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sabato 4 maggio 2024

Europee, solo Alternativa popolare ripescata, taglio alle esenzioni ridotto - Il quadro completo delle liste presentate e ammesse

In fondo all'articolo si trova l'elenco delle liste depositate e ammesse nelle varie circoscrizioni.

Insieme alla composizione delle liste principali per le prossime elezioni europee fissate per l'8 e il 9 giugno prossimi, la comunità dei #drogatidipolitica (e non solo) attendeva di conoscere soprattutto l'esito dei ricorsi di Alternativa popolare e del Partito animalista - Italexit per l'Italia, che avevano visto bocciare la loro tesi di esenzione dalla raccolta delle firme in virtù dell'adesione a un partito politico europeo rappresentato a Strasburgo (o almeno della connessione con un partito di un paese europeo in quella stessa condizione) in quattro circoscrizioni su cinque, a causa dell'entrata in vigore delle nuove norme più severe sugli esoneri, mentre la loro posizione era stata accolta in Italia meridionale. Ieri, nel tardo pomeriggio, è arrivata una vera e propria sorpresa dall'Ufficio elettorale nazionale per il Parlamento europeo presso la Corte di cassazione: la lista di Alternativa popolare, infatti, è stata riammessa nella circoscrizione Centro, ma è probabile che questo accada a breve anche con riferimento agli altri territori (e, nell'ipotesi più "generosa", a beneficio di altre liste), se si considera il ragionamento operato dal collegio.
La decisione n. 3 dell'Ufficio elettorale nazionale, depositata ieri alle 17.05, è lunga ben dieci pagine, cosa che alle europee non risulta sia mai capitata. Le premesse in effetti occupano quasi sei pagine, ma le altre quattro dedicate a motivare la scelta della riammissione già fanno pensare che il collegio abbia ritenuto opportuno sostenere in modo più solido il proprio ragionamento, anche se poi nessuno avrebbe poi potuto metterlo concretamente in discussione: come si è già detto, quando una lista viene ammessa (dagli uffici elettorali circoscrizionali o, in seconda battuta, da quello nazionale) non ci sono più strumenti per chiederne la ricusazione.
Il testo ripercorre le argomentazioni dell'Ufficio elettorale della circoscrizione Centro (presieduto da Tommaso Picazio, magistrato impegnato nelle operazioni di ricezione e vaglio delle candidature anche alle ultime due elezioni politiche), secondo le quali dopo l'entrata in vigore della legge n. 38/2024 - che ha convertito, modificandolo, il decreto-legge n. 7/2024 - non era più sufficiente "la mera affiliazione o il collegamento concordato con un partito politico europeo rappresentato nel Parlamento europeo con un proprio gruppo parlamentare", visto che le nuove norme erano state introdotte tra l'altro per "superare precedenti ambiguità interpretative". Per la depositante di Alternativa popolare, Raffaella Del Santo, le norme introdotte durante la conversione del "decreto elezioni 2024" violano invece vari articoli del Trattato sull'Unione europea e la raccomandazione della Commissione n. 2023/2829 (specie il richiamo al Codice di buona condotta elettorale della Commissione di Venezia, che chiede di non modificare gli elementi fondamentali della legge elettorale a meno di un anno dal voto), limitando i diritti politici ed elettorali del partito, "direttamente vantati in relazione alla propria qualità di membro del Partito popolare europeo". Secondo la depositante, alcuni documenti relativi all'iter legislativo (in particolare un dossier sul disegno di legge in questione) dimostravano - citando le decisioni dell'Ufficio elettorale nazionale - un approccio delle Camere opposto rispetto a una lettura che restringa gli spazi per candidarsi senza sottoscrizioni; lo stesso Manuale elettorale 2024 redatto dalla Camera, peraltro, tra le ipotesi di esenzione indicava quella riguardante i partiti "che nelle elezioni precedenti per il Parlamento europeo abbiano ottenuto almeno un seggio e che siano affiliati a un partito politico europeo costituito in gruppo parlamentare al Parlamento europeo nella legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi", senza specificare che il seggio dev'essere stato ottenuto in Italia. 
