lunedì 30 novembre 2020

Democrazia cristiana: (nuovo) XIX congresso, altri sviluppi politici e contenziosi

Passa il tempo, ma non cessa il flusso di notizie legate alla Democrazia cristiana e, in particolare, ai vari tentativi - spesso confliggenti - di rimetterla in condizioni di operare giuridicamente e politicamente: varie novità erano attese in questo periodo, ma solo ora se ne riesce a dare conto in modo decentemente approfondito.

Il nuovo XIX congresso 

Si era già ricordato, nelle scorse settimane, che era previsto per il 24 ottobre un nuovo tentativo di tenere il XIX congresso del partito, diverso da quelli che - giusto per citare gli ultimi - il 14 ottobre 2018 e il 12 settembre 2020 avevano eletto alla segreteria politica rispettivamente Renato Grassi e Franco De Simoni (con Raffaele Cerenza come segretario amministrativo). 
Questa volta a convocare l'assise era stato Nino Luciani, in qualità di presidente dell'associazione Dc: si tratta del partito regolato non dallo statuto, ma dalle norme del codice civile, in una fase transitoria che si era aperta con la nota assemblea dei soci del 25-26 febbraio 2017 all'Ergife (disposta dal Tribunale di Roma ex art. 20 c.c. su richiesta di un gruppo di iscritti ritenuti pari ad almeno un decimo e che aveva eletto come presidente Gianni Fontana) e che secondo alcuni di loro non si era mai chiusa a causa dell'invalidità del XIX congresso celebrato nel 2018, non ancora dichiarata da alcun tribunale (se ne deve riparlare tra poco) ma riconosciuta da un'assemblea del 12 ottobre 2019 che ne avrebbe, tra l'altro, revocato gli atti
Ora, attraverso il sito www.democraziacristianastorica.it, Luciani ha dato notizia che il XIX congresso da lui convocato si è effettivamente tenuto il 24 ottobre e si è concluso con la nomina dei nuovi organi dirigenti del partito. In particolare, lo stesso Nino Luciani sarebbe stato eletto segretario politico della Dc, così come sarebbero stati composti il nuovo consiglio nazionale (con presidente Franco Rosini) e la nuova direzione nazionale (che include anche la vicesegretaria Valentina Valenti e il segretario amministrativo Carlo Leonetti), nonché i nuovi coordinatori regionali e il collegio dei probiviri (tra questi Paolo Lucchese, che - salvo omonimia - dovrebbe essere l'ex parlamentare Ccd e Udc, già coinvolto in passato nel percorso di riattivazione della Dc). 
Sempre nel congresso del 24 ottobre, svoltosi su Skype, si è deciso di riaprire le iscrizioni alla Democrazia cristiana per il 2021 per chi ne faceva già parte e anche per chi vorrebbe unirsi ora. Sono poi stati indicati i tratti fondamentali del nuovo manifesto politico della Dc: porre la persona al centro dell'azione del partito, evitare le tentazioni da "partito delle tessere" (agganciando la rappresentanza delle Regioni nel consiglio nazionale alla popolazione regionale, oltre che al numero degli iscritti in ciascuna Regione, e prevedere nello stesso consiglio i soli gruppi della maggioranza che esprime il segretario e della minoranza per raccogliere ogni altro rappresentante), proporre una riforma istituzionale dello Stato italiano (Parlamento monocamerale, sistema elettorale proporzionale puro, previsione dei soli gruppi di maggioranza e opposizione, voto di sfiducia solo dal quarto anno della legislatura), eliminazione dell'ente Provincia all'interno della Repubblica delle autonomie, impegno dello Stato su vari temi (difesa dei diritti umani e sociali, limite alla pressione fiscale, promozione del lavoro e della libera iniziativa economica, armonizzazione statale del mercato sul piano etico, riforma del sistema bancario), attenzione alla politica europea e internazionale, rispetto del Codice etico del cristiano impegnato in politica (curato da Guido Gonella e aggiornato nel 2016) da parte degli iscritti alla Dc.

Le reazioni a questo XIX congresso (e non solo)

Non ha ancora fatto programmi a medio termine Luciani, anche se tra i punti del manifesto politico - raccolta d'intenti c'è anche la partecipazione alle elezioni della Dc "da sola con il proprio simbolo", vale a dire con lo scudo crociato. In compenso, non si sono fatte attendere le polemiche di parte di coloro che non ritengono valido il percorso intrapreso da Luciani. Già il 20 ottobre, per dire, era stata inviata a Luciani una diffida da parte di Emilio Cugliari, che a sua volta si qualificava come presidente facente funzione della Democrazia cristiana, all'esito di una burrascosa assemblea degli iscritti tenutasi a Roma in presenza il 2 luglio di quest'anno, durante la quale Luciani sarebbe stato sfiduciato come presidente dell'associazione (Luciani invece nel suo verbale aveva ritenuto nulla la sfiducia e non conclusa quell'assemblea, poi proseguita in altre forme in seguito). Nella sua diffida, Cugliari aveva accusato Luciani di avere ingenerato, con la convocazione del XIX congresso "confusione tra gli iscritti e forti dubbi tra i cittadini e sostenitori" per non avere rispettato la decisione del 2 luglio sulla sfiducia e sulla revoca da ogni incarico nella Dc: Luciani era dunque stato diffidato, perché cessasse di agire in rappresentanza della Democrazia cristiana, ma come si è detto il XIX congresso da lui indetto si è comunque svolto.
Aveva reagito in termini molto severi, a congresso compiuto - ma non ancora annunciato - pure Alberto Alessi, già parlamentare Dc, figlio dell'ideatore dello scudo crociato Giuseppe e da tempo impegnato nel percorso di riattivazione della Dc che ha espresso come segretari prima Gianni Fontana e poi Renato Grassi. "Farsesca e illegale vicenda congressuale" è forse una delle espressioni più moderate - utilizzate in alcune conversazioni ampiamente diffuse via e-mail - con cui Alessi si è riferito all'iter che ha portato Nino Luciani alla segreteria.
Anche il percorso di riattivazione della Democrazia cristiana cui partecipa Alessi, peraltro, non è stato privo di scossoni in questo periodo. Ha fatto un certo rumore l'adesione, alla Dc-Grassi, dell'ex presidente della regione Sicilia Totò Cuffaro, con l'idea di dare maggiore corpo alla ripartenza di quel progetto politico avendo lui come coordinatore regionale: se però tra il 14 e il 15 novembre la notizia era apparsa con un certo rilievo su vari giornali (in particolare Il Riformista e Il Tempo), il 20 novembre sempre Il Tempo ha ospitato la rettifica di Raffaele Cerenza e Franco De Simoni, per i quali né Cuffaro né Grassi avevano titolo per parlare in nome della Dc, cui ha fatto seguito il 25 novembre sulla stessa testata l'inevitabile controreplica di Alessi in difesa della legittimità dell'operato di Grassi e Cuffaro. Correzioni e controcorrezioni, che mescolano frammenti di verità a ricostruzioni imprecise o inesatte: ce n'è abbastanza per perdersi nei dettagli e accusare un persistente mal di testa.
  

Dc e congressi in tribunale

In realtà, come sempre accade in questa vicenda, la situazione è molto più complicata di così e periodicamente finisce davanti ai giudici. Presso il Tribunale civile di Roma pendono infatti due procedimenti, entrambi iniziati da Cerenza e De Simoni: uno per invalidare l'assemblea dei soci del febbraio 2017, uno per far dichiarare nullo il congresso del 2018. Il 6 ottobre, in particolare, era prevista una nuova udienza della causa relativa al congresso, con la Dc-Grassi che già prima aveva chiesto di rigettare ovviamente ogni domanda di Cerenza e De Simoni relativa al congresso del 2018. 
Quel giorno, peraltro, Grassi aveva chiesto di sospendere quella causa in attesa che arrivasse a decisione quella relativa alla precedente assemblea del 2017. Va detto che sul piano giuridico la richiesta non era priva di significato: se il giudice avesse dichiarato nulla l'assemblea del 2017, tutti gli atti conseguenti - compreso il congresso del 2018 - sarebbero venuti meno, dunque non avrebbe avuto senso continuare i relativi giudizi, mentre ciò si sarebbe potuto fare ragionevolmente se la precedente assemblea non fosse stata invalidata. Grassi, tuttavia, ha sì chiesto la sospensione della causa sul congresso, ma sostenendo che ciò si sarebbe reso opportuno perché, ove il Tribunale avesse confermato "la piena legittimazione dei soci (tra i quali l’odierno convenuto [cioè lo stesso Grassi, ndb]) alla convocazione dell’assemblea del 25/26.2.2017", questi sarebbero stati legittimati a convocare anche le assemblee successive, incluso il congresso del 2018. Non era esattamente la stessa cosa, a ben guardare: un conto è dire (come si sostiene qui) che se viene meno la legittimazione a monte, ovviamente crollano tutti gli atti a valle, altro è ritenere che la riconosciuta legittimazione a monte renda legittimi anche gli atti successivi, senza peraltro tenere conto dei vizi autonomi che questi potrebbero avere.
Nel frattempo, peraltro, nel processo si erano registrate altre novità. Già a gennaio era stata suggerita l'eventualità di dichiarare estinta la materia del contendere dall'avvocato di Raffaele Lisi (già verbalizzante del congresso 2018): pur continuando a ritenere che l'assise congressuale fosse nulla, questi aveva notato che un'altra assemblea - del 12 ottobre 2019, guidata da Nino Luciani - aveva nel frattempo revocato gli atti congressuali dell'anno precedente in ragione dei loro vizi, quindi non c'era più interesse a proseguire la causa. Lisi poi era uscito dal processo a febbraio (l'aveva chiesto lui, visto che era stato citato solo come presidente del congresso e verbalizzante, ma non aveva avuto responsabilità per gli eventuali vizi degli atti: le altre parti non si erano opposte e il giudice lo ha effettivamente estromesso), ma in quella stessa occasione era intervenuta anche la Democrazia cristiana di Cerenza e De Simoni (stavolta non come soci che avevano impugnato gli atti del congresso 2018, ma nelle cariche della "loro" Dc riattivata il 12 ottobre 2019, in un evento contemporaneo a quello organizzato da Luciani). Si è così dovuta fissare una nuova udienza, prevista per il 24 marzo e poi rinviata appunto al 6 ottobre, a causa della pandemia.
Proprio il 6 ottobre De Simoni e Cerenza, nella qualità di attori di quella causa, hanno segnalato lo svolgimento del "loro" XIX congresso Dc il 12 settembre 2020 (che li aveva eletti rispettivamente segretario politico e amministrativo del partito), che aveva secondo loro rimediato ai vizi del congresso 2018: sulla base di ciò, dunque, non avevano "più interesse alla coltivazione" di quel giudizio, per cui poteva essere dichiarata la cessazione della materia del contendere. Si tratterebbe, dunque, della stessa soluzione proposta a suo tempo da Lisi e sostenuta soprattutto da Nino Luciani: costoro, tuttavia, l'avevano chiesto sulla base di quanto deciso dall'assemblea dei soci del 12 ottobre 2019, guidata da Luciani, mentre De Simoni e Cerenza non riconoscevano valore a quel passaggio, fondando invece la loro richiesta sul loro percorso, che li ha portati al XIX congresso celebrato esattamente undici mesi dopo.
Riesce difficile mettersi nei panni del giudice Francesco Scerrato (il quale, ahilui, nel 2015 aveva già dovuto dichiarare nullo il congresso Dc del 2012 che aveva eletto segretario Gianni Fontana, tra l'altro in una causa in cui era intervenuto lo stesso Cerenza), chiamato ad affrontare queste novità. Nella sua ultima ordinanza, datata 4 novembre ma depositata solo pochi giorni fa, il giudice ha ritenuto che il venir meno dell'interesse a proseguire la causa da parte di coloro che l'avevano iniziata (senza bisogno di doversi appigliare a questioni fatte valere da altre parti) avrebbe prodotto in sostanza lo stesso effetto richiesto dalla Dc-Grassi (cioè il venir meno di ogni richiesta degli attori in merito alla validità degli atti congressuali): per economia processuale, dunque, ha rigettato la richiesta di sospendere il processo nell'attesa che si definisse quello relativo all'assemblea del 2017 e ha comunque fissato l'udienza per precisare le conclusioni al 18 ottobre 2021. 
Resta ovviamente pendente il processo relativo all'assemblea dell'Ergife del 2017 (e no, non è detto che per il 18 ottobre 2021 questa causa sia comunque definita...), che si sta svolgendo davanti a un diverso giudice. Inutile dire che l'eventuale nullità dell'evento di riattivazione del 2017 bloccherebbe definitivamente il percorso della Dc-Grassi, ma metterebbe in dubbio anche parte del percorso intrapreso da Luciani e anche da Cugliari (nessuno dei due, infatti, mette in dubbio la legittimità dell'assemblea all'Ergife).
 

