giovedì 31 marzo 2022

Italia popolare, nata da poco in Puglia ma già diffidata per il nome

Da poche settimane è nato un nuovo soggetto politico, con il cuore in Puglia, ma rischia seriamente di dover cambiare presto il nome. Ci si riferisce al gruppo che ha scelto di identificarsi con il nome Italia popolare e che fa capo a Massimo Cassano, senatore e sottosegretario al lavoro nella scorsa legislatura, dal 2019 a capo dell'Arpal Puglia (Agenzia regionale politiche attive del lavoro), prima da commissario straordinario, poi da direttore generale. Il nuovo movimento politico ha scelto di (continuare a) sostenere l'azione di Michele Emiliano e si sta organizzando sul territorio pugliese, ma a quanto pare dovrà fare i conti con chi - soprattutto in Piemonte, ma non solo - quel nome lo usa già da quasi vent'anni e finora è riuscito a far cambiare idea a chi pensava di fregiarsene.

Da Puglia popolare a Italia popolare

Conviene intanto cercare di inquadrare meglio il nuovo soggetto che vuole usare il nome "Italia popolare". Si è citato come figura chiave Massimo Cassano, già consigliere provinciale e regionale per Forza Italia (dopo una militanza nella Dc), confermato nell'assemblea legislativa pugliese nel 2010 nelle liste del Pdl. Per quel partito nel 2013 è stato eletto al Senato, per poi passare - all'atto del ripescaggio di Fi - col Nuovo centrodestra di Angelino Alfano: divenuto sottosegretario nei governi Renzi e Gentiloni, si è dimesso il 21 luglio 2017, in corrispondenza del suo abbandono di Alternativa popolare (nome assunto frattanto da Ncd) e del suo ritorno nel gruppo parlamentare di Forza Italia. Contestualmente, lo stesso Cassano aveva fondato un altro soggetto politico regionale, chiamato Puglia popolare: il nome, il carattere e i colori rimandavano decisamente al simbolo degli alfaniani, ma la collocazione era nettamente nel centrodestra, come appunto suggeriva l'adesione di Cassano al gruppo senatoriale forzista.
Col tempo, tuttavia, proprio Cassano ha scelto di appoggiare Emiliano, tant'è che Puglia popolare è stata tra i soggetti che hanno concorso nel 2020, alle elezioni regionali, a costituire e formare la lista Popolari con Emiliano, che nel proprio simbolo su fondo azzurro scuro conteneva l'accenno a un cuore (per riferirsi all'area popolare richiamando in parte il segno usato dal Ppe, insieme ai colori blu e giallo): la lista sfiorò il 6% e ottenne addirittura sette consiglieri, nonché l'ingresso - con l'assessore al personale Gianni Stea e quello al lavoro Sebastiano Leo - nella nuova giunta guidata da Michele Emiliano, confermato presidente della Regione Puglia anche grazie all'amplissima coalizione che lo sosteneva. 
Circa un anno dopo le elezioni, però, i rapporti all'interno dell'ex lista - che intanto aveva scelto di trasformarsi nel movimento politico Popolari - avevano iniziato ad apparire più tesi. Lo ha dimostrato, ad esempio, una dichiarazione secca diffusa da Gianni Stea a fine agosto 2021, in cui si diffidavano "tutti coloro i quali in questi giorni e in vista delle imminenti elezioni amministrative, utilizzano o abbiano intenzione di utilizzare sia a mezzo stampa che sui social, i simboli dei Popolari e dei Popolari con Emiliano, o simboli simili che possano generare confusione negli elettori". Tra luglio e agosto, infatti, proprio Stea - promotore in autunno di varie liste alle amministrative - aveva fatto depositare a proprio nome domanda di marchio per i simboli dei Popolari e dei Popolari con Emiliano, per cui rivendicava di essere l'unica persona legittimata a usarli (e a decidere chi avrebbe potuto usarli): pur in mancanza di nomi nella nota, era facile pensare che si riferisse alle immagini in cui Massimo Cassano appariva accanto ad amministratori e candidati, affiancando al simbolo di Puglia popolare anche quello dei Popolari. Eppure solo un mese prima era stato Massimiliano Stellato, capogruppo dei Popolari con Emiliano, a lamentare usi a suo dire indebiti - e secondo i giornali ce l'aveva proprio con Stea - del nome del gruppo consiliare: "Per il gruppo consiliare parlo io, per il movimento politico 'Popolari' parlano Massimo Cassano e Totò Ruggieri".
Come che sia andata, con l'andare delle settimane la situazione ha conosciuto evoluzioni, fino alla scissione nel gruppo in consiglio regionale. Nel verbale della seduta del 1° marzo si legge infatti: "in data 28 febbraio 2022, il consigliere regionale Saverio Tammacco del Gruppo 'Misto' e i consiglieri Sebastiano Giuseppe Leo, Sergio Clemente, Mauro Vizzino, del Gruppo 'Popolari con Emiliano', ai sensi dell’articolo 6 del Regolamento interno, hanno comunicato di aver costituito il nuovo Gruppo consiliare denominato 'Per la Puglia'. Presidente del medesimo Gruppo è stato nominato il consigliere Saverio Tammacco". Per la Puglia (a fondo blu scuro, praticamente il tono di Puglia popolare, con il segno del "per" in bianco - nel quale è stata evidenziata in giallo una forma stilizzata del cuore - e un piccolo arco tricolore in basso) è dunque il nuovo gruppo, di cui fanno parte tanto Tammacco (che nel 2021 era approdato al gruppo misto dopo essere stato eletto nella lista La Puglia domani, legata a Fitto) quanto i tre ex Popolari con Emiliano, incluso l'assessore Leo.
Alla presentazione del gruppo, avvenuta il 28 febbraio con l'intervento dello stesso Michele Emiliano, c'era pure Massimo Cassano, anche se non ha parlato. I media hanno attribuito a lui il ruolo di artefice del nuovo raggruppamento; l'assessore Leo ha precisato "Noi siamo un gruppo che ha come riferimento Emiliano, la nostra leadership è condivisa, non c'è un capo; è un gruppo coeso e che non vuole andare contro nessuno e che vuole contare di più dentro il Consiglio regionale. Ed è sicuramente un gruppo che è ben visto anche dal direttore di Arpal Cassano". E se lo stesso giorno della nascita del nuovo gruppo l'assessore Stea ha annunciato una "azione di rafforzamento dei Popolari in tutta la Puglia", con l'idea - condivisa dal coordinatore Salvatore Ruggeri, già tesoriere Udc - di presentare una lista alle regionali del 2025 (e proprio il 28 febbraio ha pure fatto depositare un'altra domanda di marchio, stavolta per il simbolo Popolari al Centro), da varie settimane Cassano, Clemente e altri lavoravano per restituire visibilità e consolidare il progetto di Puglia popolare, il cui nome è comparso in vari consigli comunali. 
Già, ma Italia popolare? Proprio così, in effetti, si chiama ora il gruppo consiliare barese nato da pochissimo. A quanto sembra di capire, il simbolo di Italia popolare sarebbe apparso per la prima volta il 22 dicembre 2021, alla conferenza stampa in cui l'ex senatore Massimo Cassano aveva presentato l'ingresso in Puglia popolare di due dei consiglieri comunali baresi (Francesca Ferri e Giuseppe Di Giorgio) che fanno parte del neogruppo: sul tavolo dell'evento, c'erano le bandiere di Puglia popolare e dei Popolari (quelli con il cuore e senza il riferimento a Emiliano), ma c'era anche il vessillo di Italia popolare, praticamente quello di Puglia popolare (stesso blu di fondo, stesso carattere usato in passato da Ncd e Alternativa popolare), solo con il nome cambiato e con l'aggiunta di una semplice, sottile striscia tricolore. Lo stesso simbolo da poco più di un mese - e soprattutto dall'inizio di marzo - appare regolarmente sulla pagina Fb di Cassano.