La difesa di Alternativa popolare ha poi rilevato come le decisioni dell'Ufficio elettorale nazionale del 2014 che aprirono la strada all'esenzione "per via europea" precedessero l'entrata in vigore del regolamento n. 1141/2014 sui partiti europei (che, tra l'altro, ha istituito l'Autorità per i partiti politici europei e le fondazioni politiche europee e, secondo Ap, imporrebbe "una lettura costituzionalmente orientata e conforme alla normativa" europea "tale da non comprimere o limitare l'autonoma rappresentanza politica dei partiti europei e di coloro che ne sono formalmente membri") e pure l'emanazione della citata raccomandazione della Commissione n. 2023/2829. In definitiva, l'adesione di Alternativa popolare come member party al Partito popolare europeo, che nel 2019 ha ottenuto seggi al Parlamento europeo (per giunta - si aggiunge qui - anche in Italia, sia pure attraverso altri membri, cioè Forza Italia e la Svp) e si è costituito in gruppo, e l'inserimento esplicito del logo del Ppe nel contrassegno elettorale dovrebbero bastare a garantire l'esenzione: in particolare si era sostenuto che la rappresentanza parlamentare richiesta dalla nuova norma doveva essere "riferita al Parlamento europeo e ai partiti europei in quanto tali, avendo questi ultimi autonoma e distinta soggettività [...] che, da sola, consente l'applicazione della previsione di esenzione [...] in quanto, come rilevato nella comunicazione inviata dal Ministero dell'interno in data 29/4/2024 [...] è il partito politico europeo che deve aver ottenuto un seggio al Parlamento europeo, non quello nazionale, tanto che il partito nazionale che eventualmente lo abbia ottenuto, ma non aderisca ad un gruppo politico o partito europeo, non può beneficiare dell'esenzione dalla raccolta firme". In via subordinata, il ricorso sottolineava pure come lo stesso Partito popolare europeo si sarebbe potuto considerare come presente al Parlamento italiano grazie ai gruppi parlamentari di Forza Italia contenenti nella denominazione il riferimento al Ppe.
L'Ufficio elettorale nazionale per il Parlamento europeo, per prima cosa, ha chiarito come quella da esso svolta sia "una funzione pubblica neutrale, di natura amministrativa e non già giurisdizionale" (citando a sostegno le sentenze della Corte costituzionale n. 259/2009 e n. 48/2021, quella relativa alle disposizioni in materia di raccolta firme ed esenzione da questa per le elezioni politiche): per questo motivo il collegio non poteva sollevare questioni di legittimità costituzionale o attivare la procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, non potendo nemmeno disapplicare la norma nazionale ritenuta "chiaramente in contrasto con disposizioni dell'UE [...]". Il riferimento immediato all'approvazione della "norma taglia esenzioni" "nella pendenza del termine di 180 gg. prima della data delle elezioni europee entro cui effettuare la raccolta delle sottoscrizioni" - si ricordi che l'art. 14 della legge n. 53/1990 dispone che le sottoscrizioni delle candidature e le relative autenticazioni "sono nulle se anteriori al centottantesimo giorno precedente il termine fissato per la presentazione delle candidature" - non lascia però dubbi sull'idea che il collegio ha di quell'intervento normativo, così come non ne lascia il riferimento alla necessità di interpretare la disposizione di nuovo conio anche alla luce dei principi costituzionali e della "pur non vincolante" raccomandazione della Commissione n. 2023/2829. 
