In un ipotetico elenco dei giorni chiave della politica italiana, per nessuna ragione dovrebbe mancare il 10 ottobre 1990; i fanatici della precisione potrebbero addirittura fissare l'ora, le 19 e 12 (come annotato sulla Repubblica da Giampaolo Pansa). Esattamente 29 anni fa, infatti, il segretario del Partito comunista italiano Achille Occhetto mostrava a una folla incontenibile di giornalisti e fotografi il nuovo simbolo che la sua mozione avrebbe proposto per il partito che pochi mesi dopo avrebbe celebrato a Rimini il suo XX congresso: l'ultimo con quel nome. Il 3 febbraio 1991 la maggioranza dei delegati decise di adottare la nuova grafica e il nuovo nome che essa conteneva, Partito democratico della sinistra; per capire in pieno il senso di quel passaggio, però, bisogna parlare con chi a quel nuovo corso ha dato corpo, forma e colore.
Bruno Magno, classe 1942, di Manfredonia, era uno dei membri dell'ufficio grafico del Pci quando in un giorno di giugno del 1990 Walter Veltroni gli chiese - pregandolo di mantenere una discrezione totale, oltre i limiti dell'immaginabile e perfino del ragionevole - di disegnare il nuovo emblema del partito. Un incarico drammaticamente delicato, che Magno portò a termine nel giro di qualche mese, da artigiano paziente e consapevole della grafica politica, profondendo energie in quantità incalcolabile. In seguito, alle dipendenze del Pds, dei Ds e (per poco) del Pd, Magno si è dovuto occupare anche di altri simboli (da quello dei Progressisti, la "gioiosa macchina da guerra" dalla fine ingloriosa del 1994, a quello di Uniti nell'Ulivo, per le europee di dieci anni dopo): nessuno di essi porta però con sé il carico di valori ed emozioni di quell'albero dalla grande chioma verde - identificato con una quercia, anzi la Quercia, benché all'inizio non fosse stato pensato così - in cui avrebbe dovuto riconoscersi il popolo che fino a quel momento si era ritrovato nello sventolio della doppia bandiera con "la falce e martello con la stella d'Italia" (alla Togliatti). Segni che erano rimasti, ma in miniatura (e, lo si vedrà, per ragioni non solo ideali).
La genesi di quel simbolo, va detto subito con franchezza, l'aveva già raccontata dieci anni fa Luca Telese, nel suo libro Qualcuno era comunista, pubblicato da Sperling & Kupfer. Il capitolo Bozzetti & segreti. Storia dell'uomo che inventò la Quercia (e non solo) narra proprio il percorso che ha portato al simbolo che ha incarnato - assieme a frasi, gesti e immagini - la Svolta della sinistra (con conseguenze e ferite ancora tangibili): lo fa bene, con passione, con una prosa coinvolgente e che sa dare conto anche della cifra personale e artistica - sì, artistica, termine appropriatissimo - di Magno. Volendo, per ripercorrere la nascita della Quercia, ci si poteva limitare a riprendere ampi stralci di quanto Telese aveva scritto nel 2009: l'esito sarebbe stato già soddisfacente. Eppure, proprio la lettura di quelle belle pagine aveva generato domande, curiosità, nuovo desiderio di conoscere e, ancor più che in passato, sarebbe stato bello farlo coi propri occhi e appagando anche il senso del tatto; in più, anche altri simboli, pur essendo successivi all'arco di tempo 1989-1991 considerato da Qualcuno era comunista, meritavano di essere considerati con una certa attenzione.
Per questo, chi scrive ha deciso di mettersi sulle tracce di chi per tanto tempo aveva saputo (e insegnato a) Vedere a sinistra, che è anche il titolo del libro di Bruno Magno, pubblicato da Editori Riuniti nel 1991, poco dopo la svolta del Pci, e oggi quasi introvabile, se non nei circuiti delle librerie antiquarie o sui siti per acquistare libri "di seconda mano". Grazie a qualche colpo di fortuna e ad alcune indicazioni giuste - e, ancor prima, cortesi - l'incontro con Magno si è realizzato: ne è nata una lunga chiacchierata, andata ben oltre i simboli, ma con l'impagabile possibilità di toccare davvero con mano ogni passaggio. Perché Bruno Magno ha conservato (e a volte persino salvato) tutto. Davvero tutto. Ciò che segue è il resoconto fedele di questa "conversazione a sinistra", necessariamente lunga - chiedo perdono sin d'ora - e che in più di un momento ha sfiorato la commozione (di entrambi): per gli episodi narrati anche da Telese si rimanderà giustamente di volta in volta al suo libro; per tutto il resto, buona lettura e - si spera - buone emozioni.
Bruno Magno, classe 1942, di Manfredonia, era uno dei membri dell'ufficio grafico del Pci quando in un giorno di giugno del 1990 Walter Veltroni gli chiese - pregandolo di mantenere una discrezione totale, oltre i limiti dell'immaginabile e perfino del ragionevole - di disegnare il nuovo emblema del partito. Un incarico drammaticamente delicato, che Magno portò a termine nel giro di qualche mese, da artigiano paziente e consapevole della grafica politica, profondendo energie in quantità incalcolabile. In seguito, alle dipendenze del Pds, dei Ds e (per poco) del Pd, Magno si è dovuto occupare anche di altri simboli (da quello dei Progressisti, la "gioiosa macchina da guerra" dalla fine ingloriosa del 1994, a quello di Uniti nell'Ulivo, per le europee di dieci anni dopo): nessuno di essi porta però con sé il carico di valori ed emozioni di quell'albero dalla grande chioma verde - identificato con una quercia, anzi la Quercia, benché all'inizio non fosse stato pensato così - in cui avrebbe dovuto riconoscersi il popolo che fino a quel momento si era ritrovato nello sventolio della doppia bandiera con "la falce e martello con la stella d'Italia" (alla Togliatti). Segni che erano rimasti, ma in miniatura (e, lo si vedrà, per ragioni non solo ideali).
La genesi di quel simbolo, va detto subito con franchezza, l'aveva già raccontata dieci anni fa Luca Telese, nel suo libro Qualcuno era comunista, pubblicato da Sperling & Kupfer. Il capitolo Bozzetti & segreti. Storia dell'uomo che inventò la Quercia (e non solo) narra proprio il percorso che ha portato al simbolo che ha incarnato - assieme a frasi, gesti e immagini - la Svolta della sinistra (con conseguenze e ferite ancora tangibili): lo fa bene, con passione, con una prosa coinvolgente e che sa dare conto anche della cifra personale e artistica - sì, artistica, termine appropriatissimo - di Magno. Volendo, per ripercorrere la nascita della Quercia, ci si poteva limitare a riprendere ampi stralci di quanto Telese aveva scritto nel 2009: l'esito sarebbe stato già soddisfacente. Eppure, proprio la lettura di quelle belle pagine aveva generato domande, curiosità, nuovo desiderio di conoscere e, ancor più che in passato, sarebbe stato bello farlo coi propri occhi e appagando anche il senso del tatto; in più, anche altri simboli, pur essendo successivi all'arco di tempo 1989-1991 considerato da Qualcuno era comunista, meritavano di essere considerati con una certa attenzione.