A che punto è la Federazione popolare?

Al di là di quanto accade nelle aule di tribunale, occorre anche dare conto dello "stato di salute" di un altro progetto che si muove nell'area democristiana: quello della Federazione popolare dei democratici cristiani, presieduta da Giuseppe Gargani. Si è già visto come il progetto, che avrebbe dovuto portare molte sigle di ispirazione diccì a partecipare alle elezioni di settembre sotto le insegne dell'Unione democratici cristiani, poi alle regionali si sia tradotto di fatto nel semplice sostegno alle liste presentate dall'Udc, magari insieme ad altri soggetti, praticamente senza alcuna visibilità per la Federazione. Ciò aveva creato non pochi malumori tra chi aveva creduto nel progetto, soprattutto da parte della Dc-Grassi (si legga quanto scritto dal presidente del consiglio nazionale Renzo Gubert). All'inizio di novembre proprio il segretario Renato Grassi aveva scritto che la prima verifica della validità della Federazione alle regionali e amministrative era stata "disastrosa, nella assenza di una presenza politica identitaria della Federazione e nella applicazione di una sorta di 'patto leonino' imposto dall'Udc con motivazioni di puro interesse partitico": ben deciso a rifiutare la semplice confluenza nel partito guidato da Lorenzo Cesa (anche per non rinunciare, di fatto, ai passi compiuti fin qui dalla Dc), Grassi ha però riconosciuto che l'ennesimo nuovo soggetto politico centrista potrebbe caratterizzarsi "per l'irrilevanza politica ed elettorale" se non partecipassero Gianfranco Rotondi e lo stesso Cesa, di fatto gli esponenti con maggiore visibilità tra coloro che si richiamano a quella tradizione politica. Secondo Grassi non servono "rigide norme statutarie, che alla fine non vincolano nessuno", ma "scelte condivise e gestite da una struttura di coordinamento di carattere nazionale che operi per la progressiva aggregazione delle rappresentanze territoriali sui temi politico-programmatici e le scelte elettorali conseguenti". Un lavoro progressivo che, evidentemente, fino ad allora non c'era stato.
Nuovi incontri telematici hanno portato poi all'approvazione di un documento comune della Federazione popolare dei democratici cristiani, condiviso quasi da tutte le componenti: come ricetta contro l'individualismo in politica e dopo gli esiti delle ultime elezioni regionali (che avrebbero accentuato l'isolamento dei partiti ed "esaltato un nuovo sovranismo e un più pericoloso populismo in capo ai 'governatori'"), si è confermata l'idea che un soggetto politico che voglia definirsi "di centro" debba ispirarsi "al 'popolarismo', unica cultura attuale, moderna, rispetto alle altre ideologie che hanno dominato nel '900 ma che si sono estinte o sono state contestate tragicamente", così da essere alternativo alla destra e alla sinistra, facendosi portatore "di un'idea e di un progetto per il paese". L'idea, dunque, è di "dar vita ad un soggetto politico nuovo di ispirazione 'popolare' collegato strettamente al Ppe", cosa cui si potrà procedere una volta che i partiti e le associazioni partecipanti alla Federazione avranno fatto ratificare la decisione ai loro organi, così da fare passi concreti verso la partecipazione con una lista unica alla prossima campagna elettorale
Anche questa volta, tuttavia, sembra che il maggior impulso debba arrivare dall'Udc (che, piaccia o no, pur nelle sue dimensioni ridotte rispetto al passato rappresenta tuttora il soggetto più consistente di quell'area e, per giunta, detiene l'uso elettorale dello scudo crociato): proprio il documento comune, infatti, "prende atto della convocazione del consiglio nazionale da parte dell'Udc per il 10 dicembre, finalizzato a dare avvio alla una nuova fase costituente" e si dice ancora che subito dopo, o comunque entro la metà di dicembre, si terrà una riunione "per definire gli adempimenti necessari a costituire il soggetto politico nuovo con un comitato rappresentativo di tutte le componenti, per rendere concreta e rapida la nuova fase".
Di tempo a disposizione non dovrebbe essercene pochissimo - se non altro perché, ove le Camere non fossero sciolte entro la fine di giugno del 2021, di elezioni si parlerebbe necessariamente dopo la scadenza del mandato presidenziale di Sergio Mattarella, dunque nel 2022. Per Ettore Bonalberti, oltre al progetto politico organizzativo, occorre "una Camaldoli 2021, un incontro sul programma in preparazione di un'Assemblea costituente del soggetto politico nuovo di centro democratico, popolare, riformista, inserito a pieno titolo nel Ppe". Si vedrà se questa volta si arriverà a un risultato politico davvero condiviso nell'area di centro, se salterà tutto per l'insistenza di qualche componente o se si verificherà una prevalenza dell'Udc. Comunque vada, difficile che non sorgano altre dispute sulla Democrazia cristiana... 