Quella necessità di interpretazione sorge perché, si legge nella decisione (con una prosa imperdibile), l'esegesi del nuovo comma 4 dell'art. 12 della legge n. 18/1979 "non appare dar luogo a un sicuro approdo", emergendo invece "potenziali antinomie" (dunque contraddizioni) nel confronto con gli altri commi dello stesso articolo. Da una parte i membri dell'Ufficio (e in particolare la relatrice) rilevano che il comma 3, "esentando dalla sottoscrizione i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare anche in una sola Camera, nella legislatura in corso al momento, alla sola condizione che abbiano ottenuto almeno un seggio in una delle due Camere, non richiede affiliazione di sorta" e non si capisce perché questa sia invece richiesta per i partiti che abbiano eletto rappresentanti al Parlamento europeo. La lettura del passaggio virgolettato fa sorgere, a dire il vero, qualche perplessità in chi scrive ora: la titolarità di almeno un gruppo parlamentare o l'ottenimento di almeno un seggio in ragione proporzionale o in un collegio uninominale, infatti, sono due criteri distinti tra loro, pur fondandosi entrambi sulla rappresentanza parlamentare; non è dunque chiarissimo perché siano stati abbinati (se una forza politica ha un gruppo, di solito ha eletto più parlamentari; se ne ha eletto solo uno in un collegio uninominale, in base alla norma vigente ha l'esenzione anche se non ha costituito un suo gruppo), mentre ha più senso leggere quest'argomentazione limitandosi all'ultima parte, per cui l'Ufficio rileva che il partito che ha eletto un numero di parlamentari non sufficiente a formare un proprio gruppo ottiene comunque l'esenzione (anche se gli eletti aderiscono al gruppo misto), mentre quest'onere verrebbe richiesto ai partiti che hanno eletto almeno un europarlamentare
Dall'altra parte, il collegio rileva come il comma 4 (quello dell'esenzione "europea") continui affermando che "l'esenzione dalla sottoscrizione della lista è riconosciuta solo in rapporto al carattere composito del contrassegno, nel quale sia contenuto quello di un partito o di un gruppo politico esente da tale onere". Qui è giusto il caso di osservare che l'esenzione per i contrassegni compositi riguarda ovviamente tutte le ipotesi, non solo quella dell'esenzione per via europea: l'esonero, cioè, scatta purché un contrassegno contenga almeno il simbolo o di un partito costituito in gruppo parlamentare, o di un partito che abbia concorso alle ultime elezioni politiche e abbia eletto - anche in un collegio uninominale - almeno un parlamentare, o di un partito che abbia ottenuto nelle circoscrizioni italiane almeno un europarlamentare; sembra di poter affermare che per l'Ufficio dire che "l'esenzione dalla sottoscrizione della lista è riconosciuta solo in rapporto al carattere composito del contrassegno" significhi non che è "necessario", ma che è "sufficiente" che il contrassegno abbia natura composita.
In ogni caso, sulla base delle due considerazioni sopra riportate, l'Ufficio elettorale nazionale ritiene che esistano "due distinte opzioni ermeneutiche, entrambe plausibili": una richiede sia il conseguimento (in Italia) del seggio al Parlamento europeo sia l'affiliazione certificata a un gruppo costituito in quell'assemblea; l'altra, "in coerenza col testo previgente del medesimo quarto comma dell'art. 12 cit., e con la relativa tradizione interpretativa formatasi a partire dai precedenti [di] questo Ufficio del 2014, pone in alternativa tra loro i predetti due requisiti". Se evidentemente l'Ufficio elettorale circoscrizionale per il Centro ha scelto la prima opzione interpretativa (comunque, come si è detto, ritenuta plausibile), l'Ufficio elettorale nazionale "ritiene di attribuire prevalenza alla seconda opzione ermeneutica, ritenendola maggiormente conforme sia ai principi costituzionali in materia, come riassunti (sebbene ad altri fini) dalla nota pronuncia n. 1/2014 della Corte costituzionale, sia alla Raccomandazione (UE) 2023/2829". Se i "drogati di politica" con formazione costituzionalistica non restano certo indifferenti di fronte alla sentenza n. 1/2014, con cui erano stati colpiti due punti fondamentali della "legge Calderoli" del 2005 (i principi cui fa riferimento l'Ufficio sono probabilmente quello di uguaglianza del voto e i più generici principi di proporzionalità e ragionevolezza), merita di essere riportato per intero il "considerando n. 10" della più volte citata Raccomandazione della Commissione Ue 2023/2829:
La stabilità della legge elettorale è fondamentale per l’integrità e la credibilità dei processi elettorali. Frequenti modifiche delle norme o modifiche che intervengano subito prima delle elezioni possono confondere gli elettori e gli addetti alle operazioni di voto e possono comportare distorsioni o applicazioni erronee delle norme. Tali modifiche possono inoltre essere percepite come uno strumento inteso a influenzare i risultati a favore del governo già insediato. In conformità alla linea guida II.2.b del codice di buona condotta elettorale pubblicato dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto del Consiglio d’Europa (la «Commissione di Venezia»), gli elementi fondamentali della legge elettorale nazionale non dovrebbero poter essere modificati meno di un anno prima delle elezioni. Tra questi elementi fondamentali figurano in particolare le norme relative alla trasformazione dei voti in seggi, all’appartenenza a commissioni elettorali o ad altri organi che organizzano la votazione, nonché alla definizione dei confini delle circoscrizioni elettorali e alla ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni. Sebbene non sia opportuno invocare il principio della stabilità della legge elettorale per mantenere una situazione in contrasto con le norme internazionali in materia elettorale, nulla nella presente raccomandazione dovrebbe essere inteso come un invito agli Stati membri ad adottare misure in contrasto con la linea guida II.2.b del suddetto codice di buona condotta elettorale.
Soprattutto sulla base del testo appena riportato, l'Ufficio elettorale nazionale ritiene "improbabile [...] che il legislatore, nella pendenza del termine di 180 gg. per la raccolta delle firme, e per di più solo in sede di conversione del D.L. n. 7 del 2024, abbia inteso operare deliberatamente uno stravolgimento delle regole pregresse in tema di esenzione dalle sottoscrizioni, configurando l'affiliazione come requisito ulteriore solo per i partiti o gruppi politici già rappresent[at]i nel Parlamento europeo, e prescindendone, invece, per quelli già rappresentati in una delle due Camere del Parlamento italiano". Leggendo questo passaggio sembra di capire - anche se qualche dubbio interpretativo non si dissolve - che si ritenga incoerente richiedere contemporaneamente l'elezione di europarlamentari in Italia e l'affiliazione del partito italiano a quello europeo, mentre per i partiti che eleggono deputati o senatori non è richiesta per la partecipazione senza firme nessuna affiliazione al partito politico europeo (diversamente non si spiegherebbe quale altra "affiliazione" potrebbe essere richiesta al soggetto italiano, essendo quel termine poco adatto per riferirsi all'adesione a un gruppo parlamentare). 
Sembra invece difficile da smentire un giudizio piuttosto severo sull'operato del legislatore (e, indirettamente, su quello di chi ha proposto e promosso l'emendamento "tagliaesenzioni") che ha introdotto una disciplina restrittiva nel pieno dei sei mesi previsti per la raccolta delle firme; ciò appare più verosimile considerando le dichiarazioni del primo firmatario delle versioni dell'emendamento in questione, Marco Lisei, rilasciate a metà febbraio ad Ansa ("I maggiori partiti sono esentati perché il fatto stesso che abbiano rappresentanti eletti nelle Camera dimostra de ipso che abbiano una rappresentanza reale. Esentarli significa eliminare burocrazia e contenziosi sull’accertamento delle firme. I piccoli partiti invece è giusto che raccolgano le firme perché devono così dimostrare un minimo di radicamento. Anche perché il numero delle firme non è così alto") e le parole del senatore Costanzo Della Porta (anch'egli di Fratelli d'Italia, anch'egli firmatario), che il 13 marzo nell'aula di Palazzo Madama si è espresso così: "con il decreto-legge in esame poniamo anche un freno alle cosiddette liste fasulle. [...] alle scorse elezioni europee si presentarono 18 liste, dieci delle quali hanno preso meno dell'1% e sette di queste dieci hanno preso meno dello 0,5%. Pertanto, nessuno vuole vietare la libera partecipazione alle consultazioni elettorali, però non dobbiamo neanche alterare le regole del gioco; [...] restringere l'ambito di chi può partecipare non avendo consenso ci sembra un fatto piuttosto naturale". Leggere che per l'Ufficio elettorale nazionale è "improbabile che il legislatore, nella pendenza del termine di 180 gg. per la raccolta delle firme, e per di più solo in sede di conversione del D.L. n. 7 del 2024, abbia inteso operare deliberatamente uno stravolgimento delle regole pregresse in tema di esenzione dalle sottoscrizioni" suona, oltre che come una conferma delle proprie posizioni precedenti (del 2014, seguite anche da vari Uffici elettorali circoscrizionali nel 2019), come una critica all'operato della maggioranza parlamentare celata in una trama di eleganza, rispetto istituzionale e ironia. 