"Italia popolare siamo noi dal 2004, non potete usare il nome"

Che ci sia l'idea di un progetto più ampio rispetto alla sola Puglia è confermato da una dichiarazione della capogruppo barese Francesca Ferri: "Puntiamo - ha detto a proposito di Puglia popolare - ad andare oltre i confini regionali, a trasformarci presto in 'Italia Popolare' con un progetto centrista e moderato, nel solco dell'azione amministrativa e politica con Antonio Decaro e Michele Emiliano". 
Com'è bastato cambiare Alternativa popolare in Puglia popolare, basterà sostituire il nome della regione con quello dell'intero Paese? Forse no, a giudicare dalla diffida che poche ore fa è stata inviata a Cassano dal moncalierese Giancarlo Chiapello, della segreteria nazionale di Italia popolare, fondata quasi vent'anni fa. "Ci corre l’obbligo - scrive Chiapello nella comunicazione, comunicando di avere da poco appreso dell'uso del nome "Italia popolare" - di segnalare l’impossibilità da parte vostra di utilizzare tale denominazione in uso ad altro movimento politico. Infatti “Italia Popolare” come movimento per l’Europa nasce a Roma nel 2004 con atto depositato presso un notaio, presieduto dal sen. prof. Alberto Monticone, con Presidente onorario l’on. Gerardo Bianco, e inizia le sue attività e il suo impegno legato all’identità del popolarismo, su scala nazionale. La sede nazionale oggi si trova presso i Popolari di Moncalieri (To), ultima sezione operativa sturziana in Italia, che precedentemente, aderenti a Italia Popolare, hanno svolto l’incarico di segreteria organizzativa ed oggi mantengono la piena continuità operativa del movimento anche dal punto di vista elettorale, avendo utilizzato negli anni la denominazione di Italia Popolare in elezioni amministrative piemontesi e campane".
Chi frequenta in modo assiduo o saltuario questo sito difficilmente proverà stupore di fronte a queste affermazioni: già in passato, infatti, Chiapello aveva messo in guardia chi aveva cercato di impiegare le denominazioni "Italia popolare" o "Popolari" (parola che campeggia nel simbolo depositato come marchio nel 2006 dall'associazione moncalierese I Popolari - Collegio 12 - proprio quella - e che attualizzava lo scudo nel gonfalone elaborato nel 1995 per la parte di Ppi che aveva scelto di seguire Gerardo Bianco e non Rocco Buttiglione). "Come in passato ci troviamo nella condizione di tutelare una denominazione che rappresenta un impegno quasi ventennale di tanti uomini e donne che si sono impegnati a preservare la tradizione del popolarismo italiano". 
A conferma tanto dell'uso precedente quanto delle battaglie già sostenute a difesa del nome, tra l'altro, la diffida cita un articolo pubblicato proprio da questo sito all'inizio del 2017, quando si dava per imminente la possibile adozione dell'etichetta "Italia popolare" da parte del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. In quell'occasione si ricordarono l'avvertimento già lanciato nel 2011 a Silvio Berlusconi (quando sembrava che volesse ribattezzare "Popolari" il suo partito: l'idea tramontò in fretta), ma soprattutto l'altolà lanciato un anno più tardi - nel mese di dicembre 2012 - a Gianni Alemanno, che voleva organizzare una manifestazione e magari un movimento usando come nome proprio "Italia popolare": "si ritiene dunque opportuno - scrisse allora Chiapello - per evitare confusioni diffidare chiunque dall'utilizzo di tale denominazione, in particolare da parte di chi è ben lontano dalla tradizione politica del popolarismo, che mai ha assunto connotazioni o interpretato posizioni di destra". Non risulta che quel nome, dunque, sia più stato utilizzato. Quando poi, nel 2017, Giuseppe (e Ciriaco) De Mita inaugurarono L'Italia è Popolare, allora il gruppo di Chiapello non mandò diffide, ma - sulla base della comune storia democristiana e popolare - instaurò un dialogo, offrendo collaborazione a patto di ottenere reciproco riconoscimento e pari dignità (ciò ha portato, nel 2020, alla concessione dell'uso del vecchio simbolo del gonfalone ai De Mita, inserito in una delle liste presentate a sostegno di Vincenzo De Luca).
Oltre all'uso a livello locale, poi, si aggiunge che il soggetto politico Italia popolare può contare su un altro titolo rilevante: nel 2008 il suo simbolo è stato depositato anche al Ministero dell'interno in vista delle elezioni politiche (anche se poi non si sarebbe fatta la lista) e quel contrassegno è stato regolarmente ammesso. Ricordando a Cassano i precedenti qui citati in breve, Chiapello si augura che cessi quanto prima da parte del suo gruppo l'uso del nome Italia popolare "per non ingenerare confusione con una realtà politica preesistente ed operativa", annunciando in caso contrario azioni (anche giudiziarie) a tutela di Italia popolare. Qui ovviamente il problema non è dato dal simbolo in sé - visibilmente diverso - ma dall'identità del nome (che ancora prima dell'emblema è in grado di identificare un soggetto politico). Ci vorrà tempo per sapere se l'invito di Chiapello sarà accolto oppure no: eventuali sviluppi, ovviamente, saranno divulgati.