giovedì 26 novembre 2020

Maradona, appuntamenti impossibili col Quirinale e la scheda elettorale

Era così, più o meno
Era scontato, o quasi, che ieri la notizia della morte di Diego Armando Maradona suscitasse un copioso flusso di commenti anche tra i politici, specie tra i molti appassionati di calcio, partenopei e non. In pochi, tuttavia, hanno ricordato un episodio entrato di diritto nella memoria di chi faccia parte della categoria dei #drogatidipolitica allo stato puro. Un episodio che ha un luogo e una data ben precisi: Roma, Palazzo Montecitorio, 13 maggio 1999
In quel giorno, circa un migliaio di persone elette erano radunate nella sede della Camera dei Deputati - insieme a un numero imprecisato di altre figure, tra personale di staff, amministrazione della Camera e stampa - per il primo scrutino con cui si sarebbe dovuto indicare il nuovo Presidente della Repubblica, successore di Oscar Luigi Scalfaro. Primo scrutinio che sarebbe stato anche l'ultimo: la giornata parlamentare finì con l'elezione al Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi, secondo capo dello Stato a farcela al primo colpo nella storia della Repubblica, raccogliendo il voto di oltre due terzi degli aventi diritto (era successo già a Francesco Cossiga, se non si vuole considerare il precedente pre-repubblicano di Enrico De Nicola). Eppure l'attenzione dei #drogatidipolitica - di qualunque genere - non si appuntò tanto sull'esito finale, ma su ciò che accadde tra l'apertura della seduta del Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali e la proclamazione dei risultati. 
Appare quasi scontato dire che occhi e orecchi si erano fatti attenti soprattutto sullo scrutinio, tenendo conto dei nomi pronunciati da Luciano Violante, chiamato a guidare la seduta come presidente della Camera: le persone direttamente interessate erano pronte a tenere il conto, per capire se per una volta il nome più vociferato alla vigilia avrebbe evitato di essere impallinato; non mancava chi, però, appuntava in modo diligente tutti i voti proclamati da Violante (compresi quelli ricevuti da lui stesso - alla fine sarebbero stati 6), per fare qualche conto più avanti e individuare magari qualche franco tiratore. Allora forse non c'era bisogno di mettersi a guardare persino i microdettagli, per cercare di capire chi avesse votato Ciampi (per intendersi, quasi tutte le schede per lui erano votate con il solo cognome, senza che qualcuno per distinguersi si fosse messo a dire "Carlo Azeglio Ciampi", "Ciampi Carlo Azeglio" e altre combinazioni amene); casomai era più interessante cercare di capire chi aveva fatto mancare il proprio voto, indirizzandolo altrove.
Era fin troppo facile ricondurre a Rifondazione comunista i 21 voti finiti a Pietro Ingrao, alla Lega Nord le 72 schede per Luciano Gasperini (capogruppo del Carroccio a Palazzo Madama), ai Popolari i 16 consensi per Rosa Jervolino Russo (candidata naturale per Franco Marini, ma probabilmente venivano da lì anche i 6 voti per Nicola Mancino, i 5 per Scalfaro - sottolineati dai "buuu" del centrodestra - i 4 per Martinazzoli e forse qualcuno dei 10 per Giulio Andreotti, oltre al voto a testa per Marini, Tina Anselmi e Vittorio Cecchi Gori... peraltro presente in aula come senatore Ppi, alla pari di Marini che partecipava come deputato). I giornalisti hanno ricondotto a Forza Italia, oltre che le 4 schede per Silvio Berlusconi, buona parte dei voti per Bettino Craxi (6 in tutto) e anche parte dei 15 consensi per Emma Bonino (dopo la martellante campagna "Emma for president" dei mesi precedenti) e pure i voti singoli ad Antonio Martino e a Paolo Cirino Pomicino. Qualcuno, tecnocrate bancario di altra scuola, aveva votato il successore di Ciampi alla Banca d'Italia Antonio Fazio (4 voti in tutto), qualche socialista (3) dello Sdi o già in Forza Italia aveva preferito Giuliano Amato; tra i Democratici di sinistra c'era stato qualche sostenitore di Violante (6, come si è detto) e di Augusto Barbera (ma si erano contati un voto a testa anche per Walter Veltroni e per Achille Occhetto). Erano certamente di destra, area Alleanza nazionale, i 6 voti a Pino Rauti, i voti singoli a Pietro Mitolo e a Romano Misserville e magari un paio dei 6 voti ad Antonio Serena, senatore della Lega Nord in quota Liga Veneta, in procinto di passare proprio ad An. Certamente alla Lega si doveva ricondurre l'unico voto dato a Roberto Maroni, finito tra i 25 "dispersi" ma in ogni caso nullo, perché allora l'ex ministro dell'interno aveva solo 45 anni.
E proprio tra i nomi risuonati una sola volta uno attirò l'inevitabile attenzione di chiunque seguiva lo spoglio. Già, perché nel profluvio di voti per Ciampi, alternati a qualche altro nome, a poche schede dichiaratamente nulle (qualcuna - si dice - con inequivocabili disegni fallici) e a 55 proclamazioni di "Bianca!" (ben poche, per essere un primo scrutinio) non sfuggirono alcuni annunci memorabili. Il resoconto di seduta si limita a ricordare che "Alla lettura di una scheda recante il nome 'Porcu' seguono applausi dei componenti l'Assemblea di Alleanza nazionale" (il riferimento era al deputato di An. ex missino Carmelo Porcu); non ha avuto l'onore di una citazione in fisionomia il voto espresso a "Fantózzi", nella pronuncia violantiana (il riferimento probabilmente non era al rag. Ugo, ma al tributarista Augusto, già ministro e in quel momento presidente della Commissione Bilancio della Camera; qualche risata in sottofondo, in ogni caso, ci fu); men che meno sono stato citati gli indecifrabili voti per "Scantamburlo" e "Maria Clelia d'Ischia". 
Soprattutto, però, i resocontisti non hanno dato conto dell'ilarità e di qualche applauso nato spontaneo quando, alle ore 12 e 53 (11 minuti prima dei "vivissimi e prolungati applausi" scattati alla scheda con cui Ciampi aveva raggiunto il quorum necessario per l'elezione), il presidente Violante aveva pronunciato il nome "Maradona", con un tono che mescolava ironia - mai nascosta durante la presidenza violantiana - a un briciolo di perplessità. Era chiaro che quel voto - vergato su una regolare scheda firmata dal segretario generale Mauro Zampini e scrutinato dopo dopo un voto a Franco Marini e due a Ciampi - era nullo, per la carenza del requisito dell'età (come con Maroni) e ancora di più di quello della cittadinanza. In teoria - nulla prevedendo il regolamento al riguardo - il presidente avrebbe anche potuto limitarsi a dire "nulla!", senza altro aggiungere (e in effetti poco dopo si sente un "nulla, o no?", dal banco della presidenza verso il segretario - la prova audiovideo di Radio Radicale ai 3.52.53 è a portata di mano - ma chissà se non si riferiva al voto subito successivo...); impossibile però non citare Maradona a Montecitorio che allora ospitava tra i suoi banchi anche Gianni Rivera e Massimo Mauro, com'era impossibile che non cogliesse l'occasione di divertirsi Violante, lo stesso che il 22 gennaio 1997, a Valdo Spini che lamentava la prassi in via di degenerazione di affibbiare alle leggi elettorali i cognomi latinizzati dei relatori (Mattarellum, Tatarellum), non resistette a interromperlo e ribatté "Per fortuna lei non è stato relatore su progetti di questo genere!", strizzando l'occhio allo Spinellum senza citarlo. 
Del resto, non avrebbe sorvolato sui voti improbabili nemmeno Laura Boldrini: nel 2013, alle prime votazioni per eleggere il successore di Giorgio Napolitano (sarebbe stato lui stesso), assistita dall'allora segretario generale Ugo Zampetti, dichiarò nullo per età il voto a Valeria Marini, precisò "Non ha i requisiti" subito dopo aver letto il nome di Mara Carfagna, mentre tacque dopo aver proclamato il voto a Rocco Siffredi, anticipato dalla voce fuori microfono di Zampetti. Quando qualche altro buontempone "parecchio zingaro" nel 2013 scrisse sulla scheda il nome del conte Raffaello Mascetti, Boldrini lo pronunciò con un mezzo sorriso, senza nemmeno premurarsi di dichiarare nullo il voto di pura fantasia ("Che cos'è il genio?"); tacque anche di fronte al voto di Roberto Mancini (allora ancora per poco allenatore del Manchester City, non ancora 50enne... ma non era certo tenuta a saperlo), mentre erano validissimi i voti a Giovanni Trapattoni e Giancarlo Antognoni. Nel 2015, invece, il nome di Francesco Totti, che pure sarebbe stato scritto su ben cinque schede (più di quelle toccate a Giancarlo Magalli), non è stato pronunciato, perché "Non ha cinquant'anni" (come suggerito dalla nuova segretaria generale, Lucia Pagano).
Il nome di Diego Armando Maradona, in ogni caso, non risuonò più - salvo errore, naturalmente - nelle votazioni ufficiali; in compenso nel 2016, alle ultime elezioni amministrative di Napoli, l'artigiano Antonio Del Piano aveva annunciato la sua candidatura a sindaco con la lista Ricomincio da 10 - La società civile scende in campo. I colori del simbolo con colori che rimandavano al logo della Ssc Napoli (senza plagiarli), ma soprattutto il 10 scritto a caratteri cubitali all'interno non poteva non ricordare il numero impresso sulla maglia del pibe de oro, da tempo ritirata dalla squadra di calcio partenopea. La lista non finì sulle schede, esclusa per difetti nei documenti presentati, ma per qualche giorno qualcuno aveva davvero pensato a un progetto amministrativo nel nome di Maradona: del resto, la proposta di intitolargli lo stadio San Paolo era proprio nel programma di quella lista mai nata...

giovedì 19 novembre 2020

Un ventaglio di petali arcobaleno per il Partito Gay (per i diritti Lgbt+)

