lunedì 9 marzo 2020

Filippo Panseca: "Il garofano del Psi, l'unico simbolo inconfondibile"

Il primo garofano del Partito socialista italiano - nella storia della Repubblica, s'intende - finito sui manifesti e nel simbolo è stato quello di Ettore Vitale. Un'altra persona, però, avrebbe fatto nascere a Bettino Craxi l'idea, poi attuata qualche anno dopo, che quel fiore potesse diventare l'emblema del Psi; la stessa persona, a metà degli anni '80, ha disegnato il garofano che ancora oggi evoca più di ogni altra cosa l'era craxiana. Quella persona è Filippo Pansecaclasse 1940, palermitano da oltre cinquant'anni gravitante su Milano. Senza di lui non è possibile raccontare la storia dell'immagine dei socialisti italiani tra gli anni '80 e '90, dominati dalla figura di Craxi. Portano l'impronta indelebile di Panseca i momenti principali di quel "quindicennio lungo", vale a dire i congressi: le scenografie sono entrate nella storia e nella memoria politica forse più delle conclusioni delle assise stesse.
Non è giusto né opportuno ridurre l'autore di un simbolo o di una grafica storica al suo lavoro per quel partito: come si è già visto per Vitale, anche l'opera di Filippo Panseca è stata molto più ampia e sfaccettata rispetto a ciò cui ha legato il suo nome per il Psi. La sua è una storia di arte e di visioni, di creazioni spregiudicate e intuizioni applicate ai mezzi più disparati, ma anche di tanto buio, dopo che l'epoca d'oro (in tutti i sensi) di Craxi e dei socialisti in Italia era finita. Le idee e la voglia di sperimentare c'erano ancora, ma non interessavano più: tutti avevano una fretta dannata di girare una pagina divenuta rovente e scomoda, chi ne faceva parte era diventato impresentabile tutto d'un colpo.

Questa storia, ricca e complessa, merita di essere narrata dal vivo. Dopo i primi contatti, in cui si era già passati al "tu", Filippo ha proposto di incontrarci presso la sua casa-studio di Milano. Gli ho chiesto dove abitasse: "Vicino a dove stava Craxi e all'ex Ansaldo, quella del congresso con la piramide, ovviamente". Già, ovviamente, che razza di domanda... Lì mi rendo conto che "vicino" non rende l'idea: lo stabile che ospita l'abitazione di Panseca è proprio attaccato al complesso ex Ansaldo, che da oltre trent'anni appartiene al comune di Milano; al suo interno oggi, del tutto rigenerato, ci sono le attività più diverse, compreso il Mudec, Museo delle culture. Fa tutto parte della stessa area industriale nata oltre cent'anni fa: "Il palazzo dove sto io, all'angolo tra via Bergognone e via Savona, condivide quella storia: ai primi del Novecento era sede del cappellificio Melan" mi spiega Panseca, mostrandomi le foto d'epoca all'ingresso del palazzo. Lui in quella zona era arrivato ben prima del congresso del 1989 e l'ha vista mutare a fondo, da area depressa da conquistare a spazio rilevante del design district di Milano: "Ora sto per andarmene - precisa -. Mi trasferisco a Pantelleria. Lì ho comprato una caserma mussoliniana, che era abbandonata e io ho trasformato in luogo di pace e creatività; a Milano terrò solo un appoggio".
Il congresso Psi del 1989 - Dal profilo Facebook di Filippo Panseca
Filippo prende alcuni oggetti per raccontare la sua storia, poi ci spostiamo - quattro minuti a piedi - proprio all'ex Ansaldo, in un locale ricavato in quelli che un tempo erano dei depositi. "Vedi quei capannoni qui di fronte?", mi dice Panseca prima di aprire la porta. "Il congresso del 1989 lo si è fatto proprio lì: ora in quegli spazi enormi hanno sede i laboratori-atelier del Teatro alla Scala". Quel congresso affiora per forza di cose prima che la nostra chiacchierata inizi, anche se non è ancora il suo momento. C'è molto altro di cui parlare, per dare conto di una figura multiforme, che nel tempo ha ricevuto i titoli più disparati: pittore, scenografo, artista, architetto (non lo è, ma ci torneremo): come si qualifica Panseca? "Io sono un ricercatore del bello, anche in cucina. Mi piace cucinare e mi diverto a inventare dei piatti, a progettarli come se fossero palazzi: metto gli ingredienti sul tavolo, li metto insieme, poi li cucino e me li mangio".
Non male come esordio: non a caso, nella sua casa-atelier - in cui c'è davvero di tutto: due pianoforti (uno verticale e uno a coda), oggetti di ogni tipo, abiti a vista ("Prendo tutto nei mercatini: mi piace andare lì e vedere delle cose che ti vengono incontro, le provo e se mi piacciono le compro"), centinaia di libri e, naturalmente, varie sue opere - la cucina è enorme, adatta a chi pratica la creatività. Così come non è un caso che in più occasioni Panseca abbia abbinato arte e cucina, con le sue "cene al museo", in cui i commensali dell'artista mangiano circondati dalle opere d'arte ("Avevo iniziato già negli anni '70, in un locale milanese che si chiamava Spaghetti & co."). E pensare che proprio a un ristorante, anzi, alla cacciata da una trattoria si deve il primo incontro di Filippo Panseca con Bettino Craxi alla fine degli anni Sessanta. Incontro che, a dire il vero, parve piuttosto uno scontro. 