Per questo, chi scrive ha deciso di mettersi sulle tracce di chi per tanto tempo aveva saputo (e insegnato a) Vedere a sinistra, che è anche il titolo del libro di Bruno Magno, pubblicato da Editori Riuniti nel 1991, poco dopo la svolta del Pci, e oggi quasi introvabile, se non nei circuiti delle librerie antiquarie o sui siti per acquistare libri "di seconda mano". Grazie a qualche colpo di fortuna e ad alcune indicazioni giuste - e, ancor prima, cortesi - l'incontro con Magno si è realizzato: ne è nata una lunga chiacchierata, andata ben oltre i simboli, ma con l'impagabile possibilità di toccare davvero con mano ogni passaggio. Perché Bruno Magno ha conservato (e a volte persino salvato) tutto. Davvero tutto. Ciò che segue è il resoconto fedele di questa "conversazione a sinistra", necessariamente lunga - chiedo perdono sin d'ora - e che in più di un momento ha sfiorato la commozione (di entrambi): per gli episodi narrati anche da Telese si rimanderà giustamente di volta in volta al suo libro; per tutto il resto, buona lettura e - si spera - buone emozioni.
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"Bruno Magno, quello della Quercia": le è capitato spesso di sentirsi etichettato così, nel corso degli anni?
In effetti è capitato e devo dire che mi ha dato anche un po' fastidio: la Quercia non è tra le cose più belle che io abbia potuto fare ed essere ricordato essenzialmente per questo o solo per questo mi ha un po' disturbato, diciamo, visto che ho fatto molte altre cose, essendo stato parte dell'ufficio grafico del Pci dal 1972 fino alla fine della sua esistenza politica e avendo poi continuato a lavorare per il Pds e per i Ds.
Trentacinque anni, dunque.
Trentacinque anni, dunque.
Sì, anche se in realtà per alcuni mesi ho continuato a lavorare per il Pd: alcuni funzionari dei partiti che hanno dato luogo a quell'esperienza sono passati a lavorare per il nuovo partito e io ero tra questi, come responsabile dell'ufficio grafico. Ho poi continuato a collaborare per vari anni con l'Associazione Enrico Berlinguer [che riunisce tutte le fondazioni costituite in Italia per salvaguardare il patrimonio culturale e materiale che fu del Pci, ndb].
Un impegno davvero lungo e iniziato presto...
Vede, io sono pugliese e venni a Roma per studiare architettura, frequentando per alcuni anni la facoltà della Sapienza, a Valle Giulia; a un certo punto però scoprii un corso superiore di comunicazione visiva, tema per cui ho avuto sempre un certo interesse. Mi iscrissi e frequentai dal 1968 al 1971. Durante il corso, visto che anch'io, come lei, sono un malato di politica, mi diedi ad alcune esercitazioni basate proprio sulla politica: feci delle ricerche grafiche basate sulla testata dell'Unità, tanto per non sbagliare. Conobbi poi un giornalista dell'Unità che mi chiese di fargli vedere quel che facevo, così andai in via dei Taurini dove c'era la tipografia del quotidiano: videro i miei lavori e mi chiesero di aiutarli come impaginatore di notte, per coprire i turni di chi andava in ferie. Dopo qualche mese, qualcuno mi segnalò in direzione al Pci: Gino Galli, viceresponsabile della propaganda, volle vedere i miei lavori e mi propose qualche collaborazione, poi sono rimasto sempre là.
Praticamente lei ha vissuto al Bottegone...
Eravamo al sesto piano di Botteghe Oscure, l'ultimo: avevo una stanza con vista sul Campidoglio, dall'altra parte c'era la vista sull'ex ghetto. Quando arrivai, nel 1972, l'ufficio grafico aveva tra l'altro una sede particolare: quel sesto piano di fatto era un piano rientrato, con un terrazzo e uffici distribuiti sui lati di un lungo corridoio. In fondo a quel corridoio c'erano due stanze che erano state l'appartamento di Palmiro Togliatti: lì era l'ufficio grafico. Dopo qualche tempo ci trasferimmo in una stanza molto più grande, anche perché nel frattempo all'ufficio grafico eravamo cresciuti di numero.
Cosa voleva dire lavorare per la grafica del Pci in quegli anni, per molti versi non certo facili?
Forse sono stato fortunato: non ho mai avuto grandi problemi nel mio lavoro. Si può pensare che fosse difficile farsi approvare certe proposte, certi bozzetti da dirigenti di quel livello...
... al di là della grana delle tessere, che lei ha raccontato a Telese in Qualcuno era comunista...
Eravamo al sesto piano di Botteghe Oscure, l'ultimo: avevo una stanza con vista sul Campidoglio, dall'altra parte c'era la vista sull'ex ghetto. Quando arrivai, nel 1972, l'ufficio grafico aveva tra l'altro una sede particolare: quel sesto piano di fatto era un piano rientrato, con un terrazzo e uffici distribuiti sui lati di un lungo corridoio. In fondo a quel corridoio c'erano due stanze che erano state l'appartamento di Palmiro Togliatti: lì era l'ufficio grafico. Dopo qualche tempo ci trasferimmo in una stanza molto più grande, anche perché nel frattempo all'ufficio grafico eravamo cresciuti di numero.
Cosa voleva dire lavorare per la grafica del Pci in quegli anni, per molti versi non certo facili?
Forse sono stato fortunato: non ho mai avuto grandi problemi nel mio lavoro. Si può pensare che fosse difficile farsi approvare certe proposte, certi bozzetti da dirigenti di quel livello...
... al di là della grana delle tessere, che lei ha raccontato a Telese in Qualcuno era comunista...
Manifesto, 1986 (da Vedere a sinistra) |
Era più facile avere delle idee o sviluppare idee suggerite da altri?
Manifesto, 1984 (da Vedere a sinistra) |
Parlava della pubblicità: per la sua esperienza, quando entra nella comunicazione politica, ammesso che allora la si potesse chiamare così e non propaganda?
Immagine tratta dalla Rete |
Un caso decisamente famoso, anche perché più di qualcuno sfregiò quei manifesti scrivendo sotto, in uno spazio lasciato inopinatamente bianco, "è ora di fotterla", oppure "ed è già così puttana".
Dagli archivi digitali Istituto Sturzo e Fond. Gramsci ER |
Tornando alla domanda di prima, al di là di quel primo episodio, quando si può parlare di vero ingresso della pubblicità nella comunicazione politica?
Dopo quella campagna elettorale del 1963 caratterizzata dalla pubblicità si aprì un dibattito anche all'interno del Pci, con molti che sottolineavano come l'uso della pubblicità nella propaganda politica fosse sbagliato perché sviliva i contenuti della politica. In casa comunista si continuò su questa linea per tanti anni, ma verso la metà degli anni Ottanta anche il Pci si trovò costretto a ricorrere a quelle tecniche.
Lei però ha lavorato per almeno quindici anni in un contesto in cui si faceva tutto in casa, addirittura spiegando ai compagni delle sezioni più sperdute come si poteva fare una propaganda efficace... Anche questa, in fondo, era pedagogia.
... e infatti Propaganda era il titolo di una pubblicazione a schede che il Pci mandava alle federazioni per aiutarle nella comunicazione; questo tra l'altro permetteva di creare gruppi di giovani pronti ad attivarsi in quel periodo. Fu creata dopo l'esperienza del 1968, del "maggio francese": là si erano occupate tutte le scuole e anche l'atelier di belle arti di Parigi, quindi gli studenti avevano pensato di utilizzare strumenti e attrezzature presenti negli istituti per rendere più efficaci le lotte, usando soprattutto la tecnica della serigrafia per realizzare i manifesti. Anche il Pci, dunque, incentivò l'uso di quella tecnica: in quelle schede si spiegava come poterla utilizzare e, su richiesta, l'ufficio grafico vendeva e spediva i telai serigrafici perché ogni gruppo imparasse a essere autonomo. Ma in quelle schede si insegnava anche a costruire, ad esempio, una mostra fotografica, il palco per i comizi in piazza, a impaginare un giornale murale, ecc. Perfino a organizzare un'estrazione a premi nelle feste de l'Unità.