Le idee hanno sempre bisogno di un periodo di gestazione per concretizzarsi; qualche volta possono servire anche più di due anni. Il discorso, a quanto pare, vale anche per il Partito Gay per i diritti LGBT+, la cui nascita è stata annunciata questa mattina in una conferenza stampa (seguita da Adnkronos). A prendere la parola per primo è stato il portavoce Fabrizio Marrazzo, ingegnere, 
attivista Lgbt da un quarto di secolo, portavoce del Gay Center (e fondatore di Gay Help Line 800 713 713),  e già presidente dell'Arcigay di Roma: proprio a suo nome erano state depositate come marchi, alla fine di agosto del 2018, le prime versioni del simbolo del Partito Gay e della Lista Gay, per quella che allora Marrazzo aveva qualificato - sempre ad Adnkronos - come "un'idea embrionale", ma pronta all'uso anche solo per dimostrare che occuparsi dei diritti delle persone lgbt+ (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e altre comunità aggregate) "non fa perdere voti".
Per questo si è detto che sono occorsi oltre due anni per arrivare al risultato, presentato oggi, anche se pare di capire che il partito formalmente ancora non è stato costituito (lo stesso Marrazzo ha parlato di "nuovo soggetto politico cui vogliamo dare vita"). Con Marrazzo alla conferenza hanno partecipato Claudia Toscano, fondatrice ed ex presidente di Agedo (associazione di genitori parenti ed amici di lgbt) Pescara e Vittorio Tarquini, giovane attivista trans. 
"Noi tre rappresentiamo tre generazioni di attivisti - ha spiegato Marrazzo - e abbiamo convocato proprio in questo periodo di emergenza la conferenza perché riteniamo che noi Lgbt+ non possiamo più delegare le nostre istanze a terzi e allo stesso tempo possiamo essere una forza propositiva e innovativa per il Paese. l'Onu ha affermato che la nostra comunità sarà tra quelle più colpite dalla crisi economica causata dal Covid, perché di fatto non abbiamo tutele idonee né per noi come persone singole né per le nostre famiglie arcobaleno. Fin dall'inizio di questa pandemia abbiamo dovuto protestare fortemente in varie occasioni perché si ricordassero di noi" (si pensi alle questioni legate ai "congiunti"/"affetti stabili" e sugli interventi a favore delle vittime di violenza). "Quanto al disegno di legge contro l’omostranfobia, approvato alla Camera, siamo riusciti a inserire temi che erano stati dimenticati, ma - ha aggiunto Marrazzo - si è poi scatenata una guerra ideologica e alcuni emendamenti al testo originario che sono stati approvati hanno peggiorato la situazione, ad esempio tutelando il diritto di dirci 'malati' o 'inferiori': la legge oggettivamente è un primo passo, ma arriva con trent'anni di ritardo e comunque dà alle persone Lgbt+ una tutela inferiore rispetto ad altre minoranze citate nello stesso testo normativo". 
Ragioni come queste, insieme a molte altre (tra trattamenti differenziati esistenti e discriminazioni subite), sono alla base dell'idea di fondare un nuovo soggetto politico "per rappresentare le nostre aspirazioni, idee e valori, per realizzare un paese moderno, inclusivo, solidale, ambientalista e liberale, anche insieme a chi non è Lgbt+. Per anni abbiamo tentato, prima di esprimere il nostro voto, di far capire alle forze politiche le emergenze socio-economiche avvertite dalla comunità Lgbt+, ma molto spesso abbiamo trovato interlocutori inadeguati o inaffidabili. I partiti spesso definivano i nostri temi come divisivi, ma per noi è divisiva una società che dà differenti tutele e diritti ai suoi cittadini; a volte alle nostre richieste hanno risposto offrendoci candidature strumentali, ma noi a concrete richieste chiediamo concrete risposte, per mettere l'Italia in sintonia con le maggiori democrazie al mondo. Spesso ci è stato risposto che ci sono ben altre priorità ed è soprattutto contro questo 'benaltrismo' che chiediamo all'intera comunità Lgbt+ di impegnarsi per un soggetto politico nuovo per dare una voce forte a chi oggi non ce l'ha e non l'ha mai avuto". 
La forza politica che sta per nascere vuole creare "una società integrata e inclusiva, ma al contempo aperta e plurale, di cui ognuno possa sentirsi parte. Una società che guarda al futuro, a una democrazia vera e compiuta". Questa società, come ha detto Marrazzo, dovrà essere soprattutto solidale ("non intesa come assistenzialismo, ma come sostegno per ripartire, senza però lasciare nessuno solo"), ambientalista ("per un ambiente come risorsa perché ambiente, impresa e lavoro devono progredire insieme e non contrapposti") e liberale ("perché in qualsiasi famiglia nasciamo, chiunque deve ambire a poter raggiungere i propri traguardi, grazie ad uno stato che dovrebbe dare opportunità e non burocrazia e tasse che spesso finiscono in sprechi e mala gestione").
"Solidale", "ambientalista" e "liberale" figurano anche - su un segmento curvilineo viola - all'interno del simbolo scelto per la nascente forza politica, assai più elaborato rispetto alle prime versioni depositate oltre due anni fa: la parola "Gay" è l'elemento più visibile e riconoscibile (e molto più grande della sigla "Lgbt+", assai più inclusiva ma ben poco conosciuta nella società) e si accompagna a un ventaglio-semicorolla di petali color arcobaleno, per richiamare i colori normalmente utilizzati in ambito Lgbt+. 
Il soggetto politico si è dato anche un sito (www.partito.gay) e uno slogan-hashtag per la sua prima campagna, #chisenonnoi, "un elemento collettivo e facilmente declinabile" nelle varie battaglie da portare avanti. Il soggetto politico ha l’ambizione di partecipare sin dalle prossime elezioni amministrative di primavera, in preparazione alle successive elezioni politiche. "Studi fatti da EuroMediaResearch - ha aggiunto Marrazzo - indicano la comunità Lgbt pari al 12,8% della popolazione italiana e i sondaggi ci dicono che un partito come il nostro può ambire a percentuali che vanno dal 6% sino al 15%". L'evento realmente fondativo arriverà tra qualche mese, anche se è presto per parlare di date (l'emergenza Covid non aiuta a fare programmi); di certo, l'idea embrionale del 2018 ha fatto passi in avanti e attende di essere resa più concreta.

lunedì 16 novembre 2020

Simboli fantastici (28): Wrooom Reggio, il partito per ripartire con gusto (a teatro)

Nel paese in cui legioni di leoni-camaleonti da tastiera si trasformano senza problemi da virologi a costituzionalisti e viceversa - passando per i ruoli di economista, sociologo e per quello più classico e rodato di allenatore - non c'è da stupirsi che più di qualcuno possa avere l'idea di reinventarsi (non improvvisarsi eh, giammai!) politico. Costoro potrebbero unirsi a una formazione che già esiste oppure, ritenendo inutili e superate tutte le alternative in campo (e dire che in Italia sono così tante...), potrebbero volerne costruire una nuova, pensandola a loro immagine e somiglianza, ma adattandola cammin facendo per cercare di raccogliere il consenso di chi dovrebbe dare loro il voto.
A uno scenario simile avevano pensato già nel 2012 Antonio Guidetti e Mauro Incerti, brillanti attori e autori di teatro, con i piedi ben piantati nel territorio reggiano. Nelle ultime settimane di quell'anno, mentre erano agli sgoccioli tanto il governo "tecnico" di Mario Monti quanto la XVI legislatura e ci si preparava al voto, i due avevano immaginato e scritto l'avventura di due amici che si trovano al bar delusi dalla vita e dalla politica e, tra una chiacchiera qualunquista e l'altra ("pròm mia 'ndèr avanti acsé però... l'an dura mia, l'an dura" [mica possiamo andare avanti così però, non dura]), arrivano alla conclusione che potrebbero entrare in politica - e tentare, finalmente, di fare i soldi - anche loro due. Messe da parte le battute sull'Alitalia in fallimento e le incomprensioni sugli "esodati" della riforma Fornero, Carlo e Fausto si convincono che per farsi eleggere basti l'1% (e allora, con un po' di fortuna, alla Camera poteva essere vero, a patto di essere in coalizione e di essere la lista migliore della compagine tra quelle rimaste sotto il 2%): fatto qualche conto e immaginando che vadano a votare circa 35 milioni di italiani, si accorgono che l'1% corrisponde a 350mila persone, poco meno degli elettori della provincia di Reggio Emilia, e decidono di buttarsi nell'avventura politica. 
Era nata così Anche noi fondiamo un partito... se catòm chi as dà i sold, novanta minuti all'insegna della comicità spruzzata di attualità (con un certo retrogusto amaro, che difficilmente manca): dopo averli 
messi in scena per la prima volta al Teatro Artigiano di Massenzatico (Re) il 30 dicembre 2012, Guidetti e Incerti li hanno replicati molte volte nel corso del tempo, sempre con un occhio attento alle nuove "perle" che la politica italiana finiva per riservare nei giorni precedenti lo spettacolo. La commedia per due in due atti merita di essere vista, dal vivo o su Dvd, quindi non si vuole togliere il gusto di scoprire come va a finire; qui ci si accontenta di ripercorrere le prime, esilaranti fasi nelle quali si determina l'identità del partito, simbolo incluso.
Carlo e Fausto cercano innanzitutto uno slogan che possa colpire e lo trovano in fretta, puntando tutto sulla schiettezza: "Cosa rischiate a votare per noi? Pes de' csè! [Peggio di così!]". La scelta del nome è più difficile: tira in ballo la collocazione, quasi tutte le combinazioni di parole e le sigle - quando non sono troppo complicate - sembrano essere già state esplorate e, in più, un riferimento a Reggio non può mancare. Nel tentativo di cercare una prima parte efficace, che dia l'idea di un nuovo inizio energico, in una sarabanda di accoppiate improbabili ("Dai Reggio!", "Sa spètet Reggio!", "Spingi Reggio!", "Cócia Reggio!... no, sembra al nòm d'un cesso!", "Dat 'na mósa Reggio!", "Schéla la mèrsa Reggio! [Scala la marcia Reggio!") improvvisamente spunta l'idea vincente: Wrooom Reggio. L'onomatopea del motore, messa per iscritto, può dare l'idea della ripartenza ed è sicuramente un'idea nuova, che tra l'altro può fare breccia in tutta la Motor Valley; in più, wrooom come suono somiglia molto a "vróm", che in dialetto reggiano significa "vogliamo", per cui è possibile una doppia lettura.
Decisa anche la denominazione, resta tutta da giocare la partita del simbolo, non meno difficile rispetto all'altra. Anche qui il rischio di "già visto" è fortissimo, soprattutto pescando dal mondo vegetale, fin troppo sfruttato in precedenza (tra querce, edere, ulivi, rose e margherite): per cercare di essere originali, si rischia di fare proposte decisamente inopportune (come il salice piangente o il cipresso), non riconoscibili (come un marugòun, una robinia) o semplicemente confuse e rischiose ("Mettiamoci una siepe, dietro ci siamo noi di Wrooom Reggio!" "Se siv dré fèr?" "Sòm dré caghèr!"). Meglio, forse, guardare al regno animale, stando attenti anche lì agli scivoloni dietro l'angolo: se una scimmia che salta qua e là "l'è 'n immagine tipo Scilipoti", un cane che lecca "al fa tròp Emilio Fede"; il leone che ruggisce potrebbe anche ricordare l'energia del motore, ma fa subito Metro-Goldwyn-Mayer, mentre una giraffa guarderà pure l'orizzonte, ma con Reggio non c'entra proprio nulla.
Già, perché se il nome sa di motore e di Pianura Padana, il simbolo non può essere da meno. Eppure basta pensarci un attimo e la soluzione è a portata di mano, anzi, di forchetta e coltello: per i due futuri politici, infatti, il vero "re di Reggio" è il maiale, al nimél, che è su tutte le tavole dei reggiani e porta avanti l'economia della zona. Messo subito da parte un fugace dubbio ("Al s' cunfònd cun Berluscòun!" "Basta paragonare il maiale a Berlusconi! Come pensi che si senta il maiale a essere paragonato a lui?? S'al pris parlèr! [Se potesse parlare!]"), la scelta del maiale sembra in fondo una buona soluzione, ma - ragiona Carlo - si rischia di fare un torto alle altre eccellenze del territorio reggiano: che dire del Lambrusco, del Parmigiano Reggiano e dell'erbazzone? Fausto non si perde d'animo e ha già la soluzione: disegnare il maiale in piedi e fargli tenere con una zampa una bottiglia di vino, con un'altra una punta di formaggio e con una delle due su cui si regge un pezzo di erbazzone. 
In teoria questo potrebbe bastare, anche perché resta una sola zampa libera (e dovrebbe servire al maiale per reggersi), ma Carlo non demorde e piazza una domanda insidiosa: "E i cutrèis?" Già, i cutresi, molti dei quali dagli anni '60 si sono trasferiti a Reggio per lavoro, vi si sono stabiliti (al punto tale che una delle strade che portano verso il centro si chiama "via Città di Cutro") e hanno contribuito sensibilmente a costruire le case dei reggiani: è importante poter conquistare anche il loro voto. Anche qui, però, la soluzione si trova facilmente: l'ultima zampa, in un modo o nell'altro, può tenere una cazzuola. Certo, a quel punto non si sa bene come farà il maiale a reggersi in piedi, ma c'è un problema più grave da da affrontare: come ci si può dimenticare di un altro elemento fondamentale nato a Reggio, il tricolore? Ci vuole una soluzione, anzi, un colpo di genio: "Se l'Agip ha fatto un cane a sei zampe, nuèter fòm un nimèl a sinc gambi!"
Il frutto del "cantiere" per il simbolo (scena tratta dal dvd)
Ormai è fatta, gli ingredienti fondamentali per parlare di Reggio ma farsi votare potenzialmente da chiunque ci sono tutti: a quel punto resta solo da mettere l'idea sulla carta, per tradurla in grafica. Ci pensa Fausto, che sbarazza il tavolino del bar, prende due caschetti per sé e per l'amico Carlo e "apre il cantiere" del disegno: "A io fat grafica alla Cepu... du dé!". La matita scorre sul foglio, disegnando un maiale
 bello abbondante, come la sua punta di formaggio grana ("Oh, l'è almeno du chilo!"), per poi tracciare la bottiglia di Lambrusco, la cazzuola e la bandiera tricolore, aggiungendo vicino l'erbazzone (alla fine si è scelto di lasciare solo quattro zampe, per non fare troppa confusione). 
Il simbolo sarebbe pronto, ma a entrambi gli amici appare troppo vuoto, troppo spoglio. Anche qui, però, la soluzione è bell'e pronta: piazzare il maiale e le altre eccellenze reggiane su uno dei più recenti luoghi emblematici di Reggio: i ponti di Calatrava, anzi, quello centrale, con la "vela" più larga. Si tratta dell'ultimo tocco che mancava, al quale si potrebbe giusto aggiungere - per i reggiani impenitenti - un fumetto per far vedere che il maiale, anche grazie al Lambusco, sa cantare: Fausto propone addirittura La Gigiasa in tal canèl, classico tradizionale della canzone popolare reggiana, nato come sfottò verso Maria Luigia, duchessa di Parma - ah, la mitica rivalità tra bagoloni e "teste quadre"! - e arrivato un po' dappertutto, dagli spogliatoi degli stadi ai concerti di Gaudio Catellani (che nel 2012 c'era ancora e - sia detto per inciso, ma neanche troppo - a chi scrive manca da morire...). Un simbolo più pigliatutto di così - ma quale catch-all, sempre questo inglese, al massimo ciàpa tót! - è impossibile immaginarlo.
Una personale rielaborazione,
ovviamente non autorizzata
Con slogan, nome e simbolo pronti, il più sembra fatto. Sì, buonasera: c'è tutto da fare, da imparare e da cambiare (inclusi i nomi dei candidati...), oltre che da cantare (come fare a meno dell'inno...). E, soprattutto, bisogna prendere i voti e anzi, nella realtà, prima ancora si dovrebbero raccogliere le firme, sennò i voti non si potrebbero nemmeno cercare. Il problema, però, non sembra vicinissimo: le elezioni del 2013, quelle che avevano in testa Guidetti e Incerti, sono passate da un pezzo e anche quelle del 2018; tempo qualche mese e - a luglio del 2021, allo scattare del "semestre bianco" - si avrà la certezza che non si potrà votare prima del 2022 inoltrato e, magari, si potrà arrivare fino ai primi mesi del 2023, cioè alla scadenza naturale della legislatura. Carlo e Fausto - c'è da giurarci - saranno ancora là, a pensare di candidarsi e magari nel frattempo avranno aggiornato il simbolo, sperando di ottenere ancora più voti e facendo ridere una volta di più noi, che in questi giorni facciamo davvero fatica e spesso proprio non ci riusciamo (e a teatro, per giunta, non possiamo nemmeno andare). 