martedì 29 marzo 2022

Prima l'Italia, le storie dello slogan che Salvini trasforma in simbolo

Non è certo passata inosservata la notizia della lista Prima l'Italia!, che la Lega e il suo segretario Matteo Salvini - secondo quanto detto nel consiglio federale tenutosi oggi a Roma, nella sede del partito di via delle Botteghe Oscure - intenderebbero lanciare a partire dalle prossime elezioni amministrative, iniziando l'esperimento a Palermo. L'attenzione dei più si è concentrata sul ruolo che quella lista potrebbe avere nel centrodestra locale, essendo in grado di accogliere sotto lo stesso emblema - privo di ogni traccia della statua tradizionalmente legata al personaggio di Alberto da Giussano - sensibilità diverse, civiche innanzitutto, ma con l'idea che anche buona parte della coalizione possa rientrarvi, ora o in seguito. 
Così, accanto alle parole del segretario siciliano della Lega (e indicato come maggior propulsore dell'operazione "Prima l'Italia!") Nino Minardo - per il quale la scelta è stata fatta "per aprirci al civismo, agli amministratori locali, ai movimenti civici regionali e provinciali. Ci sono tanti sindaci in cerca di collocazione politica, in cerca di un punto di riferimento. Amministratori che ancora non hanno scelto il contenitore più adatto a loro. Noi intendiamo lavorare così, sia in vista delle amministrative per Palermo, che in vista delle elezioni regionali" - occorre considerare l'intervista che lo stesso Salvini ha rilasciato a Mario Barresi del quotidiano La Sicilia: per lui Prima l'Italia! è "un progetto serio, ambizioso e vincente. Da tempo parliamo di federazione di centrodestra per valorizzare e rafforzare l’impegno e i valori della coalizione: sono convinto che il laboratorio Sicilia darà risposte importanti"; poiché la Lega "è il partito di centrodestra che tra amministrazioni locali, Parlamento ed Europa ha il maggior numero di eletti", avrebbe anche "l'onore e l'onere di suggerire soluzioni per tutta la coalizione", dunque una federazione con simbolo non connotato partiticamente, che possa diventare "una casa accogliente anche per tanti amministratori locali ed esponenti della società civile interessati a un progetto di buon governo".
Ora, si lascino perdere per un attimo i diversi gradi di accoglienza della proposta da parte delle forze del centrodestra (con le reazioni di Forza Italia e Udc più interessate e un discreto gelo da parte di Fratelli d'Italia e del presidente uscente, Nello Musumeci, che avrà proprio l'appoggio di Fdi): da queste parti, meglio concentrarsi sul simbolo che è stato presentato e diffuso online. Chi segue da tempo le campagne politiche della Lega e di Matteo Salvini non può certo stupirsi dell'uso anche elettorale dello slogan "Prima l'Italia!": esso era comparso già nella campagna verso le elezioni europee (e amministrative) del 2019 - e in particolare legato alla manifestazione di piazza Duomo a Milano del 18 maggio - accompagnato allo stesso elemento tricolore curvilineo su fondo blu (più chiaro e sfumato rispetto alla tinta scelta ora), unito all'ulteriore elemento testuale "Il buonsenso in Europa". 
Allo stesso modo, si chiamava "Prima l'Italia! - Bella, libera, giusta" una manifestazione svolta lo scorso anno il 19 giugno a Roma (piazza Bocca della Verità). La medesima grafica, sempre su fondo azzurro sfumato, si era vista poi in quello stesso 2021 alle elezioni amministrative nei capoluoghi di provincia della Campania, in particolare a Benevento, Caserta (ma con la grafica sulla parte bianca del simbolo) e Salerno (sia pure con una font diversa); doveva esserci anche a Napoli, ma la lista Prima Napoli (nessuna delle liste locali aveva il punto esclamativo) non era finita sulle schede delle elezioni comunali a causa di varie carenze nei documenti presentati. Il primo esperimento, dunque, era già stato fatto lo scorso anno, anche se in quell'occasione era più giusto parlare di liste organizzate soprattutto dalla Lega, pur senza il simbolo ufficiale; questa volta lo sguardo è più ampio e punta non solo alle prossime comunali, ma all'intero panorama nazionale (oltre che a un'area più ampia possibile del centrodestra).
Certo è che in ambito politico né Matteo Salvini, né la Lega hanno la primogenitura sull'espressione "Prima l'Italia", senza punto esclamativo: nessun problema o nessuna causa all'orizzonte per chi intende usarlo, ma è giusto ricordare che la politica italiana ha già assistito all'uso di quell'espressione. L'ultimo di una certa rilevanza risale al 2013, quando l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno fondò un suo movimento, chiamandolo appunto Prima l’Italia, con l'idea di "contribuire a costruire una nuova grande alleanza, nazionale e popolare, per salvare l'Italia": il simbolo era un cerchio incompleto, tracciato solo con due pennellate verdi e rosse (praticamente il simbolo dell'Italia di mezzo di Marco Follini pennellato e girato di 90 gradi in senso orario).
Si potrebbe allora essere tentati di ascrivere lo slogan "Prima l'Italia" al centrodestra - e già questo potrebbe non far piacere a Salvini, interessato sì a federare quell'area, ma a individuarla appunto come area del buonsenso - ma la tentazione va subito messa da parte. Perché proprio "Prima l'Italia" fu lo slogan usato da Pierluigi Bersani nel 2012 (ma l'impiego era iniziato anche prima) per le iniziative del Partito democratico verso le elezioni del 2013. E, volendo andare ancora più indietro, "Prima l'Italia" fu uno dei messaggi schierati dalla Democrazia cristiana nella campagna tra il 1991 e le elezioni politiche del 1992 (le ultime cui abbia partecipato): faceva bella mostra di sé su uno dei manifesti più noti di quegli anni, assieme al payoff "Fai vincere il tuo futuro", sormontato da uno scudo crociato tridimensionale e dal bordo tricolore; altre volte questi due elementi erano combinati con un altro testo molto famoso, diretto un po' contro il primo avversario di sempre (il Pci, ormai diventato Pds), un po' contro il disegno allora portato avanti dalla Lega Nord guidata da Umberto Bossi: "Vogliono disgregare l'Italia, insieme lo impediremo". 
Il contenuto del simbolo che si appresta a fare capolino a Palermo, dunque, non è nuovo, ma - come si è visto - non è nemmeno una novità. Non è dato sapere come mai proprio ora Matteo Salvini abbia proposto di presentare liste con questo simbolo, posto che avrebbe potuto farlo in qualunque altro momento. Qualcuno, però, forse ha ancora in mente quel che accadde tra il 2012 e il 2013. Negli ultimi mesi del 2012, infatti, la Lega Nord guidata da Roberto Maroni aveva utilizzato in varie occasioni - a partire dagli "Stati Generali" svolti al Lingotto di Torino dal 28 a 29 settembre - lo slogan "Prima il Nord!", con la scritta pennellata color verde scuro (lo stesso tono del Sole delle Alpi). Quando furono presentati i contrassegni in vista delle elezioni politiche del 2013, non sfuggì a nessuno la presenza, tra gli emblemi depositati nell'ultima giornata disponibile (21 gennaio) di un simbolo con la stessa espressione, ma proposta con una diversa pennellatura e in un'altra tonalità di verde, oltre che racchiusa in un cerchio. Tempo qualche manciata di ore e si seppe che la Lega Nord, mediante Roberto Calderoli, si era rivolta al Viminale per chiedere la bocciatura di quel simbolo depositato da altri soggetti (proprio perché lo aveva ritenuto ingannevole, rispetto all'uso fatto in precedenza di quell'espressione riprodotta con quello stile) ma il contrassegno era stato ammesso comunque; di più, si seppe che a presentarlo era stato Diego Volpe Pasini, già presentatore di Sos Italia (e animatore di altri emblemi, prima e dopo). Il Carroccio - attraverso l'allora delegato Gianni Fava - provò a opporsi di nuovo, rivolgendosi all'Ufficio elettorale centrale nazionale e argomentando in modo più approfondito le proprie tesi: i giudici della Corte di cassazione, tuttavia, risposero che i due contrassegni "ufficiali" erano molto diversi tra loro e che "Prima il Nord!", pur essendo stata usata in precedenza, non faceva parte del fregio elettorale leghista, dunque il partito di Maroni non poteva ottenere tutela. La decisione confermò dunque l'ammissibilità del simbolo "Prima il Nord!", che sarebbe tornato in bacheca nel 2018 ma non finì sulle schede nemmeno in quel 2013; in compenso, quando furono presentate le liste della Lega Nord, si scoprì che alla Camera in Emilia-Romagna al secondo posto della lista bloccata era stata inserita la friulana Sara Papinutto, che alcune voci - da lei smentite - avevano dato per candidata fino a pochi giorni prima con il Mir di Gianpiero Samorì. Papinutto, soprattutto, era ed è la moglie di Volpe Pasini. Se il centrodestra avesse vinto le elezioni e con queste il premio di maggioranza, il seggio sarebbe stato assicurato; il premio andò invece al centrosinistra e l'unico seggio emiliano-romagnolo per la Lega Nord andò al capolista di allora, Gianluca Pini: la candidatura di Papinutto, al centro di molte discussioni, non si era dunque trasformata in scranno parlamentare. 
Calderoli si ricordava bene quell'episodio e non ci si stupì neanche un po' nell'ascoltare un suo intervento in Senato a sostegno dell'emendamento ex Sposetti con cui si proponeva di esigere il deposito dello statuto "registrato" del partito insieme a quello del contrassegno elettorale: ricordò appunto le disavventure che gli era capitato di vivere nelle varie file davanti al Viminale e citò anche il caso del 2013, quando "ancora una volta sono stati depositati i simboli apocrifi della Lega, del Movimento 5 Stelle e dei Fratelli d'Italia, con l'apertura di una procedura di giorni per stabilire se due allegri compagnoni avessero solo portato un simbolo ovvero, come è capitato al nostro partito, se qualcuno avesse depositato un simbolo pretendendo che la moglie venisse candidata in un collegio con elezione sicura per accettare di ritirare il simbolo che aveva depositato" (tutto scritto nel resoconto stenografico, si può controllare). Quell'esperienza deve aver insegnato a Calderoli, alla (vecchia) Lega Nord e alla (nuova) Lega per Salvini premier che è meglio usare un simbolo in anticipo (anche solo come test) o almeno depositarlo quando è il momento, piuttosto che rischiare sorprese in seguito: sarà per questo che a Palermo sta per debuttare Prima l'Italia?

