sabato 8 marzo 2025

Partito liberaldemocratico, un inizio ad ala spiegata fuori dai poli

Il "centro" politico in Italia non cessa di essere (e anche di apparire) in movimento: proprio oggi si è registrata la comparsa di un nuovo soggetto, che ha scelto consapevolmente di adottare l'etichetta di "partito". Si tratta del Partito Liberaldemocratico (anche se, a guardare il simbolo - di cui si dirà più avanti - si sarebbe tentati di dire Partito Liberal democratico), vale a dire la forza politica nata dall'impegno comune - iniziato alla fine di novembre con la manifestazione Il coraggio di partire - di Libdem europei (l'associazione-costituente-partito fondata nel 2022 da Giuseppe Benedetto, Alessandro De Nicola, Oscar Giannino e Sandro Gozi, presieduta da Andrea Marcucci e membro dell'Alde Party), Nos (il "media-partito" lanciato dal fondatore di Will Italia Alessandro Tommasi), l'associazione Liberal Forum (nata nel 2022 su impulso di varie figure legate al mondo liberale, pur collocate in origine su fronti diversi) e Orizzonti liberali, cioè l'associazione-cantiere promossa da Luigi Marattin dopo la sua uscita da Italia viva a settembre dello scorso anno. 
L'idea di concorrere a costruire "un vero partico liberaldemocratico equidistante sia da destra che da sinistra" ha impegnato i soggetti per vari mesi, fino alla preparazione dell'iniziativa di presentazione di oggi, tenutosi presso lo spazio Roma Eventi di via Alibert (dietro Piazza di Spagna). Insieme, per la libertà. L'inizio di un cammino nuovo era il titolo scelto per questo evento che ha unito soggetti che in tempi recenti non avevano avuto posizioni sovrapponibili: alle ultime elezioni europee, per esempio, Libdem aveva concorso alla lista Stati Uniti d'Europa (sostenuta anche da Marattin, allora in Iv, e anche da Liberal Forum che aveva appoggiato la candidatura di Graham Watson nel Nord-Est), Nos era invece stato parte della lista Siamo Europei guidata da Azione. 
In un certo senso si può parlare di evoluzione del progetto Libdem europei, almeno sul piano politico e giuridico. La presentazione di oggi era infatti stata preceduta, il 29 novembre 2024, da una prima assemblea dei soci dell'associazione Liberali Democratici Europei per deliberare la modifica dello statuto in modo da trasformare l'associazione nel partito Libdem. Il 20 febbraio, poi, si era appreso di una nuova convocazione dell'assemblea (il 28 febbraio in prima convocazione e il 5 marzo in seconda) per ulteriori modifiche statutarie: "il nostro Statuto, così modificato, costituirà - si leggeva nel sito libdemeuropei.it - la base del futuro partito liberaldemocratico a cui daremo vita con gli amici di Orizzonti Liberali, Nos e Liberal Forum in un grande congresso la prossima estate".
Per il congresso, dunque, è ancora presto, ma intanto l'evento di lancio c'è stato, così come sono stati elaborati lo statuto ("frutto del lavoro di una commissione" dei quattro soggetti politici coinvolti) e soprattutto - per quanto interessa qui - il simbolo, presentato ieri. Lo statuto rinnovato contiene la descrizione del fregio, la stessa riportata nella domanda di marchio, depositata venerdì 7 marzo da Piero Cecchinato, avvocato esperto di diritto commerciale, bancario e finanziario (ed esperto anche di diritto della proprietà industriale) nonché segretario di Libdem europei:
logo di forma cilindrica con 4 colori: azzurro chiaro e blu scuro di sfondo, un bordo blu scuro che contorna tutto il perimetro del logo; colore bianco per il nome del Partito formato da 3 parole (“Partito Liberaldemocratico”); colore giallo per il puntino sopra la i della seconda parola che rappresenta il nome del partito; e colore giallo anche per la figura dell'ala in alto a destra posizionata sopra la terza parola del nome partito. Il colore blu scuro predomina la parte bassa a destra del cerchio mentre l'azzurro chiaro la parte in alto a sinistra con al centro il nome e l’immagine dell'ala.
L'ala gialla che si vede nel simbolo richiama, per chi la riconosce, quella del bird of liberty, simbolo classico dei liberaldemocratici europei che ha caratterizzato per molti anni (e in varie versioni) il gruppi libdem al Parlamento europeo (Eldr): tuttora i liberaldemocratici britannici utilizzano quell'immagine (e per un certo periodo lo hanno fatto in Italia i Liberaldemocratici di Marco Marsili: chissà se lui, che si era lamentato dei Liberal Democratici di Lamberto Dini e Italo Tanoni, sarà contento di questo nuovo nome...) e proprio Libdem - quando era pensato soprattutto come "movimento liberale democratico europeista" - ha utilizzato comunque un uccello giallo ad ali spiegate, prima reso con la tecnica dell'origami, poi nella forma più semplificata vista fino a poco tempo fa. Quanto ai colori, il giallo rappresenta i libdem in vari paesi europei, spesso abbinato proprio all'azzurro-blu (che appare anche nell'attuale logo dell'Alde, che pure ha rinunciato al giallo). 
La scelta di usare il termine "partito" - in controtendenza rispetto a quanto visto negli ultimi anni - e di evitare riferimenti all'Italia o ad altre grafiche esplorate negli ultimi decenni era emersa già poco prima della presentazione, quando Luigi Marattin, in un'intervista ad Aldo Torchiaro per il Riformista, aveva dichiarato: "La crisi della politica in Italia - si vede anche dal modo in cui negli ultimi trent’anni si sono chiamati quasi tutte le formazioni politiche che nascevano. Quasi nessuno si chiamava 'partito', come se fosse una cosa tossica; invece i partiti, se fatti per questo secolo e non per il precedente, sono ancora lo strumento migliore per la democrazia rappresentativa. E poi nessuno metteva nel proprio nome un'identità politica: tutti a saccheggiare l'orto botanico (querce, margherite, ecc) o a utilizzare combinazioni del nome 'Italia'. Invece da un nome di un partito si deve capire subito qual è la visione di società che ne deriva".
"Siamo una possibilità per tutti, non un privilegio per pochi": così stava scritto sullo schermo accanto al simbolo appena comparso, mentre il manifesto del partito cerca di sviluppare il credo della forza politica, volto a combattere i tre spettri dell'autocrazia, del populismo e della conservazione, unendo democrazia politica ed economia di mercato. "Varando questo partito che unisce quattro associazioni - ha detto Marattin all'inizio dell'evento - cominciamo a mettere mano a quella frammentazione che ha reso l'area liberaldemocratica meno forte di quanto non sia in Italia. Oggi vi presentiamo il manifesto, quello in cui crediamo, le nostre proposte politiche; vi presentiamo una classe dirigente, una strategia di comunicazione che discutiamo con tanti ospiti esterni; apriamo il tesseramento e tra tre mesi eleggeremo i nostri organi. Partiamo con le cose importanti, le altre verranno dopo". 
"Quando vi siete innamorati l'ultima volta dell'attività politica? Quando siete andati a votare l'ultima volta con passione e determinazione?" ha chiesto Pietro Ruggi, socio fondatore e presidente di Liberal Forum. "Per tanti di noi forse è passato troppo tempo: per decenni ci siamo trovati a dover scegliere tra una destra populista, giustizialista e illiberale e un centrosinistra anch'esso populista e giustizialista, per i liberali era una situazione impossibile. Oggi per me si realizza un sogno: avere un partito che può essere un punto di riferimento politico-elettorale per i liberaldemocratici italiani, da lasciare in eredità ai nostri giovani. Un partito non si fonda per l'obiettivo di riunire i liberaldemocratici: lo si fonda perché ci sono valori non negoziabili condivisi tra tutti noi".  
"Se metà delle persone non vota - ha aggiunto Alessandro Tommasi di Nos - vuol dire che metà delle persone non crede minimamente nella politica, perché negli ultimi trent'anni sono mancati una visione del paese, un metodo di lavoro chiaro, sistemi di incentivo alla partecipazione politica per componenti importanti della nostra società. Siamo sicuri che lo scontro tra centrodestra e centrosinistra sia ancora attuale, o invece sarà necessario schierarsi a difesa dei principi democratici e dello stato di diritto, che certe forze politiche non sposano in pieno?".
"Quando ho iniziato a fare politica qualche decennio fa - ha chiosato Andrea Marcucci - sembrava che il bene della libertà fosse ormai acquisito nel mondo occidentale e anche in Italia. Semplicemente non era vero, come ha dimostrato la storia: in momenti difficili come questo, diventa un discrimine scegliere di stare dalla parte di chi viene offeso e aggredito, di chi sceglie i diritti, di chi sa che le riforme e la spesa pubblica ci possono essere ma solo in presenza di un'economia di mercato. Il motore di secoli che ha portato allo sviluppo della nostra società è stato l'amore per la libertà e lì bisogna tornare. Facciamo un primo passo di un percorso che abbiamo elaborato e studiato e che è difficile, perché tra liberali trovarsi d'accordo è un incubo... ma siamo andati avanti e ci crediamo". La sede del partito, tra l'altro - in via Veneto 7 a Roma - coincide con l'ufficio romano usato da Marcucci fin dalla sua prima elezione a parlamentare (nel 1992 con il Pli alla Camera; sarebbe poi tornato al Senato nel 2008 con il Pd, rimanendovi fino al 2022). 
Tra i molti interventi della giornata, al di là degli apprezzabili contributi esterni, meritano di essere segnalati due passaggi interni. Il primo lo ha fornito Gianmarco Brenelli, tra i fondatori di Liberal Forum, a lungo impegnato nel mondo liberale (e, tra l'altro, nella Federazione dei liberali guidata da Raffaello Morelli): "Nel nostro manifesto introduciamo alcune novità, innanzitutto la parola 'Partito': la nostra - ha detto - è l'unica democrazia che ormai non si fonda sui partiti, abbiamo avuto fasi floreali, di cesarismo, di 'partiti' in cui non si discute e non si applica la costituzione e noi vogliamo andare nella direzione opposta, creando una forza politica contendibile. Grazie al disastro che si è creato in Italia, nel Parlamento europeo non esiste un contributo italiano alla famiglia liberale, a dispetto di una domanda dell'8-10% rivelatasi non nei sondaggi, ma nei voti: serve uno strumento che costituisca l'offerta a questa domanda".
Il secondo momento intenso è arrivato da Oscar Giannino, che ha offerto un intervento decisamente movimentato: "I nostri punti programmatici non sono un programma elettorale, cui lavoreremo quando ci avvicineremo alle elezioni, vedendo quanto la condizione di questo paese e quella internazionale si sarà ulteriormente ridotta alla malora. Così come non sono un programma di governo completo, perché questo lo faremo evolvere nel tempo attraverso le forme di un partito contendibile che fa congressi a tutti i livelli e non sopporta i partiti personalistici, senza averci niente a che fare. Però abbiamo scelto punti programmatici che sono irriducibilmente diversi da quello che dicono questa destra e questa sinistra e da quello che hanno fatto per anni, lasciando le loro impronte digitali sul paese". Comunque vada, la strada è impegnativa: decidere di percorrerla - qualunque idea si abbia - è una sfida che merita rispetto.

