Certi simboli sembrano nascere con grandi progetti - e di solito è così, altrimenti non verrebbero nemmeno creati - ma in un secondo tempo possono trasformarsi in ricordi amari e, per giunta, diventare forieri di problemi e liti giudiziarie anche a distanza di molti, molti anni. Si prenda, per esempio, il simbolo dell'Italia dei valori, ma non quello attuale o di un anno qualunque della sua attività: quello con cui il partito scelse di correre alle elezioni europee del 2004. Spiccava nell'emblema, subito sotto al cognome del fondatore Antonio Di Pietro, quello di Achille Occhetto, colui che dieci anni prima aveva perso le politiche contro Silvio Berlusconi, dopo aver calato il sipario sul maggior partito comunista d'Europa.
Quella storia, in realtà, era iniziata maluccio: dopo vari tira e molla, la joint venture tra l'ex magistrato e l'ex segretario comunista era partita - col proporzionale senza sbarramento, l'impresa non era impossibile - ma col piede sbagliato. Nel simbolo dell'Idv, infatti, venne inserita la scritta "per il nuovo Ulivo": Occhetto aveva costituito poco prima i Riformatori per l'Ulivo, non voleva andare troppo lontano dal "triciclo" di centrosinistra (Ds, Margherita e Sdi, ma c'erano pure i Repubblicani europei) e riteneva comunque che il segno dell'Ulivo non potesse essere un'esclusiva di quella parte. Quelle forze, però, avevano costituito il cartello Uniti nell'Ulivo e non gradivano che qualcun altro usasse il riferimento alla coalizione del 1996 (in quell'anno, del resto, ne avrebbero fatto le spese anche i Verdi, che si sarebbero visti accettare dal Viminale il loro simbolo solo dopo aver tolto l'espressione "con l'Ulivo").
Di Pietro e Occhetto, così, si erano visti recapitare una letterina di diffida da Andrea Zoppini, legale dell'Ulivo, che lamentava come nome e simbolo della creatura prodiana fossero stati utilizzati "illegittimamente e senza alcuna autorizzazione": la lista Di Pietro - Occhetto non era parte della coalizione e mancava il consenso degli aventi diritto. Rispose piccata la strana coppia (trovarono "inconcepibile" che, nel mezzo della "politica guerrafondaia del centrodestra" in Iraq, i partiti del centrosinistra perdessero tempo ed energie "tramite avvocato e con minacce di azioni legali" in "tante inutili polemiche e distinzioni di lana caprina") e replicò ancora più piccato il gruppo di Uniti nell'Ulivo, infastidito perché quella lettera doveva restare privata e quella polemica sembrava fatta apposta per fare danni.
Alle elezioni comunque ci si era arrivati e, almeno all'inizio, la strada era parsa in discesa. I primi exit poll erano stati molto favorevoli, al punto da far gongolare Occhetto: "se il dato che ci riguarda venisse confermato saremmo la seconda lista dell'Ulivo e potremmo liberare Prodi dalla gabbia in cui si è messo per dar vita tutti insieme al vero, grande Ulivo". Alla fine, però, arrivò solo il 2,14%, non malissimo, ma meno di Rifondazione comunista, Verdi e Comunisti italiani: abbastanza, comunque, per eleggere a Strasburgo Antonio Di Pietro e - al posto di Occhetto, che aveva rinunciato - il giornalista Giulietto Chiesa.
Qualcosa di buono c'era, eppure quella vicenda ha strascichi sgradevoli ancora oggi. Giusto quattro giorni fa Repubblica.it dava notizia di un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Roma su istanza proprio di Giulietto Chiesa: lì si chiederebbe ad Antonio Di Pietro di pagare 2 milioni e 694mila euro - se si è ben capito - all'associazione "Cantiere per il bene comune", fondata nel 2005 - tra gli altri - da Occhetto e Chiesa. Quel soggetto, a detta della difesa di Chiesa, sarebbe il "successore" giuridico dei "Riformatori per l'Ulivo", il gruppo costituito all'inizio del 2004 da Occhetto, Chiesa e altri e che, alleandosi con l’Idv, avrebbe permesso la presentazione delle liste della "Società civile" alle europee del 2004.
Proprio in ragione di quell'alleanza (e dell'elezione di uno dei due europarlamentari), già all'epoca sarebbe stata chiesta la metà dei rimborsi elettorali spettanti alla lista Di Pietro - Occhetto, soldi che l'ex pubblico ministero non ha mai ritenuto di dover versare, sostenendo tra l'altro che le spese della campagna elettorale fossero state sostenute interamente dall'Idv. Il decreto ingiuntivo di cui si diceva - cui certamente Di Pietro farà opposizione entro i 40 giorni di rito - è solo l'atto più recente (e non certo l'ultimo) di una vicenda lunga oltre un decennio: basta fare qualche ricerca in rete per scoprire che episodi simili si sono ripetuti più volte (soprattutto a partire dal 2010, ma anche prima), hanno interessato pure la magistratura penale e hanno visto chiamare in causa persino l'amministrazione della Camera dei Deputati.