L'incoerenza evidenziata, in ogni caso, per il collegio si può superare ritenendo sufficiente l'affiliazione certificata a un partito politico europeo costituito in gruppo al Parlamento europeo. (e il riferimento ai 180 giorni per la raccolta firme non rende assurdo pensare che quella proposta sia una lettura una tantum, necessaria questa volta per poi lasciare spazio al criterio più severo che emerge dalle nuove disposizioni; alcune delle contraddizioni rilevate dall'Ufficio però rimarrebbero, quindi ci si dovranno aspettare altri contenziosi, se le norme non saranno modificate). Nell'ultima pagina della decisione si cita l'affiliazione - idoneamente certificata - di Alternativa popolare al Ppe, "costituito in gruppo parlamentare al Parlamento europeo nella legislatura in corso" (sulla base della dichiarazione di costituzione in gruppo, altrettanto autenticata dall'autorità consolare italiana a Bruxelles) e si evidenzia la presenza del riferimento al Ppe nel contrassegno elettorale: su tali basi "la lista Alternativa popolare soddisfa il requisito della certificata affiliazione a un partito politico europeo costituito in gruppo parlamentare al Parlamento europeo [...] e dev'essere ammessa alla partecipazione all'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia". Non sfugge che nella motivazione della decisione manca qualunque riferimento alla comunicazione del Ministero dell'interno del 29 aprile scorso (il che fa pensare che questa non fosse particolarmente utile ai fini del ragionamento che ha portato alla riammissione, nel senso che - senza minare ovviamente il valore dell'operato del Viminale - forse il suo contenuto non si adattava particolarmente alla situazione). 
In ogni caso, la lista di Alternativa popolare è stata riammessa nella circoscrizione Centro
 (con grande soddisfazione del coordinatore Stefano Bandecchi, che ha subito diffuso la notizia) ed è probabile che nelle prossime ore altrettanto avvenga con riferimento alle altre circoscrizioni. C'è attesa a questo punto per scoprire come si esprimerà l'Ufficio elettorale nazionale sui ricorsi relativi alla lista di Partito animalista - Italexit per l'Italia: proprio questa mattina è previsto un presidio di queste forze politiche davanti alla Corte di cassazione, dove dovrebbero essere in decisione i ricorsi relativi alle circoscrizioni diverse da quella del Sud. Occorre dire però che, sulla base della decisione appena commentata, il ricorso potrebbe non essere accolto, non risultando al Parlamento europeo un gruppo di Animal Politics Eu, il soggetto politico europeo (pur non riconosciuto come partito) cui il Partito animalista aderisce.