domenica 27 marzo 2022

Toti vara a Genova Italia al Centro, con i suoi primi simboli locali

Può dirsi iniziato ieri in modo ufficiale - con la sua prima assemblea nazionale, svolta in parte in presenza e in parte da remoto - il cammino di Italia al Centro, il progetto politico guidato da Giovanni Toti insieme a Gaetano Quagliariello e Paolo Romani: al momento si tratta di un'aggregazione di esperienze locali e regionali (che si tradurranno innanzitutto in liste alle elezioni comunali che si svolgeranno nella tardissima primavera), ma la prospettiva è di presentarsi in modo unitario e visibile alle prossime elezioni politiche (ed è ancora presto per dire con chi, anche a causa dell'incognita della legge elettorale). 
La presentazione nazionale - a livello locale qualcosa si è già fatto nei giorni scorsi - si è tenuta all'Acquario di Genova, uno dei comuni più importanti tra quelli interessati dal prossimo voto amministrativo e certamente uno dei comuni in cui Italia al Centro sarà presente alle elezioni, sia pure - come si vedrà tra poco - con una veste ad hoc
Non è senza significato, peraltro, che a presentare l'evento Dalle città all'Italia, una proposta per il Paese sia stata Mariarosaria Rossi, senatrice della componente del gruppo misto al Senato Italia al Centro (che include anche Quagliariello e Romani, oltre alle senatrici e senatori Massimo Berutti, Andrea Causin, Raffaele Fantetti, Sandra Lonardo, Marinella Pacifico e Sandro Biasotti, già presidente della Regione Liguria e anch'egli presente ieri; c'erano anche alcuni deputati connessi a distanza, incluso Marco Marin di Coraggio Italia). "Giovanni Toti - ha detto in apertura dell'evento - ci dice che oggi in troppi parlano di centro e vi si collocano, per tatticismi o giochi di palazzo, per differenziarsi dagli estremismi o per creare alleanze in vista delle campagne elettorali, ma ancora nessuno ha provato a guardarci dentro: il centro sono i nostri fabbisogni, le speranze, i nostri bambini, il nostro ambiente, il Centro siamo noi, ma dobbiamo tornare tutti a pensare a un progetto che ci accomuna, per riportare il paese al Centro". Appare interessante la ricostruzione politica del cammino fatto sin qui, proposta dalla stessa Rossi: "Ognuno di noi proviene da esperienze diverse, ma se siamo tutti qui insieme è perché abbiamo trovato in Toti la sintesi: lui ci ha portato nella sua comunità di Cambiamo!, che poi si è unita a Idea di Quagliariello, in seguito si è aggregata con Coraggio Italia di Luigi Brugnaro e oggi si allarga ancora con Italia al Centro".
Del quadro internazionale ha parlato il capo delegazione al Senato, Paolo Romani, ma lui stesso ha fornito alcune riflessioni importanti anche sul piano elettorale: "Abbiamo vissuto una stagione di bipolarismo vincente e netto, in cui chi vinceva governava e chi perdeva andava all'opposizione: era un bipolarismo non malato, che forse non ha aiutato l'Italia dal punto di vista economico ma sicuramente la domenica sera gli italiani sapevano chi vinceva e chi perdeva. In parte dal 2013, ma sicuramente dal 2018 tutto questo non è più avvenuto: noi che siamo sempre stati per il maggioritario dobbiamo convertirci, come fecero i padri della nostra Repubblica, a una legge elettorale proporzionale. Non vorrà dire che quella sera sapremo chi ha vinto, ma che ogni italiano saprà che il suo voto è andato a un partito che conserverà i valori e i contenuti per i quali ha espresso quel voto. Di questi cartelli, che non hanno più funzionato perché si trasformano, si rompono - noi stessi abbiamo migrato, siamo i primi a essere parte di quel sistema che non funziona più - ho l'impressione che qualcuno ragionevolmente si debba occupare". I #drogatidipolitica guarderanno soprattutto a queste frasi, anche se a conquistare l'attenzione dei più è stata la frase successiva: "Dirò una cosa scomoda: a me fa paura che con questo sistema elettorale che si chiama Rosatellum qualcuno che si chiama Meloni o Salvini possa andare a Palazzo Chigi, non tanto per le cose che non sanno fare perché non hanno studiato abbastanza, quanto per la possibile reazione di Bruxelles, di cui tutto sommato dobbiamo tenere conto".
Si è configurato come più rivolto alla politica interna (ma non solo) il discorso di Gaetano Quagliariello: "In questa sala ci sono fondamentalmente, in gran parte, gli eredi del '94, di quelli che allora si opposero a un'apparentemente scontata vittoria della gloriosa macchina da guerra" (che, per la cronaca, in realtà era "gioiosa", anche se perse), per cui coloro che sono parte del progetto sono "liberali in economia, atlantisti in politica estera, conservatori nei costumi. Negli anni '90 pensavamo di avere vinto, di non avere più concorrenti, ma sono arrivate le smentite; pensammo con un po' di arroganza che la democrazia si potesse esportare con le baionette e, riguardando quel periodo, dovremmo fare un po' di autocritica; sovranismi e nazionalismi sono nati anche come reazione alle nostre sconfitte occidentali, ecco perché qualcuno ha pensato di rinnovarsi guardando a Putin che guardava direttamente agli zar. Noi ora abbiamo la grande occasione di rigenerare culturalmente quella parte che nel nostro paese è sempre stata egemone e in passato ha fatto grande l'Italia, anche grazie al fatto che ora a Palazzo Chigi c'è una persona ha i nostri stessi valori. Nessuno qui vuole trovare un lavoro a Mario Draghi, ma è legittimo che qui si lavori perché tra un anno non si torni alla situazione umiliante che c'era prima di lui. Il centro è un'esigenza sociale da riempire di contenuti ed esiste a prescindere dalla legge elettorale, altrimenti non ci sarà davvero". Sul piano organizzativo, Quagliariello ha insistito sul concetto di "piramide rovesciata", che deve porre in alto la base territoriale con le sue istanze, per poi dare vita agli altri livelli che di quelle istanze dovranno necessariamente tenere conto.
Dopo gli interventi dai territori - tra cui quello di Sandro Biasotti, per il quale i valori di Italia al centro "sono quelli della Dc e di Forza Italia" e fanno parte dei punti di forza, insieme alla squadra e al leader ("Gli elettori arriveranno, ma a Giovanni dico: andiamo con calma, non andiamo a sposarci con Renzi o Calenda, sarei a disagio, dovrebbero venire loro casomai") - la chiusura è toccata allo stesso Giovanni Toti: "Oggi attraversiamo una vera crisi di sistema, solo in parte mitigata da un governo in cui ci riconosciamo e che è nato anche grazie a noi. Servono risposte complesse, senza nascondere la polvere sotto il tappeto. Le due coalizioni sono testimonianza di tempo che fu, non il presente né tanto meno il futuro. Che progetto di paese ha il centrodestra, che valori lo uniscono? Non credo che il centrodestra si sia sciolto come neve al sole durante l'elezione del Presidente della Repubblica: è arrivato lì cercando di rimettere insieme qualcosa che in realtà si era già sciolto prima, in questa legislatura non è mai stato insieme un'ora dalla stessa parte in Parlamento e già questo qualche riflessione dovrebbe farcela fare. Il centrodestra è quello dei vaccini o quello che dice che c'è una dittatura sanitaria? Quello che crede nelle riforme di Draghi o è quello che contesta ogni singola riforma e pensa a un isolazionismo, una sorta di forma di autarchia? Ho difficoltà a pensare Forza Italia, Lega, Fratelli d'Italia, noi ed altri su un palco insieme: chiudiamo questa nefasta parentesi del governo Draghi o cerchiamo di fare tesoro di quello che abbiamo imparato in questi mesi sulla pragmaticità, sulla necessità di governare e fare le riforme? Nell'altra coalizione non c'è meno nebbia, anzi, se possibile ce n'è anche di più".
Sul progetto politico Italia al Centro, Toti ha detto: "Il Centro che vogliamo non è fatto di tattica e strategia ma ha dei valori. Non abbiamo fretta, non vogliamo scorciatoie ma seguiamo un percorso complesso, magari anche confuso, come la realtà è. Credo serva uno sforzo - forse meno sexy per i giornalisti ma necessario - per definire che cosa vogliamo: il Centro non è un contenuto, ma è un contenitore di contenuti, non ci si dichiara di centro per sentirsi nel giusto, ma ci si sente di centro quando in quel Centro si sono messe cose che si ritengono utili per Paese. Non usciamo di qui dicendo con chi saremo alleati nel '23: lo saremo di chi condivide i nostri valori e vogliamo riportare al Centro la cultura di governo". Cos'è dunque Italia al Centro? "Come figura retorica è una metonimia, il contenitore per il contenuto. Non credo sia passo indietro rispetto a Cambiamo, Idea, Coraggio Italia, ma un passo avanti e credo che ne faremo altri: se la nostra vocazione è aggregare persone sulla base di contenuti, noi dobbiamo fare il cerchio dell'insieme solo per quei contenuti, altrimenti rischiamo di fare l'ennesima cosa autoreferenziale. Vogliamo essere la somma di tante esperienze civiche, associative, con nomi diversi e che correranno anche con geometrie diverse sul territorio. Credo che il nostro partito debba mettere insieme comunità anche diverse, le migliori espressioni di città, movimenti, amministrazioni, dando uguali opportunità a tutti. Siamo velleitari? Forse, il nostro è un progetto che può tranquillamente fallire, però siccome siamo a Genova ricordiamo che Cristoforo Colombo diceva che non si attraversa l'oceano senza paura di perdere di vista la sponda da cui si è partiti".
Non è stato presentato al momento alcun simbolo di Italia al Centro, anche perché è prematuro: come detto, il primo appuntamento sarà costituito dalle elezioni amministrative, che vedranno anche una grafica variabile. A Genova e La Spezia, capoluoghi liguri che andranno al voto, il simbolo sarà una variazione di quello della lista Cambiamo con Toti presidente, vista alle regionali: il cognome del presidente della Liguria campeggerà in blu su fondo arancione e sulla sagoma della regione, con in basso il riferimento alla singola città (Toti per Genova, Toti per Spezia); unico riferimento al progetto nazionale sarà l'espressione "Liguria al Centro" posta ad arco nella parte alta del simbolo. Altrove, invece, si userà il formato "[comune] al Centro": pochi giorni fa è stato presentato il simbolo di L'Aquila al Centro, che usa gli stessi colori che dominano nei simboli di Cambiamo! e delle liste liguri, ma al contrario (fondo blu, silhouette dell'Italia arancione, con un cuore in prossimità del capoluogo). Nelle prossime settimane si vedrà come sarà declinato il simbolo in altre città, guardando alle somiglianze e alle differenze; per capire quanto di quella grafica sarà conservato nell'emblema di Italia al Centro ci vorrà più tempo, ma basterà avere pazienza.

giovedì 24 marzo 2022

#IoApro - Rinascimento a "congresso" (e Sgarbi riprende la Città ideale)

