mercoledì 1 dicembre 2021

La guida di Novelli ai manifesti della Repubblica, tra idee, arte e simboli

Chi appartiene alla categoria più o meno nobile - a seconda dei punti di vista - dei #drogatidipolitica non può non avere un interesse particolare per i manifesti politici. Non si parla, per una volta, di quelli che la legge impone tuttora di stampare prima di ogni consultazione, per dare notizia delle varie fasi dei procedimenti e, quando si tratta di elezioni, per indicare i nomi delle persone candidate e i simboli con cui queste si presentano. Qui ci si riferisce ai manifesti fatti stampare dai partiti e da ogni altro soggetto politico, in vista di un'elezione o senza appuntamenti elettorali in arrivo. Il manifesto è un oggetto multidimensionale, a dispetto del suo spessore minimo (che lo rende anche piuttosto fragile): è certamente uno strumento per informare e comunicare, un mezzo di propaganda politica ed elettorale (non a caso è citato già dall'art. 1 della legge sulla propaganda, la n. 212/1956, nata peraltro in un periodo in cui il manifesto era uno dei pochi strumenti "per mostrare e far vedere, anziché spiegare e raccontare"), ma è anche una forma di espressione aperta a ogni tecnica compatibile con la stampa; in non pochi casi diventa un'opera d'arte - anche qui, a prescindere dalla tecnica utilizzata - che dimostra il suo valore anche al di fuori del contesto in cui il singolo manifesto è stato prodotto. 
I manifesti nascono per essere guardati e osservati, ma - soprattutto a distanza di tempo - meritano anche di essere analizzati a dovere, collocandoli nel contesto in cui sono stati concepiti e cercando di "farli parlare" il più possibile, per chi abbia interesse a conoscere meglio. Da pochi giorni è uscito I manifesti politici. Storie e immagini dell'Italia repubblicana, volume pubblicato da Carocci (263 pagine, 24 euro) e scritto da Edoardo Novelli, ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi all'Università di Roma Tre, da anni impegnato in ricerche nell'ambito della comunicazione politica: lui, tra l'altro, è responsabile scientifico e curatore dell'Archivio degli spot politici e dei manifesti, il cui sito è stato da poco rinnovato e ampliato. Il libro raccoglie, divisi per decenni, oltre cento manifesti "segnanti" riportati quasi a tutta pagina (ma ne propone pure altri, di dimensioni minori, utili a contestualizzare): li hanno prodotti partiti, liste, soggetti politici di vario tipo, in occasione di campagne elettorali o referendarie, eventi rilevanti di livello nazionale o internazionale, snodi fondamentali della vita dei rispettivi gruppi (cambio di nome/simbolo, morte di leader storici, ...). 

Un viaggio nella società figurata (e in chi la ritrae)

Scorrere quelle "immagini da muro" consente di viaggiare nella storia dell'Italia repubblicana, nella società del tempo o - almeno - in quella che chi ha commissionato o elaborati quei manifesti aveva in mente o voleva raggiungere, mobilitandola o cercandone il sostegno. Non era detto, ovviamente, che società figurata e società reale coincidessero, anche perché potevano comunque convivere, nel panorama assai variegato e frammentato dell'Italia dal 1946 in poi. Eppure ogni sguardo offerto da ciascun manifesto, si dimostra carico di storie, idee, emozioni, inviti, moniti, speranze, paure squadernate o timori difficili da ammettere (di non essere capiti, di non essere abbastanza convincenti): per indagare e ricostruire certe epoche, certi passaggi, anzi, il manifesto politico è - come rilevato da Novelli - la "fonte primaria e privilegiata". Certo, col passare del tempo cambiano forme e contenuti, il calore delle idee dei primi decenni (quelli della propaganda e delle ideologie) in più di un caso lascia il posto alla professionalità un po' più fredda degli anni più recenti (quelli della comunicazione) e lo stesso strumento del manifesto appare meno utilizzato di prima, soppiantato da altri mezzi, ma non per questo il viaggio si fa meno interessante. 