Filippo, mi racconti il tuo primo incontro con Craxi? Com'è iniziato il vostro rapporto?
Con una lite! Ci trovammo in un ristorante, una trattoria chiamata l'Angolo, in via Fiori Chiari a Milano. La gestiva Angelo, un comunista sfegatato e molto amico degli artisti: aveva riservato a loro un tavolo di una decina di posti e a questi non portava il conto, ma voleva essere pagato in opere. Tra l'altro, non è che uno arrivava, diceva "sono un artista" e si sedeva: doveva decidere lui. Io ero tra le persone ammesse, ma c'erano tutti gli artisti più importanti del momento della scena milanese. Il fatto è che lui era matto: certe sere rimaneva con noi per ore, anche fino alle due o alle tre di notte, mentre tutti i locali chiudevano al più tardi a mezzanotte; altre volte non era così. Una sera di queste, in cui c'erano tre o quattro persone al nostro tavolo e giusto altri tre clienti in un tavolo vicino, a mezzanotte precisa sbottò: "Avete rotto, voi tirate tardi e domattina non dovete fare un cazzo, mentre io devo andare al mercato alle sei. Andate affanculo, fuori tutti!" 
Insomma, vi buttò fuori... 
Esatto. Noi ci alzammo per uscire e altrettanto fecero gli altri tre che erano a cena: tra loro c'era Bettino Craxi. Lui conosceva uno di questi pittori, si avvicinò e disse: "Ragazzi, che vogliamo fare? Volete continuare a casa mia?" Io non l'avevo mai visto, non sapevo neanche chi fosse: erano i primi mesi del 1968 e lui era consigliere comunale socialista a Milano; in ogni caso accettammo tutti la sua proposta. Una volta fuori, un tale che passava di lì gli si fece incontro: "Bettino, mi dai mille lire?"; lui invece gli rispose a male parole, insultandolo e mandandolo via. Io ero dietro di lui e, avendo visto la scena, lo attaccai: "Minchia, ma sei uno stronzo! Ma come, lui ti chiama per nome e tu lo tratti così?" A quel punto Bettino trattò male me: "Ma tu che cazzo vuoi? Che ne sai di questo?" "Io non voglio un cazzo, ma non si trattano così le persone, tanto più se ti conoscono e ti chiamano per nome". Lui mi spiegò che la mattina aveva fatto uscire quel tale dal carcere e gli aveva già dato diecimila lire; a quel punto mi scusai, ovviamente non ne sapevo nulla. Il mio accento doveva averlo colpito: "Sei terrone? Anche mio padre lo è di origine". Andammo a casa sua, iniziammo a parlare, mi chiese cosa facessi: "Il pittore", gli risposi io e il rapporto iniziò così. 
In sostanza, quando il garofano apparve al 41° congresso del Psi di Torino, tu e Craxi vi conoscevate già da dieci anni.
Sì, ma l'idea del garofano, in realtà, arrivò prima, a Roma, a un tavolo del ristorante "Tre Scalini" a Piazza Navona: con me e Bettino c'erano Tonino Cervi, il figlio di Gino, Claudio Martelli, Rino Formica e Massimo Pini, direi anche Margherita Boniver. Eravamo a metà degli anni Settanta e Craxi, che probabilmente non era ancora segretario, aveva già in testa di cambiare il simbolo. Così, davanti a Formica che era della sinistra del partito ed era legato ai vecchi segni, disse con veemenza che era ora di cambiare l'emblema del partito: "Falce e martello non li voglio più vedere, li abbiamo ereditati e sembriamo i cugini poveri del Partito comunista. Filippo, inizia a pensare a un nuovo simbolo". Iniziammo a parlare e io dissi: "Sarebbe bello usare un fiore, magari il garofano". Per me era un fiore con una storia antifascista, di sinistra; all'inizio del Novecento poi c'era una pubblicazione socialista intitolata Il garofano rosso, ma io ancora non lo sapevo. Insomma, era il simbolo ideale.
Quasi lo stesso ragionamento che aveva fatto Ettore Vitale quando nel 1973, per uno dei suoi primi manifesti realizzati per il Psi, aveva scelto per il Primo Maggio il garofano stretto nel pugno. Come reagì Craxi?
Molto bene direi: "Quelli - esclamò - si sono già fregati la rosa nel pugno, allora noi possiamo usare il garofano!"
Con "quelli" immagino si riferisse ai radicali, che già nel 1973 avevano inserito una versione della rose au poing nella testata di liberazione e dal 1974 avevano reinterpretato il tema per le loro tessere e alcune campagne. 
Il fatto è che Marco Pannella aveva avuto l'occhio lungo, il simbolo utilizzato dal Partito socialista francese gli era piaciuto e l'aveva adottato per il Partito radicale, mentre i socialisti italiani, con Francesco De Martino alla segreteria, ancora non erano pronti a mettere da parte la falce e il martello. In ogni caso, la mia idea del garofano era piaciuta a Craxi e anche ad alcuni degli altri commensali; dopo quella cena ai "Tre Scalini", però, non ne parlammo più e quelle rimasero solo chiacchiere da tavola. 
Fino a quando?
Fino a quando Bettino Craxi, dopo le dimissioni di De Martino e dell'intera direzione nazionale, fu eletto segretario del partito dalla nuova direzione che si svolse il 16 luglio 1976 all'hotel Midas, fino al nuovo congresso. Questo si sarebbe svolto nel 1978, al palazzo dello sport di Torino: alcuni mesi prima Bettino, che in una divisione di compiti interna continuava a occuparsi dell'organizzazione del partito, mi chiamò e mi chiese di progettare il congresso e allestirlo. Io non avevo mai fatto nulla di simile, ma ero incosciente e mi dissi: perché no? In quell'occasione, lui aggiunse: "Usa il garofano per il congresso, già nel manifesto"; evidentemente voleva tastare il polso della base socialista su quel nuovo elemento visivo. Siccome noi quella sera a Piazza Navona avevamo parlato di un simbolo con il garofano, buttai giù uno schizzo di un garofano già pensato come se fosse stato un simbolo, poi lo mandai via fax ad Angelo Molaioli, che si occupava della propaganda e della grafica all'interno del partito: gli dissi che occorreva mettere un garofano nel manifesto del congresso. Feci solo uno schizzo perché io ero impegnato a Torino ad allestire il congresso e non avevo tempo di occuparmi anche della grafica congressuale. Evidentemente lui, a partire da quell'idea grafica che gli avevo mandato, commissionò il manifesto a Ettore Vitale.
E in effetti, in quel manifesto, il garofano dalla grande corolla chiuso nella corona rossa, con falce, martello, libro e sole in miniatura, sembrava un simbolo. Anche se ufficialmente non lo era. 
Io di quel simbolo poi feci realizzare una riproduzione enorme, di oltre cinque metri di diametro, da collocare sul fondo rosso dietro al tavolo della presidenza. Era tutto pronto la sera, anzi la notte prima del congresso, tra mille tensioni: il congresso doveva aprirsi il 29 marzo e meno di due settimane prima avevano rapito Aldo Moro, quindi la politica era in fibrillazione. Verso le due di notte, a poche ore dall'apertura, arrivarono per un sopralluogo Rino Formica, che era a capo dell'amministrazione, e Nerio Nesi, che come torinese d'adozione aveva seguito l'organizzazione del congresso, nonché la linea economica del partito. A un certo punto, guardando il palco, mi dissero: "Scusa, ma il simbolo del partito dov'è?" E io, candidamente, indicando la gigantografia sul fondale, risposi: "Eccolo il simbolo!" "E chi l'ha votato?" ribatterono loro, incazzatissimi. Dissi che Bettino aveva voluto il garofano come simbolo del congresso e quindi avevo fatto realizzare quella gigantografia, che per me era già il simbolo del partito; loro però insistevano, lamentandosi perché io avevo inserito il garofano nel simbolo del partito senza che nessuno l'avesse votato.
Scenografia originale del congresso di Torino (Ass. Amici dell'Avanti!)
Immagino la scena... E a quel punto come avete risolto?
Io chiamai direttamente Bettino da uno dei telefoni che avevo fatto predisporre sul tavolo della presidenza; in effetti pure Formica afferrò un altro dei telefoni lì presenti, ma io riuscii a beccare la linea per primo.
Quando si dice la fortuna...
Già... In quel momento Bettino stava sistemando il suo discorso di apertura e, quando squillò il suo telefono, quasi saltò sulla sedia: "Che è successo?" disse preoccupato, credendo che ci fossero evoluzioni del "caso Moro" o fosse capitato qualche altro fatto di sangue. Io cercai di tranquillizzarlo, dicendogli che non era successo nulla, ma che Nesi e Formica stavano piantando un casino assurdo perché non avevo messo il simbolo del partito nella scenografia. "Ma perché, non l'hai messo?" "No, ho messo il garofano, quello dei manifesti." "Ah, e loro che dicono?" "Che va tolto perché questo simbolo non l'ha votato nessuno. Che devo fare Bettino? Sono le due di notte e domattina alle 12 si apre il congresso..." Lui ci pensò un po', poi mi disse di lasciare la gigantografia col garofano e di recuperare in fretta un simbolo più piccolo, per metterlo da qualche parte. Ero un po' in apprensione: a quell'ora non sapevo come avrei fatto a recuperarlo. Chiesi ancora a Bettino cos'avrei dovuto fare del garofano che avevo fatto riprodurre anche sulla tribuna dell'oratore, davanti al palco: "Sul simbolo del podio sgnaccaci una bandiera italiana!" 
Il vecchio simbolo, in alto a sinistra sul fondo (Ass. Amici dell'Avanti!)
Una soluzione improvvisata, ma tutto sommato pratica...
Beh, sì, ma restava il problema non da poco del simbolo per il fondale. Chiamai il titolare della ditta che curava l'allestimento e gli dissi che serviva subito un esemplare del vecchio simbolo, quello con falce, martello, libro e sole. "Ma scusi - rispose lui - me lo dice ora, alle due di notte, e lo vuole entro poche ore?" La mia richiesta era un problema anche per lui: quel simbolo, disegnato da Sergio Ruffolo, era complicato, soprattutto con i raggi del sole che occupavano gran parte del cerchio. Morale: dovette farlo a mano, in polistirolo e anche di una certa dimensione, un paio di metri di diametro, perché si potesse vedere da lontano. Me lo portarono alle 9 e 30 del mattino, quando la gente stava già arrivando, così lo montammo sulla parte sinistra del fondale, chi parlava l'aveva alle spalle alla sua destra: quando il simbolo passò tra la gente seduta al palasport, scattò un enorme applauso.
Quando Craxi ti disse di far mettere un garofano nel manifesto, avevi immaginato che sarebbe scoppiato un simile caos per il simbolo? Ed eri d'accordo con l'idea che il Psi dovesse cambiare immagine, abbandonando o mettendo in secondo piano i vecchi segni a vantaggio di qualcosa di nuovo?
Non pensavo affatto che potesse scoppiare quel caos, anche perché ero d'accordo con l'idea di cambiare immagine. Con Bettino si parlava di continuo di questo: lui falce e martello proprio non li poteva vedere, perché gli ricordavano il comunismo e l'Unione Sovietica e lui non aveva nulla a che spartire con questo. Così non mi stupii quando mi chiese di usare il garofano come tema del congresso di Torino, mentre mi stupii delle reazioni.


Dall'archivio del Corriere della Sera
La testimonianza "in presa diretta" più viva dei malumori (dei silenziosi come De Martino, dei sobri come Pertini, dei più accesi che parlarono di "golpe grafico") e di qualche soddisfazione tra i delegati a Torino (tra i quali Gianni De Michelis e Claudio Martelli) è probabilmente quella di Ferruccio De Bortoli, che il 30 marzo 1978, sul Corriere dell'informazione, scrisse un resoconto intitolato Il garofano schiaccia falce e martello. Nell'articolo è citato anche Filippo Panseca, anche se lì non si parla di Vitale e si sostiene che sia stato l'artista siciliano trapiantato a Milano a rifare "il fiore decine e decine di volte e seguendo i suggerimenti di Craxi": si è visto invece come sono andate effettivamente le cose dalla viva voce dei protagonisti (Vitale e lo stesso Panseca).
Quel congresso del 1978, in ogni caso, fu un congresso seminale. E non solo perché fu il primo dell'era craxiana e avrebbe aperto la strada - a dispetto delle reazioni - al garofano come simbolo del partito. Quello torinese fu il primo di una lunga serie di allestimenti di eventi curato da Filippo Panseca, che come detto si improvvisò in quel ruolo. E dal momento che anche le scenografie e le liturgie congressuali sono divenute a loro modo simboliche, non è inutile parlarne ora.