Anticipata da settimane e annunciata da giorni, ieri si è concretizzata la nuova reincarnazione di Rinascimento, il partito fondato nel 2017 da Vittorio Sgarbi. Si tratta più esattamente di un'alleanza - o, volendo ragionare in termini imprenditoriali, di una joint venture - con #IoApro, il soggetto politico fondato e guidato da Umberto Carriera, ristoratore di Pesaro noto per avere scelto - fin dagli ultimi mesi del 2020 - di tenere aperti i suoi locali a dispetto delle prescrizioni limitative contenute nei decreti della Presidenza del Consiglio dei ministri (con lo strascico di sanzioni e impugnazioni di cui i media hanno dato conto a tempo debito). 
Ieri, in particolare, all'Hotel Parco dei Principi a Roma si è tenuto il "1° Congresso Nazionale" (così era scritto sul banner diffuso in rete) di #IoApro - Rinascimento, ufficializzando così anche sul piano politico-organizzativo il sostegno che Sgarbi ha dato fin dall'inizio alle iniziative dei ristoratori che, quanto lui, ritenevano ingiuste e illegittime alcune limitazioni imposte dai d.P.C.M. ("Carriera, resistendo, ha trasformato la sua attività in un'attività politica - ha detto ieri Sgarbi, come si può sentire dal suo discorso ripreso da Radio Radicale - è bastato aspettare per ottenere ragione da vari tribunali, il tempo e la magistratura hanno dato soddisfazione"). Sotto il motto "Tu sei quello che sai" ("La battaglia per la ragione è la battaglia della mia vita: significa avere ragione alla fine, ma anche usarla, perché la competenza, la conoscenza e la capacità dipendono dallo studio) si è svolto questo evento di presentazione, di un tenore che ha trovato la sua orchestra (così si è espresso Sgarbi), parlando di "Italia da salvare nella sua integrità" (parlando di anche di giustizia, patrimonio naturale e artistico) e di un piano da mettere in campo da qui al momento delle elezioni. "Abbiamo esattamente un anno da qui al momento del voto - ha aggiunto il deputato - per non essere presi in giro da partiti finti con personaggi velleitari, come sono stati i 5 Stelle. In quel nuovo Parlamento, più piccolo, dobbiamo esserci per dire le cose che io ho detto da solo con pochi altri usciti dal M5S, ma per dire chi siamo e quanto contiamo occorre passare per questo primo esame delle elezioni amministrative".
Il primo traguardo, dunque, dovrebbe essere quello del voto in primavera, presentando ove sarà possibile - si è parlato di una settantina di comuni - liste "ciniche", solitarie (anche a Pesaro, con Carriera candidato sindaco): "Vogliamo che si sappia - ha precisato Sgarbi - che noi siamo un'oasi, un punto di riferimento, un'isola in mezzo a un mondo contaminato che, dal Pd ai 5 Stelle ha tradito non solo i suoi elettori, ma anche le sue stesse posizioni". Con riguardo alle elezioni politiche, invece, dovendo - con le norme elettorali attualmente in vigore - immaginare schieramenti di coalizione, "occorrerà trovare, con la nostra totale autonomia, un accordo col centrodestra", cercando comunque di intercettare soprattutto i voti del dissenso non più raccolti dal M5S e quelli in uscita da partiti che hanno tradito la loro identità, "come Forza Italia in alcuni casi".
Durante l'evento è stato proiettato il probabile contrassegno elettorale, già diffuso online nei giorni precedenti. La parte inferiore del simbolo è dedicata a Rinascimento, che per l'occasione lascia il dettaglio della michelangiolesca Creazione di Adamo e recupera La Città ideale, il dipinto conservato a Urbino (come a voler aumentare il tasso di "marchigianità" del progetto, visto che Carriera è appunto pesarese). Sopra al nome del partito e dello stesso Sgarbi (meno evidente rispetto al passato, anche per il carattere piuttosto sottile impiegato, sul fondo bianco) c'è invece l'emblema di #IoApro: si tratta di "un logo raffigurante una finestra con due ante aperte: quella di sinistra di coIore verde e quella di destra di colore rosso mentre nel centro di colore bianco viene riportata l'immagine dell'Italia di colore nero". La descrizione è quella contenuta all'interno dello statuto riportato nel sito di #IoApro - Rinascimento: si tratta in effetti dello statuto (allegato all'atto costitutivo) del solo movimento #IoApro, costituito ufficialmente il 17 luglio 2021 con atto notarile; come fondatori e figure di vertice il sito indica Momi El Hawi (fiorentino, a sua volta ristoratore) quale presidente, Umberto Carriera come segretario nazionale, Biagio Passaro e Lorenzo Nannelli (presso il cui studio legale il movimento ha ufficialmente sede) come consiglieri nazionali (l'atto costitutivo indicava tra i fondatori anche Antonino Alfieri, inizialmente scelto come presidente). 
Tornando al simbolo, la parte che riguarda #IoApro può facilmente ricordare qualcosa ed è più che normale: l'idea delle porte aperte tricolori era stata già utilizzata - e sviluppata graficamente allo stesso modo - per il marchio elaborato per le iniziative della campagna #IoApro, ma nell'apertura della porta, al posto della sagoma dell'Italia, c'erano le posate stilizzate di colore nero. Vale la pena segnalare che - come già fatto notare dai media all'epoca - quel segno è stato depositato come marchio il 16 marzo dello scorso anno e registrato a settembre (tra l'altro anche per la classe 45, relativa a "Servizi giuridici; servizi di sicurezza per la protezione di beni e di individui; servizi personali e sociali resi da terzi destinati a soddisfare necessità individuali"): a chiedere la registrazione del marchio è stata la Confederazione imprese unite per l'Italia di Massa-Carrara.
Lo statuto di cui si è detto prima indica anche, per punti (riportati nella forma "#IoApro a..."), il programma del partito: l'elenco inizia con cinque punti strettamente connessi alla situazione legata alla pandemia, dunque con "il ripristino di tutte le libertà costituzionali", la riapertura di ogni attività economica, l'abolizione definitiva della distinzione cromatica tra zone (ancora attiva al momento della fondazione del partito) la fine dell'emergenza sanitaria e anche "l'impedimento di qualsiasi obbligo vaccinale" (ma si auspica anche "la rimozione dalla carica di Ministro della Salute del dott. Roberto Speranza"). Si propone poi di abolire il bollo auto e ogni tassa relativa al suolo pubblico per le attività economiche con il fatturato fino a 5 milioni di euro, di prorogare fino a fine 2023 la moratoria sui mutui, di eliminare per tre anni i canoni Rai e Siae per le attività di ristorazione (e, in generale, il canone Rai per chi ha più di 65 anni); si vorrebbero poi togliere i limiti all'uso del contante e le commissioni sui pagamenti via Pos (equiparando i costi bancari ai livelli europei), introdurre ammortizzatori sociali anche per i lavoratori autonomi e intervenire sul costo del lavoro (riducendolo e azzerando per tre anni i contributi su ogni nuova assunzione), valutando pure una quota minima di due terzi di persone cittadine italiane tra i dipendenti di ogni azienda (contrastando invece l'immigrazione clandestina e i progetti di introdurre lo ius soli). Contrario a ogni "nuova imposizione fiscale", #IoApro punta invece sulla "connessione Internet gratuita a tutte le famiglie con figli a carico", su vari bonus (per chi viene in vacanza o fa il viaggio di nozze in Italia e per chi ha figli, ma eliminando il reddito di cittadinanza) e su una flat tax al 20%, rimodulando piuttosto l'imposizione esistente (tassando del 30% le multinazionali che vendono servizi in Italia, prevedendo una patrimoniale straordinaria all'1% per redditi superiori al milione di euro, ma "solo sulle liquidità con ridistribuzione") e deducendo ogni costo relativo alle attività imprenditoriali e professionali.
Vittorio Sgarbi non fa parte dunque dell'organigramma di #IoApro: da tenore quale si dichiara, resta probabilmente a capo del suo Rinascimento, ma prepara la strada comune in vista del primo appuntamento elettorale utile, in preparazione a ciò che accadrà alle elezioni politiche del 2023. Quali simboli finiranno nelle bacheche del Viminale? Quello di Rinascimento, quello di #IoApro o quello composito (com'era accaduto con il tandem Rinascimento-Mir, anche se poi Sgarbi si candidò in Forza Italia e ottenne di far cancellare il suo nome dal contrassegno)? Occorrerà attendere qualche manciata di mesi per saperlo.