A guidare il cammino è innanzitutto un'introduzione generale a "segni, codici e culture visive dell'iconografia politica italiana", nella quale Novelli dà conto dei criteri di scelta dei manifesti inseriti nel volume (e oggettivamente la scelta è stata difficilissima, vista la quantità di materiale iconografico destinata all'affissione prodotta nel corso degli ultimi 75 anni): ci sono vari manifesti famosi (e purtroppo non possono esserci tutti, ma di certo era impossibile fare diversamente, anche avendo a disposizione più pagine), alcuni meno noti e altri da riscoprire, grazie agli elementi in più apportati dal volume, ma tutti significativi per il tempo di cui parlano e il pezzo di società cui si rivolgono. 
Manifesti di Ettore Vitale (Psi, 1973), Michele Spera (Pri, 1970)
e Andrea Rauch (L'Ulivo, 1995)
L'autore ricorda fin dall'inizio, poi, che percorrere la storia dei manifesti equivale a fare un viaggio nella grafica italiana, nei suoi linguaggi - sempre più considerati dagli studiosi, come giustamente evidenzia Novelli - e nelle sue tecniche, incontrando nomi che meritano il massimo rispetto (alcuni dei quali sono comparsi più volte sulle pagine di questo sito), da Piergiorgio Maoloni a Gino Galli, da Ettore Vitale a Michele Spera, da Bruno Magno ad Andrea Rauch. Ogni decennio, poi, si apre con un paio di pagine che ricostruiscono il contesto storico e anticipano i filoni principali presi in esame, soprattutto attraverso le immagini scelte, a loro volta illustrate con una pagina di testo.

Un decennio dopo l'altro

Aldo Beldì per il Cln (1945), Manlio D'Ercoli per la Dc (1946),
anonimo per Comitato civico (1948)
Così, negli anni '40 emerge subito che il manifesto "è un'attività più pittorica che grafica", affidata spesso a figure già esperte in altri campi, quali la pubblicità (è il caso di Aldo Beldì, che firma uno dei primi manifesti figurativi del dopoguerra, in cui la Liberazione italiana è accostata alla Rivoluzione francese). Chi ha lavorato in passato per il regime fascista non smette di realizzare opere da affissione, riprendendone anzi temi e soggetti (è clamoroso il caso di Manlio D'Ercoli, che in un manifesto per la Dc ritocca una sua opera precedente realizzata per i Ludi Juveniles del 1942; nota Novelli che lo stesso autore avrebbe in seguito lavorato anche per il Pci). Con quelle prime affissioni si voleva celebrare, mobilitare, colpire chi guardava, anche a costo di provocare uno shock: era il caso della campagna elaborata per i Comitati civici di Luigi Gedda, che nei suoi manifesti fece ampio uso di un bestiario (in questo caso l'asino che non vota), che nella politica italiana sarebbe tornato in massa - e anche sulle schede elettorali - tra la fine degli anni '90 e l'inizio del decennio successivo.
Augusto Cavazzoni per il Pri (1948), anonimo per il Msi (1954),
anonimo per il Pci (1958)
Il filone artistico nei manifesti politici sarebbe prevalso anche negli anni '50: se alla fine del decennio precedente non pochi manifesti hanno lo stile della locandina o del cartellone pubblicitario (si veda ad esempio il manifesto pensato da Augusto Cavazzoni, esponente del liberty, per i repubblicani), lo stesso può dirsi per molti di quelli prodotti negli anni successivi, specie se legati a occasioni in grado di scatenare molta enfasi (è il caso del manifesto commissionato dal Msi in occasione del ritorno di Trieste all'Italia, con temi e motivi che richiamano la propaganda della Rsi). Il tempo, però, oggettivamente passa e la società cambia: avanza il progresso, si diffondono nuove abitudini (a partire dai consumi) e nuovi interessi di massa. Così, se in un numero sempre maggiore di manifesti appaiono immagini legate all'industrializzazione (per magnificarne gli effetti o additarne le conseguenze negative), nelle affissioni fanno capolino anche fenomeni di costume come il festival di Sanremo: non stupisce più di tanto che, nell'anno della vittoria schiacciante di Nel blu dipinto di blu, persino il Pci non abbia resistito a parafrasarne il ritornello, apostrofando Amintore Fanfani con "Dal blu dipinto di blu / facciamolo scendere giù" (probabilmente ripagando con la stessa moneta il segretario della Democrazia cristiana che poche settimane prima, secondo la vulgata, aveva coniato il distico "Lo scudo dipinto nel blu / lo devi votare anche tu").
