L'attenzione che era necessario dare, in questi giorni, alle elezioni amministrative, regionali e suppletive non può far perdere di vista altre vicende simbolicamente rilevanti che riguardano la politica italiana. Ciò anche e soprattutto se queste passano attraverso i tribunali. Due giorni fa è stata diffusa la notizia (attraverso il sito del Partito liberale italiano) di un decreto del Tribunale di Roma, in base al quale il Partito liberale europeo, la formazione guidata da Francesco Patamia, si è visto ordinare "la cessazione immediata dell’utilizzo del marchio figurativo e denominativo, nonché della denominazione sociale": la decisione era stata sollecitata da un ricorso presentato dal Partito liberale italiano, volto appunto a ottenere che al Ple fosse inibito l'uso dei suoi segni identificativi.
Di questa disputa si era già parlato mesi fa, quando il Pli - all'inizio di maggio - aveva rivendicato la titolarità del marchio (verbale) "Partito liberale europeo" e aveva diffidato il Ple, in modo che non lo impiegasse più. Il passaggio dalle parole ai fatti si è avuto il 22 settembre, quando il Pli - attraverso il suo presidente e legale rappresentante, Stefano De Luca - ha effettivamente depositato il ricorso presso il Tribunale civile di Roma, chiedendo che il giudice designato ordinasse d'urgenza e inaudita altera parte (o, se il giudice lo avesse ritenuto opportuno, dopo aver convocato le parti) al Ple "la cessazione dell’utilizzo del marchio figurativo e denominativo, nonché della denominazione sociale 'Partito liberale europeo'".
Il giudice Fausto Basile, della XVII sezione civile - sezione specializzata in materia di impresa - ha subito fissato per il 29 settembre la comparizione delle parti; in quel giorno il Ple non si è presentato né si è costituito (non risultava ancora reso l'avviso di ricevimento della notifica), ma il Pli ha insistito "stante l'imminenza delle prossime elezioni amministrative" (quelle previste per il 3 e il 4 ottobre) perché si adottasse subito il provvedimento di inibitoria senza ascoltare le ragioni dell'altra parte. Il giorno dopo, in effetti, il giudice ha ritenuto che proprio per l'imminenza del turno elettorale - nel quale, come si è visto, il Ple ha presentato proprie candidature a Milano, Roma, Napoli, Latina, Cisterna di Latina e (con Rinascimento) alla suppletiva di Roma-Primavalle - fosse opportuno non rinviare l'udienza di comparizione, ma "provvedere con decreto inaudita altera parte, al fine di non compromettere l’attuazione del provvedimento". Si deve però notare che il decreto, pur datato 30 settembre, è stato pubblicato il 4 ottobre, durante verosimilmente le ultime ore di apertura dei seggi, pertanto se ne è avuto notizia a rito elettorale quasi concluso; in più, sarebbe stato probabilmente ben difficile - anche con una pubblicazione immediata - produrre effetti su questo turno elettorale e, a ben guardare, anche sugli eventuali ballottaggi, come quelli che riguarderanno Roma, Latina e Cisterna (il primo con la certa partecipazione del Ple, gli altri due rilevanti solo in caso di apparentamento).
Il giudice ha motivato il provvedimento di inibitoria ritenendo che per la richiesta avanzata nel ricorso esistesse il cosiddetto fumus boni iuris, cioè il "sospetto" che la domanda del ricorrente - il Pli, in questo caso - fosse fondata e potesse portare a una decisione di accoglimento (in sede di giudizio cautelare, come quello che riguarda la richiesta di provvedimenti inaudita altera parte, la cognizione è sommaria, dunque ci si "accontenta" di rilevare che una domanda è presumibilmente fondata).
La decisione si è basata innanzitutto sul contenuto del simbolo del Pli (quale risulta, tra l'altro, dallo statuto del partito, pubblicato pure in Gazzetta Ufficiale nel 2016 dopo l'inserimento dello stesso nel Registro dei partiti politici) - simbolo che include la dicitura "Partito liberale italiano" - e sul deposito da parte del Pli del "marchio, sia figurativo che denominativo, PARTITO LIBERALE ITALIANO insieme ad altri marchi c.d. 'di famiglia'" (al punto che, per il giudice, "l'odierno attore è l'unico legittimato a farne uso degli stessi"; in più, per il giudice la denominazione "Partito liberale europeo" "risulta del tutto simile al nome 'Partito liberale italiano'" e ai marchi depositati o registrati dal partito di De Luca, anzi, il nome "è addirittura identico nel nucleo essenziale 'Partito liberale', considerata anche l'estensione territoriale nazionale in cui operano entrambi i partiti in causa" e ciò "genera possibile confusione ed inganno nel pubblico e nei i destinatari, anche solo potenziali, dell’attività del Pli".