Da Vedere a sinistra |
Quando Achille Occhetto maturò l'idea della Svolta, all'indomani della caduta del muro di Berlino, era certamente un periodo difficile, emotivamente pesante per elettori, militanti e funzionari del Pci. Lei come ha vissuto quel periodo?
Non posso dire di essere stato sconvolto, ma certamente ero molto colpito da questo crollo. Ammetto però che non ero del tutto sorpreso: all'epoca di Gorbaciov ricordo che come premio mi fecero fare un piccolo viaggio in Unione sovietica e lì mi resi conto che quell'esperienza non sarebbe potuta continuare così. Ricordo che ci fecero visitare diverse località, anche vicine alla Finlandia, ma non c'era un bel clima e non mi riferisco al freddo... Anche le cose buone che ci facevano vedere, come i kolchoz, si sentiva che erano false: ci dicevano che lì tutti prendevano lo stesso stipendio, poi si facevano domande in giro e si scopriva che non era così, era una finzione per noi. Incontrammo anche gruppi dirigenti, intellettuali del posto e si avvertiva che anche loro erano in difficoltà, quasi imbarazzati: sentivo, insomma, quest'atmosfera di collasso imminente o per lo meno non lontano. Qualche giorno fa, tra l'altro, c'era Occhetto in televisione e gli avevano chiesto cosa pensasse dei paesi socialisti crollati alla fine degli anni '80 o poco dopo: lui ha risposto che non erano paesi socialisti, ma polizieschi.
Ma lei immaginava un crollo in quel momento o la situazione sarebbe potuta durare di più?
Guardi, forse Gorbaciov sarebbe potuto durare un po' se fosse riuscito a fare riforme consistenti. La realtà però ha dimostrato che non c'era spazio per fare riforme, di fatto era un sistema irriformabile: con tutto ciò che si è mosso dopo la caduta del muro, come si poteva riformare?
In questo clima che lei ha descritto, arrivò il famoso annuncio di Occhetto alla Bolognina, il 12 novembre 1989. Un annuncio che per molti, ma non per tutti, apparve improvviso.
Vede, in realtà non è proprio così. Mi ricordo che preparai moltissimi manifesti per l'ultima campagna elettorale, quella per le europee 1989 e anche per i mesi successivi, inserendo come testo la dizione "nuovo Pci", che figurava anche in un fondale per una precedente festa nazionale dell'Unità; contemporaneamente erano cambiati anche alcuni elementi grafici, per cui si era abbandonato il fondo blu per il bianco, si erano usati altri caratteri e colori per le scritte... Soprattutto per chi come me lavorava all'interno, si sentiva già allora nell'aria, prima della Bolognina, che qualcosa doveva arrivare e stava cambiando: se "nuovo Pci" doveva essere, non lo si poteva fare mantenendo uguali nome e simbolo, non bastava aggiungere quel "nuovo".
Da Vedere a sinistra |
Devo dire che, quando fui chiamato da Veltroni e ricevetti l'incarico, non mi meravigliai della richiesta di cambiare anche il soggetto della grafica, proprio per quelle intuizioni che avevo avuto. In effetti non mi interrogai troppo su questo, forse anche per una mia acquiescenza militante che faceva accettare le indicazioni che venivano dall'alto. In ogni caso sono convinto che non sarebbe bastato cambiare il nome: ciò che era avvenuto e stava accadendo giustificava un cambio netto. Dirò di più: a volte avevo l'impressione che lo si dovesse fare anche prima.
Quando, secondo lei?
Prima che crollasse il muro e si innescasse il crollo dell'Unione sovietica. I segnali già c'erano: come dicevo, si capiva che Gorbaciov non poteva riformare nulla, tant'è che poi nell'agosto del 1991 avremmo assistito al tentato colpo di stato, segno che davvero non c'era spazio per cambiare e occorreva girare pagina prima.
Certo stupiscono i tempi della Svolta e del simbolo: la Bolognina è del novembre 1989, si discute a lungo fino al XIX congresso, a marzo del 1990 in cui la maggioranza decide di cambiare nome e simbolo; Veltroni la contatta per disegnare il nuovo simbolo a giugno e l'emblema è reso pubblico in ottobre, per poi essere adottato all'inizio di febbraio del 1991. In quei tre mesi di limbo tra marzo e giugno, in cui si sapeva che si doveva cambiare ma non come, lei cosa pensò?
In realtà non feci grandi pensieri su come si potesse cambiare, né per il nome né per il simbolo, almeno in quel periodo. Quando poi ricevetti l'incarico, non ebbi subito un nome su cui lavorare e, nel corso delle settimane, me ne diedero diversi, fino a quello definitivo scelto da Occhetto e da chi era vicino a lui: nel frattempo capitava che nei bozzetti i nomi li mettessi io, compresi "Sinistra italiana" e "Partito democratico", che poi sarebbero stati usati davvero, anche da altri soggetti. A me piaceva molto "Partito del lavoro": c'era stata la nota posizione di Giorgio Amendola che avrebbe voluto, già dopo l'elezione di Saragat al Quirinale, costituire il Partito dei lavoratori e quel nome mi convinceva, per cui lo usai in alcuni miei schizzi. A volte, peraltro, mi erano stati dati nomi lunghissimi e articolati: pensi che in qualche caso c'era il nome principale e una sorta di sottotitolo esplicativo di varie parole: c'era per esempio "Sinistra italiana" e poi, sotto, "Partito democratico dei progressisti e dei comunisti".
Roba che persino su un manifesto sarebbe entrata con una certa difficoltà...
In effetti sì. Aveva ragione lei prima quando parlava di limbo per quei mesi tra il XIX congresso di Bologna e l'incarico a me, forse anche prima e dopo: non si sapeva bene cosa fare, ci fu davvero un grande dibattito all'interno in cui ognuno disse la propria, a favore o contro il cambiamento, e non tutti i favorevoli avevano la stessa idea su come cambiare.
Non a caso in quel periodo aumentarono le liste civiche, che sostituivano il simbolo del Pci o lo affiancavano a uno locale, a volte con risvolti problematici, come nella mia Guastalla (in cui qualcuno non riconobbe il Pci nel simbolo del Campanone) o a Pisa (in cui in una circoscrizionale non venne stampato il Delfino scelto dai comunisti per sormontare falce e martello e dovette intervenire il Tar per annullare tutto).
Comizio di Giuseppe Di Vittorio a Lucera, 1956; il primo a sinistra è Michele Magno (gentile concessione Archivio Matteo Carella) |
Non ci si sorprende, in qualche modo, a sentire questo racconto, anzi quasi conforta il fatto che un parlamentare dell'epoca trovasse il tempo per stare in una sezione, prendere il pennello e disegnare un simbolo destinato a un'elezione per poco più di trentamila abitanti (oggi quanti lo farebbero? E quali sezioni o sedi troverebbero aperte?). Quelle ultime pennellate date da Magno junior, poi, appaiono quasi profetiche, pensando al compito affidato al grafico oltre trent'anni più tardi: un incarico affrontato con un bagaglio di conoscenze e consapevolezza ben maggiore, ma sentendo sulle proprie spalle tutto il peso della responsabilità che a sedici anni sicuramente non c'era.