Anonimo per il Psiup (1946), Marcello Dudovich per la Dc (1948),
Berthelet per il Psdi (1953)
 
In quei primi anni di Repubblica, alcuni manifesti sono stati dedicati in modo esplicito alle donne, alle quali solo nel 1946 era stato esteso il diritto di elettorato attivo e passivo. Non stupisce affatto che ogni partito abbia cercato di rivolgersi a loro per chiedere il voto o, per lo meno, di comunicare con le donne che avrebbero potuto mobilitarsi a favore di quella forza politica. Ogni partito, ovviamente, ha rappresentato le donne in modo diverso: con lo sguardo rivolto all'avvenire e con la fabbrica alle spalle (il Psiup), nella posa e nell'abbigliamento di una Madonna mentre regge un bambino (Marcello Dudovich per la Dc), di nuovo mamma, ma ritratta da anziana, riflessiva e serena, oltre che rassicurante per il ménage familiare (Berthelet per il Psdi).
Alfredo Lalia per la Dc e anonimo per il Pli (1963)
Un primo momento di cambiamento notevole dell'immagine dei manifesti si ha con gli anni '60: aumentano i motivi geometrici e astratti, nonché il trattamento dei testi come se fossero immagini; allo stesso tempo, i partiti - quelli maggiori, ma non solo - cercano di rinnovare la loro immagine, per apparire al passo con i tempi. Proprio in quegli anni si collocano due episodi rilevanti relativi alla Dc, entrambi datati 1963. Uno è legato alla campagna "La Dc ha 20 anni" nata in seguito ai suggerimenti dello psicologo motivazionale Ernest Dichter (volti a "svecchiare" il partito) e all'ispirazione di una campagna francese concepita per sostenere il "sì" alla Quinta Repubblica: fu l'ingresso del marketing nella propaganda politico-elettorale, avvenuto mentre a capo della Spes - cioè l'Ufficio studi, propaganda e stampa - c'era Adolfo Sarti, ma la storia ricorda pure che la Dc quella volta invece che crescere perse consensi (e qualcuno approfittò dello spazio bianco accanto allo slogan per scrivere commenti irriferibili rivolti alla ragazza dipinta da Alfredo Lalia). In quello stesso anno, peraltro, qualche persona vicina alla Spes fece sapere alla direzione del Pci che i democristiani stavano realizzando un manifesto con lo slogan "Cammina coi tempi, cammina con noi", così alle Botteghe Oscure Giancarlo Pajetta di battere la Dc sul tempo e di produrre un manifesto con lo stesso slogan e il simbolo in evidenza; da quell'episodio a metà, come sottolinea nel libro Novelli, tra lo spionaggio industriale e "lo scherzo che richiama le querelles alla Peppone e Don Camillo" (e non a caso Guareschi cita proprio questo episodio in un suo testo), cercò di trarre vantaggio il Pli, invitando a votare liberale per evitare accordi Dc-Pci (allora difficili anche solo da immaginare).