venerdì 28 febbraio 2025

Dc, il tribunale di Roma nega a Luciani l'esclusiva di nome e simbolo

Lungi dall'essersi esaurite, le vicende giuridiche relative ai tentativi di risvegliare la Democrazia cristiana offrono una nuova puntata "ambientata", in un certo senso, presso il Tribunale civile di Roma. Il 25 febbraio in cancelleria è stata infatti depositata la sentenza di primo grado - decisa il giorno prima - che fa seguito all'atto di citazione presentato lo scorso anno da Nino Luciani e Carlo Leonetti, che si qualificano rispettivamente come segretario politico e segretario amministrativo (nonché legale rappresentante) della Dc, almeno sulla base del percorso di riattivazione del partito da questi ritenuto legittimo. Il giudice Corrado Bile (della sezione Diritti della persona e immigrazione civile), lo stesso che a maggio dello scorso anno aveva negato la tutela cautelare a Luciani e Leonetti - richiesta in vista delle elezioni europee e delle altre consultazioni elettorali della primavera del 2024 - con la sentenza n. 2847/2025 ha però respinto le loro domande. 
Luciani e Leonetti, in particolare, avevano chiesto che il tribunale accertasse che la Dc da loro guidata era "in continuità giuridica soggettiva con il Partito della Democrazia Cristiana fondato nell’anno 1943" e che, su quella base, aveva titolo per rivendicare la piena ed esclusiva titolarità della denominazione "Democrazia cristiana" e dello scudo crociato, sulla base del "diritto al nome" previsto dall'art. 7 del codice civile; in base a quest'accertamento, secondo gli attori, il giudice avrebbe dovuto ordinare a tutti coloro che erano stati convocati in giudizio di smettere di usare in qualunque occasione il nome e il simbolo della Dc o altri segni identificativi confondibili, prevedendo anche una penale per ogni ulteriore uso indebito di quei segni e condannando, in ogni caso, quei soggetti al risarcimento dei danni già prodotti alla Dc-Luciani. L'elenco dei soggetti che avrebbero dovuto cessare ogni molestia, del resto, era piuttosto lungo: l'Unione dei democratici cristiani e democratici di centro (vale a dire l'Udc), rappresenta dal segretario Lorenzo Cesa e dal segretario amministrativo Regino Brachetti; Maurizio Lupi, quale presidente di Noi moderati (la cui presenza può spiegarsi soltanto in virtù della partecipazione dell'Udc a Noi moderati, inteso non ancora come partito, ma come cartello-federazione di partiti per le elezioni politiche del 2022); Gianfranco Rotondi, in proprio e quale presidente della Democrazia cristiana con Rotondi; varie persone che attualmente si qualificano come segretari politici della "loro" Dc, in particolare Salvatore "Totò" Cuffaro, Antonio Cirillo (nel processo è intervenuta anche la Dc da lui guidata, attraverso il suo segretario amministrativo e legale rappresentante Sabatino Esposito), Angelo Sandri, Franco De Simoni (era stato citato anche il nuovo segretario amministrativo, Mario De Benedittis), Emilio Cugliari (in effetti si qualifica come "presidente facente funzione"), Lupo Rosario Salvatore Migliaccio di San Felice, ma anche Raffaele Cerenza, in qualità di presidente dell'Associazione Iscritti alla Democrazia Cristiana del 1993 (ed ex segretario amministrativo della Dc-De Simoni).