Si ringraziano Antonio Guidetti, Mauro Incerti e Michele Casolaro per avere fornito il materiale legato allo spettacolo (senza ovviamente che la pubblicazione qui pregiudichi in nulla gli aventi diritto), nonché Donato Natuzzi per avere suggerito l'idea, più di tre anni fa.

venerdì 6 novembre 2020

Partite Iva Unite: quando si è nel mirino occorre fare di Più

Si è già ricordato in questo sito che, soprattutto dopo la prima campagna elettorale di Forza Italia e il primo governo guidato da Silvio Berlusconi, le persone titolari di Partita Iva sono diventate una presenza sempre più palpabile della politica: prima essenzialmente come categoria al centro di appelli, misure, critiche, candidature all'interno delle liste più disparate; in un secondo momento, tuttavia, sono diventate anche un "marchio politico", incarnato da almeno due soggetti politici (Popolo Partite Iva e Autonomi e Partite Iva).  
Tra marzo e aprile in rete - in particolare su Facebook - è apparsa anche un'altra sigla, quella delle Partite Iva italiane unite, che nei mesi successivi si è semplificata in Partite Iva unite, così da consentire l'uso dell'acronimo Piu: manca l'accento, ma diventa quasi automatico metterlo, anche per sottolineare le richieste che questo soggetto politico formula. A guardare la pagina Fb dello stesso, in effetti, si intende che in passato questo era legato ad almeno uno degli altri gruppi già citati, ma con il tempo è iniziato un percorso autonomo che ha portato alla costituzione di un vero e proprio partito, che ha come presidente nazionale Maurizio Signorini, odontoiatra, e come presidente nazionale Antonio Gigliotti, direttore di Fiscal Focus (entrambi sono anche fondatori del soggetto politico)
In particolare, dal 22 giugno è stato adottato il simbolo attuale, descritto nello statuto come "composto da più cerchi e semicerchi. Il primo semicerchio è a sinistra e di colore verde, ed inizia con un vertice, per poi allargarsi al centro e concludere con un altro vertice. Unito a questo vi è poi un cerchio di colore bianco, con in alto la scritta PARTITE IVA UNITE, diviso in 4 (quattro) parti uguali da diverse linee rette orizzontali e verticali a formare un mirino, all’intersezione di tali rette c’è un punto di colore grigio. All’interno dello stesso cerchio vi è, sulla destra, un semicerchio di colore rosso, al cui centro è posta, di colore blu, la scritta PIU. Sopra la lettera U, di tale scritta, vi sono numero tre (n.3) figure stilizzate, due uomini ed una donna, a formare un accento. I cerchi ed i semicerchi uniti formano un tricolore verde, bianco e rosso. Un segno di circonferenza di colore blu delimita tutti gli elementi sopra citati".
L'idea del mirino, a dire il vero, era già presente nell'emblema provvisorio, adottato nelle settimane precedenti, quando ancora il nome era Partite Iva italiane unite e il concetto di "Più" stava per essere evocato: in quel caso, il mirino centrava quattro sagome tridimensionali, una delle quali sembrava quasi in posizione di resa, anche se l'idea che si voleva comunicare non era certo questa. Il punto era che, allora come oggi, coloro che hanno dato corpo a questo progetto si sentivano e si sentono nel mirino, oltre che della crisi, di politiche che finiscono per danneggiarli o per non aiutarli a sufficienza. Sono gli stessi esponenti del partito però a precisare che nel simbolo le persone sono "nel loro mirino", nel senso che il Più vuole prendersene cura, ma nello stesso mirino finiscono - e con ben altro esito - "le potenze di fuoco che schiacciano le Partite Iva calpestandone la dignità".
"Partite Iva Unite - si legge nel manifesto ospitato dal sito del partito - è un movimento composto da imprenditori e liberi professionisti che, nell’era Covid 19, caratterizzata dall’incapacità di Governo e opposizione di dare risposte concrete alla crisi economica assolutamente prevedibile a causa del lungo lockdown imposto dall’emergenza sanitaria, si sono dedicati allo studio approfondito dei diversi Dpcm emessi e a costanti confronti incrociati, approdando a soluzioni che, se adottate davvero, potrebbero evitare il fallimento a cui l’Italia è ormai destinata, se non si agisce in fretta a tutela di chi è riuscito a rimanere in attività e delle aziende che nasceranno domani, in un clima di florida visione futura". Più che etichette politiche o ideologiche, coloro che aderiscono a Più puntano a una !politica del fare, attraverso l’uso di capacità, conoscenze e competenze dei singoli, i quali esprimono opinioni concrete in un clima di aperta discussione democratica, in cui la ragione, improntata su ideali di libertà, legalità e eguaglianza possa determinare scelte sagge a beneficio dell’intera società". Una società che si basa, in questa visione, sulla "micro, piccola e media impresa quale motore trainante l’economia del nostro paese, affinché i lavoratori autonomi abbiano gli stessi diritti dei dipendenti": sono le Partite Iva, per chi aderisce al progetto, la vera "spina dorsale dell'Italia", che tuttavia sarebbe stata esclusa dalla progettazione delle strategie per uscire dalla crisi legata alla pandemia. Perché la società sia "giusta", la legge deve essere "realmente uguale per tutti", la tassazione dev'essere "equa, rapportata ai servizi erogati e alla loro qualità" e la politica deve essere "esempio per la società, con medesimo livello di emolumenti e trattamenti pensionistici" e soprattutto con una responsabilità vera per chi la esercita. 
​L'idea è di portare avanti le idee cardine del programma, a partire dall'abrogazione graduale "di tutte le leggi che hanno aggredito e aggrediscono la proprietà privata, il risparmio, il reddito da lavoro e da impresa" o limitino la libera iniziativa economica e dall'eliminazione di istituti come il sostituto d'imposta o la clausola solve et repete; ci sarebbero poi la libertà di scelta in materia previdenziale, la riduzione della spesa pubblica inefficiente e della burocrazia per poi ridurre la pressione fiscale ed elevare le pensioni minime a mille euro, insieme ad altre idee da applicare in materia di giustizia, pubblica amministrazione e "fondo di emergenza" (che ogni Partita Iva costituirebbe per attingere a questo in caso di bisogno). Per fare questo, si potrebbe costruire una rete, uno o più network tra realtà simili (nate soprattutto sotto gli effetti della pandemia, ma lasciando fuori i partiti), aggregandole e sintonizzandosi sulla stessa agenda. ​Ci sarà tempo per farlo, partecipando alle prossime elezioni con il nuovo simbolo, sperando che il mirino inviti qualcuno non a sparare, ma a metterci una croce sopra.