Paolo Grasso per gli universitari di Torino (1967),
Compagni Operai Fiat (1969), Arci-Udi (1975)
Se in quegli anni della "Repubblica dei partiti" (secondo la nota formula coniata da Pietro Scoppola) erano appunto soprattutto le forze politiche ad avvalersi dei manifesti per la propaganda, dalla seconda metà degli anni '60 un ruolo sempre più consistente è assunto dai movimenti di protesta e contestazione, che anche nelle affissioni assume tecniche e linguaggi propri, che - come nota Novelli, in modo condivisibile - spesso privilegiano la forza e l'immediatezza del messaggio (assolutamente indiscutibili) rispetto alla qualità artistica dello stesso. Si inizia con le contestazioni studentesche (il '68 che iniziò l'anno prima a Torino), si prosegue con le proteste dei lavoratori (in particolare a partire dal cosiddetto "autunno caldo" del 1969); il filone diviene più consistente e variegato nel decennio successivo, arricchendosi dei manifesti delle formazioni extraparlamentari di lotta e di altri movimenti, come quello femminista.
Guido Crepax per Soccorso Rosso (1972),
Benito Jacovitti per la Dc (1975), Altan per il Pci (1980)
A partire dagli anni '70, in ogni caso, il rinnovamento di linguaggi e stili riguarda anche le forze politiche tradizionali, che non esitano ad avvalersi anche dei maestri del fumetto, che per i manifesti si limitano al "disegno d'autore". Dopo l'eccezionale escursione politica di Guido Crepax (già noto per Valentina), con i suoi manifesti realizzati per Soccorso Rosso, occorre ricordare almeno i disegni di Benito Jacovitti per la Democrazia cristiana (anche se non si trattava del primo impegno di grafica politica per il creatore di Cocco Bill) e quelli di Francesco Tullio Altan per il Pci (schierando uno dei suoi personaggi più noti, Cipputi).
Bruno Magno per il Pci, Spes per la Dc
e FUORI per il Partito radicale (1976)
 
Nel frattempo, quegli stessi partiti cercano di modificare ulteriormente i loro linguaggi di propaganda, rendendoli essenziali e fondandoli soprattutto sugli slogan testuali, posti in posizione di rilievo nei manifesti (soprattutto quelli elettorali), usando giusto il simbolo del partito come unico elemento grafico, in forma tradizionale (come nel manifesto sulle "mani pulite" concepito da Bruno Magno per il Pci) o rivisto per cercare di comunicare elementi di novità (come ha fatto la Dc a partire dal 1975, lasciando da parte il vecchio scudo arcuato e adottandone la versione rettilinea, e usando il nuovo scudo crociato in tutte le versioni, inclusa quella sulla bandiera al vento per comunicare il "movimento"). Assume poi caratteri propri, impossibili da confondere e con un'attenzione rivolta soprattutto alle battaglie tematiche di volta in volta ingaggiate (più che a quelle elettorali, rilevanti solo in quanto utili per quelle stesse battaglie) la propaganda grafica del Partito radicale, affidata in gran parte a Piergiorgio Maoloni (e, in seguito, al suo allievo Aurelio Candido, come Maoloni con una grande esperienza anche nella grafica editoriale).
Spes per la Dc e Michele Spera per il Pri (1974)
Oltre alle elezioni, nazionali, locali e (dal 1970) regionali, però, negli anni '70 gli italiani hanno conosciuto un'altra occasione di propaganda attraverso i manifesti legata al voto: i referendum, regolati dal 1970 e praticati dal 1974, con la consultazione per abrogare le nuove norme che prevedono il divorzio. Soprattutto nelle prime consultazioni, i toni da parte di alcuni sono molto accesi, tendenti come un tempo a smuovere emozioni, preoccupazioni e paure; altri - soprattutto Michele Spera, impegnato sul fronte del "No" all'abolizione del divorzio - preferiscono messaggi più sofisticati, moderni e graficamente curati. Anche i partiti si impegnano attivamente in questi confronti, mettendo spesso da parte la loro iconografia tradizionale e facendo prevalere i messaggi relativi alle consultazioni e i linguaggi più adatti a queste.