lunedì 21 marzo 2022

Addio a Serafino D'Onofrio: l'impegno, la memoria e i simboli

In rete si è diffusa da poche ore la notizia della morte di Serafino D'Onofrio, un nome che forse a più di qualcuno non dice molto, ma a non poche persone - soprattutto a Bologna - dice eccome, provocando subito un grande dispiacere. Perché lui la politica l'ha fatta davvero, da napoletano - classe 1952 - trapiantato (e ben innestato, a dispetto dell'accento pienamente conservato) a Bologna nel 1977. L'ha fatta in senso lato, occupandosi della res publica da sindacalista Uil (lunga la sua esperienza di ferroviere) e da persona impegnata nell'associazionismo sportivo; l'ha fatta però anche in senso stretto, prima da dirigente del Psi (finché il partito ha operato), poi da iscritto ai Democratici di sinistra, poi ancora all'interno di formazioni civiche o di spirito civico.
Con una di queste - così almeno era stata vissuta in quella fase - era stato eletto in consiglio comunale a Bologna nel 2004: in quella tornata elettorale, infatti, D'Onofrio era stato destinatario dell'unico seggio conquistato dalla lista Di Pietro - Occhetto - Società civile - Italia dei valori, presente in quello stesso tempo sulla scheda delle elezioni europee. Tempo qualche mese e il gruppo di D'Onofrio - dal 30 marzo 2005 - prese il nome "Società civile - Il cantiere", nome tutt'altro che casuale. Evidentemente il consigliere si riferiva all'associazione Gruppo del Cantiere per il bene comune che poche settimane prima - il 14 gennaio 2005 - era stata fondata a Roma con atto del notaio Antonino Mazza da Giulietto Chiesa, Antonello Falomi, Diego Novelli, Achille Occhetto, Paolo Sylos Labini ed Elio Veltri: si trattava, in sostanza, del gruppo che in precedenza si riconosceva nella denominazione "Riformatori per l’Ulivo" e che aveva concorso alla formazione della lista presentata dall'Idv alle europee (la vicenda, peraltro, è stata oggetto di un lungo contenzioso sulla spettanza dei "rimborsi elettorali", probabilmente non del tutto conclusa, ma non è questo il tempo per parlarne).
Sebbene fosse stato eletto nella coalizione di maggioranza, che elesse come sindaco Sergio Cofferati (dopo la fine dell'unica giunta di centrodestra, guidata da Giorgio Guazzaloca), D'Onofrio si fece sentire - eccome - per dare voce all'Altra Sinistra, insieme ai consiglieri di Verdi e Rifondazione comunista, dando un'altra idea di Bologna (soprattutto in materia di sicurezza). Da quell'esperienza nacque - senza il Prc - la lista Bologna città libera, con le due Torri trasformate in volti rovesciati, presentatasi alle elezioni amministrative del 2009: D'Onofrio fu il più votato, con 289 preferenze (assai meno delle oltre 49mila raccolte nel 2004), ma la lista si fermò all'1,67% (poco meno della lista Cittadini per Bologna di Gianfranco Pasquino) e non ottenne seggi, né per il candidato sindaco Valerio Monteventi, né per D'Onofrio, né per Franco "Bifo" Berardi, anch'egli in lista.
Dopo quell'esperienza, Serafino D'Onofrio non si candidò più, pur continuando a guardare alla politica, a dire la sua e a impegnarsi. Chi scrive non ha mai conosciuto di persona D'Onofrio, il "sindacalista ferroviere" (come verrebbe da chiamarlo pensando, almeno per un attimo, al "macchinista ferroviere" gucciniano della Locomotiva, ma anche ad alcuni studi dello stesso D'Onofrio), limitandosi a qualche battuta attraverso Facebook; questo articolo, tuttavia, nasce per gratitudine nei suoi confronti, per una cosa tutto sommato piccola, ma che per i #drogatidipolitica in cerca di informazioni ha valore. Quando il sottoscritto dovette cercare contatti di alcune persone che, in base agli articoli scritti, sembravano note a D'Onofrio, questi non esitò a fornire indirizzi cui scrivere, risparmiando il tempo di ulteriori ricerche (e non è poco). Una volta, in compenso, D'Onofrio si è reso utile senza nemmeno chiedere o fare direttamente qualcosa, ma semplicemente "lasciando a disposizione". Quando, nel 2020, scomparve Giulietto Chiesa, il sottoscritto dedicò un articolo alla sua storia politica e gli sarebbe dispiaciuto non trovare il simbolo del Cantiere da inserire nel pezzo: lo trovò soltanto all'interno del sito Societacivilebologna.it, curato dallo stesso D'Onofrio. Ringraziandolo ex post per il ritrovamento, si sentì precisare dall'ex consigliere: "Ho mantenuto anche la home page del gruppo consiliare del comune di Bologna. Lì ci sono molte cose anche non solo bolognesi". 
Una riposta in apparenza semplice, quella di Serafino, ma che denotava un atteggiamento decisamente prezioso per chi fa ricerca e può ricostruire il passato anche - a volte soprattutto - grazie alle iniziative delle singole persone che hanno militato in un gruppo o hanno incrociato un progetto politico e ne hanno lasciato una testimonianza: c'è chi si preoccupa di cancellarne le tracce, mentre altre persone - come D'Onofrio - non solo non cancellano, ma addirittura tengono volutamente in vita, perché la memoria non si perda, a beneficio di chi verrà dopo. Basta anche solo questo per ringraziare di cuore Serafino D'Onofrio - che, nella sua presentazione da consigliere comunale, si premurò di scrivere "Non sono iscritto alla Massoneria ma al Dopolavoro Ferroviario di Bologna e all'Associazione Luca Coscioni". Buon viaggio, sindacalista ferroviere, la terra ti sia lieve.