Tutto questo sarebbe determinante nella tutela del diritto al nome, ex art. 7 del codice civile, e all'identità personale (diritti di cui godono anche i partiti): essi si traducono - per la sentenza n. 23401/2015 della Cassazione civile - "nella possibilità di chiedere la cessazione di fatti di usurpazione (cioè di indebita assunzione di nomi e denominazioni altrui quali segni distintivi), la connessa reintegrazione patrimoniale, nonché il risarcimento del danno [...], comprensivo di qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione dei diritti immateriali della personalità, compatibile con l'assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, quali sono il diritto al nome, all'identità ed all'immagine dell'ente".
Quanto ai nomi registrati come marchi, il giudice ha citato l'art. 20 del codice della proprietà industriale, in base al quale "il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell'attività economica: a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell'identità o somiglianza fra i segni e dell'identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni". La confondibilità qui sarebbe data, per il giudice, dalla "impressione complessiva prodotta" dai segni distintivi, "con particolare considerazione dei loro elementi distintivi e dominanti (c.d. 'cuore/nucleo ideologico')", in particolare per la presenza del nome "Partito liberale europeo", ritenuto "molto simile al nucleo ideologico" delle denominazioni "Partito liberale italiano" e "PLI - Liberali e democratici Europei", registrati dal Pli, "con conseguente rischio di confusione per i possibili destinatari dell’attività politica ed elettorale del Pli".
Il giudice ha quindi concluso ritenendo esistente anche il periculum in mora, dunque l'urgenza di agire per evitare il crearsi di pregiudizi gravi e irreparabili (requisito indispensabile, insieme al citato fumus boni iuris, per l'emissione di provvedimenti cautelari), "in considerazione del fatto che il PLE ha presentato proprie liste a sostegno di alcuni sindaci in varie parti di Italia [...] nonché un proprio candidato alle elezioni suppletive della Circoscrizione Lazio 1, Circoscrizione XV".
Fin qui la decisione del giudice (che ha fissato l'udienza con entrambe le parti per il 14 ottobre). Si prende atto del suo contenuto, ben sapendo che questo dipende anche - tra l'altro - dal fatto che la cognizione dei fatti in questa sede è solo sommaria, il che non di rado vale anche per le riflessioni operate da chi è chiamato a giudicare in quell'occasione: questo non significa che quei ragionamenti sono superficiali, ma soltanto che tengono conto di alcuni aspetti in gioco, ma non di tutti quelli che sarebbero considerati in un giudizio approfondito (e, non a caso, in un secondo tempo può capitare che i provvedimenti adottati inaudita altera parte siano rivisti o revocati). Premesso questo, e fermo restando il rispetto per il giudice, sembra necessario dire che più di un punto della decisione adottata non convince: i dubbi riguardano tanto il metodo, quanto il merito.
Innanzitutto chi scrive dubita che il nome "Partito liberale europeo" si debba ritenere "del tutto simile" a "Partito liberale italiano" e che debba avere un peso in questo senso l'identità del "nucleo essenziale" identificato nell'espressione "Partito liberale". Premessa: non si contesta certo l'uso consolidato dell'espressione "Partito liberale" fatto dal partito fondato da Stefano De Luca nel 1997 proprio con il nome di "Partito liberale" e ridenominato nel 2004 Pli (riprendendo il vecchio nome del partito sciolto - per ragioni politiche e per debiti - nel 1994); allo stesso modo, non si nega certo una somiglianza tra i nomi.
Sembra pero opportuno considerare l'ambito in cui ci si muove: quello dei partiti politici, i cui aderenti e promotori hanno il diritto di associarsi in base alle idee (originali o già diffuse) e di darsi nomi che rispecchino quelle idee. Anche per questo, dunque, il diritto al nome (e sul nome) non può mai arrivare a trasformarsi in un monopolio su un'idea e sul modo di esprimerla. In particolare, pare difficile impedire a un gruppo di persone che abbracci idee e principi del liberalismo e che voglia riconoscersi nella forma-partito al punto da dichiararlo nel proprio nome (peraltro in controtendenza rispetto alla maggior parte dei soggetti politici di nuovo conio) di chiamarsi "Partito" e "liberale" contemporaneamente. Certamente non potrà chiamarsi "Partito liberale italiano" e sul piano grafico dovrà differenziarsi in modo tale da non rendersi confondibile con il simbolo del Pli (innanzitutto nell'interesse delle sue elettrici e dei suoi elettori, prima ancora che di coloro che appartengono al Pli), ma il diritto di scegliere per sé un nome che rispecchi in pieno il proprio orizzonte dovrebbe, ad avviso di chi scrive, rimanere intatto.