Spes per la Dc (1978), Bruno Magno per il Pci (1984)
Sempre gli anni '70, purtroppo, sono funestati dal terrorismo, culminato nell'uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse: non stupisce che a un evento simile la Democrazia cristiana abbia voluto dedicare un manifesto commemorativo, che non si distacca dallo stile dell'annuncio-lapide funeraria, rigorosamente in bianco e nero, con la foto del volto del leader democristiano - che "guarda in basso, a capo chino, con aria pensierosa e dimessa" - accompagnata a poco testo e al simbolo del partito. A distanza di sei anni, un'impostazione simile si ritrova nel manifesto preparato da Bruno Magno subito dopo la morte di Enrico Berlinguer, ritratto stavolta durante un comizio e accompagnato da frasi più legate al patrimonio ideologico e organizzativo del partito.
Ettore Vitale per il Psi (1983),
Massimo Arlechino per il Msi (1987)
Ben altro tono hanno altri manifesti che riportano il volto dei leader politici, in ossequio alla crescente personalizzazione della politica avviata negli anni '70 e via via consolidata negli anni '80, con il partito che si identifica in gran parte con la figura del segretario. Le affissioni più note in questo senso, quasi paradigmatiche, sono quelle che hanno come protagonista Bettino Craxi come segretario del Psi, con la grafica curata da Ettore Vitale (che già nel 1973 ha iniziato a lavorare per il partito e con il tempo elabora per i socialisti un concetto di "immagine coordinata" che affina sempre più, soprattutto dopo che gli viene commissionato il primo simbolo con il garofano, tra il 1978 e il 1979). Non rinuncia al volto in primo piano nemmeno il Msi-Dn, in un celebre manifesto - curato da Massimo Arlechino, lo stesso che una manciata di anni più in là concepisce il simbolo di Alleanza nazionale - dominato dal viso (e dallo sguardo) di Giorgio Almirante, una soluzione visiva inimmaginabile per quel partito solo qualche anno prima.
Anonimi per Lega lumbarda (1985) e Lega Nord (1992 e 2008)
Altre due campagne degli anni '80 sono destinate a lasciare traccia e a riemergere nell'immaginario politico italiano. La prima riguarda un partito nato nel 1982 e fondato ufficialmente nel 1984, la Lega lombarda, che nel 1989 contribuisce alla nascita della Lega Nord. Soprattutto nei primi tempi i manifesti riportano messaggi di immediata comprensione (a volte anche in dialetto, che può connotare eccezionalmente anche il simbolo del partito) e disegni altrettanto evocativi (su tutti la gallina dalle uova d'oro del Nord raccolte dai politici romani o da una grassa popolana romana, riutilizzato anche negli anni 2000, con nuovi slogan altrettanto diretti e con il riferimento al Nord sostituito da quello alla Padania).
Marco Mignani e Euro-RSCG per la Dc (1987),
Cesare Priori per Forza Italia (1994)
In vista delle elezioni politiche del 1987, poi, la Democrazia cristiana si affida all'agenzia Euro-RSCG e al creativo Marco Mignani (quello che ha inventato la "Milano da bere", un simbolo indiscusso degli anni '80): nasce così la campagna Forza Italia!, che mette al centro persone quotidiane (mamme con i bambini e la bambola, famiglie, maestre con i bambini, ...) per avvicinare alla quotidianità il partito, quasi un "Mulino Bianco" applicato alla politica. Il payoff "Forza Italia!" (con tanto di punto esclamativo) diventa il nome di un nuovo soggetto politico, fondato e guidato da Silvio Berlusconi, che della "filosofia del Mulino Bianco" assume anche il sorriso smagliante delle figure che - a partire dal leader fondatore - finiscono in primo piano sui manifesti, in una nuova ondata di protagonismo e personalizzazione destinata a durare e ad acuirsi per molti anni.