Filippo, concentriamoci per un po' suoi "tuoi" congressi, a partire ovviamente dal primo, quello di Torino, di cui Craxi ti chiese di occuparti.
Tieni conto che io non avevo mai organizzato dei congressi di partito. Da anni, invece, mi occupavo di discoteche: il Number One a Milano, il Covo di Nord-Est a Santa Margherita Ligure, poi avrei fatto lo Studio 54 ancora a Milano. Intanto era arrivato il congresso di Torino e prima ancora - dal 1972 al 1975 - ho lavorato come direttore della scenografia per la Gamma Film di Roberto Gavioli, uno dei maggiori produttori di caroselli. Poi me ne sono andato e, come docente di pittura, ho insegnato per trentacinque anni all'accademia di Brera, creando nel 1991 la prima cattedra di Computer Art. 
Un bel cambiamento, dalla pubblicità d'antan e dai templi del divertimento alle cattedrali della politica... Un tuffo carpiato.
Lo è stato soprattutto se consideri com'erano strutturati i congressi allora: un lungo tavolo con una tovaglia per la presidenza e il simbolo del partito al centro, una cosa davvero povera. Allora, tra l'altro, la tribuna dell'oratore era quasi sempre defilata, a sinistra per la platea e a destra per chi sedeva alla presidenza: la cosa mi sembrava folle e non ne capivo la ragione, anche perché costringeva i delegati a stare sempre con la testa girata per guardare chi parlava. Riflettendo ho intuito che questa sistemazione derivava dalla cultura cattolica: l'ambone e il pulpito sono sempre collocati in posizione laterale, per cui lettori e sacerdoti non danno mai le spalle al Santissimo. A me però questo non interessava, quindi ho messo la tribuna al centro: da lì, anche altri partiti hanno iniziato a fare lo stesso. In effetti, in quel congresso a Torino non avrei potuto fare altro: il palasport era circolare.
Hai apportato altre innovazioni importanti in quell'occasione?
Sì, a partire dallo sfruttamento della forma del palazzetto: ho collocato e diviso i posti dei congressisti, giornalisti e invitati stranieri in modo che, dall'alto, tracciassero il simbolo della pace. A parte che quel congresso non era iniziato esattamente all'insegna della pace...
Perché, cos'era successo?
Quando andai all'inizio del 1978 all'incontro con Aldo Viglione, presidente socialista della regione Piemonte, avevo appuntamento nella sede della presidenza: ero partito da Milano in tenuta militare, con pochissimi soldi in tasca e una sacca verde dei marines con i rotoli dei miei disegni. Arrivato al luogo dell'incontro, in portineria dissi che dovevo vedere il presidente, ma l'usciere mi disse di accomodarmi perché lui era occupato; dopo una ventina di minuti riprovai e lui ribadì che era occupato. Poco dopo passò di lì Gennaro Acquaviva, che allora era capo della segreteria di Craxi e mi conosceva: "Panseca, ma che fai lì? Là sopra ti stanno aspettando da un po'!". Io gli risposi: "Vedi che questo stronzo non mi fa passare", indicato la persona che stava in portineria. Acquaviva gli disse che stavano aspettando "l'architetto Panseca": "Ah, mi scusi, non lo sapevo", si scusò quello, anche se io da mezz'ora gli dicevo che dovevo salire. Evidentemente la tensione di quel periodo, funestato dal terrorismo, mi aveva fatto etichettare come uno pericoloso. Mi presentai alla riunione da Viglione, cui partecipavano anche altre persone, tutte socialiste: c'erano anche Nerio Nesi, Rino Formica e Giuseppe La Ganga. Io tirai fuori i miei rotoli e li aprii sul tavolo: uno dei presenti si avvicinò per chiedermi se Craxi avesse visto i progetti. "Sì, Bettino li ha visti e gli sono piaciuti", dissi io, anche se in realtà non aveva visto un bel niente. 
Palazzetto in allestimento 
Avanti!, 26 marzo 1978
Beh, fin qui ho visto pochi turbamenti della pace, a parte le seccature all'ingresso...
Aspetta. Dopo un po' Nesi, che era il segretario amministrativo del Psi piemontese, mi chiamò e disse, dandomi del lei: "Guardi, il progetto è molto bello. Lei ora ce lo lascia e noi lo facciamo realizzare dai nostri architetti". Lo guardai e non gliele mandai a dire: "Lo faccia fare ai vostri architetti, il vostro progetto però!" e, senza dire altro, arrotolai i miei disegni, ripresi le mie cose e me ne andai. Stavo per uscire dalla sala quando incontrai di nuovo Acquaviva: "Ma 'ndo vai?" "Me ne sto andando." "Ma no, dobbiamo discutere dei dettagli del progetto." "Ma quali dettagli? Ma se Nesi mi ha detto che ci pensano i suoi architetti..." "Ah sì? Aspetta un attimo." Acquaviva a quel punto si mise a parlare con Nesi: "Guarda che lui è venuto per fare il congresso, non per cercare gli architetti che lo devono fare. O lo fa lui o niente". Nesi ci pensò un attimo, poi mi richiamò, si scusò per l'equivoco - che equivoco non era affatto - e mi invitò a sedermi: "Accomodiamoci e parliamo di soldi". Mi sedetti e, trovato l'accordo, dissi: "Da domani io sono operativo. Vorrei una suite all'albergo e una macchina a mia disposizione. Ah, e vorrei subito un acconto". Mi diedero tutto quello che avevo chiesto. Tutto, anche l'acconto.
In una manciata di secondi era cambiato tutto: avevi acquistato un potere enorme...
Già. Poi, appena potei, chiamai Bettino e gli raccontai tutto: "Hai fatto bene a rispondere così", mi disse. E non mi stupii: come ti ho già detto, lui e Nesi non la pensavano esattamente allo stesso modo. Morale della favola: il giorno dopo mi ripresentai a Torino e trovai la suite, una Fiat 130, macchina di lusso per i tempi, con tanto di autista a mia disposizione, che era poi un giovane studente, figlio di un compagno. 
Per tutti i congressi successivi, fino al 1991, l'allestimento l'hai curato tu. Ti davano indicazioni o sceglievi tu su cosa incentrare la scenografia?
Decidevo io e avevo capito il meccanismo: ogni volta cercavo un simbolo, un'idea centrale per il congresso, che doveva restare impressa nella mente di chi partecipava o assisteva allo spettacolo. Sì, perché era uno spettacolo in piena regola e io volevo che quello spettacolo uscisse dalla sala del congresso e fosse disponibile anche per gli altri. Quando facemmo il congresso qui all'Ansaldo avevamo scoperto che il canale televisivo 36 era libero, perché era quello su cui ci si sintonizzava per registrare altri programmi. Io allora usai quel canale per trasmettere le immagini del congresso, grazie a un'antenna che avevamo installato: i milanesi di fatto potevano vedersi il congresso senza muoversi da casa e assistere allo spettacolo. Uno degli ultimi comizi di Craxi, a Roma, riuscii a trasmetterlo nelle sale cinematografiche di gran parte dell'Italia. E, perché le immagini uscissero dalla sala e finissero sugli schermi, piccoli o grandi, le luci dovevano essere curate, come in tv.
Segno che anche la tecnologia ha distinto i congressi socialisti di quegli anni.
Io mi studiai tutti i meccanismi da mettere in moto per un congresso, a partire dagli strumenti a disposizione della stampa. Fino ad allora ai congressi di partito i giornalisti potevano solo arrivare in sala con il loro taccuino e la macchina da scrivere portatile, per poi dettare i loro pezzi in redazione. Noi superammo tutto ciò e creammo la sala stampa, attrezzata con le macchine da scrivere che Olivetti ci dava in uso e i primi monitor che consentivano ai giornalisti di seguire i lavori congressuali da lì. Gli ultimi congressi erano decisamente più elettronici: chi arrivava, delegato, membro di delegazione o giornalista, aveva già tutto il suo materiale pronto, compreso il pass per accedere alle varie aree. 
1981, congresso di Palermo (foto da Panseca.it)
Dicevamo dei congressi successivi. Hai curato l'allestimento dell'assise di Palermo nel 1981, di cui si ricorda un colossale garofano sul monte Pellegrino, vicino al castello Utveggio.
Di quell'anno, in realtà, mi ricordo soprattutto un episodio. Il segretario dei giovani socialisti di allora si era sposato da due settimane e mi invitò a cena nella sua casa, che però era vuota e spoglia. Mi disse che gli sarebbe piaciuto avere un quadro mio, io tra me e me pensai: "Perché no?". Mentre gli altri erano in cucina, io me ne andai nel salotto e, con il matitone che avevo con me, gli disegnai un garofano sul muro. Al momento di pranzare in sala, lui vide il garofano disegnato e mi abbracciò, poi però mi disse: "Cazzo Filippo, è bellissimo, ma quando lascio questa casa come faccio? Stacco il muro?". Lui ancora si ricorda quell'episodio... e quella casa poi l'ha lasciata!
1984, congresso di Verona (foto da Panseca.it)
Dopo Palermo, arrivò il congresso di Verona del 1984, che invece sembrava prendere spunto dalla tua attività precedente legata alle discoteche, visto che la scenografia era piena di luci al neon - per il simbolo e per le scritte - e c'erano specchi ovunque. E in quel contesto Craxi fu rieletto segretario per acclamazione...
Oltre alla mia esperienza sulle discoteche, che in quel periodo andavano molto, c'era soprattutto il tentativo di rendere spettacolare e meno triste il luogo che era stato scelto per il congresso, presso la fiera di Verona. Di certo la mia scelta non passò inosservata. 
1987, congresso di Rimini (foto da Panseca.it)
Poi arrivò il tempio greco al congresso del 1987, svoltosi a Rimini.
Devi sapere che la sala della Fiera in cui si svolgeva il congresso era piena di colonne. Le guardai e pensai quasi subito: "Cazzo! Qui posso inserirmi in questa 'architettura' già presente e costruire una specie di agorà in cui si parla dei problemi dell'Italia e del partito". Di quest'idea del tempio si iniziò a parlare sui giornali già prima del congresso...
Prima? Faceva notizia già prima e più dei contenuti?
Esatto, ed era una cosa che succedeva solo col Psi, perché solo noi puntavamo così tanto sullo spettacolo. Anche Bettino era sorpreso di tutto questo, al punto che, quando poi il congresso si aprì sul serio, si incazzò: "Tutto questo casino per giorni per questo piccolo tempio?". E pensare che, per erigere quelle colonne alte otto metri e il frontone con sopra il garofano, c'è stato bisogno di una gru e di un sistema di cerniere e bloccaggi che tenesse in piedi tutto: ci fu persino qualcuno della Fiera che si lamentò con noi perché avevamo fatto dei buchi in terra...  Non fu l'unica grana organizzativa. Quella volta a Rimini, infatti, arrivarono delegazioni da ogni parte del mondo ed ebbi vari problemi con quella dell'Olp, legata a Yasser Arafat, che tra l'altro si presentò armata: dovetti disporla a notevole distanza dalla delegazione proveniente da Israele, per evitare guai seri... 
Se non sbaglio a Rimini iniziò anche la pratica degli stand commerciali, con tanto di vie dedicate a personaggi socialisti, per non perdersi in quel dedalo di espositori.
Sì, andò così. Quella volta di fatto ci misero a disposizione l'intero spazio della Fiera, visto che all'epoca si riteneva poco sicuro consentire un uso misto, per ragioni di ordine pubblico. Davanti a tutto quello spazio potenzialmente da occupare, proposi: "Perché non ci inventiamo una cosa nuova? Facciamo degli stand da concedere in affitto alle aziende". Mettemmo così molti spazi a disposizione dell'Italia che produce e Rimini fu il primo banco di prova per questa iniziativa: venne la Ferrari, tante aziende vicine al Psi, realtà produttive di tutto il Paese, con le eccellenze, alimentari e non, di ogni parte d'Italia. Fu una cosa davvero rivoluzionaria, che tra l'altro dava la possibilità di vivere in pieno gli spazi del congresso: era normale che, dopo un po', i delegati e gli invitati si rompessero le palle, così avevano la possibilità di uscire, svagarsi e incontrare i compagni in una situazione più informale. Anche Craxi, di quando in quando, usciva, si faceva un giro: le televisioni lo seguivano in massa e quegli stand finivano nelle immagini di tutti i telegiornali. Il partito concedeva gratuitamente gli spazi ad alcune realtà di valore sociale, gli altri li dava in affitto, ovviamente a prezzo maggiore di quello pagato alla fiera, e incassava: hai idea di quanta gente facesse la fila per avere un posto a quello spettacolo, a quella festa dei socialisti, anche se costava caro? E hai idea di quanto il Psi abbia guadagnato, tra l'altro in modo perfettamente legale? 