La sentenza

Per Luciani e Leonetti questa causa doveva servire ad "accertare definitivamente l'identità e la continuità politico-storica" (stranamente qui non è stata indicata anche quella giuridica, l'unica che per il diritto abbia valore, ma la si ritrovava in seguito) con la Dc "storica": in quel modo si sarebbe potuta fondare la rivendicazione e tutela (ex artt. 6 e 7 c.c.) verso tutti i soggetti - individuali e collettivi - "che, a decorrere dall'anno 1994 e sino ad oggi, hanno utilizzato illegittimamente la denominazione ed il simbolo del partito fondato da Alcide De Gasperi nel 19 marzo 1943". La continuità sarebbe dovuta discendere dalla nascita di altri partiti - incluso, pare di capire, il Partito popolare italiano, ritenuto soggetto diverso dalla Dc - generata "dal recesso di alcuni soci dalla Democrazia Cristiana, circostanza che non avrebbe dato luogo ad una scomparsa dell'ente dante causa": Leonetti e Luciani sostenevano in particolare che esistesse "un'identità tra i propri iscritti e quelli costituenti l'originario partito nell'anno 1993". Su queste basi, tutti gli accordi stipulati tra soggetti ritenuti "nuovi" e relativi (anche) al nome e al simbolo della Dc - inclusi i c.d. "accordi di Cannes" del 1995 - si sarebbero dovuti ritenere nulli, visto che solo quel partito - mai estinto - avrebbe potuto disporne; allo stesso tempo, l'uso del nome e dello scudo crociato sarebbe avvenuto in violazione delle leggi elettorali che tuttora non ammettono la presentazione di contrassegni "riproducenti simboli, elementi e diciture, o solo alcuni di essi, usati tradizionalmente da altri partiti".
Erano di ben altro avviso i soggetti convenuti, a partire dall'Udc: il partito aveva innanzitutto sostenuto che i giudici si erano già espressi in modo definitivo sulle questioni legate alla Dc (a partire dalla nota sentenza della Corte d'appello civile di Roma n. 1305/2009, confermata dalla Cassazione a sezioni unite con la sentenza n. 25999/2010), decidendo che - secondo il riassunto fatto dalla difesa dell'Udc - "tutti gli attuali soggetti che pretendono di accreditarsi nell’opinione pubblica come Partito della Democrazia cristiana, non hanno, in verità, alcuna continuità storico giuridica con tale soggetto", dunque nessuno può agire in suo nome e per suo conto; secondariamente, l'Udc ha rivendicato di aver impiegato lo scudo crociato in tutte le competizioni elettorali dal 2002 in poi, per cui quel simbolo "ha finito per essere, inequivocabilmente, ricondotto dalla coscienza collettiva a tale Partito, insediato da tempo, con una propria rilevante rappresentanza, in Parlamento nazionale ed europeo", Lupi, per parte sua, ha negato qualunque responsabilità circa l'uso del nome e del simbolo della Dc, ricordando l'episodio della lista comune Noi moderati del 2022, ma precisando che "i singoli partiti non abbandonano la loro identità" (per cui aveva chiesto di essere estromesso dal giudizio, auspicando comunque il rigetto delle domande degli attori e la condanna di questi ultimi al risarcimento "da lite temeraria").
Quanto alle "altre Dc", la Democrazia cristiana con Rotondi aveva formulato varie eccezioni in rito (sulla corretta notificazione dell'atto di citazione e sulla corretta rappresentanza dell'associazione guidata da Luciani) e aveva chiesto che fosse chiamato in giudizio il Ppi - ex Dc, quale soggetto che nel 2004 aveva concesso a Rotondi l'uso del nome "Democrazia cristiana", chiedendo piuttosto che fosse inibito alla Dc-Luciani l'uso del nome della Dc, con tanto di condanna al risarcimento del danno. La Dc-Cuffaro aveva ricordato che era già pendente la causa iniziata 2023 da quel partito davanti al tribunale di Avellino per accertare la continuità giuridica con la Dc "storica" (per cui la nuova causa, a suo dire identica o comunque contenuta in quella precedente, avrebbe dovuto terminare il proprio percorso - ed eventualmente essere riassunta presso il tribunale irpino - o tutt'al più essere sospesa in attesa che il giudizio di Avellino si compisse); in ogni caso, aveva chiesto il rigetto delle domande. Pure De Simoni, ritenendo privi di legittimazione Luciani e Leonetti (qualificati come "espulsi" o non correttamente insediati, o comunque decaduti), aveva chiesto una pronuncia di rigetto; lo stesso aveva fatto Cugliari, che peraltro aveva sottolineato di essere stato "nominato Presidente f.f. della Dc [al posto di Luciani, ndb] all'Assemblea del 1-2 luglio 2020" e di essere rimasto da allora in carica, rappresentando "regolarmente la Dc in attesa di un regolare Congresso che nessuno è riuscito a svolgere" (il che avrebbe prodotto necessariamente la prorogatio dell'unico organo che assume la rappresentanza legale dell'associazione, almeno fino alla sua regolare sostituzione). 
Quanto alla Dc-Cirillo, essa - oltre a ricordare il giudizio promosso da Cuffaro ad Avellino, chiedendo la cancellazione della nuova causa - aveva contestato la "ricostruzione storica" alla base della rivendicata continuità tra Dc "storica" e Dc-Luciani: a detta dei suoi difensori, "il partito di cui è rappresentante il signor Sabatino Esposito ha ri-attivato gli organi del partito attenendosi in modo puntuale alle prescrizioni dello statuto", per cui è stato chiesto il rigetto delle domande di Luciani e Leonetti, pretendendo allo stesso tempo che si dichiarasse nei confronti delle altre associazioni che la Dc-Cirillo era "l'unica legittimata ad utilizzare simbolo e denominazione" della Democrazia cristiana. Non si sono costituiti, tra gli altri, Sandri, Cerenza e Migliaccio.
Il giudice Bile ha ritenuto di doversi esprimere sulle domande, ritenendo che non ci fosse completa identità di parti tra la causa attribuita a lui e quella trattata presso il tribunale di Avellino (né la causa romana poteva dirsi "contenuta" in quella avellinese): ha sottolineato anzi che "la presenza di più parti finisce per riflettersi sull’oggetto del giudizio, implicando una valutazione complessiva sulla oramai annosa questione inerente alla possibilità di utilizzare denominazioni, contrassegni e simboli che si ricollegano al partito della Democrazia Cristiana da parte di soggetti già da tempo presenti sulla scena politica italiana" (motivo in più, dunque, per decidere la causa e non rinviare la soluzione di dubbi).
Lo stesso giudice, di fronte ai vari tentativi di eccepire che Leonetti e Luciani non fossero legittimati a iniziare l'azione, ha ricordato che "la legittimazione ad agire e a contraddire, quale condizione dell'azione, si fonda sulla prospettazione ovvero sull'allegazione fatta in domanda". Per Bile, insomma, Luciani e Leonetti si sono qualificati rispettivamente segretario politico e amministrativo della "loro" Dc e hanno agito come tali, apportando documenti che confermano quella posizione: riconoscere la legittimazione ad agire, però, non significa in automatico che i due attori siano anche allo stesso tempo figure di vertice della Dc "storica".  
Il giudice, infatti, ha ritenuto che le domande dei rappresentanti della Dc-Luciani non dovessero essere accolte. Risulta di un certo interesse che questi, per indicare le norme sulla base delle quali condurre il giudizio, abbia richiamato l'art. 2-bis del "decreto elezioni 2024" - quello che ha messo in chiaro la netta distinzione del diritto elettorale da quello dei marchi (rendendo del tutto ininfluente il deposito di un fregio come marchio ai fini della partecipazione alle elezioni) - insieme alle disposizioni del testo unico per l'elezione della Camera (d.P.R. n. 361/1957) in materia di deposito, ammissibilità ed esame dei contrassegni elettorali. 
Dopo aver ricordato che "[i] segni distintivi costituiscono l'insieme di elementi grafici essenziali in cui si riassume la configurazione identitaria del partito, nonché la sua capacità di rendersi riconoscibile agli elettori" e aver richiamato sia il parere del Consiglio di Stato n. 218/1992 sulla confondibilità tra contrassegni (che ha invitato a valutare eventuali somiglianze tra contrassegni considerandoli per intero, non con riguardo "ai singoli elementi che ben possono essere comuni a più partiti politici"), sia le decisioni dei giudici civili - incluse due della Cassazione, la prima relativa all'Associazione italiana contro le leucemie - Ail (2015), la seconda ad Alleanza nazionale e alla Fondazione Alleanza nazionale, ordinanza che nel 2020 aveva ribaltato il verdetto della Corte d'appello di Firenze che aveva dato ragione al Nuovo Msi di Gaetano Saya e Maria Cannizzaro - che hanno riconosciuto ai partiti quali associazioni non riconosciute il diritto al nome e a vederlo tutelato ex art. 7 c.c., il giudice ha riconosciuto la prassi di chiedere la registrazione come marchio dei simboli dei partiti; egli ha però anche ricordato che "la titolarità civile di un emblema non si sovrappone alla sua titolarità elettorale, e non offre tutela nell’ambito dell’uso politico dei simboli" (citando a proprio sostegno la "sentenza Vannucci" con cui il tribunale di Roma nel 2009 aveva tra l'altro escluso che la domanda di marchio presentata dalla Dc-Sandri potesse avere qualche effetto nei tanti contenziosi in corso).
Per il giudice, il parametro di valutazione va rintracciato nella "volontà di scongiurare il rischio di confusione sugli elementi caratterizzanti le diverse formazioni politiche" e nella "tutela dell’elettorato, quale espressione della sovranità popolare, costituzionalmente riconosciuta". Sul primo punto non ci sono dubbi; lascia più perplessi il secondo, dal momento che l'azione non era stata impostata con riguardo alla partecipazione alle elezioni - fatta salva la contemporanea instaurazione del giudizio cautelare in vista del voto di primavera del 2024 - e non spetta certamente al giudice civile occuparsi di tutela dell'elettorato (almeno non in questo caso).
In ogni caso, il tribunale ha preso atto dell'uso elettorale dello scudo crociato da parte della Dc dal 1948 al 1992 e poi dell'Udc "nel corso di un arco temporale di circa trent'anni, ottenendo un consenso che le ha consentito la presenza in Parlamento". Un periodo di tempo così lungo da non potersi ritenere "irrilevante ai fini di stabilire la consistenza del carattere identitario del simbolo e la relativa spettanza", volendo applicare il principio consolidato (dalla Cassazione) in base al quale "il trascorrere del tempo costituisce già di per sé un elemento idoneo a giustificare un diverso trattamento". Si è trattato di un uso prolungato "del simbolo che ha caratterizzato un partito politico rimasto sostanzialmente inattivo per moltissimi anni": per il giudice, quell'impiego consolidato ha prodotto in capo all'Udc "il formarsi di una identità riconoscibile da parte dell’elettorato che, nel tempo, ha avuto modo di esprimersi con il voto", al punto tale da finire per cambiare il significato del simbolo stesso (dovendosi escludere che lo scudo crociato "abbia mantenuto intatte le proprietà originarie che ne determinavano la riferibilità esclusiva ad una forza politica attiva eminentemente nel secolo scorso"). 
La sentenza cita il precedente della Cassazione a sezioni unite del 2010, ma per dire che solo allora si è affermato "con certezza che il mutamento di denominazione della Democrazia Cristiana in Partito popolare italiano [...] non fosse avvenuto poiché deliberato in contrasto con le previsioni statutarie"; dal 1994 al 2010, in compenso, "anche l'elettorato è stato esposto al diffuso convincimento di un avvenuto mutamento di denominazione e, dunque, ne ha preso atto, maturando una nuova e diversa consapevolezza circa l'identità delle formazioni politiche in campo e circa la riconducibilità dei segni distintivi a questo o a quel partito". Ovviamente l'Udc è nata ben dopo il 1994, ma ha operato e partecipato alle elezioni per oltre vent'anni: le stesse norme elettorali, nel tutelare l'affidamento dell'elettore verso i partiti presenti in Parlamento, proteggerebbero "un interesse che oggi non può più riconoscersi come radicato in modo prevalente in capo alla Democrazia Cristiana storica", dovendosi riconoscere un "uso tradizionale" (anche) "in capo ad altri che ne hanno fatto uso per anni". Non viene accolto nemmeno l'argomento della maggiore presenza in Parlamento della Dc (1948-1994) rispetto all'Udc (dal 2002, o dal 2006 se si contano le elezioni cui ha direttamente partecipato): occorre infatti "tenere conto del momento storico in cui tale presenza si è manifestata, di quanto accaduto nel tempo e delle conseguenze che l'articolarsi delle vicende ha determinato".
Per il giudice, dunque, senza disconoscere il rispettivo diritto al nome, occorre far prevalere la citata tutela dell'elettorato - che può esplicitarsi anche nel controllo sui simboli, da ricondurre "al principio di libertà di voto tutelato dall’art. 48, comma 2, Cost." - e valutare sulla base della "normale diligenza dell'elettore medio di oggi", ritenuta maggiore rispetto a quella del passato (come ribadito da varie sentenze amministrative), il che fa propendere per un giudizio meno severo sulla confondibilità, ma pur sempre condotto con uno sguardo sintetico e complessivo sul simbolo ("guardando se l’insieme degli elementi grafici essenziali – pur con le variazioni del caso – conservi gli elementi salienti dell'emblema tradizionale"). Su queste basi, "il fatto che ognuna delle parti in giudizio abbia svolto la sua attività politica nel tempo utilizzando, a seconda dei casi e con le relative differenziazioni, simboli, contrassegni e denominazioni riconducibili al partito della Democrazia Cristiana, ha comportato il formarsi ed il consolidarsi di una chiara rappresentazione del panorama politico da parte dell’elettorato". Il che equivale a dire - peraltro in modo non proprio cristallino - che l'uso prolungato da parte dei soggetti politici di nomi e simboli che richiamano la Dc non ha comunque confuso gli elettori, ma non permette nemmeno la rivendicazione di diritti esclusivi su quei nomi e quei segni, specie se si mira a imporre il cambio di denominazioni o emblemi con cui un partito ha operato sulla scena politica. Il che basta, secondo Bile, a respingere le domande della Dc-Luciani, ma anche quelle (speculari) della Dc-Rotondi e della Dc-Cirillo: tra questi soggetti le spese sono state compensate, mentre Luciani e Leonetti sono stati condannati per soccombenza nei confronti degli altri soggetti (Udc, Lupi, Cuffaro, Cirillo come singolo, De Simoni e Cugliari).