Bruno Magno per il Pds e anonimo per il Prc (1991)
Nel frattempo, tuttavia, la politica italiana ha conosciuto almeno una trasformazione partitica di profondo rilievo, quella del Partito comunista italiano divenuto Partito democratico della sinistra, mentre una minoranza non intendeva abbandonare le idee di un tempo. Quel passaggio, al pari di quello che interesserà in seguito il Movimento sociale italiano - Destra nazionale, risulta drammatico, discusso e conteso con riferimento ai simboli tradizionali. Il Pds, nella loro propaganda e comunicazione, ha soprattutto il compito di cercare di imporre il nuovo emblema, per farlo riconoscere per il futuro e collegarlo alla storia vissuta fino a quel momento (il compito tocca a Bruno Magno, che quel simbolo ha concepito); per i dissidenti, che dopo aver provato inutilmente a mantenere nome e simbolo storici hanno dovuto scegliere il nome di Rifondazione comunista, più che mostrare il nuovo simbolo (ancora da ritoccare nei dettagli) hanno esigenza di rimarcare la continuità dei segni che la parte maggioritaria del loro ex partito hanno ridimensionato, piazzandoli in primo piano (e dando loro la forma della "R" di "Rifondazione").
Se fino a questo momento, pur nella varietà di linguaggi, stili e soggetti, quasi tutte le affissioni dei partiti avevano in comune la forma, vale a dire le dimensioni dei manifesti, di norma riconducibili a 70 centimetri di larghezza e 100 centimetri di altezza. Nel 2001, tuttavia, Silvio Berlusconi inaugura in modo massiccio l'era degli enormi manifesti 6x3, tipici della comunicazione commerciale e pubblicitaria: da quel momento un nuovo standard si impone a tutti gli altri attori della scena politica, a livello nazionale (a partire dal competitor principale di Berlusconi in quel 2001, cioè Francesco Rutelli), regionale e locale, mentre ormai le campagne di propaganda e comunicazione sono affidate sempre più ad agenzie esterne, che trattano partiti e personaggi politici come se fossero prodotti (e, in fondo, lo sono o finiscono per diventarlo). 
A ulteriore dimostrazione che i manifesti sono a pieno titolo un fenomeno di costume, che non può non avere conseguenze, il volume di Novelli correttamente dà conto anche dei manifesti "taroccati" non affissi, ma solo pubblicati e diffusi su Internet. Le "taroccature" dei manifesti di Berlusconi hanno prodotto centinaia di varianti (in misura minore il fenomeno ha riguardato anche l'avversario Rutelli): "una produzione sterminata, raccolta in siti e anche in un volume, che dilata - spiega Novelli - i confini del manifesto politico stravolgendo il concetto di unicità e di autorialità, anticipando il fenomeno dei meme". Dopo la fiammata del 2001, in ogni caso il fenomeno non si spegne mai del tutto, soprattutto grazie al diffondersi delle competenze informatiche e grafiche tra gli utenti della Rete: quando nel 2009 Pier Ferdinando Casini, dopo la rottura con Berlusconi, cerca di conquistare più spazio per il suo partito, accosta suoi scatti "del privato e degli affetti" allo slogan "Un Disegno Comune" (con le iniziali rosse per richiamare la sigla dell'Udc), su Internet qualcuno lancia il generatore di manifesti casiniani, con la possibilità di mettere la frase preferita, purché evidenzi la sigla Udc.
Paolo Marino e Dolci per comitato Bonino (1999),
Prodi presidente (2005),
Proforma per Nichi Vendola (2005)
In ogni caso, anche senza ricorrere ai manifesti 6x3, i manifesti con i volti dei candidati sono sempre più diffusi, divenendo ormai una costante con cui occorre misurarsi e dalla quale è persino difficile sottrarsi. Dopo l'inizio del fenomeno di personalizzazione negli anni '80 e la "torsione monocratica" data dai nuovi sistemi elettorali approvati tra il 1993 e il 1995, l'esposizione di chi si candida, specialmente proponendosi come presidente (o come aspirante Presidente del Consiglio) è massima e coinvolge innanzitutto l'immagine della persona. E se nel 1999 colpisce moltissimo la campagna "Finalmente l'uomo giusto" (curata da Paolo Marino dell'agenzia Dolci) con cui viene lanciata la candidatura di Emma Bonino alla Presidenza della Repubblica (più che l'ossimoro, volto a intaccare almeno in parte il muro che tuttora non ha portato alcuna donna al Quirinale, il #drogatodopolitica non può non rilevare l'anomalia di una campagna legata a un'elezione di secondo grado, nella quale il corpo elettorale consueto non ha alcuna voce in capitolo, se non come pressione su chi davvero potrà votare in quell'occasione), lasciano il segno anche altre "prime volte": le prime primarie a livello nazionale (quelle vinte da Romano Prodi nel 2005) e la prima campagna "a rovescio" (nel senso che, come annota Novelli, "contraddice molte delle regole e delle raccomandazioni della perfetta comunicazione politica") pensata per la prima candidatura di Nichi Vendola alla presidenza della regione Puglia (sempre nel 2005, curata da Proforma).