Del resto, quando nel 1992 il Ministero dell'interno bocciò - in vista delle elezioni politiche - il simbolo del Partito della rifondazione comunista perché conteneva l'espressione "Partito comunista" nel simbolo, ritenendo che il suo uso si ponesse "in contrasto con i principi dell'uso esclusivo del nome già appartenente a partito tuttora presente in Parlamento", i rappresentanti del Prc (incluso il segretario, Sergio Garavini) si opposero, rilevando tra l'altro che "sono esistiti il Partito comunista d'Italia, il Partito comunista italiano e il Partito comunista marxista-leninista", alcuni dei quali hanno operato contemporaneamente e nessuno di questi (oltre ad avere usato l'espressione semplice "Partito comunista") poteva rivendicare l'esclusiva sull'espressione "Partito comunista"; l'Ufficio elettorale centrale nazionale diede ragione agli opponenti e riammise la lista. Nel 1999 lo stesso ufficio, nella composizione per le elezioni europee, di fronte alle lamentele della stessa Rifondazione comunista, rilevò che il contrassegno elettorale del Partito dei comunisti italiani conteneva "legittimamente [...] gli elementi tradizionali di ogni gruppo politico che si richiami alla ideologia comunista" (il che poteva valere per lo stesso nome), eccependo invece la confondibilità del simbolo (che in effetti fu ritoccato per la prima volta). Per venire a tempi molto più recenti, nessuno ha avuto nulla da eccepire dalla contemporanea presenza sulle schede elettorali e, più in generale, sulla scena politica del Partito comunista (quello di Marco Rizzo) e del Partito comunista italiano (guidato da Mauro Alboresi). Ciò sebbene quello di Rizzo formalmente esistesse almeno dal 2009 e almeno dal 2012 usasse l'espressione "Partito comunista", mentre il partito di Alboresi (pur avendo alle spalle l'esperienza del Pdci, che però era un diverso soggetto giuridico) è stato costituito solo nel 2016.
Già queste riflessioni dovrebbero bastare per dire che un partito che si collochi nella stessa area politica e di pensiero di un altro può adottare un nome simile (i modi organizzativi e i filoni ideali interessanti per i soggetti, del resto, non sono illimitati), purché si differenzi da quelli esistenti tanto nel nome, quanto nel simbolo: questo il Ple già lo fa, valendosi del tricolore (come molti altri emblemi politici) nella forma del nastro e non della fascia, nonché di un fondo blu impossibile da confondere con il bianco. Non sembra, però, che la decisione del giudice si occupi dell'aspetto simbolico, se non per rilevare che il simbolo ufficiale del Pli e quelli depositati come marchi dallo stesso partito hanno un "nucleo ideologico" molto simile a quello comunicato dal nome e dal simbolo del Ple. Il fatto stesso che il Ple abbia ritenuto di qualificarsi come "europeo", individuando come orizzonte di azione quello dell'Europa e volendo mettere ciò in luce, appare una dichiarazione d'intenti potenzialmente in grado di distinguere il Ple dal Pli; sarebbe del resto ben difficile spiegare cosa differenzi oggi Pc e Pci in maniera tale da consentire loro di convivere con nomi molto simili senza che nessuno abbia eccepito qualcosa (è vero che in questi ambiti si agisce solo su istanza di parte e mai d'ufficio, ma la "convivenza" di quei soggetti politici è un fatto, può costituire un precedente e non è liquidabile come una semplice rinuncia, da parte di uno dei due soggetti, al diritto di lamentarsi contro l'uso di un nome confondibile). In più, in questo caso non sembrano nemmeno necessarie le tutele da mettere in campo in caso di scissione (cioè di recesso collettivo), nelle quali la necessità di evitare confusione tra il nuovo soggetto politico e quello di provenienza è particolarmente evidente.
Quanto alle riflessioni sui "nomi registrati come marchi", si è già avuto modo di notare che è la pratica stessa di registrazione come marchio dei nomi e dei simboli dei partiti - vale a dire di segni di identificazione che nulla hanno a che vedere con le logiche commerciali legate ai marchi - a essere poco congrua con la natura di quei segni, nonché foriera di non pochi problemi (che succede, ad esempio, se in campagna elettorale un soggetto politico diffonde pubblicazioni contenenti il suo simbolo in violazione delle norme sulla propaganda, ma crede di essere nel giusto perché dice di usare quel simbolo come marchio, avendolo registrato?). Citare dunque una disposizione che permette al titolare di un marchio di vietare a terzi l'uso di quel segno o di segni simili/confondibili "nell'attività economica" lascia perplessi.