Magno, quanti eravate nell'ufficio grafico del Pci quando Veltroni la chiamò?
Eravamo in quattro: il Responsabile dell'Ufficio grafico Luciano Prati, io, Tiziana Cesselon e Lidia Berlinguer.
Telese nel suo libro racconta a dovere il momento dell'assegnazione dell'incarico, con il dialogo tra lei e Veltroni, che quasi implorava il massimo della riservatezza. Lei come vide questa novità? Una grana, una sfida?
Per me era una grana di quelle enormi, soprattutto per il segreto assoluto che avrei dovuto tenere: una cosa devastante per me. Lei si immagini: lavoravamo in tre o anche in quattro nella stessa stanza, soprattutto con loro presenti dovevo nascondere il lavoro che stavo facendo, mascherandolo come se fosse altro; se qualcuno si avvicinava anche solo un po' al mio tavolo, dovevo coprire tutto perché non s'intravedesse proprio nulla. Quando arrivava l'orario di fine lavoro, poi, uscivamo più o meno tutti insieme, ma io li salutavo, facevo un giro del palazzo e poi rientravo, per poter lavorare da solo in ufficio. Questo a volte ha portato anche a episodi quasi comici, come quella volta che si fulminò la lampadina della mia postazione e dovetti smontare quella del mio vicino, ma mi ricordai che non l'avevo risistemata solo una volta tornato a casa...
Vero, l'ha raccontato pure a Telese. In effetti colpisce soprattutto che lei e la dirigenza del partito siate riusciti a tenere il segreto così a lungo, per mesi: come avete fatto?
Le dico soltanto che questa sindrome della segretezza aveva raggiunto livelli tali che anche le cartacce, gli schizzi chiaramente da buttare, non potevo gettarli nel cestino, nemmeno strappati, per il timore che qualcuno potesse rovistare tra la carta straccia e trovare o anche solo intuire qualcosa: dovevo mettere tutto in un sacco grande e portarlo a casa, dove lo custodivo dentro un armadio. Una volta presentato il simbolo, finalmente ho potuto buttarlo... Fino ad allora, comunque, riuscimmo a custodire il segreto, anche se il giorno in cui ci fu la conferenza stampa di presentazione, il 10 ottobre 1990, la Repubblica era già uscita con un disegno che si avvicinava alla soluzione grafica che avevo escogitato.
Da Qualcuno era comunista |
Già, penso che sia andata così, anche se il pannello di cui lei parla, in realtà, erano due, uno con il simbolo in bianco e nero e uno a colori. Li ho ancora io, vede?
Mentre sta finendo la sua domanda, Magno si alza e indica due grandi quadrati, di colore rosso, che spuntano dietro una grande stampante del suo studio. Li prende, li posa sulla stampante, solleva piano la copertura di entrambi... ed ecco il simbolone in doppia copia, sessanta centimetri di diametro: uno in bianco e nero (così l'emblema finì su varie schede, ancora black&white nel 1991, in comuni come Brescia) e l'altro a colori, quello finito a casa di Scalfari e poi mostrato da Occhetto alla folla di giornalisti, fotografi e telecamere nella sala stampa di Botteghe Oscure.
Da lontano il simbolo gigante sembra una stampa; da vicino si capisce che tutto è fatto a mano, prima tracciato a matita (si vede qualche microsegno, qua e là) e poi campìto coi pennelli nei dettagli: le bandiere, il tronco coi rami, ogni gobba e insenatura della chioma. Anche la scritta con il nome fu realizzata con il pennello e il colore a tempera.
"La scritta - spiega il grafico - è stata la parte più difficile di tutto il lavoro, dovevo trovare la dimensione adatta perché la scritta formasse una semicirconferenza; ricavate le lettere su carta, ne cercai la disposizione corretta, con l'inclinazione di ciascuna dettata dalla posizione sull'arco. Passai le lettere così disposte su carta lucida, sfregandovi sopra la grafite a frottage, poi rimisi il trasparente sul pannello e ricalcai a matita i contorni, da riempire con il pennello". Altro che caratteri trasferibili Letraset: tutto a mano, artigianale, "non avevo il computer e non potevo rivolgermi all'esterno per fare il lavoro, col rischio che tutti gli sforzi per mantenere segreto il lavoro andassero in fumo".
Sorprende che questi pannelli così preziosi siano a casa dell'autore e non nei locali che custodiscono il patrimonio che fu del partito. La domanda non fa in tempo a migrare dalla mente alla bocca e a tradursi in parole, che la risposta arriva: "Finita la conferenza stampa e passato un po' di tempo, quei simboli finirono nell'armadio di Walter Veltroni. Qualche anno dopo, Veltroni dovette cambiare ufficio e si preparava al trasloco. Un giorno entrai nell'ufficio che lui stava per lasciare, vidi tutto sottosopra: in quella confusione intravidi anche i due simboli grandi e, temendo che finissero buttati via, me li ripresi".
Il pensiero che un tassello fondamentale della storia politica italiana potesse finire, anche solo inavvertitamente, nei cassonetti della carta genera un brivido lungo la schiena e tanta, tanta gratitudine per chi, temendo che il frutto di tante ore del proprio lavoro potesse fare una fine ingloriosa e immeritata, ha agito in fretta per mettere in salvo quei due pezzi unici. Che a quel punto viene l'istinto di guardare con ancora maggior attenzione, per cogliere ogni dettaglio, ogni pennellata che, da vicino e in controluce, si riesce ad apprezzare. Per chi all'epoca della presentazione del simbolo aveva poco più di sette anni, avere davanti agli occhi quel pannello è emozionante, specie se la persona a fianco, quella che gli ha dato vita, replica "devo dire che anche a me, guardandolo adesso, viene un po' di emozione": meglio lasciare per un po' da parte quella puntata finale, a serio rischio commozione, e tornare alle puntate precedenti della storia, ancora da sviscerare.
Da quando ricevette l'incarico a quando iniziò a produrre i primi bozzetti di senso compiuto che poi sottopose a Veltroni, ebbe bisogno di molto tempo?
In effetti per alcune settimane sono andato avanti a tracciare schizzi sui fogli, a matita o a pennarello, di un paio di centimetri di diametro: un lavoro, se vogliamo, "alla carlona", ma che mi permise di mettere tante idee in campo per poi scegliere cosa sviluppare. Il lavoro principale è stato quello successivo, una volta che si era trovata la linea da seguire, sulla base della decina di bozzetti che avevo mostrato a Veltroni: il nostro problema era che non avevamo il computer e quindi ogni operazione doveva essere svolta a mano: non solo i disegni, ma anche i modellini di carta intestata, buste, bandiere, insegne per le sezioni e altre cose che mi erano state chieste; tutti questi tentativi, peraltro, dovevano essere fatti per nomi diversi tra loro e questo comportava un lavoro incredibile, che mi ha quasi distrutto in quel periodo. E, come dicevo, non potevo assolutamente appoggiarmi a qualche service esterno, perché questo avrebbe innescato la curiosità di qualcuno e avrebbe potuto incrinare il segreto che stavamo difendendo con tanto sforzo: ricordo ancora un biglietto che ricevetti da Piero Fassino, con cui lui mi chiedeva di realizzare appunto modelli per la carta da lettere, le buste, eccetera e concludeva con "Discrezione, mi raccomando!".
Torniamo a quei bozzetti presentati a Veltroni: com'erano?