sabato 19 marzo 2022

Democrazia e centralità, àncora e balena per evocare la Dc a Catanzaro

La vicenda della Democrazia cristiana, con tutte le liti possibili e immaginabili sulla titolarità e sull'uso del nome e dello scudo crociato (a livello nazionale e locale), ha prodotto un numero notevole di vicende rilevanti anche sul piano simbolico: queste, infatti, hanno spesso prodotto emblemi "di emergenza", pensati per salvare una partecipazione elettorale dopo che l'organo competente non aveva ammesso il contrassegno originario oppure, in via preventiva, proprio per evitare contestazioni una volta presentati tutti i documenti richiesti dalla legge. La storia che si sta per raccontare, che appartiene alla seconda categoria appena vista, affonda le sue radici fino a diciotto anni fa e merita di non essere consegnata all'oblio.
Correva l'anno del Signore 2004, erano previste le elezioni europee e il turno più nutrito di elezioni amministrative, tra comunali e provinciali. Si votava, tra l'altro, anche per rinnovare l'amministrazione provinciale di Catanzaro, essendo in scadenza la presidenza di Michele Traversa, già consigliere e assessore regionale di Alleanza nazionale, diventato presidente nel 1999 battendo per 3mila voti Enzo Ciconte (quando al primo turno la differenza era stata di 180 voti circa). Il centrodestra si presentò al nuovo appuntamento - celebrato il 12 e il 13 giugno, in via inedita di sabato e domenica - relativamente ampio e compatto, avendo come partiti principali ovviamente Forza Italia e Alleanza nazionale, ma a queste bisognava aggiungere l'Udc, nata due anni prima: la Calabria era pur sempre la terra di Mario Tassone, in quel periodo deputato e vicesegretario vicario del partito, così da quelle parti - e soprattutto a Catanzaro, centro dell'attività politica dello stesso Tassone - lo scudo sopra le due vele andava davvero forte.  
Non tutto il mondo che si richiamava alla vecchia Democrazia cristiana, tuttavia, sarebbe entrato in quella lista: poche settimane prima, per dire, aveva fatto rumore l'abbandono dell'Udc da parte di Giovanni Merante, già assessore provinciale di quella giunta Traversa e in quel momento consigliere comunale di Catanzaro eletto con il Ccd, partito in cui aveva militato - e per il quale era consigliere dal 1997 - dopo una lunga presenza nella Democrazia cristiana (ovviamente fino al 1994). Da alcune settimane, invece, Merante aveva scelto di aderire "di nuovo" alla Democrazia cristiana, o meglio al partito che si riteneva in continuità con la Dc storica e che in quel momento che si riconosceva nella segreteria di Giuseppe Pizza (calabrese anch'egli). 
Proprio la segretaria organizzativa regionale di quel partito, Rosanna Vicedomini, circa tre mesi prima del voto previsto a giugno, aveva annunciato una probabile candidatura alla presidenza della provincia dello stesso Merante, distinto dal centrosinistra e dal centrodestra e sostenuto unicamente dalla Dc. Il 2004, tra l'altro, nella mente dei suoi dirigenti doveva essere l'anno del rilancio per il partito: c'era tutta l'intenzione di presentarsi anche in tante altre elezioni amministrative, ma soprattutto alle elezioni europee (anche grazie al sostegno del Partito democratico cristiano guidato da Clelio Darida e all'esenzione dalla raccolta firme, resa possibile dall'appoggio della "lista civetta" Paese Nuovo). 
Proprio in quell'occasione, tuttavia, c'erano già stati i primi intoppi sul simbolo: il contrassegno della lista Democrazia cristiana - Paese nuovo era stato tra i primi depositati al Viminale il 25 aprile (primo giorno dedicato alla presentazione), ma il mercoledì 28 aprile era arrivata la notizia della bocciatura: lo scudo crociato non andava bene - ritenuto confondibile con il fregio dell'Udc, partito presente in Parlamento e a quelle stesse elezioni - e, in fondo, era stato espresso un giudizio negativo anche sulla presenza del nome "Democrazia cristiana" nel contrassegno, probabilmente perché il nome integrale dell'Udc era "Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro"; la Dc ritenne ingiusta quella decisione (puntando il dito, tra l'altro, contro la partecipazione dell'Udc al governo in carica), ma pur di salvare la partecipazione alle elezioni accettò di modificare il simbolo, togliendo nome e croce dallo scudo, lasciando uno scudo rosso su una bandiera bianca sventolante su un cielo blu a richiamare i colori del vecchio partito.
In più, come se questo non fosse stato sufficiente, qualche giorno prima il Tribunale civile di Roma aveva emesso una delle sue tante ordinanze all'interno della causa iniziata nel 2002 dalla Dc (allora guidata da Angelo Sandri) nei confronti del Cdu - sì, proprio quella che nel 2006 avrebbe portato alla "sentenza Manzo" che avrebbe posto Pizza sotto i riflettori per alcune manciate di mesi e che nel 2010 sarebbe terminata con la sempre citata (e quasi mai capita) sentenza delle sezioni unite della Cassazione della fine del 2010 - per ottenere l'uso pacifico del nome e dello scudo crociato: in sede di reclamo, un collegio del Tribunale di Roma aveva infatti accolto la richiesta del Cdu di inibire alla Dc-Pizza l'uso della denominazione "Democrazia cristiana" e dello scudo crociato; anche per questo, probabilmente, la decisione del Viminale aveva riguardato pure il nome. In ogni caso, quella decisione fu impiegata dall'Udc - alla cui costituzione, com'è noto, aveva partecipato anche il Cdu - per contestare anche solo in via preventiva le liste e le candidature del partito di Pizza che avessero usato il nome e il simbolo della Dc: la presentazione dei documenti per partecipare alle elezioni era fissata per il 14 e il 15 maggio presso le corti d'appello o i tribunali, quindi c'era stato tutto il tempo di prepararsi a reagire a livello locale.
Non andò diversamente in Calabria e a Catanzaro: "Nei primi giorni di maggio sui quotidiani locali si aprì una polemica proprio legata all'eventualità che la Dc di Pizza alla quale appartenevo potesse usare il nome e il simbolo della Dc, con Tassone che aveva annunciato che l'Udc si sarebbe opposta all'ammissione di quei contrassegni - ricorda oggi Giovanni Merante, intervistato da I simboli della discordia -. Un paio di giorni prima del deposito delle liste, ricordo che venni contattato in modo informale da una persona che lavorava all'interno della Corte d'appello di Catanzaro: volle farmi sapere che, se per presentare le nostre candidature alle elezioni provinciali avessimo utilizzato il nostro simbolo 'ufficiale', com'era stato annunciato, avremmo potuto avere delle difficoltà a vederlo ammesso, proprio per l'ostilità che i vertici locali dell'Udc avevano già manifestato". 
A quel punto le alternative erano solo due: o mantenere il simbolo ufficiale, rischiando di farselo bocciare, o cambiarlo e trovare un'altra soluzione. "Scegliemmo la seconda, per non rischiare - continua Merante -. Questo, tuttavia, comportò per noi la necessità di accamparci in una tipografia di Catanzaro, in cui c'era anche qualcuno che ci diede una mano con la grafica, per poter elaborare un simbolo di emergenza. Pur togliendo lo scudo volevamo tenere qualcosa che somigliasse a una croce: per questo la trasformammo in un'ancora rossa, in un primo tempo avevamo pensato di accoppiarla alla prua di una nave, ma poi desistemmo e lasciammo soltanto l'ancora; dovendo cercare di renderci comunque un minimo riconoscibili per l'elettorato democristiano, aggiungemmo anche la sagoma di una balena bianca, tradizionalmente accostata alla Dc, con l'espressione sorridente e nuotante tra le onde del mare". La lista fu chiamata Democrazia e Centralità: "Mettemmo il nome sulla corona azzurra che racchiudeva il simbolo con ancora, balena e mare, e sul braccio orizzontale della croce trasformato nel ceppo dell'ancora riportammo la forma breve del nome 'DeC', con la 'e' centrale minuscola molto più piccola tra le due lettere maiuscole, per richiamare anche così tanto la storia della Dc, quanto la Dc di Pizza in cui militavo. In quelle stesse ore, in cui rifacemmo il simbolo di corsa, dovemmo anche elaborare uno statuto molto semplice, per dimostrare che esistevamo e assicurarci la possibilità di partecipare senza problemi".
Il simbolo fu ammesso con gli altri documenti, quindi elettrici ed elettori della provincia di Catanzaro trovarono sulle schede la candidatura alla presidenza di Giovanni Merante e i candidati locali a lui abbinati. A seggi chiusi, lui risultò aver ottenuto 2659 voti, pari all'1,3%, mentre i candidati di collegio di Democrazia e Centralità raccolsero qualcosa di meno (2529 voti, l'1,26%). Il risultato non fu memorabile e non scattò alcun seggio (al ballottaggio DeC sostenne il candidato del centrosinistra, Giuseppe Torchio, risultato perdente, ma il seggio non sarebbe arrivato anche in caso di vittoria); a complicare la partita di Merante ci fu la presenza sulle schede non solo dell'Udc (che fece il pieno, risultando con il suo 12,06% il partito più votato del centrosinistra e il secondo più votato in assoluto), ma anche della Rinascita della Democrazia cristiana, il partito guidato a livello nazionale da Carlo Senaldi e a quelle elezioni alleato del vincitore Traversa (grazie al suo 2,41%, tra l'altro, ottenne anche un consigliere, Michele Rosato).
Quell'avventura elettorale, dunque, non andò benissimo, ma Merante (che visse comunque con piacere quella campagna) decise di non demordere. Nel 2006 al comune di Catanzaro fu di nuovo tempo di elezioni e Democrazia e Centralità si presentò nella coalizione di centrosinistra: non toccò minimamente il simbolo - creato in emergenza e non proprio un capolavoro di finezza, pur essendo simpatico - e con quell'emblema raccolse l'1,87%; oltre a concorrere all'elezione del sindaco Rosario Olivo, riuscì a ottenere il tanto sospirato seggio. La stessa lista ricomparve alle elezioni del 2011, ma stavolta nel centrodestra, sostenendo la candidatura a sindaco proprio del vincitore delle provinciali del 2004, Michele Traversa: quella volta la lista arrivò al 3,02% (più della metà della percentuale dell'Udc) e confermò il proprio seggio in consiglio comunale; Traversa però era deputato del Pdl e - dopo che la Corte costituzionale sostanzialmente introdusse l'incompatibilità tra il mandato parlamentare e la carica di sindaco di un comune superiore a 20mila abitanti - scelse di restare a Montecitorio, così si tornò a votare nel 2012, ma senza che la lista DeC tornasse sulle schede. Quanto a Merante, in quel periodo si stava avvicinando proprio al Pdl, dove sarebbe rimasto fino alla riattivazione di Forza Italia, partito cui avrebbe aderito, venendo poi eletto alle comunali del 2017. Dopo poco tempo, tuttavia, si sarebbe registrato il suo passaggio al gruppo misto, fino al ritorno in seno all'Udc due anni fa. La balena bianca di Democrazia e Centralità, invece, riposa dal 2011 e nessuno, per ora, sembra avere l'intenzione di ridestarla.