Si fatica pure, in realtà, a parlare di confondibilità in questo caso, anche chiamando in causa il concetto di "nucleo ideologico": se si vogliono applicare le norme e gli istituti in materia di marchi, infatti, si deve ricordare che "Partito" è un nome generico, il più generico possibile in ambito politico (insieme alla parola "movimento"), così come "liberale" è un nome generico, relativo a un'ideologia e a una famiglia politica, su cui non si può avere l'esclusiva. L'unione di questi due elementi pare costituire un marchio debole, dalla ridotta novità e capacità distintiva; certamente l'uso prolungato ha consolidato il "valore" del segno distintivo, ma non può parlarsi di un uso massiccio nel corso degli anni (nessuno nega le attività del Pl-Pli, né il suo affacciarsi al Parlamento grazie alle adesioni di singoli soggetti in corso di legislatura, ma è difficile paragonare la forza di quel segno a quella acquisita - per esempio - dal MoVimento 5 Stelle quando nel 2013 spuntarono vari simboli-clone, tutti bocciati dal Viminale benché il M5S non fosse ancora in Parlamento). Insomma, unendo tre elementi generici ("Partito", "liberale" e "italiano"), non sembra possa uscire un marchio forte, per cui "Partito liberale europeo" si presenta come un marchio altrettanto debole, ma sufficientemente distinto dal primo, già esistente.
A questo si aggiunga che nel decreto del giudice non si trova menzione di un dettaglio non secondario: il marchio letterale "Partito liberale italiano", depositato in data 01/09/2010 e rinnovata lo scorso 8 marzo, è stato registrato (ma da Gian Luca Lombardi, persona di cui non si sa di più, se non che ha registrato vari altri marchi verbali coincidenti con nomi di forze politiche), mentre le domande di marchio sul simbolo attuale del Pli e su quello della fine degli anni '80 (con la dicitura "Liberali e democratici europei") sono state respinte (probabilmente per l'uso della forma circolare, che finora ha creato non pochi problemi a chi ha cercato di registrare emblemi politici così conformati); quei depositi possono indicare un uso precedente, ma non è giusto trattare allo stesso modo marchi registrati e segni per cui la domanda è stata respinta. Nel provvedimento giudiziale non si menziona invece l'ultima domanda di marchio, depositata il 26 marzo, relativa all'espressione "Partito liberale europeo": essa non solo è ancora sotto esame, ma - come si è già ricordato - è anche stata depositata dal Pli dopo che il Ple aveva iniziato a usare quell'espressione nelle proprie attività.
Quanto al periculum in mora, infine, si è già detto come proprio la pubblicazione del decreto a elezioni quasi completate (almeno per il primo turno) abbia reso inefficace il provvedimento per questo turno elettorale. Appare difficile pensare però che il Ple non usi il proprio simbolo nella propaganda elettorale relativa al ballottaggio di Roma (dove sarà certamente sulla scheda a sostegno di Enrico Michetti) o nelle altre realtà in cui era presente al primo turno e dovesse decidere di apparentarsi con il centrodestra; i contrassegni elettorali, del resto, non possono essere modificati tra il primo e il secondo turno, quindi può apparire irragionevole ritenere indebito l'uso del simbolo e del nome per eventuali impieghi elettorali relativi al ballottaggio (soprattutto a Roma, visto che il Ple faceva già parte di una delle due coalizioni ammesse al secondo turno). Certo, l'uso del simbolo a queste elezioni può aver fatto ritenere al giudice quanto fosse importante agire in fretta per evitare ulteriori "danni" al Pli, senza considerare queste elezioni (ballottaggi inclusi) ma ogni successivo appuntamento politico o elettorale.
In base a quanto si è detto fin qui, appaiono forse più chiari i dubbi sulla fondatezza della domanda del Pli e sul contenuto del decisum del giudice. Di certo le scelte del Ple, che ha lavorato per essere presente ai citati appuntamenti elettorali (verosimilmente investendo non poche risorse) gli hanno consentito di essere più "presente" e "visibile" nei territori rispetto al Pli (che ora è sì presente nel Registro dei partiti, ma a differenza che in passato non ha visibilità parlamentare, neppure attraverso lo strumento della componente del gruppo misto costituita grazie a persone fuoriuscite da altri gruppi), il quale ha scelto di presentare ricorso dopo l'ammissione delle candidature da parte del Ple. Di certo la disputa giuridica che si è aperta merita di essere seguita, valutando via via la ragionevolezza delle decisioni prese.
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