Si trattava di una decina di piccoli layout, di bozzetti frutto dell'evoluzione dei tanti schizzi che avevo fatto, nelle dimensioni di circa dieci centimetri di diametro, realizzati con il pennarello. Tra le soluzioni che avevo proposto c'era per esempio un cuore, le stelle da sole o unite a bandiere, leggermente increspate o con pieghe più decise, che magari partivano rosse e poi dopo le pieghe diventavano tricolori. A me piaceva molto il bozzetto che conteneva come unico elemento grafico un quadrato rosso, inclinato, ma mi resi conto in fretta che non avremmo potuto usarlo perché nel 1990 le schede erano ancora in bianco e nero...
In effetti la leggina per stampare a colori le schede sarebbe arrivata solo nel 1992. Telese tra l'altro segnala che quel quadrato poi è stato ripreso in seguito dalla Cgil: quel marchio è opera sua o lo ha comunque ispirato lei?
Schizzi tratti da Vedere a sinistra (e Qualcuno era comunista) |
Beh, non eravate gli unici a pensarla così. Silvio Berlusconi sostiene da sempre che se un messaggio impiega più di tre secondi ad arrivare, o non è chiaro o è sbagliato e a quel dettame si era conformato Cesare Priori quando aveva disegnato il simbolo di Forza Italia.
Al di là di questo, la frase di Veltroni mi convinse e superò anche i dubbi che avevo sull'albero come simbolo. Per lo stesso motivo, il farsi ricordare, volli continuare a proporre un colore dominante che potesse rimanere impresso a chi guardava il simbolo: fino a quel momento era stato il rosso della bandiera in primo piano, da lì in avanti avrebbe dovuto essere il verde della chioma dell'albero.
La copertina di Rinascita dopo il 10 ottobre |
In effetti non ricordo esattamente come andò; ricordo però che qualcuno, forse lo stesso Veltroni, dopo che si era deciso di sviluppare l'albero, aveva espresso qualche timore che la quercia potesse essere vista come un'immagine riconducibile a una tradizione di destra. Feci allora una piccola ricerca per cercare di chiarire questo dubbio e scoprii che parecchie incisioni dei primi anni del socialismo contenevano riferimenti alla quercia, che quindi era molto usata nella storia della sinistra. Poi sono andato a vedere le querce dal vero, per studiare la forma della chioma, la ramificazione e questo mi ha portato a modificare un po' i primi disegni che avevo fatto.
Lavorare su simboli già sperimentati a sinistra o dal partito in anni non troppo lontani sarebbe stato più facile rispetto alla scelta di un soggetto sostanzialmente nuovo per la grafica politica dell'Italia repubblicana?
Vede, io ho lavorato per molti anni per produrre proposte di tessere: si trattava in sostanza di rielaborare, possibilmente rinnovandoli, vecchi simboli o comunque immagini già usate, in cui dunque i militanti potessero riconoscersi. Uno dei motivi per cui all'inizio ero piuttosto scettico sulla questione dell'albero era che si poneva troppo al di fuori del lavoro che avevo fatto fino a quel momento per le tessere. Oggi, ripensandoci, potrei produrre immagini diverse, all'epoca non ero pronto per questo.
Al di là della responsabilità politica enorme e della difficoltà legata al mantenere il segreto, quanto avvertiva la necessità che il simbolo creato fosse fatto per durare? E, nel caso, come ci si poteva riuscire?
Il fatto è che non si poteva pensare che un grande partito come il Pci potesse non durare: era necessario quindi non limitarsi a un'opera di grafica, ma cercare di trasmettere dei valori e contemporaneamente produrre qualcosa di armonico, di ben strutturato, in grado di restare impresso. E in effetti il simbolo è durato dal 1990-91 al 2007, anche se nel giro di qualche anno è passato dal Pds ai Democratici di sinistra.
Ecco, a questo proposito: si è occupato sempre lei di modificare il disegno quando nel 1998 furono fondati i Democratici di sinistra?
Sì, sì, sono stato io. Una prima modifica in realtà la si fece per le elezioni politiche nel 1996, ampliando il prato perché potesse contenere la dicitura "Sinistra europea". Quando poi nacquero i Ds, si tornò sostanzialmente alle proporzioni iniziali dei vari elementi, sostituendo il nome (e "condensando" meno i caratteri, visto che la denominazione era più corta) e mettendo la rosa contornata di stelle del Pse al posto del simbolo del Pci, scoprendo tra l'altro la parte bassa dell'albero, fino a quel momento nascosta: quando avevo concepito il disegno dell'albero, lo avevo fatto per intero, anche senza mettere il simbolo, quindi sapevo già che forma avrebbe avuto la base del tronco che affonda le radici nel prato.
L'ultima modifica arrivò dopo il III congresso del 2005, quando una mozione proposta da Valdo Spini chiese di inserire per intero la dicitura "Partito del socialismo europeo": si dovette allargare il prato perché la scritta fosse interamente contenuta lì e contemporaneamente si decise di dare più spazio alla rosa, ingrandendola. E tutte queste elaborazioni le ho fatte io, purtroppo.
Quell'ultima parola, "purtroppo", pronunciata in fretta e impastata in un piccolo sorriso amaro, non poteva passare inascoltata, senza generare una domanda: "Non la sento entusiasta di queste cose che ha fatto...". La risposta è stata pronta, senza tentennamenti o ritrosie: "No, perché si tratta di un periodo in cui ho sofferto, è stata davvero una grande sofferenza. Vede, io sono proprio nato nel Pci, sono sempre stato nella sezione, nel partito. Sentivo che cambiare era necessario, ma addosso a me sentivo una responsabilità enorme". Già, perché allora cambiare un simbolo in cui ci si era identificati per anni era una faccenda maledettamente seria, per cui si poteva anche urlare e - senza alcuna remora - piangere: "Posso confermare che il cambio di simbolo fu vissuto da molti, anche mesi prima che il nuovo emblema fosse pronto, come una cosa drammatica: nelle famiglie dei comunisti si litigò, ci furono spaccature, a volte ci si menò persino, in nome di quel simbolo che era 'tutta la mia vita', come tanti militanti dissero".
Il simbolo del 1946 |
Sa, la tradizione dice che era stato lui e si è continuato a ripeterlo, ancora oggi lo dicono in tanti; il fatto è che nel 1953, dopo il fallimento del Fronte democratico popolare - quello con il volto di Garibaldi, ndb - di cinque anni prima, l'ufficio grafico del partito dovette ridisegnare per intero la doppia bandiera con falce, martello e stella, che nel 1946 era allungata, tratteggiata come a china e non costretta in un tondo.
Nel 1953, invece, era ormai diventato un obbligo includere i simboli in una forma circolare e bisognava sfruttare bene quel cerchio di due centimetri di diametro sulle schede, anche se il bianco e nero continuava a obbligare a rendere i colori secondo un codice grafico-cromatico mutuato dall'araldica.
Il mio ex responsabile dell'ufficio grafico, Luciano Prati, in realtà mi aveva sempre parlato di un pittore napoletano, del cui nome si è perso il ricordo, come autore della sistemazione del 1953. Personalmente dubito che l'autore di quel disegno del 1946 fosse Guttuso, ma naturalmente non ho prove di questo mio pensiero.
Il segno della falce e martello è stato dall'inizio parte del disegno con l'albero oppure no?
Beh, in alcuni schizzi con l'albero lo avevo messo, in altri no. Quando ho iniziato a lavorare ai bozzetti più elaborati, di solito quel segno c'era, ma non il cerchio completo: solo la doppia bandiera con le aste, ritagliata e incollata. Ed era incollata, anzi, proprio perché in quei bozzetti inizialmente non c'era e solo dopo mi è stato detto che avrei dovuto aggiungerla.