Si può invece immaginare con ragionevole certezza che la decisione presa ieri dall'Ufficio elettorale nazionale produca una profonda insoddisfazione per la lista Pace Terra Dignità e, ancora di più, nelle forze politiche che avrebbero voluto presentare liste con il simbolo Patto autonomie ambiente. In entrambi i casi, infatti, le due liste avrebbero goduto del sostegno di un partito politico europeo con proprio gruppo al Parlamento europeo (Partito della Sinistra europea - tramite Rifondazione comunista - per Pace Terra Dignità, Alleanza libera europea [Efa, formante gruppo con i Verdi europei] - tramite il Patto per l'autonomia - per Patto autonomie ambiente) e, secondo la lettura avallata dall'Ufficio elettorale nazionale presso la Cassazione, avrebbero avuto diritto a presentarsi senza raccogliere le firme. 
Com'è noto, il Patto autonomie ambiente ha rinunciato all'idea di presentare liste (impegnandosi soprattutto nel comitato Referendum per la rappresentanza "Io voglio scegliere", promotore di vari quesiti referendari in materia elettorale), ma certamente sapere che avrebbe potuto presentare le liste secondo l'interpretazione appena fornita dai magistrati di Cassazione sarà una ben magra consolazione rispetto ai progetti non andati in porto (al di là della candidatura individuale nella lista di Azione - Siamo Europei nel Nord-Est di Giovanni Poggiali, espressione di Romagna Unita, gruppo parte del Patto autonomie ambiente). Pace Terra Dignità ha invece scelto di raccogliere le firme e depositare comunque le liste, ma senza inserire riferimenti alla Sinistra europea: al momento le liste sono state accolte nelle circoscrizioni Nord-Est, Centro e Sud, mentre è stata ricusata quella del Nord-Ovest (perché, a quanto si apprende, alcune autenticazioni senza indicare la qualifica avrebbero reso insufficienti le firme raccolte in Valle d'Aosta) e per il momento non è stata ammessa quella nelle Isole (perché, pur essendo sufficienti le firme raccolte, non ci sarebbero tutti i certificati, ma oggi - considerato che il verdetto dell'Ufficio circoscrizionale è arrivato tardi - un rappresentante della lista consegnerà i certificati mancanti e ottenuti oltre il termine dai comuni). Il quadro delle liste, insomma, non è ancora completo: occorrerà attendere almeno qualche altra manciata di ore.

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AGGIORNAMENTO DEL 4-5 MAGGIO 2024
: L'Ufficio elettorale nazionale ha respinto i ricorsi presentati dalla lista Partito animalista - Italexit per l'Italia (anche se manca ancora la decisione sulla circoscrizione Isole).
I collegi di magistrati che si sono espressi hanno espressamente seguito lo stesso ragionamento che si ritrova nelle decisioni che hanno riguardato Alternativa popolare (a conferma del giudizio non positivo sull'innovazione normativa), ma l'esito è stato diverso. Questo perché l'ipotesi della affiliazione al partito politico europeo avrebbe richiesto che quel legame fosse "certificato" con una dichiarazione del presidente del gruppo parlamentare europeo autenticata da notaio o da un'autorità diplomatico-consolare italiana. In sede di deposito delle candidature, invece, sono stati presentati gli stessi documenti che nel 2019 avevano portato all'ammissione della lista: evidentemente in quell'occasione non era stata prodotta una simile dichiarazione. Si rileva poi che non risulta, dai documenti presentati, che i soggetti politici i cui simboli sono stati inseriti nel contrassegno siano forze esenti in grado di assicurare l'esonero alla lista: in una delle decisioni si precisa che "la nozione di 'gruppo politico' diverge da quella di 'gruppo parlamentare'", altro motivo che probabilmente non ha consentito di riconoscere l'esenzione (peraltro nelle decisioni si fa riferimento anche al simbolo del gruppo GUE, l'onda rossa-verde, che sinceramente chi scrive non era riuscito a ritrovare nel contrassegno... fino al momento in cui ha allargato l'immagine del simbolo e ha notato il piccolo fregio all'interno della pulce di Animal Politics EU!). Cristiano Ceriello, leader del Partito animalista, ha comunque già annunciato il ricorso al Tar per fare valere le sue ragioni (incluso il rinvio alla prossima tornata elettorale delle innovazioni normative adottate troppo a ridosso del voto, il che avrebbe dovuto consentire l'ammissione senza firme alle stesse condizioni di cinque anni fa).