Già, perché Francesco Paola, avvocato di Chiesa, si è lamentato, tra l'altro, del fatto che i rimborsi elettorali spettanti al partito Italia dei Valori sarebbero stati in realtà incassati - a suo dire - da un'associazione omonima, ma distinta, di cui sarebbero stati soci Di Pietro, la moglie Susanna Mazzoleni e Silvana Mura come tesoriera: un'associazione che, sempre secondo la ricostruzione di Chiesa e Paola, non avrebbe avuto alcun titolo per ricevere quel denaro, che avrebbe invece permesso al gruppo di Chiesa di proseguire la propria attività politica con più risorse.
Per parte sua, in una nota, Di Pietro ha categoricamente smentito tutte le pretese di Chiesa, così come in passato (soprattutto nel 2010 e nel 2014) aveva nettamente smentito che esistesse un'associazione "parallela" al partito Italia dei Valori. In più, oggi come allora, l'ex magistrato ha mostrato due documenti relativi alle elezioni europee del 2004: si tratta dei moduli firmati da Chiesa e Occhetto - con tanto di autenticazione notarile - all'atto dell'accettazione della candidatura, con cui costoro riconoscevano, tra l'altro, che "compete[va] all'Italia dei Valori il diritto a richiedere e usufruire dei rimborsi" elettorali. Come a dire che Di Pietro al gruppo di Occhetto e Chiesa non doveva proprio nulla.
Appare chiaro, già solo da qui, che la vicenda è tutt'altro che chiusa: tempo qualche mese e forse una sentenza arriverà. Nel frattempo, volendo trarre un insegnamento da questi fatti, l'occasione invita a guardare con la massima attenzione, una volta di più, alla regolazione dei partiti e delle loro vicende "interne". E' vero che, in prospettiva, non ci si porrà più il tema dei "rimborsi" elettorali, ma resterà quello della selezione dei candidati e della partecipazione di gruppi esterni alle liste e alla campagna di un partito. Nel 2010 Giulietto Chiesa ammise ad Alessandro Gilioli dell'Espresso che tra le carte firmate davanti al notaio, assieme all'accettazione della candidatura, c'era anche l'attribuzione dei rimborsi all'Idv, ma nessuno aveva letto quel foglio "se non altro per educazione", salvo poi scoprirlo dopo il voto, a cose fatte. In quel documento si riconosceva pure che era "facoltà dell'Italia dei Valori poter utilizzare il simbolo della lista 'Società civile - Di Pietro - Occhetto' anche in relazione ad altre elezioni". La storia, nemmeno a farlo apposta, inizia con una lite su un simbolo e si chiude nel segno di un altro simbolo, in attesa del prossimo scontro in tribunale.
Quella storia, in realtà, era iniziata maluccio: dopo vari tira e molla, la joint venture tra l'ex magistrato e l'ex segretario comunista era partita - col proporzionale senza sbarramento, l'impresa non era impossibile - ma col piede sbagliato. Nel simbolo dell'Idv, infatti, venne inserita la scritta "per il nuovo Ulivo": Occhetto aveva costituito poco prima i Riformatori per l'Ulivo, non voleva andare troppo lontano dal "triciclo" di centrosinistra (Ds, Margherita e Sdi, ma c'erano pure i Repubblicani europei) e riteneva comunque che il segno dell'Ulivo non potesse essere un'esclusiva di quella parte. Quelle forze, però, avevano costituito il cartello Uniti nell'Ulivo e non gradivano che qualcun altro usasse il riferimento alla coalizione del 1996 (in quell'anno, del resto, ne avrebbero fatto le spese anche i Verdi, che si sarebbero visti accettare dal Viminale il loro simbolo solo dopo aver tolto l'espressione "con l'Ulivo").
Di Pietro e Occhetto, così, si erano visti recapitare una letterina di diffida da Andrea Zoppini, legale dell'Ulivo, che lamentava come nome e simbolo della creatura prodiana fossero stati utilizzati "illegittimamente e senza alcuna autorizzazione": la lista Di Pietro - Occhetto non era parte della coalizione e mancava il consenso degli aventi diritto. Rispose piccata la strana coppia (trovarono "inconcepibile" che, nel mezzo della "politica guerrafondaia del centrodestra" in Iraq, i partiti del centrosinistra perdessero tempo ed energie "tramite avvocato e con minacce di azioni legali" in "tante inutili polemiche e distinzioni di lana caprina") e replicò ancora più piccato il gruppo di Uniti nell'Ulivo, infastidito perché quella lettera doveva restare privata e quella polemica sembrava fatta apposta per fare danni.