giovedì 5 novembre 2020

Partito Anti Islamizzazione, accordo con la Lega con un occhio al futuro

Pur nella sarabanda di informazioni legate tanto alla situazione da Covid-19 quanto alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti (che ha finito per occupare la quasi totalità del tempo dedicato ai telegiornali), non è comunque sfuggita una notizia che ha trovato spazio soprattutto in Rete. Ieri, in particolare, è stata resa nota la conclusione di un accordo tra la Lega e il Partito Anti Islamizzazione, volto a "rafforzare la collaborazione su temi comuni quali controllo dell’immigrazione e valorizzazione della storia e delle tradizioni dell’Italia e dell’Europa". L'intesa - curata soprattutto dal vicesegretario leghista Andrea Crippa - sarebbe stata stipulata con reciproca soddisfazione di Matteo Salvini ("
Non è sufficiente controllare porti e confini, come la Lega ha dimostrato di saper fare quando era al governo: anche la cronaca di questi giorni ci ricorda che è necessario difendere identità, storia e cultura") e dei vertici di questo partito, che opererà "in uno specifico Dipartimento [della Lega] dedicato alla questione islamizzazione, al fine di mettere questa problematica al centro dell'agenda politica". 
A parlare è Stefano Cassinelli, segretario nazionale del Partito Anti Islamizzazione, noto anche con la sigla Pai, la stessa che figura nel simbolo scelto, avvolta dai "colori della bandiera italiana sfumati", a pennellata (ed è curioso che per le parti testuali sia stato usato il carattere Optima, lo stesso della Lega ormai da molti anni). Cassinelli è segretario del partito fin dalla sua fondazione, che risale al 20 giugno 2017, quando fu fondato a Delebio (So) dallo stesso Cassinelli, da Franco Cabiati (presente per procura e futuro tesoriere) e Kwadzo Klokpah; alla loro si deve aggiungere Bruno Polti, presidente, anche se la figura più nota resta quella del presidente onorario Alessandro Meluzzi, psichiatra con una storia di lunga militanza politica in vari partiti (risultando pure cofondatore dei Cristiano democratici europei con Stefano Pedica) e due legislature all'attivo (eletto con il Polo delle libertà - Fi alla Camera nel 1994 e con il Polo per le libertà - Fi al Senato nel 1996, prima di vari cambi di gruppo riscontrati in quella XIII legislatura). 
Cassinelli rivendica per il Pai un'attività triennale all'insegna di "serietà e rispetto della Costituzione nell'affrontare un tema così delicato", parlando appunto della "anti islamizzazione". Si legge nello statuto che il partito "ha come scopo la salvaguardia della cultura, delle tradizioni e della struttura sociale italiana e si prefigge la conservazione dello stato democratico in Italia e delle libertà civili per ogni uomo e donna a prescindere dalla razza" e che l'azione del Pai "sarà governata dalla Costituzione Italiana e dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo". Sempre l'articolo 2 di quel documento precisa che tra i principali obiettivi del partito figurano "la garanzia della sicurezza per i cittadini rispetto alla dilagante criminalità, la gestione del fenomeno dell’immigrazione tenendo in considerazione la situazione mondiale ma avendo per priorità l’interesse nazionale ed europeo, la valorizzazione personale e in forma organizzata d’impresa, la marginalizzazione dell’intervento pubblico nell’economia, nei servizi e nelle relazioni sociali e la piena applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale nonché il cambiamento in senso meritocratico della società basato sui valori delle pari opportunità e il libero mercato e quanto altro contenuto nel programma". 
Al di là delle previsioni statutarie, nel sito si legge che il Pai nasce come "partito di scopo, lontano dalla tradizionale collocazione partitica di destra o sinistra" e impegnato essenzialmente a dare attuazione al proprio programma; invoca "quesiti referendari" per permettere agli italiani di esprimersi sui "grandi temi etici e morali" (senza che siano i parlamentari a decidere, il che comunque è problematico in una democrazia indiretta e di natura parlamentare...) e precisa di non essere "interessato ad occupare poltrone in enti e società pubbliche e non partecipa ad elezioni amministrative locali", pur puntando a "creare le condizioni normative finalizzate ad una buona amministrazione anche a livello locale". Si dice chiaramente che obiettivo del Pai è "ritornare a uno Stato etico, dalla parte dei cittadini e che non sia percepito come un avversario" o come un soggetto che dice una cosa e ne faccia un'altra oppure che cambia spesso idea.
Le idee del Partito anti islamista sono condensate nei nove punti del programma, che si apre con il contrasto di "ogni forma di radicalizzazione dell’Islam da cui nascono gli estremismi ed ogni tentativo di sottomettere la libertà sociale e culturale occidentale" (chiedendo pure "predicazione obbligatoriamente in italiano, certificazione della provenienza dei fondi che finanziano moschee e centri culturali islamici", nonché il divieto dello svilimento della donna o di azioni come la macellazione halal). A ciò è collegato un punto specifico sull'immigrazione (chiedendo "flussi di accesso definiti e contrasto fermo al fenomeno della clandestinità con espulsioni e 'rimpatri assistiti' nei paesi di origine" e provvedendo allo stesso tempo a interventi nei paesi del terzo e quarto mondo, occupandosi direttamente degli investimenti, senza dare soldi agli stati) e il proposito di sanzionare con l'espulsione perpetua dall'Italia (e la carcerazione per almeno un quinquennio) per tutti gli stranieri che commettano reati in Italia. 
Altre voci sono dedicate alla sicurezza (con un aumento consistente del personale delle Forze dell'ordine e della loro dotazione di mezzi, per migliorare il controllo del territorio e la garanzia della giustizia, nonché con una lotta alla diffusione della droga tra i minori), all'economia (con il ridimensionamento dell'attività imprenditoriale pubblica e il sostegno a quella privata), all'ambiente (da tutelare anche con "tasse sulle importazioni di prodotti provenienti da paesi che producono un alto tasso di inquinamento", così da proteggere anche le produzioni locali), alle persone con disabilità (che vanno tutelate con maggiori agevolazioni, ma occorrono anche controlli severi per eliminare le false certificazioni) e alla stessa classe politica, che non può tradire le istituzioni nello svolgimento dei propri compiti: "per politici e amministratori pubblici dovrà essere introdotto un sistema giudiziario particolare che preveda un processo rapido (6 mesi per arrivare alla sentenza dall’avviso di garanzia) e in caso di condanna pene triplicate rispetto ai cittadini e l’esclusione perpetua da incarichi pubblici e da società partecipate".
Attualmente la pagina Facebook del Pai conta poco più di 24mila like e risulta che siano 500 le adesioni al partito, ma questo ovviamente non significa che il simbolo tricolore finirà sulle schede elettorali: l'accordo con la Lega fa pensare piuttosto a una futura ospitalità di esponenti del Pai all'interno delle liste leghiste (anche se ovviamente sarà sempre possibile integrare l'emblema della Lega - ora più vuoto che in passato - con altri elementi come appunto il logo del Pai (del resto è già accaduto nel 2014, in occasione delle elezioni europee, con la pulce di Die Freiheitlichen).

mercoledì 4 novembre 2020

Nuovo simbolo "armato" per i Forconi, qualcosa si muove?