Reazioni e commenti

In rete non si sono fatti attendere i commenti di due tra le principali parti di questa causa. Giusto oggi Nino Luciani ha diffuso una sua nota a commento della sentenza, non esattamente gradita: 

Il ricorso della Dc al tribunale civile di Roma aveva due obiettivi: a) escludere tutti gli emulatori della Dc storica, e ottenere il riconoscimento della legittimazione del prof. Nino Luciani (ma anche a braccia aperte a tutti quelli che vogliono rientrare in base allo Statuto); b) ri-avere lo scudo crociato (detenuto dalla Udc).
Sulla legittimazione del prof. Luciani, come Segretario Politico della Dc, il giudice ha dato conferma positiva, e lo ha ripetuto una diecina di volte, tanti quanti erano i falsi emulatori, chiamati da me in giudizio. A riguardo del simbolo, invece, il giudice lo ha confermato dato alla Udc (e condannato il prof. Luciani alle spese). Vediamo meglio. 
Il giudice è convinto che, tra la Udc e la Dc, il simbolo spetti alla Udc perché lo ha usato da anni, e dunque (per confondibilità) l'elettore potrebbe essere tratto in inganno, se non lo trova nella scheda elettorale della Udc. Se il giudizio di Bile è corretto, la condanna alle spese (su di me, che ho sostenuto il contrario) è giustificata. E non conta nulla che, per la corte d'appello, la Udc non deriva dalla Dc e non ha diritto di usarne il simbolo. Dunque, l'uso prolungato ha creato un diritto. E non conta nulla che, secondo il codice civile, non esista usucapione dei beni immateriali. 
Ma noi avevamo fatto un esposto al giudice, ex art. 669-decies del c.p.c., in cui si rilevava (con prove oggettive) che la Udc non aveva, poi, presentato (nelle elezioni europee, 15 giorni dopo) il simbolo scudo crociato (essendo andata con la Lega, senza lo scudo crociato) e che ne aveva taciuto al giudice il 14 maggio 2024 (quasi mentito, in quanto la cosa era già comunicata sui giornali). Dunque era caduto il problema della confondibilità.
Si conclude che la condanna alle spese, su Luciani, resta per aria. E poiché il Giudice ha ignorato (neppure ne fa menzione) l'esposto ex art. 669-decies, siamo costretti ad andare in Corte d'Appello. 
Ultimo ma non ultimo. Siccome il simbolo è l'unica cosa rimasta da sistemare, abbiamo preparato alcuni simboli di riserva [...]. E siccome la Dc deve evolvere, io personalmente preferisco De Gasperi al posto dello scudo.
Il testo vergato da Luciani contiene una notizia: quasi di certo la sentenza del tribunale di Roma sarà impugnata e lo stesso Luciani tornerà in corte d'appello, dopo esservi stato tra il 2023 e il 2024 come parte convenuta/appellata (nella causa intentata da Cerenza e De Simoni per cercare di invalidare l'assemblea del febbraio 2017, tentativo non riuscito). Colpisce il riferimento alla conferma della legittimazione di Luciani e Leonetti come segretario politico e amministrativo della Dc "storica": in effetti le parole della sentenza - specie quelle sulle pretese attuali di una forza politica operante nel secolo scorso - paiono compatibili con questa lettura; è altrettanto vero, però, che il dispositivo parla semplicemente di rigetto della domanda, che comprendeva anche la dichiarazione di continuità giuridica tra Dc "storica" e Dc-Luciani (punto sul quale, a dire il vero, nelle motivazioni non c'è proprio nulla). 
Sulla questione del simbolo - quella che più lo ha scontentato - Luciani spiega di aver fatto notare come alle elezioni europee il simbolo dell'Udc non sia finito sulle schede e già questo avrebbe fatto venire meno ogni rischio di confusione. Ora, posto che il simbolo dell'Udc era comunque stato depositato al Viminale (e proprio un giudizio di confondibilità aveva portato a escludere il simbolo della Dc), non si capisce perché - superata la fase del procedimento cautelare - il giudice abbia sentito il bisogno di valutare la domanda degli attori attraverso criteri in gran parte dettati per le elezioni, peraltro dopo avere specificato egli stesso che il piano dei segni distintivi è diverso da quello elettorale (ma più in generale quello del diritto civile è diverso da quello elettorale e quest'ultimo non doveva essere considerato da un giudice civile in una fase di cognizione piena). Mentre la difesa di Luciani e Leonetti potrebbe essere impegnata a preparare il ricorso - magari considerando anche questi argomenti - lo stesso Luciani ha elaborato artigianalmente alcune proposte grafiche per sostituire lo scudo crociato (e che dovrebbero aggiungersi al "Bianco Fiore - Rosaspina" già proposto in passato). Su quelle proposte ci si permette solo di rilevare che quelle contenenti la croce, proprio perché esterna allo scudo, sarebbero considerate inammissibili per l'impiego di un soggetto religioso.
Se, in coerenza con il passato, non è arrivato nessun commento dall'Udc, si è espresso invece Gianfranco Rotondi con un post pubblicato il 26 febbraio su Facebook: 

La sezione 'diritti delle persone' del tribunale di Roma, guidata dal dottor Corrado Bile, ha emesso ieri una sentenza di decisione in merito al giudizio avviato dalla presunta 'Democrazia Cristiana storica', che rivendicava il diritto all'uso del nome e del simbolo della Dc. Il giudice Bile ha rigettato il ricorso, affermando che la vita elettorale della Dc si è conclusa nel 1992, e pertanto i partiti ad essa succeduti vantano autonomi diritti all'uso dei rispettivi simboli e nomi. 
Siamo soddisfatti dell’esito del giudizio, e siamo convinti che tali orientamenti saranno riaffermati anche ad Avellino, ove pende un giudizio altrettanto infondato e pretestuoso. Rimaniamo aperti alla possibilità di una intesa che permetta ai democristiani di riconoscersi in un partito che riproponga il nome e il simbolo della Dc, ma questo dipende dalla volontà dei protagonisti, non si può chiedere in tribunale.
Il riferimento di Rotondi a una possibile intesa per riproporre un partito che unisca nome e simbolo della Dc sembra ampiamente debitore di quanto accaduto a metà gennaio ad Avellino, alla prima udienza del processo iniziato da Cuffaro per rivendicare il nome della Dc. Mancando proprio i suoi avvocati, la causa era stata rinviata di sei mesi dalla giudice designata (Paola Beatrice), ma in quell'occasione questa avrebbe invitato a una sorta di conciliazione, suggerendo anche uno strumento giuridico per ottenere quel risultato ("la costituzione di una 'scatola giuridica' nuova, nella quale convergano tutte le associazioni conferendo ad essa le proprie ragioni o aspettative di diritto" aveva spiegato Franco De Luca a Roberta Lanzara di Adnkronos). 
Rotondi, in un post del 18 febbraio, aveva spiegato a modo suo quella proposta: 
La soluzione giuridica è semplice, limpida: ciascun partito che si sente titolare di diritti sul nome e il simbolo della Dc conferisce questi diritti a un nuovo soggetto unitario. Non importa se i diritti siano reali o presunti, velleitari o consolidati: importa il gesto comune, la rinuncia alla privativa e dunque alla convenienza. Penso di aver fatto il mio dovere: sono stato il primo a mettere a disposizione del progetto il nome della Democrazia cristiana, da me ininterrottamente utilizzato dal 2004, sulla base di una autorizzazione degli eredi aventi diritto del partito storico. Ho fatto un passo indietro, e ne sono orgoglioso. Questo percorso mette tutti di fronte a una precisa responsabilità: accettare la sfida di ritrovarsi, o provare a rinchiudersi nuovamente nel fortino delle convenienze maturate nel trentennio della diaspora, ciascuno assiso sul tronetto che da solo si è fabbricato. Ora è il momento della verità: si vedrà chi ci crede e chi no, chi è pronto a rischiare e chi a lucrare. Sarà un momento bellissimo, perché nessuno di noi potrà nascondersi e finalmente ciascuno assumerà una responsabilità pubblica e riconoscibile. E quel che resta del popolo democristiano non ci farà sconti, c'è da esserne certi.
Chi scrive prende atto della proposta e della almeno potenziale disponibilità di alcune delle parti. Ma si potrà davvero costruire di nuovo la Democrazia cristiana mettendo tutti d'accordo? Sinceramente è lecito dubitarne. Nessuna intenzione ovviamente di "gufare" per guastare il progetto, si augura sempre il meglio, ma è sufficiente guardare a cos'è accaduto finora per nutrire seri dubbi sulla possibilità che questo nuovo tentativo riesca. 
Da una parte, è facile notare che nel corso del tempo sono spuntati periodicamente nuovi soggetti che si ritenevano legittimi continuatori della Dc, in virtù di ricostruzioni diverse o di percorsi in parte da rifare: è sufficiente che uno o più soggetti - già noti o non ancora emersi - non accettino di partecipare al progetto comune e dicano con forza "la vera Dc sono io" per rischiare di aprire nuove pagine giudiziarie. Dall'altra parte, anche nella poco probabile ipotesi in tutti i partiti e gruppi politici potenzialmente interessati all'operazione accettassero di prendervi parte, si aprirebbe subito il problema del futuro di quel partito chiamato Democrazia cristiana e distinto dallo scudo crociato: un futuro fatto anche (se non innanzitutto) di persone, di ruoli e di numeri. Rotondi ha ricordato di aver messo a disposizione il nome della Dc a lui concesso in uso nel 2004; considerando però che lo scudo crociato attualmente è utilizzato anche dall'Udc, rappresentata in entrambi i rami del Parlamento (Lorenzo Cesa alla Camera, Antonio De Poli al Senato), si potrebbe realisticamente pensare che quel partito accetterebbe di partecipare al progetto politico comune senza assumerne la guida? E, al contrario, i gruppi democristiani più o meno piccoli, dopo essersi scagliati per anni contro le "rendite di posizione" di chi aveva nel frattempo ottenuto candidature e seggi usando il nome della Dc o lo scudo crociato e contestandoli agli altri, sarebbero disposti ad accettare un nuovo soggetto politico guidato di fatto dall'Udc? Questi dubbi, come si diceva, sono più che legittimi, ma la realtà potrebbe riservare sorprese: se ci saranno, ovviamente, verranno raccontate. E la storia dello scudo crociato, dentro o fuori dai tribunali, continuerà.