Scatto d'epoca: Panseca circondato dalle prove del suo simbolo
Come la foto mostra, il congresso di Rimini - 31 marzo - 5 aprile 1987 - si svolse sotto l'insegna di un nuovo garofano, stavolta concepito e realizzato da Filippo PansecaIn effetti, quel garofano fece la sua prima comparsa in pubblico il 6 marzo 1987. Il giorno dopo, infatti, un articolo di Sandra Bonsanti per la Repubblica (Così al Psi venne l'idea di spiazzare De Mita) iniziava così: "Il garofano rosso adesso ha un gambo lungo lungo che s'è mangiato del tutto le ultime tracce di falce e martello, del libro aperto, del sole nascente: il nuovo simbolo del Psi, disegnato da Filippo Panseca, arriva per telefoto da Rimini, dove tutto è pronto per la cinque giorni del 44° congresso". Sempre il 7 marzo 1987, sull'Avanti! non c'è traccia del simbolo rinnovato, neanche nel talloncino dell'ultima pagina utile per prenotare l'albergo in vista dell'assise di Rimini; lì e nel resto del giornale, anzi, il garofano è quello di Vitale. In effetti, il 29 marzo sempre Bonsanti sulla Repubblica precisò, con riguardo al nuovo garofano di Panseca, che "per ora non è un simbolo, è solo un manifesto" e a dirlo sarebbe stato proprio il suo creatore: alle elezioni politiche del 14 e 15 giugno, però, sulla scheda finì proprio quel fiore ridisegnato.
Articolo di Gianni Riotta, da La Stampa del 23 ottobre 1986
Del resto, un articolo di Gianni Riotta, uscito sulla Stampa il 23 ottobre 1986, si apriva con l'annuncio: "Alle prossime elezioni il psi avrà sulle schede un nuovo simbolo. Via la falce e il martello dei bolscevichi, via il libro e il sole nascente riformisti, resterà solo un cerchio profilato di bianco e al centro un garofano, l'emblema del craxismo, con la scritta Partito socialista". Lo stesso Panseca, intervistato da Riotta, parlava di un nuovo garofano "più aggressivo e più bello" (si faceva anche cenno a una "polemica a mezza voce" sulla paternità del garofano tra Vitale e Panseca, ma si è già spiegato come sono andate le cose: nel 1973 Vitale aveva recuperato il garofano nei manifesti, pochi anni dopo Panseca aveva offerto l'idea di quel fiore come simbolo; Craxi la recuperò nel 1978 per il congresso di Torino e ne parlò con Panseca, ma il disegno del logo del congresso - poi riprodotto in formato gigante da Panseca - e quello del simbolo del 1979 furono opera di Vitale).
Benché il suo uso sia durato meno (1987-1993, due elezioni politiche, un'europea e un turno di regionali, oltre alle varie elezioni amministrative) rispetto a quello del simbolo creato da Ettore Vitale (1979-1987, due elezioni politiche, due europee, due turni di regionali, oltre alle amministrative) e coincida solo per una manciata di giorni con la permanenza di Bettino Craxi a Palazzo Chigi (le dimissioni, presentate una prima volta il 3 marzo 1987, erano state confermate il 9 aprile), il simbolo disegnato da Filippo Panseca è ritenuto da molti come l'emblema più caratteristico della stagione craxiana, probabilmente perché è legato ai risultati percentuali migliori per il Partito socialista italiano e perché aveva reciso ogni legame con il passato, anche dal punto di vista grafico. Ora, lasciando per un po' da parte i congressi, è arrivato il momento del garofano.