venerdì 18 marzo 2022

Lista Pannella, i simboli inviati dai militanti riemersi trent'anni dopo

La copertina della pubblicazione
riproposta da I simboli della discordia
Il 21 febbraio 1992 sette persone si ritrovarono in uno studio notarile romano per costituire un'associazione politica. Si trattava, in fondo, di un passaggio consueto in politica, compiuto per dare consistenza giuridica a un nuovo partito o a una nuova lista prima che inizi la campagna elettorale; in quell'occasione, però, non si trattava di una lista qualunque, così come i soci fondatori non erano persone qualunque. Quel giorno, infatti, nacque la Lista Pannella: il nome preciso, anzi, era "Associazione politica nazionale 'Lista Marco Pannella'"; la costituirono, oltre a "Pannella Giacinto detto Marco" (com'era indicato sull'atto notarile), anche Maurizio Turco, Rita Bernardini, Laura Arconti, Aurelio Candido, Marco Taradash e Vittorio Pezzuto (gli ultimi due, negli anni successivi, sarebbero stati dichiarati decaduti). 
La neonata associazione-lista aveva uno statuto (allegato all'atto costitutivo), aveva una sede (a Roma, in Via della Panetteria 36, indirizzo che coincideva con il domicilio di Marco Pannella), ma alla sua nascita non aveva ancora un simbolo: mancava ufficialmente (visto che non era stato citato nei documenti fondativi dell'associazione), ma in effetti non era stato ancora definito in tutti i suoi dettagli. Il tempo per provvedere era davvero poco: proprio il 21 febbraio si era aperto presso il Ministero dell'interno il deposito dei contrassegni elettorali per il voto politico del 5 e del 6 aprile 1992 e c'era tempo fino alle ore 16 del 23 febbraio per consegnarlo al Viminale. Tutta la gestazione della lista, in compenso, era avvenuta dannatamente in fretta: il progetto di presentarla era stato annunciato per la prima volta da Marco Pannella solo l'8 febbraio e aveva preso maggiormente corpo due giorni dopo, come strumento per continuare le battaglie radicali, mentre alcuni esponenti rilevanti del partito (soprattutto Giovanni Negri, Massimo Teodori e Giuseppe Calderisi) avevano scelto di impegnarsi nella costituzione della lista Sì Referendum, guidata da Massimo Severo Giannini (senza che potesse maturare un progetto politico-elettorale condiviso).
L'idea di presentare una lista che portasse il nome dell'esponente radicale più noto in Italia - un azzardo per l'Italia avvezza al sistema proporzionale, ma anche il modo più efficace per farsi identificare dagli elettori - si era dunque fatta concreta due settimane prima che scadesse il termine per depositare i contrassegni elettorali. Nei primi giorni di lavoro sulla lista si era iniziato a pensare anche al simbolo, cercando di elaborare qualcosa di leggibile, facile da identificare ed evidente (anche grazie al colore che per la prima volta sarebbe arrivato sulle schede) e considerando anche che si sarebbe dovuta inserire la "pulce" degli Antiproibizionisti sulla droga, in modo da poter presentare le candidature senza dover raccogliere le firme richieste per le elezioni politiche alle formazioni non presenti in Parlamento.
Alcune delle proposte grafiche inviate a Radio Radicale
Il contrassegno elettorale venne presentato l'ultimo giorno utile (dunque il 23 febbraio), finì sulle schede e riuscì a eleggere sette deputati. Ma a quel simbolo decisamente anomalo (per il cognome di Marco Pannella che campeggiava sul fondo giallo, evidentissimo e ad andamento curvilineo, insieme al logo della pace e alla miniatura degli Antiproibizionisti), realizzato per scherzo da Aurelio Candido e accolto dallo stesso Pannella, aveva contribuito un manipolo nutrito di persone, soprattutto militanti e simpatizzanti appassionati di grafica: per giorni su Radio Radicale (e su Agorà Telematica, il mezzo di connessione pensato anni prima per il partito transnazionale) era stato rilanciato un gioco - concorso di idee per il simbolo, in cui chiunque si fosse sentito coinvolto era invitato a sostenere la nascente Lista Pannella anche dando suggerimenti per la realizzazione del simbolo o, meglio ancora, facendo arrivare le proprie proposte grafiche. 
Nel bel mezzo della campagna elettorale, pur nel turbine di iniziative e di adempimenti di cui occuparsi, Marco Pannella decise che quelle proposte grafiche (alcune del tutto inadatte, per forma o per "linguaggio", alle schede elettorali, altre più compatibili) dovevano essere valorizzate attraverso una piccola pubblicazione: se ne occuparono Maurizio Turco e Marcello Baraghini, che inserì il libriccino di 32 pagine tra i "Millelire" della sua casa editrice Stampa Alternativa. Il libretto, intitolato I simboli della Lista Marco Pannella, ebbe come copertina un manifesto realizzato per la lista in quella campagna elettorale ("Il 5 aprile Vota Lista Marco Pannella", con il nuovo simbolo in grande evidenza): finito di stampare il 18 marzo 1992 - esattamente trent'anni fa - circolò in un certo numero di copie soprattutto tra quei militanti e simpatizzanti radicali che avevano partecipato a quel gioco-concorso di idee o si erano interessati a quella nuova esperienza politico-elettorale (al punto da riuscire a portarla in Parlamento, avendo dalla propria parte non la logica e i numeri del "prima", ma la fantasia e il desiderio di combattere comunque senza risparmio).

In quel 1992 chi scrive compiva nove anni. Non era ancora il tempo di spiegare a due già rassegnati genitori il funzionamento della nuova legge elettorale (sarebbe accaduto nel 1994, grazie a un fantastico opuscolo - realizzato da una persona straordinaria, conosciuta nel 2010 con soddisfazione - capitato chissà come in casa); quegli occhi di bambino però avevano riconosciuto la rosa nel simbolo, strettissima parente di quella che, nel 1987, emergendo dal pugno e dalla barra nera del lutto a motivo dello sterminio per fame, aveva colpito a fondo un soggetto che di anni non ne aveva ancora quattro. Fino agli ultimi mesi del 2018 quel losco figuro, ormai cresciuto e irrimediabilmente intruppato tra i #drogatidipolitica, aveva ignorato la storia del gioco-concorso di idee. Il 25 ottobre, tuttavia, quel soggetto si trovò più o meno per caso a passare dalla sede di Via di Torre Argentina e incontrò colui che, nel frattempo, della Lista Pannella era diventato il presidente: non solo si vide dischiudere - in modo del tutto inatteso - la porta sulla vicenda dell'acquisto della rosa nel pugno, ma si vide piazzata davanti a sé una fonte immediata di curiosità. "Sai che nel 1992, quando fondammo la Lista Pannella, feci addirittura un libretto con le proposte dei militanti per il simbolo?": era impossibile resistere, ma non si poté fare altrimenti, visto che l'evocato libretto non saltò fuori. Tempo una manciata di mesi e la questione del libriccino risaltò fuori, evocata stavolta in un dialogo con un'altra fondatrice della Lista Pannella, a margine del 41° congresso del Partito radicale: fu lei per prima a parlarne, ma purtroppo quelle pagine non sapeva dove ritrovarle. 
La curiosità seppe attendere e fu ripagata: all'inizio del 2020 il curatore del volumetto - e presidente in carica della lista - ne scovò una copia tra le carte di una militante radicale dall'incredibile costanza e forza (dolorosamente scomparsa tre mesi prima) e ne mandò alcuni scatti al figuro, che ne fu entusiasta e non vedeva l'ora di scorrere con attenzione ogni pagina. A fine mese (poco tempo prima che l'intero paese iniziasse a soffrire e a bloccarsi) ricevette in prestito quel libretto ed ebbe dal curatore il permesso di scansionarlo tutto, ma anche di rimetterlo in circolazione (anche oltre l'originaria cerchia radicale) ove ci fosse stata una buona occasione. Il caso ha voluto che nel 2022, oltre che i trent'anni dalla fondazione della Lista Pannella, ricorressero anche i (primi) dieci anni di attività del sito I simboli della discordia, un traguardo che chi scrive mai avrebbe seriamente pensato di raggiungere (sperato sì, certo, ma di solito questo non basta). Tra le iniziative per festeggiare l'anniversario tondo, era giusto pensare a qualcosa di speciale, come riproporre una testimonianza singolare di una fase partecipata ed extra ordinem della nostra storia recente - significativo anche per chi ha sensibilità diverse - riletta con la consapevolezza data dal tempo trascorso.
La pubblicazione realizzata nel 1992, dunque, viene nuovamente resa disponibile da questo sito per chiunque abbia interesse: la arricchiscono l'introduzione di colui che (avendo cofondato la Lista Pannella, curato e ritrovato queste pagine) ha dato un contributo decisivo al racconto, una ricostruzione del succitato figuro e nuovo curatore, nonché i testi di due compagni di valore che hanno condiviso (anche se a distanza) l'emozione per il ritrovamento e hanno fornito le loro sensazioni e memorie. Ci si può avventurare a leggere questi nuovi testi o ci si può limitare a scorrere immagini e testi di trent'anni fa: l'importante è avere di nuovo a disposizione un documento che meritava di non essere dimenticato.


Il primo ringraziamento va ovviamente a Maurizio Turco, per avermi parlato per la prima volta di questo libretto, per essersi ricordato di mostrarmelo dopo averlo ritrovato, per averne concesso la riproduzione e per aver contribuito a questa pubblicazione con un suo testo; meritano il mio grazie anche Marcello Baraghini (per avere pubblicato allora il libro e aver pensato almeno per un attimo di metterlo sulla copertina della Lettera sulla Felicità, pagine di Epicuro tradotte da Angelo Maria Pellegrino, figura imprescindibile per i #drogatidipolitica che siano allo stesso tempo cultori di Nico Giraldi, "Venticello" e Fantozzi), Rita Bernardini (per aver contribuito con la sua memoria ad arrivare a questo risultato), Aurelio Candido (per aver disegnato per provocazione un simbolo "non integrabile" e vissuto contro ogni previsione) e Laura Arconti (per affetto, perché il suo essere radicale ci manca troppo e perché il fatto che il libretto sia stato trovato tra le sue carte lo rende più prezioso). 
Meritano piena gratitudine anche Marco e Carlo D'Aloisio Mayo (per avere contribuito alla pubblicazione allora e avermi aiutato a ricostruire alcuni dettagli importanti) e, soprattutto, gli amici e compagni radicali Andrea Consonni e Luca Leone, per avere accettato di condividere con il nuovo curatore queste pagine, offrendo a chiunque di noi parole ricche di umanità e ricordi vivi (con i cammei preziosi di un'iconica signora bionda armata di sigaretta e di un leggendario Isio, che da una manciata di mesi ci manca proprio tanto).