Anche le liste dei Pirati, presentate nelle circoscrizioni Nord-Ovest e Centro, non sono state riammesse dal collegio di magistrati di Cassazione; una delle loro decisioni, tra l'altro, è stata registrata con il numero 1 (è stata depositata in segreteria venerdì 3 maggio alle 16 e 54, mentre la prima relativa ad Alternativa popolare è stata depositata lo stesso giorno alle 17 e 05), quindi dimostra in qualche modo che il collegio - identico a quello che ha deciso su Ap, anche se il relatore è differente - ha tenuto lo stesso metro di giudizio "meno severo", almeno con riguardo alla possibilità di ottenere l'esenzione grazie al solo collegamento con un partito europeo esonerante, anche senza eletti in Italia cinque anni prima.
In particolare, già in questa sede l'Ufficio ha rilevato l'impossibilità - da parte di un organo che esercita una "funzione pubblica neutrale, di natura amministrativa e non già giurisdizionale" - di attivare gli strumenti della questione di legittimità costituzionale o del rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, sottolineando però la necessità di interpretare le disposizioni di nuova introduzione anche alla luce dei principi costituzionali e della Raccomandazione della Commissione UE n. 2023/2829. Risulta pressoché identica a quanto già visto per Ap la parte del ragionamento sull'opportunità di considerare di fatto alternativi i criteri indicati per l'esenzione "per via europea" (dunque l'affiliazione certificata a un partito europeo costituito in gruppo a Strasburgo come fattore esonerante di per sé, anche senza l'ottenimento di un seggio europeo in Italia cinque anni prima), incluso il giudizio sulla scelta (valutata come "improbabile") di cambiare profondamente le regole sull'esenzione a meno di sei mesi dal termine di presentazione delle candidature. In questo caso, però, se non si è eccepito nulla sulla natura dell'affiliazione al Partito pirata europeo, presente con propri eletti al Parlamento europeo (in effetti la dichiarazione di collegamento, debitamente autenticata, c'era), il collegio ha comunque rilevato che quel partito europeo non è costituito in gruppo parlamentare a Strasburgo e che la stessa dichiarazione di affiliazione ai Pirati europei non proviene dal "presidente del gruppo parlamentare" (che non può esservi, visto che non esiste): quell'elemento, infatti, dopo la modifica normativa ora è qualificato come "indispensabile condizione" per ottenere l'esonero dalla raccolta firme, anche volendo perseguire la lettura alternativa dei criteri di esenzione "europea" praticata dai magistrati di Cassazione.
Mentre si scrive si apprende anche che non hanno avuto successo nemmeno i ricorsi presentati da Forza Nuova, che - com'è noto - nel 2019 era riuscita a presentare le proprie liste in tutte le circoscrizioni, anche grazie alla registrazione come partito politico europeo dell'Alleanza per la pace e la libertà (Apf) nel 2018, benché pochi mesi dopo il partito fosse stato cancellato dal registro perché - in base ai nuovi criteri di registrazione introdotti sempre nel 2018 (il partito europeo o i partiti membri dovevano avere, in almeno un quarto degli Stati membri, eletto o acquisito deputati al Parlamento europeo, ai parlamenti nazionali, alle assemblee regionali, oppure dovevano avere ricevuto almeno il 3% alle ultime europee in almeno un quarto degli Stati membri) - la sua condizione non soddisfaceva più i requisiti fissati; la domanda di iscrizione al registro, reiterata dall'associazione politica nel 2020, è stata comunque respinta perché la presenza qualificata era riferita solo a 3 Stati (Germania, Spagna e Grecia) quando, per raggiungere il quarto dei membri indicato dal regolamento, ne sarebbero serviti almeno 7. 