La parola "partito" per i più in politica è squalificata, al punto da non volerla più usare. Eppure, anche assai di recente, qualcuno non la disdegna e, anzi, la sceglie proprio per marcare il passaggio rispetto alla natura di movimento. Il 30 ottobre, infatti, risulta depositato come marchio il nuovo simbolo del Partito nazionale 9 dicembre Forconi, fondato in realtà già il 6 aprile 2017 e guidato da Francesco Puttilli come presidente: si tratta dell'evoluzione del Movimento 9 dicembre Forconi, fondato nel 2015 dallo stesso Puttilli, da Adolfo Bottiglione (cofondatore nel 2017 anche del nuovo soggetto), nonché da Orlando Iannotti e Danilo Calvani (quest'ultimo tuttavia nel 2017 era stato escluso da quel primo soggetto strutturato, non era parte del nuovo Partito nazionale e alla fine dell'estate 2018 si era visto anche inibire dal Tribunale di Latina l'uso del nome "9 dicembre Forconi" e del simbolo allora in uso, in quanto marchio registrato proprio da Puttilli a marzo del 2017. 
Anche questa volta è stato Puttilli, in qualità di presidente del partito, a depositare la richiesta di registrazione del nuovo emblema come segno distintivo; per l'occasione si è chiesto di registrare il simbolo per le classi 41 (Educazione; formazione; divertimento; attività sportive e culturali) e 45 (Servizi giuridici; servizi di sicurezza per la protezione di beni e di individui; servizi personali e sociali resi da terzi destinati a soddisfare necessità individuali) della classificazione di Nizza. 
Il simbolo precedente
Già la descrizione allegata alla domanda dà l'idea della maggiore complicazione grafica del nuovo segno, a dispetto di una composizione assai meno colorata rispetto al contrassegno precedente: "un cerchio bianco contornato da un anello sfumato in grigio con la scritta 'Partito nazionale 9 dicembre Forconi'. All'interno del cerchio nella metà inferiore la sagoma in colore grigio/azzurro di 7 persone stilizzate che impugnano tre forconi ed un rastrello. La parte centrale del cerchio è caratterizzata da un braccio destro teso che impugna un forcone entrambi di colore nero. Due spighe concentriche di colore giallo sono tangenti alla circonferenza esterna del cerchio bianco alla base del quale appare la scritta 'per la sovranità'".
Se dunque nel simbolo del 2017 non c'era più nessun forcone (vero o stilizzato), questa volta lo strumento tipico degli agricoltori torna in modo prepotente nella grafica, ma stavolta non stilizzato: in primo piano, infatti, c'è addirittura l'immagine decisamente forte di quel braccio che impugna il forcone e lo tiene innalzato, resa ancora più d'impatto grazie all'uso dominante del colore nero; l'unica significativa eccezione riguarda una sorta di anello di corda a trama tricolore. Anche il fondo del simbolo, molto più chiaro rispetto ai colori rossi e verdi del passato, lascia vedere tre forconi e - come recita la descrizione - persino un rastrello, quasi a dare l'idea di un popolo che arriva alla lotta e alla manifestazione senza abbandonare gli strumenti di lavoro e senza cambiare il loro modo di essere (a costo che il loro equipaggiamento appaia un po' precario). 
Simbolo depositato nel 2018
Se però il forcone qui appare più come un'arma che come un attrezzo, il mondo della campagna è richiamato anche - e in modo certamente più pacifico - dalle due spighe, che di fatto si collocano tra il forcone di primo piano e il gruppo posto sul fondo. Appare piuttosto curiosa, infine, la corona grigia sfumata che, nella parte inferiore, addirittura priva il simbolo di un "confine", lasciato di fatto intendere dall'espressione "per la Sovranità" collocata ad arco nella parte inferiore dell'emblema. 
Vale peraltro la pena di ricordare che il segno adottato nel 2017 è diverso tanto dal contrassegno elettorale visto nelle bacheche del Viminale prima delle elezioni politiche del 2018 (a fondo nero, con tanto di nastrino blu, poi non utilizzato anche per mancanza della dichiarazione di trasparenza), quanto da quello depositato in vista delle elezioni europee del 2019 (con lo sfondo tutto color porpora e le scritte bianche). 
In entrambi i casi gli emblemi erano stati depositati al Ministero da Orlando Iannotti; ma in seguito si sono visti anche altri emblemi, compreso uno con le spighe e una bandiera tricolore al vento: lo si è visto, tra l'altro, nel 2018 a Salcito (CB), nell'affollatissima elezione che aveva visto 11 liste affrontarsi in un comune che aveva 650 elettori. Bisogna dire che non è scontato che si tratti dello stesso soggetto politico di cui si sta parlando ora, se non altro perché - anche a causa di una moltiplicazione di siti e domini - non è semplice avere notizie precise su chi si candidi e in nome di quali leader lo faccia. La scelta del nuovo simbolo, in ogni caso, sembra preludere a un tentativo di (ri)lancio su scala nazionale della forza politica  Non c'è ovviamente la certezza che il contrassegno finisca sulle schede (e che ci finisca così, soprattutto con riguardo alle sfumature della corona circolare, decisamente poco adatte alla stampa); intanto però, consumati tutti i turni elettorali di quest'anno, ci si è già preparati agli appuntamenti del 2021.

domenica 1 novembre 2020

Dopo Carbone e Posina, c'è futuro per le elezioni "sotto i mille" e le licenze retribuite?

Il caso di 
Carbone (Pz), non appena è stato divulgato dai media per la particolarità di vedere affrontarsi due sole liste interamente "forestiere" (dopo l'esclusione dell'unico gruppo locale, arrivato in ritardo a presentare le candidature), è subito apparso delicato e foriero di sviluppi rilevanti. Quando poi, esaurito in fretta lo scrutinio, il neosindaco si è dimesso insieme a tutti i consiglieri della lista a poche manciate di ore dalla loro proclamazione - portando alla decadenza degli altri eletti, secondo il principio simul stabunt simul cadent, e alla nomina di un commissario - si è avuta la sensazione di essere di fronte a un punto di non ritorno, come se qualcosa non potesse più andare come prima. 
Le rapide dimissioni dei vincitori hanno dimostrato che, almeno da parte di quella lista e del suo candidato sindaco, non c'era l'intenzione di partecipare per vincere o per ottenere un buon risultato e, in realtà, neanche di provare ad amministrare dopo l'inattesa (e forse indesiderata) vittoria. Si è pensato che ci fossero altre ragioni alla base della candidatura, magari diverse dall'idea di effettuare un'osservazione partecipante della campagna elettorale. Già prima del voto si era richiamata l'ormai nota norma che prevede un'aspettativa retribuita di un mese per i candidati appartenenti alle forze di polizia, spiegando in parte una partecipazione di liste in apparenza anomala; dopo le dimissioni e la conferma che vari candidati della lista "vincitrice suo malgrado" appartenevano alle forze di polizia, i sospetti sono diventati più fondati. Da anni chi studia i fenomeni elettorali o li osserva con curiosità pensava che dietro la presentazione di liste in microcomuni semisconosciuti, senza bisogno di firme e senza collegamenti con il territorio, ci fossero vantaggi legati alla semplice campagna (e vari articoli cartacei e online hanno denunciato la cosa); non era mai capitato, però, che il quadro fosse chiaro al punto da compromettere seriamente quel fenomeno in futuro. Già, perché il caso di Carbone, diventato noto per le sue particolarità e per i comportamenti (leciti, va detto) dei suoi protagonisti, ha attirato l'attenzione dei mezzi di comunicazione, del governo e del legislatore, nonché di chiunque ritenga ingiuste quelle condotte (e anche dei colleghi delle forze di polizia, che magari prima non avevano notato quelle candidature "senza intenzione" o non le avevano censurate pur credendole inopportune): con tanti occhi puntati improvvisamente addosso, chi pensasse di candidarsi solo per sfruttare trenta giorni di aspettativa ora potrebbe cambiare idea, per non rischiare lo stigma ed eventuali sanzioni.
Non bastasse questo, il caso di Carbone ha anche fatto scoprire il fenomeno delle liste presentate "sotto i mille" a un pubblico più ampio rispetto ai #drogatidipolitica: attirato da alcuni dei suoi tratti curiosi e a volte razionalmente inspiegabili (come Massimo Bosso e io abbiamo cercato di spiegare nel nostro libro M'imbuco a Sambuco!), qualcuno è rimasto colpito da certe anomalie più o meno vistose e ha cercato di indagare, anche "sul posto". Si spiega così, tra l'altro, l'interessamento da parte di Striscia la notizia, che dal 28 settembre ha dato il via a un'inchiesta (curata da Pinuccio e dal suo staff): partita ovviamente dal caso eclatante di Carbone, "Candidopoli" si è allargata oltre i confini della presentazione di liste da parte delle forze di polizia (tentando anche di tracciare un identikit grafico delle liste più interessate da questo fenomeno) e si è interessata a vicende legate ad altre liste in diversi comuni, sempre sotto i mille abitanti, quando ha ritenuto che vi fossero delle anomalie. 
In questo modo, tra l'altro, è venuto alla luce il caso di Posina, comunello del vicentino (di cui Massimo Bosso si era già occupato, per altre ragioni, nel suo consueto resoconto sui comuni "sotto i mille"), che alle elezioni aveva visto partecipare tre liste, compresa quella presentata da L'altra Italia (dal 2019 molto impegnata a presentare candidature anche nei comuni più piccoli). Questa lista con 17 voti validi su 317 ha eletto un consigliere di minoranza: dopo le dimissioni della candidata sindaca per motivi personali, tuttavia, sono arrivate le dimissioni di altri sette candidati consiglieri (includendo coloro che non avevano preso nemmeno un voto) e - almeno alla data del 26 ottobre - non era pervenuta alcuna risposta dalle persone collocate agli ultimi due posti in lista. Fin qui i fatti; a ciò si aggiungono gli esiti della citata inchiesta di Striscia, in base alla quale molte delle persone candidate - tutte originarie della provincia di Foggia - negano di avere mai accettato la candidatura e di aver firmato davanti a un pubblico ufficiale, come pure negano di conoscere la lista in cui sarebbero state candidate ed elette.