venerdì 14 febbraio 2025

Ricordare i Cristiano sociali (e i loro simboli) salutando Mimmo Lucà

La scomparsa di una persona merita sempre delicatezza, attenzione e una certa quota di silenzio, magari interrotto da parole di ricordo e da considerazioni rispettose (anche quando sono in dissenso: la morte non deve per forza cancellare o tacitare le distanze). Talvolta, però, la fine di una vita accende subito qualche luce, fa emergere dalla propria memoria un episodio, un'esperienza o anche - volendo - un simbolo. 
Sapere della morte di Domenico (Mimmo) Lucà, deceduto ieri, non significa infatti soltanto pensare alla scomparsa di un ex parlamentare che ha avuto al suo attivo cinque legislature - dalla XII alla XVI, sempre come deputato - ma riporta alla mente di chiunque faccia parte della schiera dei #drogatidipolitica l'esperienza politica dei Cristiano sociali, il movimento di cui Lucà è stato prima tra i promotori, poi presidente (1999-2003) e infine a lungo coordinatore (fino alla fine del 2017). Il percorso politico era nato il 9 ottobre 1993, oltre tre mesi prima del "parto gemellare" post-democristiano del 18 gennaio 1994 (la mattina all'hotel Minerva aveva mosso i primi passi il Centro cristiano democratico di Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D'Onofrio; nel pomeriggio all'Istituto Sturzo c'era stato il primo evento del Partito popolare italiano, evoluzione giuridico-politica imperfetta della Dc) e due mesi e mezzo dopo l'assemblea programmatica costituente che - dal 23 al 26 luglio 1993 - aveva preparato il transito dalla Dc al Ppi. 
Lì, il 25 luglio, Ermanno Gorrieri, esponente modenese della Dc (tra i fondatori della Cisl), era stato netto: per lui non si preparava la "rifondazione della Democrazia cristiana, ma la creazione del nuovo partito: tradotto in dialetto vuol dire sciogliere la Dc, non dobbiamo avere paura delle parole" e non si poteva avere una posizione intermedia ("Il fatto stesso di dire 'cambiamo nome, ma non il simbolo' è appunto una posizione [...] che non dà quel messaggio percepibile dalla gente che qui si dà vita a un partito nuovo e diverso dalla Dc"). Gorrieri aveva rivendicato "la funzione storica" del partito nella prima fase della Repubblica, ritenendo però esaurita la "funzione di mediazione di interessi e aspirazioni diverse a cui la Dc era 'delegata' [...] dalla situazione politica nella quale il Pci era inutilizzabile ai fini della democrazia". Ciò non avrebbe permesso l'equidistanza tra Pds e Lega Nord (lettura della scelta "centrista" di Mino Martinazzoli richiesta dai futuri Ccd Casini e Ombretta Fumagalli Carulli), a costo di creare un altro soggetto politico: "Credo sia possibile che in buona fede alcuni di noi credano che in un particolare momento storico ci sia necessità più di conservare che di cambiare e viceversa", dovendosi per Gorrieri optare per la "traduzione del valore della solidarietà nella tensione verso il massimo di uguaglianza possibile fra le persone, i ceti sociali, i popoli [...]". E se per Gorrieri le alleanze qualificavano il progetto, occorreva rispettare gli elettori scegliendo prima del voto da che parte stare: non potendo collaborare coi leghisti e vista la dissoluzione che interessava i "partiti delle vecchie coalizioni centriste", occorreva "non tanto [...] guardare al Pds, quanto [...] impegnarsi nella costruzione di una nuova aggregazione di centrosinistra, [...] nella quale possano trovare casa i cattolici dentro la Dc e altri che provengono da altre scelte, in collaborazione anche con filoni culturali laici" e che potesse realizzare anche alleanze col Pds, ma coi cattolici in posizione non subalterna.
Da quell'intervento (e da due incontri tenutisi il 24 aprile e il 28 giugno 1993, volti a promuovere la creazione di un soggetto politico di matrice cattolico-democratico-sociale) si arrivò appunto al 9 ottobre, giorno in cui al pontificio istituto Agostinianum a Roma si ritrovarono varie figure insieme a Gorrieri e all'europarlamentare (eletto nelle liste del Psi) ed ex segretario Cisl Pierre Carniti: tra loro c'erano Giorgio Tonini (già presidente Fuci, futuro senatore Ds e Pd), Laura Rozza Giuntella (presidente Fuci prima di Tonini, allora deputata della Rete), Luciano Guerzoni (classe '38, ecclesiasticista collaboratore di Gorrieri, allora deputato indipendente di sinistra, solo omonimo del Luciano Guerzoni, anch'egli modenese ma classe '35, già presidente della regione Emilia-Romagna e allora senatore Pds) e Giuseppe Lumia (già vicepresidente Fuci e tra i promotori del Pds). Obiettivo comune di coloro che - provenendo dal volontariato, dall'associazionismo, incluso quello delle Acli e dell'Agesci, e dal sindacalismo cattolico - avevano concorso a quel passaggio era contribuire alla nascita anche in Italia di una democrazia dell'alternanza: ciò non significava solo favorire un maggiore ricambio nel personale politico ("Più moralità significa più ricambio nella vita politica - aveva detto Carniti - l'inamovibilità produce sentimenti di impunità e, alla fine, condizioni d'illegalità"), ma soprattutto passare dalla rappresentanza frammentata e consociativa del proporzionale a un assetto con "due programmi, due schieramenti che concorrono e possono alternarsi alla guida del Paese", uno più progressista e uno moderato. Per Carniti c'era bisogno non di un nuovo partito, ma di "un soggetto politico autonomamente organizzato" che fosse "una componente del polo progressista, portando all'interno la voce, il peso, il patrimonio di idee, di sensibilità, di esperienza dei cristiani impegnati nel sociale". Una scelta cristiana, per la comune formazione e ispirazione ideale (che si voleva vedere riconosciuta e rispettata), ma laica e "non confessionale", per concorrere a salvarsi insieme. 
In quello schieramento, oltre al Pds (purché si candidasse seriamente al governo del Paese), secondo Carniti e Gorrieri potevano rientrare gli ambientalisti (Verdi e altri), i socialisti di stampo riformista, Alleanza democratica, la Rete, quella parte di Dc che avesse voluto rompere del tutto con chi guardava al centrodestra e, volendo, anche quei Popolari per la riforma che però non avessero condiviso la scelta di Mariotto Segni di collocarsi al centro (sottintendendo che quella posizione potesse significare guardare potenzialmente a destra). E se il nome dei Cristiano Sociali evocava inevitabilmente quello del Partito cristiano sociale (inizialmente guidato da Gerardo Bruni), vale a dire una delle prime esperienze di cattolici impegnati in politica all'esterno della Democrazia cristiana e con una connotazione nettamente di sinistra, il simbolo era decisamente diverso. Niente badile e libro aperto con croce sullo sfondo, ma una stilizzazione dell'Uomo vitruviano di Leonardo Da Vinci, collocata su fondo rosso sfumato, a sua volta racchiusa da una corona verde in cui trovava posto il nome del movimento, scritto in bianco. Un modo, insomma, per collocare la persona al centro dell'azione, senza trascurare i colori nazionali.
Quel simbolo fu depositato al Ministero dell'interno in vista delle elezioni politiche anticipate del 27 e 28 marzo 1994, ma non risulta tra quelli ammessi: escluso che ci fossero simboli simili all'Uomo vitruviano, si deve immaginare che il contrassegno sia stato depositato in via cautelativa, ma sia stato considerato "senza effetti" (dunque inadatto a distinguere candidature) in mancanza di qualche documento, come ad esempio la nomina dei delegati al deposito delle candidature (una scelta conforme con l'idea di non agire come partito e non presentare proprie candidature nella quota proporzionale della Camera). I Cristiano sociali, in ogni caso, schierarono propri candidati nei collegi uninominali, mentre nelle liste proporzionali per Montecitorio si fece carico di quelle candidature il Partito democratico della sinistra. Proprio nella lista del Pds, nella circoscrizione Piemonte 1 (quella della provincia di Torino), fu candidato ed eletto Mimmo Lucà, sconfitto di misura nel collegio uninominale di Rivoli (il suo 38,96% fu superato dal 39,49% di Paolo Mammola). In quello stesso collegio, peraltro, Lucà sarebbe stato eletto sotto le insegne dell'Ulivo nel 1996 e nel 2001, mentre nel 2006 e nel 2008 l'elezione a deputato sarebbe arrivata nella circoscrizione Piemonte 1, prima nella lista dell'Ulivo e poi in quella del Partito democratico.
Il simbolo dei Cristiano sociali, dopo il 1994, non sarebbe più tornato nelle bacheche del Viminale, anche quando nel 2000 fu sostanzialmente modificato: fu abbandonata la stilizzazione leonardesca - forse perché, come qualcuno sostenne, dopo che all'inizio di febbraio del 1998 il capo dello Stato Carlo azeglio Ciampi aveva scelto proprio l'Uomo vitruviano per distinguere le future monete da 1 euro, era bene evitare di fare confusione - e si adottarono due rose, una rossa e una bianca, quasi a voler unire l'anima (e la destinazione) progressista e quella cristiana. Del resto si sarebbe chiamato proprio La rosa rossa / La rosa bianca un libro di Giorgio Tonini (con prefazione di Carniti), uscito nel 2001, relativo all'esperienza dei Cristiano sociali.
Nel 2003, come si è detto, Lucà sarebbe diventato coordinatore dei Cristiano sociali, che nel 1998 erano stati tra le anime che avevano portato all'evoluzione del Partito democratico della sinistra nei Democratici di sinistra; da coordinatore, si schierò nella delicatissima partita che nel 2005 riguardò i quattro referendum sulla procreazione medicalmente assistita, non condividendo l'invito dell'allora presidente della Conferenza episcopale italiana Camillo Ruini a praticare l'astensione e rivendicando come "fuori discussione" la "libertà di laici cattolici maturi". 
In precedenza, nel 1995, Lucà era intervenuto alla prima assemblea nazionale dei Cristiano sociali, svoltasi il 18 e il 19 febbraio a Chianciano Terme (e tuttora ascoltabile grazie a Radio Radicale). In quell'occasione aveva detto la sua sullo scontro che stava dilaniando il Partito popolare italiano, circa la possibilità di allearsi con il centrodestra: "Il congresso di An ha fatto esplodere insieme la crisi del governo Berlusconi e le contraddizioni del Partito popolare: sono contraddizioni che guardiamo con rispetto, tuttavia sempre più si fa evidente l'incompatibilità all'interno del Ppi delle due anime, quella popolare e quella clerico-moderata, quella che pensa di avere un ruolo importante nello schieramento della destra e quella invece che pensa di essere fondamentale per un cartello democratico. Il dilemma non è sciolto, come dimostra l'ultimo consiglio nazionale: ne è risultata una situazione di impasse, per cui Buttiglione non può fare matrimoni a destra e i popolari non possono aderire alla candidatura Prodi. La soluzione trovata rimanda [...] semplicemente una scelta che si imporrà per forza di cose nelle prossime elezioni: noi non demonizziamo la strategia moderata di Buttiglione, [...] evidenziamo che tale esito non ha nulla a che fare con il popolarismo e con la tradizione del cattolicesimo democratico". In quell'occasione Lucà si domandava e chiedeva agli altri cattolici in politica: "è pensabile promuovere con efficacia i valori e le indicazioni programmatiche tanto care ai cattolici accomodandosi in un polo in compagnia di Pannella, Sgarbi, Meluzzi e Storace, imparentandosi con un partito azienda sceso in campo per la tutela di interessi finanziari ed aziendali privati a tutti evidenti? è immaginabile conciliare rigore morale e libertinismo, sobrietà politiche e volgarità demenziale, sensibilità sociale e liberismo iconoclasta, senso dello Stato e nuovo spirito proprietario? Chi pensa di conquistare consensi moderati inseguendo a destra chi, all'ombra di una connotazione religiosa solo apparente, ha trafficato per anni con la parte peggiore, più infame del mondo politico italiano, senza scrupoli [...] perde il suo tempo".
Pochi mesi dopo, alla seconda assemblea cristiano-sociale (15-16 settembre 1995, sempre a Chianciano), Lucà offrì un ritratto molto duro della situazione politica generale, che per vari tratti rischia di essere ancora attuale: "La politica italiana è ridotta a povera cosa: spesso è costretta a vivere una fase di vera e propria avarizia programmatica, ad inseguire contenuti, ad attendere che si riesca a concentrarsi sulle cose che importano davvero all' Italia che lavora, che fatica, che vuole cambiare. Invece è in pieno funzionamento del teatrino pericoloso degli scandali, veri o presunti; è in corso di frenetico allestimento la scenografia delle manipolazioni giornalistiche di un modo non proprio civile di esercitare il controllo di legalità nel nostro Paese. Si estendono le code velenose della Prima Repubblica, si diffonde una concezione della lotta politica come guerra totale per l'annientamento dell'avversario, si assiste impotenti all'imbarbarimento dei rapporti politici tra opposti schieramenti. [...] Viviamo, cari amici, una situazione difficile e di forte deperimento del valore della politica, in cui riemergono prepotenti le forze di un cinico qualunquismo, la cultura dell'affermazione dell'interesse individuale ad ogni costo, i fantasmi dell'antipolitica".
Non c'era solo la pars destruens in quell'intervento, come in quelli successivi. Un bilancio dell'esperienza dei Cristiano sociali può essere ritrovata nel volume Da credenti nella sinistra, curato da Lucà insieme allo storico Carlo Felice Casula (già autore di saggi relativi alla sinistra cristiana) e al giornalista Claudio Sardo e uscito nel 2019 per il Mulino. In copertina, guarda caso, si vede in filigrana il primo simbolo dei Cristiano sociali, quello che ha caratterizzato i primi tempi dell'attività del movimento. Il 7 maggio 2017 iniziò il percorso di chiusura anche giuridica di quell'esperienza, evocato da Lucà nel suo sito: quelle parole, forse, insieme al simbolo leonardesco evocato prima, sono il miglior modo per ricordare uno dei principali esponenti di un cammino concluso, ma non archiviato.