Comitato depenalizzazione aborto (1975),
Liste Verdi (1987), Scienza & Vita (2005)
  
Nel frattempo si è continuato a votare per i referendum, prima in modo contenuto, poi con una moltiplicazione delle schede e delle consultazioni. Soprattutto per i quesiti più dibattuti e discussi, anche in modo veemente, le campagne hanno prodotto manifesti molto diversi tra loro, per linguaggio, soluzioni e tecniche impiegate: la raccolta firme per ottenere la depenalizzazione e legalizzazione dell'aborto può essere aiutata dalle firme stesse "incarnate" in un corpo di donna; il sole che ride delle Liste Verdi (mutuato dagli antinuclearisti danesi) non ha bisogno di altro, oltre che il dichiarare "Stop al nucleare civile e militare"; l'immagine di mani materne che proteggono un neonato possono indurre a non andare a votare ai referendum sulla fecondazione assistita, senza nemmeno esprimersi sul merito dei quesiti (quindi senza prendere posizione sulle alternative classiche referendarie, cioè "sì" o "no").
Negli ultimi anni della storia repubblicana - lo si è detto all'inizio - il manifesto perde terreno: tante plance elettorali restano vuote o semivuote (mentre erano "un tempo terreno di battaglie notturne fra squadre di militanti e attacchini armati di secchi e scope") a beneficio di altre forme di propaganda (come i volantini, gli spot televisivi o, più di recente, le attività sui social network e in generale su Internet). Il manifesto in ogni caso non sparisce mai del tutto, anche se in genere perde di qualità rispetto al passato: si ritrovano ugualmente "tentativi di alcuni soggetti politici [...] di elaborare una comunicazione visuale originale e distintiva, coerente con il proprio stile e il proprio profilo politico", come rileva l'autore del libro. A volte (ma sempre meno spesso) si tratta di immagini efficaci, molte altre volte meno. 

Alla fine del cammino, con un occhio ai simboli

Il viaggio lungo quasi ottant'anni proposto dal libro di Edoardo Novelli (e che ovviamente si può compiere come si vuole: in ordine cronologico, "a saltare", in tutto o in parte) è coinvolgente e ricco di stimoli da cogliere. Occorre superare il più possibile - anche se non è facile - la tentazione della nostalgia, nel pensare al livello dei manifesti da tempo scaduto. Meglio, molto meglio utilizzare il tempo dedicato a sfogliare pagina dopo pagina per immergersi negli anni in cui ogni manifesto è nato, per capire il più possibile le intenzioni di chi l'ha commissionato, concepito e realizzato, magari riproponendosi di approfondire il periodo che si conosce meno o di cui si era dimenticato qualche dettaglio importante: in questo il volume aiuta molto, avendo cercato di proporre manifesti realizzati da (o per conto di) molte forze politiche e vari gruppi sociali in tempi diversi, dunque è davvero possibile esplorare la comunicazione e l'espressione di una parte rilevante del paese.