Prima abbiamo visto come il garofano era emerso come possibile simbolo per il Psi, fino al caos legato al fondale del congresso del 1978 e al successivo "marchio" elaborato da Ettore Vitale. Come sei arrivato tu a ridisegnarlo e a farne il simbolo della seconda parte della segreteria di Craxi?  
Il fatto è che quel simbolo adottato nel 1979, come mutazione del garofano congressuale, non aveva convinto del tutto Bettino. Per lui il disegno del garofano era comunque troppo grosso, nella corolla e nel gambo; in più c'erano sempre falce e martello che, come dicevo, da tempo lui avrebbe voluto veder sparire dal simbolo. In varie occasioni si disse insoddisfatto e mi invitò a rifare il simbolo secondo le sue indicazioni. Dopo una volta in cui disse "Basta, falce e martello non li voglio più vedere", mi misi all'opera e iniziai a fare un po' di prove, per valutare quale soluzione avrebbe potuto essere più efficace.
Quali tentativi hai fatto?
Beh, gli studi sono stati molti [nel dirlo apre un pacco di cartoncini di quaranta centimetri per lato e li scorre uno ad uno, mostrandoli], combinando le varie opzioni possibili. Gli unici elementi costanti, di fatto, sono stati la corona circolare e la dicitura "Partito socialista" disposta ad arco nella parte alta, conservati direttamente dal simbolo elaborato da Ettore Vitale; il resto è stato sottoposto a variazioni di diverso tipo. Alcune prove erano in bianco e nero, altre a colori, altre miste: avevo provato a mettere il garofano colorato all'interno di una corona nera, giusto per vedere l'effetto che faceva.
Il bianco e nero ovviamente serviva perché le schede elettorali si stampavano ancora così e molto materiale magari veniva ciclostilato.
Certamente, ma volli provare ugualmente a vedere come sarebbe stato l'accostamento del garofano colorato e della corona nera. Con il verde del gambo (Pantone 348), il bianco del fondo e il rosso della corolla e della corona (Pantone 185), c'erano già tutti gli ingredienti per richiamare la bandiera italiana, senza dover inserire altri elementi, quindi il fiore colorato era un ingrediente essenziale del disegno. 
In un primo tempo cercai anche di mantenere falce, martello, libro e sole: in fondo qualcuno che avrebbe voluto mantenerli c'era ancora, quindi qualche tentativo era opportuno farlo. Presi quelle figure direttamente dal simbolo disegnato da Sergio Ruffolo e adottato dal partito nel 1971: lì il sole conteneva gli altri elementi, che dunque inevitabilmente vedevano ridotto il loro peso, quindi mi sembrava che quella presenza nel simbolo potesse essere "indolore" o, comunque, poco ingombrante. In una fase successiva, tuttavia, Craxi mi disse di togliere proprio ogni traccia di quei segni, proprio perché non voleva più sentir parlare di falce e martello: le altre prove le feci solo con il garofano.
Su quali varianti hai lavorato?
Come ti dicevo, nei miei esperimenti ho tenuto ferma la corona e la dicitura "Partito socialista", oltre che naturalmente la presenza del garofano; il resto, però, l'ho messo in discussione e ho fatto i miei tentativi. Innanzitutto ho lavorato sul nome, nel senso che avevo considerato la possibilità che Craxi volesse inserire il nome intero del partito all'interno del simbolo, sacrificando la sigla Psi che pure era già presente nell'emblema creato da Ruffolo e che Vitale aveva ripreso nel suo simbolo. 
Preparai così diverse varianti in cui avevo inserito anche l'aggettivo "italiano", ovviamente scritto in senso antiorario in modo che si potesse leggere correttamente. Alla fine, però, si scelse di tenere la sigla così com'era, forse perché in oltre dieci anni a quella presenza si era fatta l'abitudine, perché si leggeva meglio o perché la sigla in effetti era utilizzata da molti e in vari contesti per riferirsi al partito. 
Sotto questo profilo, possiamo dire che il simbolo disegnato da te ha un elemento di continuità rispetto a quello elaborato da Ettore Vitale nel 1979. Quello che cambia di più, in effetti, è proprio il garofano: vedo che su questo hai lavorato molto, visto il numero di versioni anche solo leggermente diverse che hai prodotto nel corso dei mesi. 
In effetti, al di là della sparizione di falce, martello, libro e sole, secondo le indicazioni di Craxi, l'altro elemento su cui Bettino aveva chiesto di intervenire era proprio il garofano. Come ti dicevo prima, il gambo e la corolla per lui erano troppo grossi e voleva che li alleggerissi. Per questo motivo, in nessuna delle ipotesi di lavoro trovi il garofano del 1979, dal quale dovevo invece allontanarmi; partii piuttosto dal fiore "della discordia", quello del famoso fondale del congresso di Torino dell'anno prima, e da lì feci un po' di prove.
Scelsi quel garofano perché, a differenza di quello dell'anno dopo, aveva il gambo più sottile, quindi era già più in linea con i gusti di Bettino. Per evitare che la corolla risultasse troppo grossa, cercai di rimpicciolire un po' il fiore all'interno del cerchio interno bianco, ma così sembrava quasi fluttuare e non era il miglior risultato possibile. Una soluzione poteva stare nell'allungare il gambo del garofano: lo feci in modo "artigianale", replicando una parte del gambo e collocandola al di sotto di quello che già c'era. Già così il fiore risultava più slanciato, quindi valeva la pena disegnare direttamente un gambo nuovo, stringendo un po' il calice e mantenendo l'idea delle due foglie leggermente ondulate, portandole però più verso il basso. Questa, alla fine, è stata l'opzione che è parsa più efficace e questa, con qualche ritocco, è entrata nel simbolo definitivo.
Restava da lavorare sulla corolla del garofano...
Esatto, anche se naturalmente portavo avanti tutti insieme i miei tentativi, sui vari elementi che potevano essere ritoccati. Come ti ho detto, sono partito dalla corolla del garofano del 1978, che ho utilizzato in varie prove; in effetti però ho anche provato a renderla più regolare, riempiendo quella parte di destra che appariva "smangiata". Di soluzioni e combinazioni ne ho provate varie, con corolle di varia forma e dimensione, sempre dal profilo irregolare: una, per esempio, l'ho usata soprattutto all'inizio ed era molto schiacciata, si sviluppava in orizzontale più che in verticale, l'ho provata con il gambo del 1978 e con uno più lungo.
A un certo punto ho cercato di dare alla corolla una forma più simile a un cerchio che a un semicerchio o a un'ellisse: la parte rossa, in quel modo, sembrava meno pesante. Il risultato visivo fu più convincente, piacque anche a Bettino e da quel momento, per le evoluzioni successive, mi sono concentrato soprattutto su questa forma di corolla (il cui contorno, tra l'altro, in alcune parti era già abbastanza simile a quello definitivo), abbinata a un gambo più lungo e slanciato. Qualche ritocco ancora, allargando la corolla in orizzontale e finalmente il lungo lavoro che feci negli ultimi mesi del 1983 poté concludersi, con grande soddisfazione mia e di Bettino.


L'anno cui Panseca ha appena fatto riferimento mi fa drizzare le antenne: qualcosa non mi quadra. "Filippo, sei sicuro? Guarda che il tuo garofano finisce sulle schede solo nel 1987, alle elezioni politiche" Mentre finisco di parlare, lui mi porge una cartellina bianca patinata, con il suo garofano stampato sopra: l'intestazione è Simbolo istituzionale. Basic design. Si tratta, in pratica, del codice di applicazione del nuovo simbolo: anche Panseca, come Vitale, aveva immaginato i vari impieghi del suo logo, con tanto di varianti cromatiche e di dimensioni. Apro il folder e la mia attenzione è catturata dal simbolo enorme della prima scheda, ma Filippo mi fa segno di guardare l'interno della cartella, in particolare la dicitura stampigliata lì: sotto al suo nome, leggo "Milano gennaio '84". 
Quella scritta parla chiaro: il garofano disegnato da Panseca, evidentemente nella parte finale del 1983, all'inizio del 1984 era stato approvato ed era già pronto, definitivo. Eppure, alle elezioni europee del 1984, alle regionali del 1985 e alle amministrative tra il 1984 e il 1986 (nonché alle regionali siciliane del 1986, come si intuisce dall'articolo visto prima di Gianni Riotta) il Psi aveva usato ancora il simbolo disegnato da Ettore Vitale. 

Filippo, se le cose stanno così, significa che il tuo garofano, approvato da Craxi all'inizio del 1984, è rimasto nel cassetto oltre tre anni: oggi sarebbe quasi impossibile evitare indiscrezioni o fughe di notizie. Secondo te, perché è passato tanto tempo?
Guarda, non ti so rispondere esattamente. Potrei pensare che, nonostante ci fosse già un potenziale simbolo nuovo, già pronto, chi all'interno del partito si occupava della grafica e della propaganda abbia semplicemente continuato a lavorare con quello che c'era per non cambiare linea, fino a quando si è avvicinato il congresso di Rimini del 1987: a quel punto Craxi potrebbe aver chiesto "ma il simbolo di Panseca che fine ha fatto?" e così è spuntato di nuovo.
Potrebbe esserci anche una spiegazione politica: nel 1984, prima del congresso di Verona, e anche negli anni successivi all'interno del Psi potevano ancora esserci resistenze ai tentativi di togliere la falce e il martello dal simbolo, mentre nei primi mesi del 1987 Craxi potrebbe essersi sentito più forte, dopo l'esperienza di governo, ritenendosi dunque pienamente legittimato a dare un taglio netto al passato. 
Può essere che sia così, non è improbabile. In ogni caso, dopo avere definito la forma del garofano e l'impianto del simbolo, rimaneva da lavorare su alcuni dettagli. Per esempio, sono stato io a introdurre la doppia corona circolare nel simbolo, con una circonferenza intorno alla corona circolare in cui avevo inserito le parole "Partito socialista" e la sigla. Non era solo un fatto estetico o distintivo: io avevo pensato alla possibilità che il simbolo del partito fosse collocato su fondo rosso o, al limite, su uno sfondo nero in caso di versione in bianco e nero. In quelle condizioni, se ci fosse stata solo la corona semplice sarebbe stato impossibile distinguerla; l'ulteriore circonferenza di contorno, invece, aveva creato un sottile "filetto" bianco che permetteva di individuare bene "in negativo" la forma della corona con il nome del partito.
Hai usato altri accorgimenti grafici in quell'occasione?
Se guardi bene, noterai che in questo caso io ho ridisegnato in parte il carattere. Di base si trattava di un Helvetica, ma io sono intervenuto sulla "A" finale di "socialista", inclinandola verso la sua destra - cioè in basso - in modo che il suo bordo destro fosse esattamente speculare al bordo sinistro della "P" di "Partito". Per dare armonia alle linee, inclinai nello stesso modo - e questa volta, ovviamente, in alto - anche la "A" di "Partito": in quel modo, i bordi inferiori delle due "A" risultavano perfettamente paralleli ed evitai che la "A" di "Partito" risultasse troppo attaccata alla pancia della "P".