Nel libro di Telese, tra l'altro, si legge una cosa che non può passare inosservata ai #drogatidipolitica: inserire la miniatura del fregio comunista nel simbolo, oltre che a rendere esplicita la storia del Pds e a evitare che altri potessero mettere le mani sul vecchio simbolo, poteva servire anche a conservare l'esenzione dalla raccolta firme. In realtà, per la legge elettorale di allora sarebbe bastato avere un gruppo anche solo in una Camera (il Pds lo ebbe in entrambe, Rifondazione comunista riuscì a crearlo al Senato), ma forse qualcuno tra i dirigenti voleva esser certo di non perdere il beneficio o non lasciarlo ad altri: le risulta?
In realtà i miei interlocutori nel partito mi rappresentarono solo la necessità di impedire a chiunque di appropriarsi del simbolo del Pci per altri usi: un timore tutt'altro che infondato, visto che appena finito il XX congresso nacque Rifondazione comunista e per un po' di tempo tentò di usare il simbolo storico dei comunisti nell'Italia repubblicana.
Da Vedere a sinistra |
Mi ricordo che feci un grande lavoro sui dettagli, per trovare la soluzione grafica che potesse dare la resa migliore all'emblema. Il tronco finale, per esempio, aveva quattro rami, ma durante la lavorazione ne ha avuti spesso tre o anche soltanto due. Molte prove, allo stesso modo, hanno riguardato la conformazione della chioma dell'albero, ora più sottile, ora più folta, ora con una conformazione un po' diversa: un lavorio incredibile, mi creda. Io sentivo, in considerazione delle caratteristiche della proposta grafica in questione, la necessità dell'apporto di un disegnatore. Che io non sono. Ma non potevo cercarlo, né richiederlo: la segretezza impediva ogni rapporto con figure altre.
Da Vedere a sinistra |
Anche la scelta dei colori fu importante e ci si arrivò in tempi diversi: il nome del partito, per esempio, nei primi bozzetti compiuti l'avevo scritto in nero, perché pensavo che un elemento nero che racchiudesse una composizione con vari colori fosse opportuno; fu Veltroni invece a proporre di tingere la scritta di rosso e, in effetti, devo dire che aveva ragione lui. Verso la fine del lavoro avevo provato a studiare anche qualche soluzione grafica che desse l'impressione dello spessore, della plasticità dell'albero, tanto nella versione in bianco e nero quanto in quella a colori: alla fine si è preferito non adottarla, ma ammetto che quella variante mi era piaciuta molto.
A un certo punto, anche se il nome definitivo non c'era ancora, la grafica si era abbastanza stabilizzata, ma i bozzetti non bastavano più: occorreva una prova di stampa. E lì, come ha raccontato Telese, lei si inventò lo stratagemma del "finto manifesto per il finto convegno"...
Da Vedere a sinistra (e Qualcuno era comunista) |
Quando il simbolo fu presentato, al giornalista che aveva chiesto a Occhetto chi avesse fatto il simbolo, lui - come ha scritto Telese - rispose, quasi colto di sorpresa, "E' stato... un ufficio grafico...", senza fare il suo nome. Durante tutto il periodo in cui lavorò al nuovo emblema, incontrò mai il segretario Occhetto?
No, mai, io mi sono rapportato solo con Walter Veltroni, poi era lui a far vedere quello che facevo a Occhetto, magari discutendone con D'Alema o altri. Io con Occhetto ho parlato una volta soltanto, dopo la conferenza stampa di presentazione del simbolo, quella appunto in cui tergiversò sull'identità di chi aveva lavorato all'emblema: io tra l'altro ero presente in mezzo a quella folla di giornalisti, ma ero praticamente in incognito perché nessuno mi conosceva, almeno fino a quando un fotografo che mi conosceva mi individuò e mi scattò una foto; a quel punto, vista la scena, in tanti si girarono verso di me e iniziarono a scattare anche se non sapevano chi io fossi, hai visto mai che quella foto potesse servire... Sempre lì, tra l'altro, c'era anche il mio responsabile Prati, che come i miei colleghi non sapeva nulla del mio incarico, ma dopo la presentazione mi disse che qualcosa aveva capito... Archiviata la conferenza, verso mezzanotte, ricevetti a casa una telefonata di Occhetto: "Bruno - mi disse - ti volevo ringraziare per il lavoro che hai fatto. A proposito, adesso posso dire che l'hai fatto tu?", come se si fosse autoimposto anche alla presentazione la consegna del silenzio, quella segretezza era diventata un blocco, un macigno...
Quindi non vi siete mai visti, parlati di persona?
In quel periodo no. Quando, poco dopo, uscì il mio volume Vedere a sinistra, lo portai a Veltroni, che aveva scritto la presentazione al libro, e lo diedi anche a lui.
Il pannello con il simbolo, in un certo senso, fu il vero protagonista della conferenza stampa, quando fu inquadrato da decine tra macchine fotografiche e telecamere...
Già, mentre ai giornalisti fu distribuita una riproduzione fotografica dello scatto fatto qualche ora prima da Angelo Palma sul terrazzo della sede: tra l’altro quel giorno dovemmo fare un gran numero di copie in diapositiva del simbolo, da distribuire ai giornalisti, con una macchina riproduttrice attivata a Botteghe Oscure e anche moltissime fotocopie a colori in formato A4. Qualche giorno dopo uscì, allegata a l'Unità, una riproduzione a colori del simbolo, in formato circa 35x50 cm. In seguito, con l’aiuto di un service fu prodotto e distribuito a tutte le organizzazioni del Partito un pieghevole in carta patinata contenente il simbolo definitivo in bianco e nero e a colori, con tutte le indicazioni tecniche necessarie per la riproduzione e l’utilizzazione. Al debutto ufficiale, invece, proprio il simbolo fu involontario protagonista di un episodio curioso.
Dall'archivio dell'Unità |
Il primo giorno del XX congresso alla fiera di Rimini, il 31 gennaio 1991, ero nella sala e non avevo forse guardato con troppa attenzione i due simboli che erano sul fondale rosso, dietro alla tribuna della presidenza: per chi era in platea, l'emblema del Pci stava a destra, quello del Pds a sinistra. Ero con mia moglie, che a un certo punto mi disse: "Guarda che nel simbolo del Pds manca qualcosa...". A quel punto guardai meglio e mi resi conto che nella gigantografia del mio emblema chi l'aveva realizzato si era dimenticato di mettere il prato, l'albero dunque aveva al di sotto il simbolo del Pci ma era senza "base". Corsi allora dagli allestitori del congresso per avvertirli di questa cosa: loro capirono, ma ormai Occhetto aveva iniziato il suo discorso e non potevano certo prendere una scala e andare a correggere il simbolo mentre lui parlava... Il segretario, dunque, aveva relazionato avendo alle sue spalle un simbolo sbagliato; solo durante una pausa, subito dopo il discorso di Occhetto, qualcuno salì con la famosa scala ed esiste persino una foto che ritrae gli addetti intenti a spennellare di verde il prato.
Tornando al giorno successivo alla presentazione, ricorderà che il simbolo ricevette anche commenti al vetriolo, soprattutto da coloro che facevano parte del fronte del "no": per Paolo Volponi era un broccoletto, per Armando Cossutta sembrava troppo un garofano e così via. Qualche critica secondo lei ha colto nel segno? Qualche altra, invece, le ha fatto male?
