alla quale il Ppi nel 2004 aveva concesso l'uso del vecchio nome.
Ricostruite così le vicende storiche, il tribunale di Roma rilevò che, al di là delle "'scaramucce' in sede solo giudiziaria", tra il 1994 e il 2004 nessun partito aveva partecipato alle elezioni con il nome della Dc: il che non è del tutto vero, se non altro perché almeno alle amministrative qualche tentativo era stato fatto ed era anche riuscito (così come non era andata in porto per poco la partecipazione della Dc alle regionali del Friuli del 1998) e alle europee del 2004 aveva regolarmente partecipato al voto la lista Democrazia cristiana - Paese nuovo (anche se nel contrassegno non c'era traccia del nome della Dc, dopo che il Viminale non ne aveva ammesso l'uso). Questa mancata partecipazione, però, per i giudici era sufficiente a rendere "quanto mai problematico affermare che 'Dc-Sandri' sia lo stesso partito denominato 'Democrazia cristiana'".attivo fino al 1994 e, dunque, possa reclamare diritti sul patrimonio; quanto all'uso di nome e simbolo della Dc, il loro uso fatto in quel momento rispettivamente da Dc-Rotondi e dall'Udc avveniva con il consenso di tutti i partiti "di ispirazione 'cattolica', raggruppanti persone che avevano avuto significative esperienze politiche in seno" alla Dc, quindi anche in questo caso la Dc-Sandri - che per il giudice risultava essere esistente solo dagli anni 2000 - non avrebbe avuto alcun titolo per rivendicare diritti sui segni distintivi democristiani (in quella sede peraltro erano state respinte anche le censure del Ppi contro la Dc-Sandri, perché per il giudice il Ppi aveva "volontariamente dismesso" il nome della Dc a favore di Rotondi).
L'ordinanza di cassazione - che, oltre a respingere il ricorso della Dc-Sandri, decide di compensare le spese del giudizio di legittimità viste "le peculiarità della vicenda sostanziale e processuale nonché dei rapporti tra i soggetti giuridici coinvolti" - conclude dunque almeno quel filone litigioso. "A venticinque anni dalla fine della Democrazia cristiana la Cassazione scrive la parola (forse) definitiva nella disputa tra gli eredi del partito che ha governato l’Italia per quasi mezzo secolo", ha scritto il giorno stesso del deposito della decisione - incredibilmente quasi in tempo reale - Riccardo Ferrazza sul Sole 24 Ore: difficile però dargli ragione, perché per due vicende giudiziarie definitivamente chiuse con pronuncia di cassazione (questa e quella conclusa con la famosa sentenza n. 25999/2010) altre, molto più recenti, sono ancora aperte, a partire da quelle con cui si contesta tanto l'assemblea della Dc del 26 febbraio 2017, quanto la celebrazione del congresso del 14 ottobre 2018. E queste, se si dovessero concludere in un certo modo, porrebbero una pietra quasi tombale sul tentativo di riportare in vita la Dc. Quasi, perché chi finora ha voluto e tuttora vuole vedere nome e simbolo dei democratici cristiani di nuovo in azione sulla scena politica - pur nell'ampia differenza di vedute sul modo per tornare in attività - ha dimostrato una tenacia e una resistenza invidiabili. Democristiani erano, democristiani vogliono rimanere...
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