Ancora più interessante è il desiderio di approfondire la conoscenza dei linguaggi della grafica politica e di chi li ha elaborati e impiegati. Sono diversissime infatti le tecniche utilizzate, al pari delle vite di chi - per lunga o breve parte della sua vita - ha prestato la propria opera per concepire e realizzare i manifesti contenuti nel volume. Novelli, come si è visto, ha dichiarato dall'inizio che tra i manifesti ritenuti più significativi (e dunque inseriti nella pubblicazione) non ci sono necessariamente i più belli o i più famosi: chi scrive si permette di pensare che il maggior premio per l'autore del volume sia apprendere che alcuni tra i lettori hanno sentito il bisogno di completare la ricerca, andando a caccia di altre affissioni, magari dedicate allo stesso tema o firmate dalla stessa mano (a patto di sapere chi ha concepito o realizzato il manifesto, il che non sempre avviene). Un tempo era possibile solo rivolgersi agli autori stessi, ai loro archivi o alle biblioteche che avessero conservato eventuali cataloghi dedicati alle loro produzioni (se erano stati prodotti). Oggi, in teoria, il compito è più semplice: in rete circolano sempre più immagini ed esistono vari siti che raccolgono manifesti e altro materiale utile (il citato Archivio degli spot politici e dei manifesti diretto da Novelli, ma ce ne sono pure altri), magari legati al singolo artista o a raccolte tematiche. C'è però ancora molto da fare, da (ri)scoprire e - soprattutto - da ricondividere a beneficio di chiunque, per avere una conoscenza piena della materia della grafica politica. Nel frattempo, I manifesti politici di Edoardo Novelli può aiutare molte persone (già con una conoscenza parziale o semplicemente curiose) a orientarsi in una storia nemmeno troppo lontana o piuttosto vicina, che merita maggior attenzione tra uno slogan, un colore e un simbolo.
Già, i simboli: finora sono rimasti almeno in parte sullo sfondo, pur avendo fatto capolino in più di un'occasione. Il rapporto tra simboli e manifesti non è, né può essere standard: molto dipende dalle circostanze, dal committente e da chi esegue. Un partito alla prima uscita o che intenda presentarsi alle elezioni ha tutto l'interesse a mettere in evidenza il proprio emblema anche nei manifesti, soprattutto se il sistema prevede un voto di lista (tendenzialmente proporzionale) e non è troppo marcata la personalizzazione di chi si candida. Un tempo, poi, ci si accontentava spesso di richiamare il simbolo all'interno delle grafiche del manifesto, senza usare la versione ufficiale destinata alle schede elettorali: si pensi alle tante mutazioni subite dallo scudo crociato almeno fino alla metà degli anni '70, mentre sulle schede finiva sempre lo stesso simbolo con il medesimo disegno (lo stesso, almeno in parte, valeva anche per falce e martello). Le riproduzioni degli emblemi sono diventate via via più precise e "conformi" alla loro versione elettorale (fatta eccezione, ad esempio, per il Pri, che negli ultimi anni sui manifesti ha usato una nuova foglia d'edera, concepita da Michele Spera) e hanno conquistato spazio sui manifesti, diventando protagoniste o cedendo il passo alle parti testuali, alle grafiche o alle foto delle figure di vertice del partito o candidate alle elezioni. Molto dipende anche dalla sensibilità di chi realizza le affissioni, anche se alla base di norma ci sono le indicazioni del committente (non sempre ragionevoli, non sempre realizzabili). Di certo, anche la qualità dei simboli con il tempo è andata scemando (da anni sempre più spesso si ha a che fare con loghi, molto più simili ai marchi, senza vere rappresentazioni figurative), così come il loro carico ideale; in ciò almeno in parte condividono il declino dei manifesti. Ma nemmeno questo è un buon motivo per non lasciarsi guidare e tentare, pagina dopo pagina, dal libro di Novelli. E, qua e là, c'è spazio anche per qualche chicca per #drogatidipolitica (come il citato simbolo della Lega lumbarda).

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La prima presentazione del volume, presso la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma, con l'autore, Fabio Ferri, Bruno Magno, Maurizio Ridolfi e Patrizia Rusciani

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