Così, passo a passo, era nato il garofano craxiano per eccellenza, preparandosi a entrare a buon diritto anche nella galleria d'immagini della politica e persino in quella degli anni '80. Ha occupato solo tre anni del decennio (1987-1989), a partire da quello che Giampaolo Pansa aveva definito sulla Repubblica - commentando il primo giorno del congresso di Rimini - "ossessionante rosseggiar di garofani", ma forse nessun'immagine meglio del fiore di Panseca è in grado di rappresentare lo spirito rampante (lo stesso aggettivo utilizzato e spiegato da par suo da Filippo Ceccarelli nel suo "libro della vita", Invano) che ha connotato tutto il "decennio degli effetti speciali". 
La definizione è di Umberto Eco, ma il caleidoscopio globale su quegli anni è stato offerto oltre un anno fa dalla mostra Reality 80, organizzata a Milano da Fondazione Creval (e curata da Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzio, con la consulenza scientifica di Valentino Catricalà e Mario Piazza). Tra Pac-Man, paninari, merendine con relative sorpresine e amari da "Milano da bere", non poteva non esserci anche il garofano di Filippo Panseca, esposto quasi di fronte a quello di Ettore Vitale, presente sui tanti manifesti da lui curati per il Psi. 
Progetto per il palco del 45° congresso Psi.
Modello in scala realizzato per la mostra
su indicazioni dell'artista (dal catalogo Reality 80)
E proprio in occasione della mostra Reality 80 Vitale e Panseca si sono incontrati per la prima volta, facendo cadere ogni sospetto o diceria sulla "disputa simbolica" tra loro. In fondo, a rifletterci anche solo un attimo, Ettore Vitale e Filippo Panseca, considerati insieme, possono rappresentare in pieno tutto il decennio degli '80, ciascuno naturalmente per la propria parte e per ciò che ha prodotto. 
Ma se tra il materiale esposto alla mostra milanese c'erano giustamente i due garofani utilizzati come simbolo, non poteva assolutamente mancare l'opera di Panseca più legata a Milano e al Psi, alla sua storia "monumentale". In tutti i sensi, visto che si tratta dell'elemento più importante e imponente di una scenografia congressuale rimasta nella storia: anche quella di chi non era ancora nato.



1989, congresso di Milano all'Ansaldo 
(foto da profilo Fb di Panseca)
Arriviamo al simbolo più potente della segreteria di Craxi: la piramide telematica dell'Ansaldo, che dominava la scenografia del congresso del 1989.
L'idea di fare un congresso qui a Milano venne perché Craxi a un certo punto sbottò: "Ma dopo Torino, Palermo, Verona e Rimini, almeno un congresso a Milano vogliamo farlo?" L'ìdea di un'assise nella roccaforte socialista era più che giustificata; si trattava di capire in quale spazio svolgerla. A un certo punto Paolo Pillitteri, che allora era sindaco di Milano, disse: "Guardate che il comune ha comprato l'ex Ansaldo, andate a vedere se può andare bene". In quel momento il complesso era tutto abbandonato, tutto il contrario di adesso; io, in ogni caso, lo girai tutto e individuai i capannoni per allestire il congresso. Quando entrai lì vidi questo padiglione largo 50 metri e lungo 100 metri, praticamente un campo da calcio, e mi venne spontaneo chiedermi: "Ma quelli che devono mettersi in fondo, che minchia vedono?". La soluzione poteva essere un maxischermo, ma per me era una cosa scontata. A quel punto, pensando alle piramidi che avevo visto in Egitto, mi venne in mente di fare una piramide alta otto metri. 
E piramide fu...
Eh, mica subito: poteva essere una cosa drammatica. Posto che si trattava di una mezza piramide a base quadrata, che con un gioco di specchi del fondale poi appariva intera, l'idea era che la faccia triangolare rivolta verso la platea funzionasse come un maxischermo, per permettere a tutti di vedere il volto di chi stava parlando. Il problema, però, era realizzare questa piramide telematica. Ricorda che allora non c'era internet per cercare i componenti o approvvigionarsi. Riuscimmo a contattare un'azienda di Milano che produceva televisori: erano disponibili i led per la visione in bianco e nero, ma io li volevo quadricromatici perché desideravo che le immagini si vedessero a colori. Dopo qualche giorno un amico, che stava in una rivista sportiva, mi disse che si era presentato da lui un tale di Oderzo, con il progetto di costruire dei cartelloni luminosi da mettere negli stadi. Mi feci dare il numero e incontrai questa persona per spiegare la mia idea: lui era entusiasta, anche perché sul suo progetto aveva lavorato per anni ma era la prima volta che qualcuno si rivolgeva a lui. Mi disse che il progetto si poteva realizzare, si poteva trovare una soluzione anche per seguire la forma triangolare dello schermo: restava però un problema serio.
Quale?
Lui non aveva i led necessari per completare il lavoro e, anche volendo, non avrebbe potuto procurarseli. Quei led per la visione a colori, infatti, si compravano in Giappone, ma la loro importazione era contingentata per legge: per produrre la piramide, serviva di fatto il doppio dell'intera quantità di pezzi che si potevano importare. La situazione sembrava a un punto morto e mancavano circa tre mesi al congresso, che era previsto dal 13 al 18 maggio 1989.
Bel pantano. Come ne siete usciti?
Chiesi chi avrebbe potuto sbloccare la situazione: "Il ministro del commercio con l'estero".
Che era l'ambasciatore Renato Ruggiero, nel governo giusto giusto in quota Psi.
Parlai con Rino Formica, che all'epoca era ministro del lavoro, perché ci desse una mano. "Led? Cosa sono? Ma sono cose pericolose?" mi chiese e io lo rassicurai. Parlò lui con Ruggiero e fu emanato un provvedimento apposito per consentire l'importazione dei led necessari. Mi feci dare l'acconto, partì il progetto e arrivarono i led. Il problema era che la piramide non si poteva realizzare e provare altrove: la si doveva assemblare all'Ansaldo. Intanto avevamo lavorato sull'intelaiatura e avevo fatto fare il programma per trasmettere le immagini a uno studio di tecnici in elettronica. Morale, la piramide fu montata qualche manciata di ore prima che il congresso iniziasse. Abbiamo però rischiato di non farcela.
Come mai?
Perché la sera di mercoledì 10 maggio su Raiuno trasmettevano la finale di Coppa delle Coppe tra Barcellona e la Sampdoria [la squadra allenata da Vujadin Boškov: in quell'anno perse il trofeo ma lo vinse l'anno dopo e nel 1991 conquistò anche lo scudetto, ndb]: tutti volevano vederla a casa, anche perché erano stanchi. Io allora proposi un patto: "Sentite, vi va di vedere la partita come se foste allo stadio? Allora andate avanti col lavoro, alle otto di sera ci fermiamo, ci oggi ci guardiamo la partita mentre mangiamo e beviamo. Poi, se serve, riprendiamo anche tutta la notte". I tecnici continuarono a montare i led e i programmatori finirono la loro parte: alle 20 abbiamo acceso lo schermo e funzionava tutto perfettamente... 
Posso immaginare l'atmosfera: un centinaio di persone prima tese, poi eccitate...
In quell'anno prestammo attenzione anche a un'altra cosa. Considera che, tra i deputati del Psi, ce n'era uno sulla sedia a rotelle, Franco Piro, che faceva parte della direzione del partito: ricordo che un giorno mi aveva chiamato, dicendomi che gli sembrava assurdo non poter raggiungere il tavolo della presidenza, visto che normalmente si trovava in un punto più alto cui si accedeva con delle scale; da quel momento io eliminai completamente le scale e impiegai solo gli scivoli, facendo in modo che tutto il congresso potesse essere visitabile dalle persone in carrozzina. Un evento senza barriere architettoniche, ben prima che la legge lo chiedesse. Quando si fece la conferenza stampa di presentazione del congresso, Franco Piro arrivò con una ventina di amici e compagni, sulla sedia a rotelle come lui, e fecero tutto il percorso nella sala, verso la presidenza e poi di nuovo giù.
1991, congresso di Bari (foto da Panseca.it)
Quello di Milano è stato il tuo ultimo congresso degli anni '80.
Esatto, perché quello successivo, tenutosi alla Fiera del Levante di Bari, si è celebrato dal 27 al 30 giugno del 1991. Per quello, che formalmente era un congresso straordinario, ripresi il tema delle colonne del 1987, ma questa volta non avrebbero sorretto un frontone: sarebbero state elementi di un'ambiziosa "porta della pace", sormontata da un arcobaleno di neon, mentre dietro c'era un'enorme bandiera tricolore che nella parte bianca centrale si tramutava in un maxischermo. L'arcobaleno voleva essere auspicio di rapporti più distesi tra socialisti ed ex comunisti: questi ultimi avevano chiesto di entrare nell'Internazionale socialista e ci sarebbero riusciti nel 1992 proprio per intercessione di Craxi, non era assurdo pensare che le due strade si potessero unire proprio in nome del socialismo. Naturalmente non andò così. 
Era quello che avrebbe voluto Craxi, tant'è che in vista del congresso di Bari si era messo avanti: il 4 ottobre 1990, aveva fatto modificare il simbolo del Psi, sostituendo "Partito socialista" con "Unità socialista" e battendo sul tempo Achille Occhetto, che avrebbe mostrato alla stampa il simbolo del Partito democratico della sinistra solo il 10 ottobre, sei giorni dopo. Tu ne sai qualcosa?
Certo che sì. Proprio all'inizio di ottobre di quel 1990, una notte mi svegliò una telefonata: era Bettino che mi chiedeva di modificare immediatamente il simbolo, mettendo appunto la dicitura "Unità socialista". Lui era convinto che i comunisti, nel pieno del loro processo di trasformazione, sarebbero dovuti approdare naturalmente nel Psi, escludendo altre evoluzioni. Bettino aveva già lanciato quel progetto di unità socialista a Milano, nel 1989 e lo avrebbe ripetuto a Bari, convinto che quello potesse essere un nuovo inizio. Com'è finita, lo sappiamo.  
Insomma, dal 1978 al 1991, sei congressi e altrettante scenografie...
Ci sarebbe poi quella del congresso che non ho fatto, quello che avremmo dovuto celebrare a Genova nel 1992 in occasione del centenario del partito. Io avevo progettato un uovo, visto come simbolo della nuova vita e con riferimento a Cristoforo Colombo: lì sopra sarebbero apparse le immagini degli oratori o qualunque altra immagine che noi avessimo deciso di trasmettere. All'inizio di febbraio del 1992, però, scoppiò il bubbone di "Mani pulite" e non se ne fece più nulla.
Questa ricerca per le scenografie riguardava solo i congressi?
No, anche altri eventi e c'è un'altra puntata importante che ha avuto luogo alla Fiera di Rimini. Dal 22 al 25 marzo del 1990 là si tenne una conferenza programmatica del partito, L'anno prima era caduto il muro di Berlino e io proposi a Bettino: "E se come fondale ci mettiamo il muro di Berlino?" Lui aveva accolto l'idea con entusiasmo, poi però aveva aggiunto: "E se i comunisti lo fanno prima di noi?" Il loro XIX congresso, in effetti, era previsto a Bologna dal 7 all'11 Marzo, una manciata di giorni prima del nostro evento: loro per primi avrebbero avuto interesse a utilizzare quell'immagine come segno di cambiamento, in quel congresso che segnò l'avvio della fase costituente che avrebbe portato, mesi dopo al Partito democratico della sinistra. Non fecero nulla di simile, anzi, la scenografia fu piuttosto scialba, così potemmo passare all'azione. 
1990, conferenza programmatica (foto da Panseca.it)
E cosa faceste?
Quando i giornalisti, con un po' di anticipo, mi chiesero come al solito il soggetto della scenografia, io risposi: "il muro di Berlino". "Come, il muro?" "Sì, il muro", lasciando intendere che avremmo avuto a disposizione parte del muro vero. Nei giorni seguenti fioccarono le domande: "Ma quando arriva? Come fate a farlo arrivare?". Ricordo che la Repubblica si era messa in contatto con tutti gli spedizionieri per verificare se stessi dicendo la verità e "intercettare" per tempo i pezzi del muro e fotografarlo al suo arrivo. In quel periodo, tra l'altro, in Germania c'era stata una nevicata pazzesca e c'era pure sciopero degli autotrasportatori: hai voglia a trovare gli spedizionieri... Quando mancavano cinque giorni e io ero già a Rimini per l'allestimento, mi chiesero come e quando il muro sarebbe arrivato, ma io non mi scomposi: "Una cooperativa socialista è andata a prenderlo". Naturalmente il mio muro che feci e contribuii a fare era di polistirolo, un falso che però era più vero e più bello dell'originale, con tanto di anime in ferro e decorazioni fatte con lo spray e copiate dal muro vero: lo abbiamo preparato in un laboratorio di Brera, trasportato a Rimini con un camion e messo in uno dei magazzini vuoti della Fiera. Quando abbiamo detto che il muro era falso, tirando in ballo la faccenda dello sciopero degli autotrasportatori, i giornalisti ci mandarono a quel paese; quando però fu illuminato nei giorni della conferenza, davanti avevamo davvero il muro di Berlino...
Dunque per anni tu hai creato mondi ad hoc per ogni contesto. Quando c'erano eventi importanti che richiedevano una certa scenografia o ambientazione, io arrivavo sempre prima di Bettino: il ruolo dell'advance man, del resto, in America è ben conosciuto. A proposito, quando Craxi fu invitato per la prima volta negli Stati Uniti, io andai con lui e gli avevo organizzato tutto il viaggio. Mentre lui era impegnato per conto suo, preparai la sala dello Sheraton di New York, in cui era previsto che incontrasse gli italiani in America, in un evento organizzato dalla Niaf. Avevo fatto realizzare delle medaglie d'argento con la dicitura "Craxi agli Italiani d'America" e delle strisce bianche e rosse simile a quelle dei cantieri, ma con anche le bande verdi e il garofano impresso nelle parti bianche. A New York ebbi la collaborazione dell'Ente nazionale turismo, che mi mise a disposizione lo staff della sede locale. Una volta in hotel, scoprii che le pareti della sala dello Sheraton erano di alluminio e questo fu utilissimo, perché riuscii a tappezzare tutto l'ambiente con quelle strisce di plastica: per elettrostatica, queste restavano attaccate alle pareti, l'effetto era simile alla carta da parati. Quando arrivammo poi a Montevideo, in aeroporto, c'era una fila infinita di automobili e di persone, tutte lì per Bettino: ricordo cartelli come "Grazie Craxi di averci ridato l'onore di essere italiani". Cose così.  