Tra gli amici che scrissero un testo di presentazione in Vedere a sinistra c'era Gianni Trozzi: abbiamo lavorato insieme per tanti anni, ma per scherzare diceva sempre che nel simbolo mancavano Cip e Ciop! (ride) Anche altri parlarono di ghiande, ma per dire che queste si danno ai maiali... Quanto alla forma della chioma, in effetti ricorda un po' la corolla di un garofano, ma ovviamente il colore cambia. Ricordo con piacere invece l'opinione di Ignazio Delogu, poeta, scrittore e traduttore sardo, ben inserito nel partito, attivo sull'Unità, addetto ai rapporti con i paesi di lingua spagnola e presidente dell'Associazione Italia-Cile: mi disse che il mio simbolo gli piaceva perché gli ricordava la capigliatura di Gramsci.
In base al suo racconto, è chiaro che è nata prima la grafica del nome: se però il nome fosse stato diverso, il disegno sarebbe rimasto lo stesso o sarebbe cambiato? E come sarebbero andate le cose se lei avesse avuto dall'inizio un nome preciso su cui lavorare?
Beh, è probabile che il simbolo sarebbe stato diverso, anzi è quasi certo; mi avrebbe stimolato in una direzione diversa.
Avrebbe preferito avere dunque prima il nome? Anche se da un certo punto di vista sarebbe stato meno libero?
Si, direi che avrei preferito, anche perché quando mi ero trovato davanti delle proposte di nome chilometriche, l'aiuto che avevo ricevuto nell'immaginare la grafica era stato pari a zero: era come non averle affatto.
L'albero della sinistra - o, a voler insistere con la vulgata, la quercia - sopravvisse ben sedici anni abbondanti nella politica italiana: non poco, nell'era della turbopolitica (citando Edoardo Novelli); eppure nel mezzo non si può dimenticare un simbolo altrettanto importante, se non altro per interpretare il momento storico-politico in cui fu adottato e lo sforzo messo in campo per produrlo. Il riferimento è all'emblema dei Progressisti, traduzione in simbolo di quella che Achille Occhetto, ancora segretario del Pds nonché leader dello schieramento di sinistra - che comprendeva anche La Rete, i Verdi, Alleanza democratica, il Psi e gli ex compagni-rivali di Rifondazione comunista - aveva battezzato "gioiosa macchina da guerra", ma poi a conti fatti non vinse, anzi alla Camera perse piuttosto male. Eppure, al di là del risultato, non è giusto ridurne l'importanza (anche perché l'emblema ritornò sulle schede nel 1996, utilizzato da Rifondazione comunista in virtù del "patto di desistenza" stretto con l'Ulivo, e periodicamente qualcuno lo riprende a livello locale).
Magno, quella dei Progressisti è una pagina rilevante nella storia politica italiana...
... una pagina triste e pesante ...
... rispetto al finale sicuramente, ma che ha importanza innanzitutto perché in qualche modo era già stata prefigurata da Occhetto nel suo discorso alla Bolognina di tre anni prima, quando disse che bisognava "non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove, per unificare le forze del progresso". Secondariamente, credo sia importante lo sforzo fatto per riunire sotto un'unica insegna grafica sei forze politiche diverse e non omogenee. Come andò?
Ricordo bene, ho vissuto personalmente quel "dramma". Come sa c'erano sei partiti all'interno di quella coalizione e io partecipai a un paio di riunioni di quelle forze politiche. Ora, in quelle occasioni ognuno diceva la propria, anche sul piano della grafica: ricordo che qualcuno dei partecipanti propose di adottare un simbolo con la scritta "i Progressisti", in cui la prima "i" a forma di stivale d'Italia; altri suggerirono idee diverse, magari aggiungendo "peccato che io non sappia disegnare...". In ogni caso, arrivarono varie proposte e in molti avrebbero voluto puntare sull'arcobaleno, ma nessuna delle idee grafiche suggerite - di diversa provenienza - riuscì a raccogliere il consenso di tutte le sigle del tavolo. Vista la situazione di stallo e di confusione, io decisi di non partecipare più a quelle riunioni.
Cosa successe poi?
Una sera venne da me un dirigente di uno di questi partiti e mi domandò: "Sei disposto a fare una nottata o due di lavoro?" Chiesi a mia volta cos'avrei dovuto fare: "il simbolo per la coalizione, hanno deciso cosa vogliono: due pennellate, una rossa e una verde, con la scritta 'Progressisti' in alto". Rimasi piuttosto perplesso: non capivo cosa intendessero per "pennellate" e, se loro avessero voluto una spruzzata di colore, ci sarebbe stato bisogno di un areografo o comunque di uno strumento particolare. Il tricolore invece non mi stupì affatto: dopo le proposte in cui ogni partito cercava di rendere prevalenti i colori tradizionali della propria formazione, era inevitabile che i colori nazionali avrebbero fatto da punto d'incontro. In ogni caso, mi attrezzai a modo mio: mi procurai molti fogli con cerchietti di due centimetri di diametro, come sulle schede elettorali di allora, e dei pastelli a cera per fare le strisciate.
Ecco, i pastelli a cera... era una delle due alternative che avevo in mente, assieme ai gessetti.
No no, erano due pastelli a cera, almeno per quanto riguarda la base del disegno; feci diverse prove e dovetti farle tutte sui cerchi piccoli, perché le dimensioni dei pastelli non mi permettevano altro. Con il fotoincisore cercai poi di ingrandire il disegno, visto che doveva essere utilizzato anche sui manifesti delle candidature (con diametro di dieci centimetri, ndb): fu lì che mi accorsi che nei segni c'erano delle mancanze, nel senso che certe aree non erano state ben definite dai pastelli. A quel punto, sempre lì nella sede del service, armato di rapidograf mi misi a riprendere tutti i puntini che mancavano, a correggere tutti i vuoti, un lavoro infinito: le due tracce, naturalmente, dopo l'azione del fotoincisore erano in bianco e nero, ma avrebbe provveduto il service a colorarle in seguito. La cosa comica, se vogliamo, fu che la conferenza stampa di presentazione si tenne al Residence Ripetta e tutti coloro che partecipavano, compresi i dirigenti dei partiti, gironzolavano nel giardinetto del Residence: a un certo punto mi passò davanti Armando Cossutta che, rivolgendosi a una persona che era con lui, commentò "Certo che, con il tempo che ci hanno messo a farlo, non mi sembra un granché...". Mi feci una risata, che altro potevo fare?