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Non è questo il luogo adatto per accertare come siano andate davvero le cose, tanto a Carbone quanto a Posina (il compito toccherà alle autorità investite delle questioni); qui però è giusto occuparsi delle norme giuridiche che, con la loro applicazione, hanno reso possibile questo scenario. Anche perché delle due vicende elettorali si è discusso anche alla Camera dei Deputati venerdì mattina: in aula si è discussa infatti un'interpellanza urgente (la n. 2-00975) presentata dai deputati di Forza Italia Pierantonio Zanettin e Mariastella Gelmini e rivolta alla ministra dell'interno Luciana Lamorgese. Con quell'atto, i due deputati forzisti hanno ricordato che il giuramento del sindaco e la nomina della giunta del comune di Posina sono avvenuti "quasi fuori tempo massimo" proprio per le difficoltà legate alle "dimissioni/rinunce a catena" dei candidati della lista L'altra Italia e hanno notato che le vicende di Posina ("un'inedita situazione per la provincia berica") sono in parte simili - almeno per le dimissioni in massa - a quelle che hanno interessato Carbone, per cui Zanettin e Gelmini volevano sapere se tra i candidati della "lista dimissionaria" vi fossero "dipendenti del Ministero dell'interno o di altre amministrazioni pubbliche", valutando nel caso l'opportunità di una "verifica sul piano disciplinare".
Cosa ha spinto Zanettin - che è avvocato ed è anche della provincia di Vicenza, la stessa di Posina - a presentare l'interpellanza? "Lo stimolo - spiega il deputato, appositamente interpellato da Isimbolidelladiscordia.it - è partito da quanto accaduto a Posina, questo bellissimo, ma sperduto paesino, di soli 600 abitanti, della montagna vicentina". La presentazione di quella lista, tutta di candidati del foggiano, e le dimissioni in sequenza dei suoi vari candidati ha fatto sì che "il consiglio comunale di Posina oggi operi con un consigliere comunale in meno. L'ho considerato uno sfregio alla nostra comunità. Il Veneto si caratterizza per il buon governo amministrativo, anche nei piccoli comuni. Non siamo abituati a queste 'furbate'". Fatti simili erano una novità per il deputato o ne era già a conoscenza, magari per aver sentito parlare di casi precedenti di candidature "anomale" nei comuni "sotto i mille"? A questa domanda specifica, Zanettin ha risposto di avere appreso dai giornali di quanto era accaduto a Carbone in Basilicata: "Francamente non ero a conoscenza dell’abuso, che taluni fanno, dell'aspettativa retribuita: è stata una sorpresa e non mi risultano precedenti nella provincia di Vicenza. Parlando con alcuni colleghi parlamentari, ho capito invece che nelle regioni del sud il fenomeno è abbastanza frequente e tollerato". Evidentemente il Veneto - che comunque presenta un certo numero di comuni al di sotto dei mille abitanti - era stato finora abbastanza immune dalla presentazione di liste meritevoli di maggior attenzione in quelle piccole località.
L'interpellanza urgente, presentata lunedì 26 ottobre, è approdata in aula a Montecitorio venerdì: a Zanettin, che l'ha illustrata, ha risposto il sottosegretario all'interno Achille Variati, anch'egli vicentino (e presidente della provincia dal 2014 al 2018). Nell'illustrazione, Zanettin ha fatto espresso riferimento al caso di Posina ("un piccolissimo comune, un piccolo mondo antico incastonato tra le Prealpi venete, che non è stato travolto dal turismo di massa", in cui è dunque "abbastanza strano che una lista composta da candidati tutti provenienti dalla provincia di Foggia si candidi") e alle dimissioni a catena che hanno provocato "problemi legali, burocratici e quant'altro, e il ritardo nell'insediamento del sindaco", dando anche conto delle ulteriori rivelazioni emerse nelle varie puntate di Striscia la notizia (che non avrebbero rilevanza solo amministrativa). Senza entrare ulteriormente in queste vicende, tuttavia, Zanettin ha ribadito le sue domande, generate soprattutto dall'accostamento alla vicenda di Carbone, chiedendo dunque se la candidata sindaca dimessasi fosse dipendente statale e godesse di qualche aspettativa, se nel caso fossero stati presi provvedimenti ("questo è quanto meno abuso del diritto, ove fosse un dipendente dello Stato che vuole utilizzare l'aspettativa retribuita per non svolgere attività di propaganda e di elezione") e se il Governo avesse intenzione di proporre modifiche normative per evitare nuovi scandali.
Nella sua risposta, il sottosegretario Variati ha ricordato appunto le norme che hanno involontariamente concorso agli esiti delle vicende elettorali di Carbone e Posina: l'art. 3 della legge n. 81/1993 (in base al quale "Nessuna sottoscrizione è richiesta per la dichiarazione di presentazione delle liste nei comuni con una popolazione inferiore ai 1.000 abitanti", per cui "sono gli stessi candidati che assumono, di fatto - anche nella responsabilità personale - la veste di presentatori delle singole liste attraverso l'accettazione della candidatura") e l'articolo 81, comma 2, della legge n. 121/1981 (in base al quale gli appartenenti alle Forze di Polizia candidati ad elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni, dal momento dell'accettazione della candidatura per tutta la durata della campagna elettorale). "Con la rinuncia di tutti i candidati della lista in argomento, il relativo consiglio è rimasto quindi non del tutto a posto, non del tutto completo" ha segnalato Variati, notando che si è ritenuto impossibile assegnare il seggio vacante alle altre liste, "in assenza di riferimenti normativi [...] che prevedano l'assegnazione ad una delle rimanenti liste" (risposta che qui si condivide). Secondo il sottosegretario, dunque, "le vicende della lista L'altra Italia [...] hanno determinato un vulnus alla rappresentanza della comunità di Posina di una unità in seno al suo consiglio. Questo rappresenta per me [...] un danno grave e un vero oltraggio ai cittadini di Posina".
Il paragone con la vicenda di Carbone, pur prospettato dall'interpellante, non appare tuttavia opportuno: lo stesso sottosegretario Variati ha precisato che nessun soggetto candidato nella "lista dimissionaria" a Posina "è risultato ricoprire incarichi pubblici, né essere appartenente alle Forze di Polizia o alle Forze armate, o comunque dipendente della pubblica amministrazione". Diverso è invece il caso di Carbone, come ha precisato lo stesso Variati: 
nei confronti di otto appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato che si sono lì, in quel comune, candidati, e hanno successivamente rassegnato le dimissioni dalla carica, è stato disposto l'avvio di un procedimento disciplinare. Il comportamento assunto [...] dai predetti all'esito della consultazione elettorale è stato ritenuto deontologicamente non corretto, per avere gli stessi disatteso le aspettative riposte in loro innanzitutto dagli elettori, in virtù della nota appartenenza alla Polizia di Stato: comportamento che ha creato un grave danno all'immagine e al prestigio dell'amministrazione, anche per essere stato ripreso da media locali e nazionali. Per tali motivi l'avviato procedimento disciplinare, per la gravità delle condotte che si prospettano, potrà configurare una sanzione superiore alla mera deplorazione, quale la sospensione o la destituzione dal servizio.
Zanettin si è detto soddisfatto della risposta di Variati ("lo conosco da trent'anni e lo conosco come amministratore serio e rigoroso: nelle parole che egli ha pronunciato oggi in quest'Aula riconosco quello spirito di impegno civico che ha contraddistinto la sua esperienza politica, credo abbia contraddistinto anche la mia", entrambe iniziate proprio dai comuni e dal territorio vicentino), ma ha riconosciuto che chi si candida in un comune senza avere davvero "un interesse [...] tangibile a quella candidatura" di fatto rappresenta un problema, che - come si è visto - non era stato avvertito finora nel vicentino, ma era ben noto da anni altrove.
Che fare dunque? Variati ha precisato che il Viminale "non esclude l'opportunità di rivedere" la norma che attualmente prevede l'aspettativa retribuita per le persone appartenenti alle forze di polizia che si candidano, "intervenendo in un'ottica di uniformità di trattamento di tutto il pubblico impiego" (per nessuna categoria di dipendenti pubblici, infatti, è previsto un regime di favore paragonabile a questo). Nella stessa direzione va un progetto di legge presentato dallo stesso deputato Zanettin (il n. 2728), che punta semplicemente a sostituire le parole "aspettativa speciale con assegni" con l'espressione "aspettativa non retribuita". L'idea, messa in luce nella relazione, è di continuare a permettere l'accesso alle cariche elettive "in condizioni di eguaglianza" (leggendo in questo caso l'art. 51 della Costituzione come norma che non consente al personale delle forze di polizia di trarre vantaggio in campagna elettorale dalla sua posizione), senza che però più di qualcuno possa ancora fruire "della norma e delle casse dello Stato, solo per potersi vedere garantito un mese di retribuzione senza prestare servizio". 
In aula Zanettin ha aggiunto che è possibile "ipotizzare insieme altre soluzioni, meno penalizzanti per l'intero comparto del settore": a parere di chi scrive, non si vede il motivo di un trattamento di favore rispetto al pubblico impiego, ma lo stesso deputato - espressamente richiesto di un parere per questo sito - ha precisato "Quello oggi previsto per le forze dell'ordine mi pare un privilegio ingiustificato". Nella sua replica finale, il parlamentare ha comunque sottolineato la necessità di trovare soluzioni normative per impedire episodi "così gravi, che macchiano [...] l'onore e il decoro delle Forze di Polizia" e per tutelare le stesse istituzioni comunali.
Tanto Zanettin quanto Variati (e, attraverso di lui, il Viminale) si sono dunque dichiarati disponibili a rivedere la norma sulle aspettative retribuite alle forze di polizia: ciò consentirebbe di affrontare una parte significativa del problema (dunque quella legata alla presenza di appartenenti alla Polizia di Stato, Polizia penitenziaria, all'Arma dei Carabinieri e alla Guardia di Finanza, nonché alla polizia locale), ma resterebbe la possibilità di presentare facilmente liste senza alcun legame con il territorio e con adempimenti formali ridotti al minimo, vista la non necessità di raccogliere le sottoscrizioni a sostegno delle liste nei comuni "sotto i mille". Si è visto che a volte i problemi possono venire già da questo (e a volte anche, bisogna dirlo, dall'insufficiente controllo da parte delle commissioni elettorali incaricate di vagliare le candidature), ma nessuno ora sembra aver discusso anche la norma che permette di presentare senza firme candidature nei microcomuni. A una nostra domanda mirata, Zanettin ha confermato l'impressione: "Nei piccolissimi comuni, in cui non è facile trovare candidature, e l’impegno amministrativo si traduce in autentico volontariato, è giusto che la candidatura a sindaco non necessiti delle firme dei cittadini". Si tratta di una posizione da rispettare, anche per la chiarezza con cui è stata espressa; non è in effetti priva di risvolti problematici (oggettivamente anche l'idea che elettrici ed elettori di un piccolo comune si trovino di fronte una lista del tutto sconosciuta ha qualcosa di "anomalo"), specie in situazioni limite, che in teoria dovrebbero restare dei "casi di scuola" ma alle volte diventano dannatamente reali e concrete. Si è già visto, d'altra parte, che nel 1993 era stata eliminata anche la richiesta di sole dieci firme per non complicare troppo la presentazione di candidature in paesi così piccoli. Un sistema perfetto e senza difetti, dunque, non esiste: correggere uno di questi ultimi sarebbe già un risultato rilevante.