Alle elezioni comunque ci si era arrivati e, almeno all'inizio, la strada era parsa in discesa. I primi exit poll erano stati molto favorevoli, al punto da far gongolare Occhetto: "se il dato che ci riguarda venisse confermato saremmo la seconda lista dell'Ulivo e potremmo liberare Prodi dalla gabbia in cui si è messo per dar vita tutti insieme al vero, grande Ulivo". Alla fine, però, arrivò solo il 2,14%, non malissimo, ma meno di Rifondazione comunista, Verdi e Comunisti italiani: abbastanza, comunque, per eleggere a Strasburgo Antonio Di Pietro e - al posto di Occhetto, che aveva rinunciato - il giornalista Giulietto Chiesa.
Qualcosa di buono c'era, eppure quella vicenda ha strascichi sgradevoli ancora oggi. Giusto quattro giorni fa Repubblica.it dava notizia di un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Roma su istanza proprio di Giulietto Chiesa: lì si chiederebbe ad Antonio Di Pietro di pagare 2 milioni e 694mila euro - se si è ben capito - all'associazione "Cantiere per il bene comune", fondata nel 2005 - tra gli altri - da Occhetto e Chiesa. Quel soggetto, a detta della difesa di Chiesa, sarebbe il "successore" giuridico dei "Riformatori per l'Ulivo", il gruppo costituito all'inizio del 2004 da Occhetto, Chiesa e altri e che, alleandosi con l’Idv, avrebbe permesso la presentazione delle liste della "Società civile" alle europee del 2004.
Proprio in ragione di quell'alleanza (e dell'elezione di uno dei due europarlamentari), già all'epoca sarebbe stata chiesta la metà dei rimborsi elettorali spettanti alla lista Di Pietro - Occhetto, soldi che l'ex pubblico ministero non ha mai ritenuto di dover versare, sostenendo tra l'altro che le spese della campagna elettorale fossero state sostenute interamente dall'Idv. Il decreto ingiuntivo di cui si diceva - cui certamente Di Pietro farà opposizione entro i 40 giorni di rito - è solo l'atto più recente (e non certo l'ultimo) di una vicenda lunga oltre un decennio: basta fare qualche ricerca in rete per scoprire che episodi simili si sono ripetuti più volte (soprattutto a partire dal 2010, ma anche prima), hanno interessato pure la magistratura penale e hanno visto chiamare in causa persino l'amministrazione della Camera dei Deputati.
Già, perché Francesco Paola, avvocato di Chiesa, si è lamentato, tra l'altro, del fatto che i rimborsi elettorali spettanti al partito Italia dei Valori sarebbero stati in realtà incassati - a suo dire - da un'associazione omonima, ma distinta, di cui sarebbero stati soci Di Pietro, la moglie Susanna Mazzoleni e Silvana Mura come tesoriera: un'associazione che, sempre secondo la ricostruzione di Chiesa e Paola, non avrebbe avuto alcun titolo per ricevere quel denaro, che avrebbe invece permesso al gruppo di Chiesa di proseguire la propria attività politica con più risorse.
Per parte sua, in una nota, Di Pietro ha categoricamente smentito tutte le pretese di Chiesa, così come in passato (soprattutto nel 2010 e nel 2014) aveva nettamente smentito che esistesse un'associazione "parallela" al partito Italia dei Valori. In più, oggi come allora, l'ex magistrato ha mostrato due documenti relativi alle elezioni europee del 2004: si tratta dei moduli firmati da Chiesa e Occhetto - con tanto di autenticazione notarile - all'atto dell'accettazione della candidatura, con cui costoro riconoscevano, tra l'altro, che "compete[va] all'Italia dei Valori il diritto a richiedere e usufruire dei rimborsi" elettorali. Come a dire che Di Pietro al gruppo di Occhetto e Chiesa non doveva proprio nulla.
Appare chiaro, già solo da qui, che la vicenda è tutt'altro che chiusa: tempo qualche mese e forse una sentenza arriverà. Nel frattempo, volendo trarre un insegnamento da questi fatti, l'occasione invita a guardare con la massima attenzione, una volta di più, alla regolazione dei partiti e delle loro vicende "interne". E' vero che, in prospettiva, non ci si porrà più il tema dei "rimborsi" elettorali, ma resterà quello della selezione dei candidati e della partecipazione di gruppi esterni alle liste e alla campagna di un partito. Nel 2010 Giulietto Chiesa ammise ad Alessandro Gilioli dell'Espresso che tra le carte firmate davanti al notaio, assieme all'accettazione della candidatura, c'era anche l'attribuzione dei rimborsi all'Idv, ma nessuno aveva letto quel foglio "se non altro per educazione", salvo poi scoprirlo dopo il voto, a cose fatte. In quel documento si riconosceva pure che era "facoltà dell'Italia dei Valori poter utilizzare il simbolo della lista 'Società civile - Di Pietro - Occhetto' anche in relazione ad altre elezioni". La storia, nemmeno a farlo apposta, inizia con una lite su un simbolo e si chiude nel segno di un altro simbolo, in attesa del prossimo scontro in tribunale.
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