"Sabato, a Roma, abbiamo avviato il processo che porterà, entro il 2018, allo scioglimento dei Cristiano Sociali. Lo abbiamo fatto con discrezione, orgoglio e responsabilità. La discrezione è stato un tratto distintivo del cammino [...] di una piccola formazione di credenti impegnati nella Cisl, nelle Acli, nelle realtà scout dell’Agesci, nell’Azione Cattolica, nel variegato mondo del volontariato e della cooperazione sociale di matrice cristiana, che agli inizi degli anni '90, decidono di costituire un Movimento per rappresentare, nello schieramento progressista che affronterà di lì a poco la destra di Berlusconi, Bossi e Fini, il patrimonio di cultura politica e di presenza sociale del cristianesimo progressista. L'impegno dei cristiani che si erano formati alle importanti novità del Concilio, con la grande sfida di una politica intesa come 'la più alta forma di carità', il principio di laicità, la scelta degli ultimi e dei poveri come destinatari privilegiati del messaggio evangelico, non poteva rischiare la dissoluzione o la irrilevanza nel dibattito pubblico e nell'azione politica, di fronte alla disgregazione dei contenitori del cattolicesimo politico. [...] Sabato aleggiava tra noi una certa malinconia, ma anche l'orgoglio di chi sa di aver fatto del proprio meglio per adempiere alla missione delle origini. Passando per la esaltante stagione dell’Ulivo di Romano Prodi, abbiamo partecipato alla fondazione del Partito democratico, con l'intento di unire le diverse anime del riformismo, per dare una nuova prospettiva e una diversa classe dirigente all'Italia e all'Europa. Restiamo convinti che il Pd resti una grande idea, se fondata sul riconoscimento delle differenze generazionali, di genere, di cultura politica, di sensibilità sociale e territoriale, sull'idea che non esiste un partito o una fazione del capo, che il valore della comunità politica viene prima delle ambizioni e delle esigenze dei singoli o delle correnti, che occorre mantenere saldo il dialogo e il rapporto con i cittadini, con quelli che fanno più fatica e con le forme organizzate della partecipazione e della mediazione sociale. Abbiamo adempiuto al nostro compito. Il Pd può ancora crescere in un contesto di rinnovato centrosinistra e di riconciliazione con le istanze e le domande del suo mondo di riferimento, e per farlo non ha più bisogno di 'componenti' fondate su un presupposto di cultura religiosa o su identità del passato. Ma noi non ci rottamiamo, per la semplice ragione che le radici di una formazione democratica e la sua cultura politica e sociale, per quanto di minoranza, non si possono 'rottamare'. Si possono ricambiare i gruppi dirigenti per ragioni di anzianità o di rinnovamento, ma non si possono abbattere i depositi di significati e le tracce di senso del cammino importante e plurale di una storia. [...] Il cristianesimo sociale e democratico, oggi, vive e sviluppa più direttamente il rapporto con la politica e le sue istituzioni, pone meno l'accento sulla rappresentanza e punta più direttamente al dialogo negoziale con il Governo nazionale e locale, per svolgere appieno le sue funzioni di promozione sociale, di tutela delle comunità locali e di crescita politica della società civile. [...] I cristiano sociali, senza la maiuscola, sono il filo rosso di una storia in cui non cesseranno di riconoscersi le esperienze, le speranze e le testimonianze ricche di senso e di passione, di tante realtà dell’impegno sociale, sindacale e politico del futuro, motivate dall'inquietudine di una fede vissuta nel costante riferimento al Vangelo dei piccoli e degli ultimi, che Dio ama".

lunedì 10 febbraio 2025

4° congresso di +Europa: liste, simboli, esiti (e tensioni)

Merita di essere considerato con attenzione, proprio come nei suoi tre appuntamenti precedenti, il congresso nazionale di +Europa - il quarto, appunto - svoltosi dal 7 al 9 febbraio a Roma, all'auditorium Antonianum (lo stesso luogo in cui si sono svolti nel corso del tempo molti altri eventi politici, inclusi il "cantiere" di Italia al Centro e il congresso del Psi nel 2022, nonché - ironia della sorte - il congresso del Partito radicale nonviolento transnazionale transpartito del 2019). Il primo motivo di interesse è una conferma di ciò che è stato rilevato già nelle tre occasioni precedenti: anche questa volta, infatti, le liste concorrenti per la formazione della platea si sono distinte con un proprio simbolo, caso pressoché unico nel panorama congressuale partitico italiano. Pure questa volta, dunque, si porrà attenzione alle liste che hanno partecipato alle fasi che hanno portato al congresso da poco concluso e, ovviamente, ai loro simboli.
Accanto a questo motivo, però, ce n'è anche (almeno) un altro: pure questo congresso di +Europa, infatti, come il primo (quello delle molte tessere fatte e pagate "in blocco" nelle ultime ore di tesseramento aperto e del clamore per gli iscritti - giunti a Milano in pullman ma non solo - riconducibili tra l'altro al gruppo di Bruno Tabacci e risultati determinanti per la vittoria di Della Vedova come segretario) e il secondo (con riguardo alle vicende che lo hanno preceduto e ai contenziosi che lo hanno seguito), ha fatto registrare polemiche circa il tesseramento e i suoi effetti sull'assetto del partito e sugli esiti congressuali. Esiti che hanno visto la conferma alla segreteria dell'unico candidato, Riccardo Magi (205 voti a favore, a fronte di 72 schede bianche e 20 nulle) e l'elezione alla presidenza di Matteo Hallissey (con 198 voti, a fronte degli 87 espressi per l'ex segretario Benedetto Della Vedova, delle 7 schede bianche e delle 4 nulle), mentre come tesoriera è stata confermata la collaboratrice storica di Emma Bonino Carla Taibi (con 201 voti, a fronte delle 90 schede per Valerio Federico - che già aveva ricoperto quel ruolo dal 2019 al 2021 - delle 3 bianche e dell'unica nulla). 
  