Mentre nel racconto scorrono immagini potenti e faraoniche come il tempio, la piramide, il muro, o fanno capolino dettagli impagabili (come il provvedimento ad hoc per importare i led necessari), la domanda affiora inevitabile: non è che allora si è esagerato un po' troppo? "Io in realtà in tutte quelle cose vedevo delle mie opere di artista, che in altre condizioni non avrei avuto la possibilità di fare. Quindi non ci vedevo nulla di esagerato". E col senno del molto poi, dunque dell'oggi? "Dico la stessa cosa, anche perché se si fosse esagerato una parte di responsabilità ce l'avrebbe la stampa di allora, che alimentava l'attenzione e la sete di notizie, di particolari e di voglia di osare. Per noi, tra l'altro, i congressi non erano solo spettacolari, ma erano anche occasione di scienza e di cultura: tanto qui a Milano quanto a Bari avevo fatto allestire spazi dedicati all'arte, a mostre di artisti importanti. Non erano cose esagerate, anche se sicuramente erano diverse rispetto ad altre proposte". 
Non ci sta Panseca a sentir dire che, per assecondare il suo desiderio creativo, si è speso molto: "Come ho detto, il partito con quei congressi faraonici ci guadagnava e tanto, grazie alle sponsorizzazioni: altro che perdite!" Per lui non è nemmeno giusto dire che, al di là dei guadagni, all'epoca si sono fatti circolare troppi soldi, rafforzando un sistema sempre più costoso e affamato: "I soldi spesi dagli sponsor e da chi affittava gli stand non erano certo stati rapinati. A molti veniva fatta l'offerta per partecipare ai congressi: potevano trovarla ragionevole o irragionevole, potevano decidere di pagare o di lasciar perdere, scelte entrambe legittime. Chi partecipava, pagando quando era stato stabilito, sapeva però che poteva godere di una vetrina unica, con un flusso notevole di persone, una robusta copertura mediatica e la presenza di numerose delegazioni straniere, con tanto di ministri degli esteri. Mi spieghi cosa c'è di sbagliato e, soprattutto, quale congresso o evento di partito di oggi può garantirti le stesse possibilità?"