Tra i simboli creati da Bruno Magno occorre considerare anche quello di Uniti nell'Ulivo per l'Europa, la lista che nel 2004 contrassegnò la corsa unitaria di Ds, Margherita, Socialisti democratici italiani e Repubblicani europei. In effetti gli elementi di base per realizzare questo emblema non erano inediti: si trattava pur sempre di una variazione sul tema dell'Ulivo di Andrea Rauch, del quale riprendeva il ramoscello, il carattere del nome e la sfumatura dello sfondo; la disposizione degli elementi però è stata curata da Magno "e la grafia della preposizione scritta in rosso è proprio la mia", com'era già avvenuto varie volte per altre campagne realizzate nel corso del tempo. Quel simbolo, come si sa, visse soltanto in quel turno elettorale, "ma se non altro quella volta fu di gran lunga il più votato, obiettivamente fa piacere"
In effetti sarebbe venuto automatico considerare l'emblema come opera di Rauch, visto il precedente dell'Ulivo, ma è sufficiente sfogliare i giornali dell'epoca per avere conferma del fatto che la mano dietro quel simbolo one shot era proprio quella di Magno: "Vedi, ci sono le próve!", dice sorridendo, facendo emergere appena un po' di più la calata pugliese che ha conservato. A questo proposito, tra i documenti che ha conservato c'è una pagina che la Gazzetta del Mezzogiorno aveva dedicato alla proposta di simbolo del Pds all'indomani della conferenza stampa. Nicola Cattedra, pugliese anche lui, già direttore del quotidiano palermitano L'Ora fino al 1984 e in precedenza caporedattore di Paese Sera - anche lui, tra l'altro, negli anni '60 aveva lavorato al sesto piano di Botteghe oscure - scrisse un commento intitolato La nuova Cosa parla pugliese: il riferimento era proprio a Bruno Magno, tratteggiato come "uomo riservato, abituato più alla luce soffusa del suo studio di grafico che alle luci della ribalta", e ancora "un pugliese all'antica, pragmatico, alieno da fumisterie intellettuali". Allora Magno disse di aver scelto l'albero "perché mi è sembrato il modo migliore per coniugare tradizione e novità, radici e futuro" e che la miniatura del Pci stava alla base dell'albero perché "la radice resta sempre quella": poche pennellate decise, mentre l'articolo a fianco di Michele Potì analizzava a fondo il nuovo emblema, esaminando il disegno in generale, le reazioni che aveva raccolto e persino le "proiezioni soggettive" del grafico stesso.
Così, inevitabilmente, si torna ancora lì, all'albero della sinistra o alla Quercia e al percorso che ha portato lì. Magno prende una busta di carta ed estrae un pacco di fogli, almeno una trentina: sono tutti gli schizzi, o almeno una gran parte, che lui aveva realizzato nel 1990 per individuare il soggetto del simbolo; ci sono persino dei disegni di un militante che, saputo che si doveva cambiare l'emblema del partito, aveva mandato all'ufficio grafico le sue proposte. "Sai, riguardarle oggi per me è quasi commovente - mi dice - perché fa pensare a quanto i militanti avessero a cuore una scelta tanto delicata come quella di cambiare nome e corso al partito".
Senza rendercene conto, dopo oltre due ore e mezza di conversazione e condivisione di ricordi e pensieri, siamo passati al "tu", mentre davanti ai nostri occhi passano, una dopo l'altra, stelle, soli, occhi aperti, lettere "S" stilizzate che passano dalla bandiera rossa al tricolore (una soluzione che mi sarebbe piaciuta molto), quadrati, bandiere in tutte le forme e disposizioni, mani ("Strano, ogni tanto questo soggetto ritorna"), qualche albero qua e là, cunei rossi alla Lisitskij, colombe della pace e tanto altro. "Il mio modo di lavorare - spiega Magno - è questo, è come aprire il rubinetto dell'acqua, che si lascia scorrere per un po' prima che arrivi l'acqua fresca. In una prima fase soprattutto, tutto quello che mi viene in mente lo metto sulla carta, così poi posso lavorare meglio, con le idee più chiare".
In un'altra busta spuntano disegni per lo studio minuzioso della struttura dell'albero, dei dettagli della chioma per alleggerirla e ritoccarla o per darle un contorno più morbido, qualche variante con la "pulce" del Pci contornata di bianco (togliendo un po' di tronco); poi ci sono i lucidi per fissare la posizione delle lettere del nome e riportarle poi sul pannello finale. Foglio dopo foglio, prende sempre più corpo la consapevolezza del lavoro enorme fatto per arrivare al simbolo presentato giusto ventinove anni fa e, allo stesso tempo, emerge la distanza siderale rispetto a tanti emblemi politici che nascono oggi, magari in pochi giorni o addirittura in poche ore, fondati sui colori, sul lettering oppure sul nome del leader, ma con pochissime idee da comunicare - quando ci sono - e magari destinati a sparire nel giro di qualche mese, senza nemmeno finire sulle schede. "Il fatto è che è cambiata la società - mi dice Bruno - i militanti di una volta non esistono più. In Vedere a sinistra avevo pubblicato la lettera che ricevetti dal direttivo della sezione di Maropati, paesino della provincia di Reggio Calabria: i militanti si erano presi la briga di riunirsi per scrivermi che i manifesti che avevano ricevuto per il 25 aprile e il 1° maggio del 1982 non li avevano capiti e ancora più difficoltà aveva la gente comune, di estrazione agricola. 'Probabilmente per i più colti è un bellissimo grafico - avevano scritto - ma per le masse è privo di significato. Pertanto ti preghiamo di comunicare al responsabile Stampa e propaganda di tenere presente questa nostra comunicazione'. Ecco, questo rapporto tra 'noi' e 'voi', tra la base e la dirigenza, non esiste più. Penso sia questo, in fondo, il motivo per cui i simboli durano poco".
La conversazione sta ormai terminando, impregnata più che mai di ricordi e di emozioni che difficilmente si possono immaginare tutte insieme: è tempo comunque di tirare qualche somma.
Bruno Magno ha qualche rimpianto, almeno in materia simbolica?
No, devo dire che tutta quest'esperienza vissuta è stata per me talmente una sofferenza che non c'è posto per rimpianti.
Stai dicendo che ti è bastato?
Sì, indubbiamente.
Posso chiederti se lo rifaresti?
Forse lo rifarei, ma sono sicuro che poi mi pentirei.
La risposta lascia un po' di tristezza, se non altro perché aver avuto davanti agli occhi tutto il lavoro che è stato fatto (e che per fortuna è stato salvato dall'usura del tempo e dagli scarti d'archivio e dei traslochi grazie alla saggezza dell'artigiano) fa capire quanta passione sia stata convogliata lì. Eppure, quando il tempo dei saluti è arrivato, "Ah, ecco, dimenticavo: guarda quella terracotta fissata alla parete". Seguo lo sguardo di Bruno, che indica il muro davanti alla sua scrivania: lì quattro chiodini fissano una riproduzione di terracotta dell'albero della sinistra, con tanto di simbolo del Pci alla base. Niente scritte, solo la grafica. "Dopo che il mio albero divenne definitivamente il simbolo del partito, ricevetti quest'omaggio da una persona che lavorava la terracotta. Come vedi lo conservo ancora". Dopo quasi trent'anni, l'albero - o la Quercia - è lì, ben in vista, nella raffigurazione di un militante e non nella sua versione originale. Non avrà il valore storico del primo simbolo mostrato ai giornalisti, ma quello affettivo è sicuramente maggiore. E se quella quercia sta lì, al suo posto, significa che tutte quelle energie spese per elaborare il simbolo, di giorno e di notte, non sono andate perse. E non dovevano necessariamente trasformarsi in voti: a volte basta una quercia di terracotta, impastata di passione e di gratitudine.
Il ringraziamento maggiore, incalcolabile, va a Bruno Magno, per il tanto tempo che mi ha dedicato, per il dono che mi ha fatto con le sue parole e per avermi permesso di riprodurre varie immagini (a partire da quelle senza indicazioni sulla provenienza). Sono grato anche ad Amedeo Barbagallo per aver fornito, senza saperlo, l'appiglio per la ricerca, ad Antonio Folchetti per averla incoraggiata e sostenuta via via (come fa da anni per le varie iniziative di questo sito), nonché al prof. Americo Bazzoffia (Università Lumsa, Ied - Istituto Europeo di Design, Accademia di Belle Arti di Roma) e ancor più a Catia Sonetti e Margherita Paoletti (Istoreco Livorno, complice una mostra su Oriano Niccolai) per avermi messo sulle tracce giuste per arrivare a Magno.
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