Nella prima fase congressuale - chiusa il 28 gennaio - sono state sottoscritte e votate le liste per l'elezione dei delegati che avrebbero formato la "platea" del congresso stesso; in quell'occasione sono state ammesse cinque formazioni. Aveva ottenuto il maggior numero di delegati (123 su 300, il 41%) la lista ImMagina la rivoluzione europea, che fin dal suo nome metteva in chiaro chi avrebbe sostenuto per la carica politicamente più rilevante, vale a dire il segretario uscente Riccardo Magi: la prima parola della denominazione - collocata al centro di un cerchio bianco con contorno sfumato rosa-viola-blu-azzurro - infatti, ha visto evidenziato con un fumetto rosa le quattro lettere centrali, corrispondenti proprio al cognome di Magi. Proprio Magi era il primo della lista dei potenziali delegati, seguito da Taibi e Franco Corleone; in lista, tra gli altri, c'erano anche Antonella Soldo, Ennio Ferlito, Arcangelo Macedonio, Tania Pace e Francesco Moxedano. Di fatto questa è stata l'unica lista in sostanziale continuità con il congresso precedente (allora si chiamava ImMagina +Europa).
76 delegati (il 25,3%) sono stati ottenuti dalla lista Operazione Millennium: dopo i nomi di Angelo Cenicola e di Giovanna Caterina De Luca, si trovano quelli dell'ex tesoriere Valerio Federico e - scorrendo un altro poco la lista - emergono quelli dell'ex deputato (Prc, poi Sel, Pd e Italia viva) Gennaro Migliore, di Alessandro Massari, del docente di diritto dell'Unione Europea Dino Guido Rinoldi, di Marco Ajello, Zeno Gobetti e Dario Boilini. Il simbolo costituiva una variante della bandiera europea, con una delle stelle gialle sostituita da una stella tricolore che si stava spezzando, mentre al centro del circolo di stelle trovava posto il nome in corsivo della lista, con le due "M" in evidenza in verde e in rosso a ricreare il tricolore insieme al resto della scritta riportata in bianco: emblema semplice, ma forse non del tutto soddisfacente sul piano grafico. 
Si è aggiudicata invece il 14% dei delegati la lista Stati Uniti d'Europa, che nelle posizioni più alte della lista riportava l'ex segretario Della Vedova, Anna Lisa Nalin, Marco Taradash e Manuela Zambrano (presidente uscente dell'assemblea); tra i nomi presenti si individuavano anche quelli di Giordano Masini, dell'ex presidente del partito Simona Viola, di Giorgio Pasetto e dell'ex tesoriere di Radicali italiani Michele Capano. Pure questo simbolo aveva come base la bandiera europea, ma il nome bianco collocato al centro - decisamente in evidenza - copriva due delle stelle e una terza (quella collocata più in basso) era seminascosta dal fondo blu, che risultava "tagliato" al centro, come se fosse una sorta di sipario; anche qui una delle stelle era tricolore, ma stavolta era integra.
Si distaccava decisamente sul piano grafico dagli altri simboli di lista il contrassegno che distingueva la lista Eretika!, volta più delle altre a "rompere gli schemi" (ha ottenuto 33 delegati, l'11% del totale). Capolista era il presidente (e segretario uscente) di Radicali italiani Matteo Hallissey, seguito da Debora Striani, Bruno Gambardella, Irene Zambon (ma in lista c'era anche l'ex deputato ed ex tesoriere del Partito radicale Paolo Vigevano). Il nome della lista (provvisto di punto esclamativo) era riportato in bianco su un romboide fucsia obliquo - a ben guardare il testo di tutti questi emblemi Era di fatto in stile Italic - su un fondo con una texture multicolore ma velata di rosa: i colori erano molto simili alla campagna #giovaniunca*zo condotta da Radicali italiani nel 2024 nelle città universitarie italiane.
Gli ultimi 26 delegati (8,67%) se li era aggiudicati la lista "Europeismo o fascismo", che nel proprio nome riprendeva dichiaratamente il titolo di un articolo di Carlo Rosselli pubblicato nel 1935 su Giustizia e libertà; il contrassegno era il solo a riprendere il carattere e tutti i colori del simbolo di +E (il cui logotipo è presente - anche qui, unico caso delle cinque formazioni presentate - nel segmento biconvesso inferiore), aggiungendo all'interno del fregio i valori "autonomia", "diritti", "innovazione" e "ambiente", scritti appunto con i colori della texture del logo. Tra i primi nomi della lista figuravano Federico Eligi (ex assessore toscano e coordinatore regionale del partito) Agnese Balducci, Federico Parea e Monica Balbinot.

Nella seconda fase del congresso, insieme alle candidature, sono state presentate le liste per la composizione dell'assemblea. Qui è comparsa una "sorpresa", vale a dire la presenza di una sesta lista, Radichiamo +Europa sui territori: il simbolo - che, visto a dimensioni originali, appare il più sgranato di tutti - riprende di più il logotipo del partito (citato direttamente e con una texture simile nella parola "Radichiamo", mentre il carattere è usato in tutti gli elementi testuali) e al centro porta una sagoma bianca di albero stilizzato su un cerchio blu. Scorrendo la lista presentata per l'assemblea, molti dei nomi (a partire dai primi indicati, quelli di Riccardo Volpe, Rita Leone, Michele Di Lorenzo e Maria Cristina Ferrucci) si ritrovano all'interno della lista ImMagina la rivoluzione europea. Al momento della conta per l'assemblea, Radichiamo ha ottenuto 57 voti, uno in più della lista ImMagina (56); se il maggior numero delle schede sono state attribuite a Operazione Millennium (70), le altre se le sono divise Stati Uniti d'Europa (45), Eretika! (36) ed "Europeismo o fascismo" (28), mentre 3 schede sono rimaste bianche. 
Vari media hanno messo in luce il risultato inatteso di Radichiamo (che tra i suoi candidati nella lista assembleare mostrava un cognome ricorrente) e lo hanno connesso con il singolare caso di circa 1900 iscrizioni giunte tutte insieme "in zona Cesarini" - prima della chiusura del tesseramento valido per il congresso - e provenienti in gran parte dalla Campania, soprattutto da due suoi comuni. Si sarebbero registrate contestazioni (invocando gli interventi degli organi di controllo interni) circa la validità di tali iscrizioni (che avrebbero influito sulla composizione della "platea congressuale"), eventi che potrebbero far presagire - dopo quello relativo al secondo congresso - un ricorso al giudice civile per invalidare l'assise. Vale la pena sottolineare che, se le 72 schede bianche (e le 20 nulle) registrate per l'elezione del segretario possono segnalare un certo disagio all'interno del congresso, i 57 voti per la lista Radichiamo hanno sicuramente concorso al risultato, ma - visti i numeri ricordati all'inizio - avrebbero potuto dirsi determinanti per l'elezione di Hallissey alla presidenza di +Europa e per la conferma di Taibi alla tesoreria (a danno rispettivamente di Della Vedova e Federico) solo se tutti i delegati avessero votato in blocco per l'altra persona candidata. 
Si vedrà cosa accadrà in seguito, non necessariamente nelle aule giudiziarie. Nel frattempo si apprende che, per votazione dei delegati a modifica dello statuto, la cadenza del congresso è diventata da biennale a triennale (per cui il prossimo dovrebbe celebrarsi nel 2028, dopo le elezioni politiche), mentre la direzione nazionale del partito sulla partecipazione alle elezioni e sulla composizione delle liste non deciderà più a maggioranza dei due terzi, ma a maggioranza assoluta degli aventi diritto. Cambiamenti da registrare, per chi studia il "diritto dei partiti".