Filippo, ti hanno definito in più occasioni "l'architetto di Craxi": che effetto ti ha fatto?
Devo dirti che quando mi intervistavano e mi chiamavano "architetto", io precisavo ogni volta: "Guardi che non sono architetto", ma loro rispondevano "va bene, architetto" e si continuava così. Sì, sono diventato per tutti "architetto di Craxi", pur non essendolo: in Italia, del resto, basta fare una sedia o disegnare uno sgabello per essere chiamati architetti. Pensa che, quando Bettino cadde in disgrazia, si mosse addirittura l'Ordine degli architetti per precisare pubblicamente che io non ero architetto. Ti rendi conto? Fino ad allora non avevano detto nulla. Non ero e non sono architetto, e allora? Io sono di più, perché sono un artista. Anzi, a proposito, a parte la storia dell'architetto, sai come ho fatto a scoprire che non ero più un vip?
No, dimmi. 
Per un certo periodo ho ricevuto inviti di ogni tipo, iscrizioni onorarie a club o associazioni, per non parlare dei regali di Natale che mi arrivavano. Bene, un giorno mi trovavo a Roma e dovevo andare a Milano in aereo; avevo la tessera esclusiva del programma fedeltà di Alitalia, che io peraltro non avevo mai chiesto ma mi era stata comunque mandata da loro. Al momento di fare il check in, io consegnai quella tessera all'addetta. Lei mi guardò e mi disse: "Signore mi scusi, ma gliela devo ritirare". Era scaduta forse? "No, ma vede, qui sul terminale vedo scritto che devo ritirarle la tessera. Mi spiace". Ecco, in quel momento ho avuto la dimostrazione concreta che non ero più un vip. 
Un messaggio sul terminale, asettico, senza sporcarsi le mani o metterci la faccia...
Te ne dico un'altra. Io allora abitavo un po' fuori Milano, in una cascina che mi aveva dato in affitto Salvatore Ligresti e che avevo sistemato. Quando scoppiò Tangentopoli, lui mi mandò via da là: non ero certo là gratis, pagavo regolarmente il canone, ma lui mi disse che non poteva più tenermi là e mi pregò di non metterlo in difficoltà. Per fortuna a Milano avevo il mio studio-atelier vicino all'Ansaldo e sono andato a vivere qui. Poi è finito pure il lavoro, dall'oggi al domani non mi chiamava più nessuno. Pensa che io avevo un contratto con Fininvest-Mediaset come scenografo: avevo curato gli studi di Pressing e di altri programmi. Bene, anche loro avevano smesso di chiamarmi. Andai, chiesi spiegazioni e ricordai che per contratto dovevo fare tre scenografie l'anno: "Sì, ma i produttori non ti vogliono più". Per onorare l'ultima parte del mio impegno, nel 1995 andai a realizzare scenografie in Turchia, per Kanal D, emittente con cui Mediaset aveva un contratto. Nessuno scenografo voleva andare là a lavorare, io invece non ebbi alcun problema e andai a lavorare a Istanbul.  

La chiacchierata con Filippo, dopo tante parole, immagini, simboli e ricordi, volge al termine. Resta il tempo per fare un'escursione nelle sue creazioni non legate alla politica: Panseca è stato designer per Kartell, Arteluce, Valenti e ha inventato oggetti con ricadute pratiche tangibili. Parla con entusiasmo (e un pizzico di amarezza) del suo bicchiere-bottiglia di plastica biodegradabile: "lo elaborai nei primi anni Settanta, subito dopo il mio ritorno dagli Stati Uniti, dopo aver parlato con un gruppo di ragazzi dell'Idaho. Lo brevettai ma non interessava quasi a nessuno e il ministero mi disse che non avrebbe mai accettato contenitori in plastica per gli alimenti. Entra oggi in un supermercato e guardati intorno..".
Da quell'idea snobbata, in ogni caso, nacquero le opere d'arte biodegradabili, che sparivano nel giro di poco tempo: Panseca vi si dedicò per un certo tempo, fin dagli anni '70, e le sue creazioni non mancarono di causare sconcerto. 
Più di recente Filippo si è dedicato agli alberi o alle lune artificiali disinquinanti, opere d'arte pulita e purificante, in tutti i sensi: "si tratta di grandi sfere, come quella che ho presentato alla Biennale di Venezia a maggio dello scorso anno. Queste non solo cambiano lo skyline delle città: grazie a un processo fotocatalitico innescato da elementi nanotecnologici, disinquinano come centinaia di alberi ad alto fusto". Chi ascolta resta ammirato davanti al carattere visionario di ogni creazione di Panseca, anche quando magari non ne comprende il funzionamento o la praticabilità. Dopo tutto questo tempo, dopo gli inizi difficili, tanta luce e tanto buio (per scelte e demeriti altrui), la voglia di creare non si è spenta, non si accontenta e non intende farlo ancora a lungo, in terra meneghina, siciliana o in qualunque altro luogo.
Artificial Bionic Moon a Venezia (profilo Fb di Panseca)
Prima di salutarci, un pensiero non può non tornare al garofano, che tra l'altro da poco è tornato nel simbolo del Psi (anche se Panseca avrebbe preferito rivedere il suo fiore e non un nuovo disegno). Quello stesso simbolo, peraltro, appare nel prologo del film Hammamet, in cui si ricostruisce il finale del congresso all'Ansaldo (altrove Filippo ha già detto di non essere stato contattato, criticando soprattutto il modo in cui la scenografia e la sua piramide sono state ricostruite). In qualche modo, dunque, il garofano socialista conosce una nuova vita. Cos'è, dunque, il garofano oggi per Filippo Panseca? "Un bel ricordo, che rievoca in un attimo tutto quello che ho vissuto in suo nome, in Italia e all'estero. E ancora oggi quel fiore ha la sua grande forza sia per la sua storia, sia grazie a Bettino Craxi: in questo periodo di ricordi e celebrazioni, tutti si attaccano al garofano, c'è poco da fare. Credo sia l'unico simbolo inconfondibile, che non assomiglia ad altri, anzi, casomai sono altri che gli somigliano".
Prima di concludere, tuttavia, non si può trascurare un ultimo dettaglio, che poi per i veri #drogatidipolitica tanto dettaglio non è: l'uomo che ha creato il garofano craxiano per eccellenza ha avuto un simbolo suo, che corse alle elezioni comunali di Pantelleria del 15 dicembre 1991, peraltro confrontandosi con lo stesso Psi (dunque con il suo stesso simbolo). La lista, denominata Per Pantelleria, con una grafica molto semplice (croce rossa nel cerchio interno bianco, il nome e il profilo dell'isola nella corona blu di contorno, anche se tutto questo appariva in bianco e nero sulla scheda) aveva come candidato di punta e capolista proprio Panseca. 
Articolo che racconta la lista Panseca - Da l'Unità del 9 agosto 1991
La lista ottenne il 9,5% e due eletti, compreso Filippo (che invece era stato il primo dei non eletti nel 1987, proprio con la lista del Psi e il suo simbolo). L'impegno come docente all'accademia di Brera non aiutò l'artista a essere presente alle sedute del consiglio: il 16 giugno del 1993 i giornali nazionali - in piena bufera da "Tangentopoli" e meno di due mesi prima dell'ultimo discorso alla Camera di Bettino Craxi, sulla richiesta di autorizzazione a procedere che lo riguardava - furono perfino impietosi nel dare conto della decadenza di Panseca da consigliere comunale: certamente era una notizia, ma nella foga di demolizione del passato doveva essere apparsa come un pezzo simbolico che era stato fatto cadere, dunque doveva essere esposto, magari tra la notizia di un costruendo parco di divertimenti nel livornese e l'ennesima storia di tangenti. 
Leggendo quelle notizie e pensando al modo in cui si sceglieva di darle, oggi a qualcuno può venire in mente Giorgio Gaber che cantava I reduci: "E tutto che saltava in aria / e c'era un senso di vittoria / come se tenesse conto del coraggio, la storia". Il brano è del 1976, dunque si riferiva ad altre idee e altre distruzioni, ma di certo tra il 1992 e il 1993 è saltato in aria quasi tutto e di gente che cantava vittoria ce n'era parecchia. Dopo tanto tempo, forse non serve fare il bilancio del "coraggio" di chi ha detto e scritto certe cose, magari avendo fretta di voltar pagina (per non finire voltato insieme alla stessa pagina); certo, col senno del molto poi, c'era poco da cantare vittoria. No, non si vuol dire che "era meglio quando era peggio": era giusto fare qualcosa, denunciare quello che non andava. Non si può però tacciare di eresia chi, a distanza di tempo, si chiede se siano state fatte le cose giuste e nei modi giusti. Rifletterci sopra, per chi c'era e per chi è arrivato dopo, non è tempo perso.


Un ringraziamento enorme è dovuto a Filippo Panseca, per il tanto tempo messo a disposizione per raccontarsi e cercare il materiale presente in queste pagine: ove non diversamente indicato, le immagini - e soprattutto i disegni preparatori del simbolo e la cartellina del Basic design - sono state gentilmente fornite dallo stesso Panseca. Molte immagini mostrate e presenti sul sito Panseca.it sono contenute anche nella monografia-biografia definitiva per immagini L'arte segna il tempo. Il tempo segna l'arte, pubblicata nel 2015 da Alberto Peruzzo editore.
Un riconoscimento doveroso lo hanno meritato anche Nicolò Ornaghi e Francesco Zorzi,  che il 30 settembre 2015 si sono laureati al Politecnico di Milano con il prof. Marco Biraghi, con una tesi intitolata Milano 1979-1997. La progettazione negli anni della merce. All'interno (il file è disponibile qui, per chi volesse consultarlo: fatelo, perché merita) c'è anche un'ottima e vivida intervista a Panseca, per molto tempo la più ampia che si potesse trovare in Rete. Quattro anni fa ne trovai un estratto sulla testata 011+, dedicato proprio al rapporto tra Panseca e il Psi: quel testo mi spinse a indagare meglio quella figura e a cercare un contatto diretto, approfondito solo molto tempo dopo. Ma se la conversazione sopra riportata si è svolta, lo devo innanzitutto a Ornaghi e Zorzi: alcuni spunti per la chiacchierata sono venuti dalla loro intervista e la gratitudine è dovuta. Anche se loro non lo sapevano. 

Nessun commento:

Posta un commento