giovedì 16 gennaio 2025

Pellegrino Capaldo e la politica, tra la Dc, l'Udr e l'Europa Popolare

I media in questi giorni hanno dato notevole spazio alla morte di Furio Colombo, sia per il suo lungo impegno giornalistico, sia per la parentesi politica (deputato Pds-Ds dal 1996 al 2001, eletto nel collegio di Torino 6 sotto le insegne dell'Ulivo; senatore Ds dal 2006, fu rieletto alla Camera per il Pd nel 2008). La notizia era certo meritevole di attenzione, ma chi appartiene alla categoria dei #drogatidipolitica potrebbe notare come abbia avuto assai meno risonanza la morte - lo stesso giorno di Colombo, il 14 gennaio - di un'altra persona che ha incrociato la politica, pur avendo operato soprattutto in altri ambito: Pellegrino Capaldo.
Accanto alla sua formazione economica (e del suo lungo insegnamento universitario) e della sua rilevante esperienza come banchiere (a capo della Cassa di Risparmio di Roma dal 1987 e della Banca di Roma tra il 1992 e il 1995, ma non mancarono pagine più delicate, come il ruolo di proboviro per l'affaire Ior-Banco ambrosiano, o più oscure, come il coinvolgimento nella vicenda Federconsorzi), infatti, non può certamente essere dimenticata la lunga militanza all'interno della Democrazia cristiana. Più che in questo, però, l'esponente dei #drogatidipolitica può trovare interesse soprattutto in un'esperienza decisamente più effimera, ma a suo modo determinante nella storia della Seconda Repubblica: Capaldo, infatti, fu tra coloro che concorsero alla nascita dell'Unione democratica per la Repubblica, vale a dire l'Udr vagheggiata, voluta e poi abbandonata (due volte) da Francesco Cossiga.   
Il 19 febbraio 1998 - a meno di due anni dalle elezioni che avevano segnato la vittoria dell'Ulivo e avevano portato per la prima volta Romano Prodi a Palazzo Chigi - il Corriere della Sera diede notizia di un pranzo dell'ex Presidente della Repubblica, già intento a pensare alla sua creatura politica di centro e da collocare nettamente al di fuori del Polo di centrodestra, con Ciriaco De Mita, Biagio Agnes e, appunto, Capaldo, fuori da Banca di Roma da quasi tre anni ma con un'aura da superconsulente non solo economico (e dalla storia certamente democristiana come gli altri commensali). Che il percorso di riavvicinamento di Cossiga alla politica italiana - ammesso che, da senatore a vita, se ne fosse mai allontanato - fosse iniziato da mesi era cosa nota: il 18 novembre, per esempio, si tenne una riunione all'Hotel Leonardo da Vinci in cui parlarono proprio Cossiga (che regalò all'inizio una battuta fenomenale rivolta ai fotografi, tuttora ascoltabile attraverso Radio Radicale: "Innanzitutto bisogna vedere quanti di voi hanno le PELLICCOLE nella macchina: la mia lunga esperienza mi DICCE che la maggior parte delle fotografie non SONNO scattate!") e il politico che in quel momento più si era esposto a lavorare per un polo moderato alternativo alla sinistra, vale a dire Bruno Tabacci. E proprio Tabacci fece sapere, parlando coi giornalisti, che il progetto si era mosso all'inizio "anche con l'aiuto di un gruppo di intellettuali che attorno al professor Capaldo credo intendono a riprendere il cammino [...] e hanno voglia, per quel che riguarda il mondo cattolico, richiamati anche in un recente convegno dal cardinal Ruini, di impegnarsi, e per quel che riguarda intellettuale di altre aree [...] di concorrere a costruire questo disegno che vorrebbe sfuggire a un certo tentativo egemonico che ci appare in atto". 
Il cammino lo avrebbero ripreso, ma più avanti, quando formalmente l'Udr era già nata come soggetto politico. Il 28 giugno 1998 sempre il Corriere diede notizia del varo di un nuovo soggetto politico (non un partito), denominato Movimento per l'Europa popolare (Mep), di cui pubblicò come inserzione a pagamento anche il manifesto: Capaldo era tra i firmatari, ma c'erano anche - tra gli altri - presidenti emeriti della Corte costituzionale (Francesco Paolo Casavola e Antonio Baldassarre), Angelo Maria Petroni (futuro consigliere d'amministrazione Rai), l'economista ed ex (e futuro) ministro Paolo Savona, il giurista Sergio Cotta e soprattutto Emilio Colombo, ex presidente del Parlamento europeo e solo tre anni prima impegnato in prima linea nella battaglia per non portare il Ppi nel centrodestra. In vista delle elezioni europee del 1999 e per promuovere maggiormente l'Unione politica (insieme a quella monetaria), Capaldo e gli altri volevano dare un contributo determinante alla creazione di una "corretta dialettica tra forze politiche europee - diverse per valori, principi, programmi e struttura - essenziale per lo sviluppo democratico delle istituzioni europee e per il conseguimento dell'Unione politica". E se a "sinistra" si stava consolidando lo schieramento progressista, "costituito dai tradizionali partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei, cui vanno aggregandosi i partiti già comunisti, uniti nel Partito socialista europeo", occorreva che anche in Italia si componesse "un vasto schieramento - autenticamente democratico - che si inquadri o si riferisca al Partito popolare europeo e ai suoi impegni politici e programmatici per l'Europa" (il che poteva lasciar sospettare che, nello schieramento di centrodestra di quel momento, il tasso di democrazia non fosse del tutto soddisfacente, anche solo con riguardo ad alcuni dei suoi membri; non si dimentichi, tra l'altro, che Forza Italia in quel periodo non era ancora partito membro del Ppe, anche se i suoi europarlamentari erano iscritti al gruppo popolare europeo). Il Mep, in particolare, si proponeva "di concorrere alla diffusione della storia, dei valori, dei principi politici e del programma del Partito popolare europeo, in collaborazione con i partiti e i movimenti che li condividono" e voleva concorrere "alla promozione, alla formazione e al sostegno di liste comuni o comunque collegate al Partito popolare europeo nelle prossime elezioni per il Parlamento dei popoli dell'Unione".
Dopo il lancio del movimento - al quale aderì anche Cesare Romiti, subito dopo aver lasciato l'incarico di presidente e amministratore delegato Fiat - dovette passare qualche mese per la sua prima iniziativa pubblica: questa si tenne il 19 novembre 1998, presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani (gentilmente concessa dal presidente del Senato - del Ppi, dunque ex democristiano - Nicola Mancino). Nel frattempo - va detto - Tabacci aveva già preso una certa distanza da Cossiga e dall'Udr nel frattempo nata, lasciandone il ruolo da vicesegretario per avvicinarsi decisamente al Ccd di Pierferdinando Casini e invocandone l'apertura ai laici. "Siamo venuti a porre la nostra tenda vicino alla politica attiva, ma non dentro il palazzo" disse in apertura dell'evento l'ex Ppi e Ccd Stefania Fuscagni, presentando tra l'altro il simbolo del movimento, già presente sulla pagina pubblicata dal Corriere ed elaborato dal pubblicitario e comunicatore Gavino Sanna: si trattava di una rielaborazione del rosone della cattedrale di Strasburgo, "un messaggio della tradizione cristiana, ma anche della cultura e della spiritualità laica" (ricordando, in qualche modo, anche il disegno dello zodiaco della meridiana solstiziale della basilica di San Miniato al Monte di Firenze). Il logo era leggermente rettangolare e - anche per la finezza dei tratti e dei caratteri - mal si prestava a essere impiegato come contrassegno elettorale; il Mep, del resto, non nasceva come partito, pur agendo in ambito politico e pre-politico.
Capaldo, in quell'evento di presentazione del movimento di cui era divenuto presidente - e cui comunque Cossiga avrebbe aderito - chiarì per bene questo punto: "Abbiamo individuato nel Partito popolare europeo il quadro di riferimento in linea con le nostre idee; vogliamo operare perché anche nel nostro Paese, permanendo una logica bipolare, nasca un grande partito di ispirazione cristiana e liberaldemocratica che si ponga in alternativa netta a un partito, che immaginiamo ugualmente grande, di ispirazione socialista. [...] Alcuni hanno voluto vedere nella nostra iniziativa, dei nostri modesti sforzi, il tentativo di risuscitare la Democrazia cristiana, ora per incoraggiare questo tentativo, ora per condannarlo. Ma la Dc, con i suoi errori ma anche ovviamente con i suoi grandi meriti nella storia del nostro Paese, non può essere rifondata in un contesto storico così diverso. La Dc è stata in gran parte un insieme di culture politiche diverse, costrette a stare insieme da uno stato di lotta contro il comune nemico, sullo sfondo di un mondo di visioni contrapposte in blocchi. D'altra parte, il Partito popolare europeo non è una Democrazia cristiana: è la casa comune di partiti che si richiamano al riformismo laico e cristiano, allo stato di diritto e alla democrazia rappresentativa; in esso confluiscono cattolici, ma anche tanti protestanti, ebrei, laici e perfino musulmani, votati alla causa comune della costruzione liberal-democratica dell'Europa. Il movimento a cui abbiamo dato vita non è e non sarà non sarà mai un partito politico: pur ritenendo che in una società come la nostra sia fondamentale il ruolo della politica e dei partiti politici, noi non puntiamo a fare un partito o a collegarci strettamente a un partito, ma non vogliamo neppure essere un puro asettico centro culturale, un centro studi".
In effetti il Mep non fu mai un partito e il logo di Sanna non finì mai sulle schede; anche quello dell'Udr cossighiana (e mastelliana), in compenso, ci finì ben poco, arrivando dilaniata alle europee del 1999 (con i cossighiani che depositarono il simbolo senza usarlo e i mastelliani che inaugurarono il campanile dell'Udeur). Il movimento promosso da Capaldo continuò a operare, con più intensità fino al 2000 e in modo meno serrato - ma senza sparire - in seguito (legato soprattutto ai nomi di Giuseppe Gargani e Angelo Sanza); Capaldo, in compenso, promosse e guidò la Fondazione Nuovo Millennio, per occuparsi comunque di formazione e studio (dando avvio a una Scuola politica). Quell'impegno, come quelli precedenti in università e in ambito bancario, quasi certamente meritano più attenzione e considerazione rispetto alle vicende che intrecciarono l'Italia politica tra il 1997 e il 1999, ma per chiunque appartenga al novero dei #drogatidipolitica si tratta di dettagli che hanno un valore immenso, come il riemergere di un logo che non fu simbolo (ed era troppo delicato per esserlo), ma merita di essere ricordato con la stessa cura con cui fu pensato.