Bocciate le liste da parte degli Uffici elettorali circoscrizionali, sono stati presentati i ricorsi all'Ufficio elettorale nazionale. Ci si poteva aspettare che, a dispetto della lettura meno rigida delle disposizioni di nuovo conio in materia di esenzione, sia stata contestata la mancata costituzione in gruppo parlamentare e, dunque, l'assenza di una dichiarazione certificata di affiliazione da parte di un presidente di gruppo parlamentare al Parlamento europeo. Nell'unica decisione che si è potuto consultare (quella relativa alla circoscrizione Centro), tuttavia, il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché si sarebbe concentrato solo sulla denuncia della ritenuta incostituzionalità dell'art. 4-bis del decreto-legge n. 7/2024 (la disposizione che di fatto ha reso quasi impraticabile l'esenzione "per via europea"), con riferimento agli artt. 3 e 10: il collegio, senza alcuna valutazione di merito, si è limitato così a rilevare che non rientra nelle sue facoltà sottoporre alla Corte costituzionale la norma indubbiata. Forza Nuova ha comunque scelto di rivolgersi al Tar, per contestare anche nel merito le esclusioni delle liste.
L'Ufficio elettorale nazionale ha respinto anche il ricorso di Pace Terra Dignità al Nord-Ovest, ritenendo che la mancata indicazione della qualifica di un'autenticatrice in Valle d'Aosta, traducendosi nell'assenza dell'elemento che consente di verificare la legittimazione ad autenticare, causi la nullità insanabile dell'autenticazione e delle sottoscrizioni contenute in quei moduli (né si è ritenuto applicabile il c.d. "soccorso istruttorio" per sanare la carenza): tutto questo ha causato il mancato raggiungimento del numero necessario di firme in Valle d'Aosta e la conseguente bocciatura della lista. La decisione è ritenuta discutibile dai promotori della lista, inclusa Rifondazione comunista (specie a fronte del metro meno rigido emerso dalle decisioni su Alternativa popolare, che le firme non le ha raccolte), per cui è stato annunciato il ricorso al Tar del Lazio.
 
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Il quadro completo delle liste, circoscrizione per circoscrizione

Nord-Ovest: 11 liste ammesse, 8 non ammesse
Liste ammesse: Fratelli d'Italia, Lega Salvini Premier, Forza Italia - Noi moderati, Alternativa popolare, Partito democratico, MoVimento 5 Stelle, Azione - Siamo europei, Stati Uniti d'Europa, Alleanza Verdi e Sinistra, Libertà, Rassemblement Valdotain.
Liste e candidature non ammesse: Pace Terra Dignità, Democrazia sovrana popolare, Forza Nuova, Partito animalista - Italexit per l'Italia, Pirati, Italia dei diritti, Pensioni & Lavoro - Risveglio europeo, Parlamentare indipendente (Lamberto Roberti).
 
Nord-Est: 12 liste ammesse, 5 non ammesse
Liste ammesse: Fratelli d'Italia, Lega Salvini Premier, Forza Italia - Noi moderati, Alternativa popolare, Partito democratico, MoVimento 5 Stelle, Azione - Siamo europei, Stati Uniti d'Europa, Alleanza Verdi e Sinistra, Libertà, Südtiroler Volkspartei, Pace Terra Dignità.
Liste non ammesse: Forza Nuova, Italia dei diritti, Unione cattolica italiana, Democrazia sovrana popolare, Partito animalista - Italexit per l'Italia.

Centro: 12 liste ammesse, 7 non ammesse
Liste ammesse: Fratelli d'Italia, Lega Salvini Premier, Forza Italia - Noi moderati, Alternativa popolare, Partito democratico, MoVimento 5 Stelle, Azione - Siamo europei, Stati Uniti d'Europa, Alleanza Verdi e Sinistra, Libertà, Pace Terra Dignità, Democrazia sovrana popolare.
Liste e candidature non ammesse: Forza Nuova, Pirati, Italia dei diritti, Unione cattolica italiana, Partito animalista - Italexit per l'Italia, Pensioni & Lavoro - Risveglio europeo, Parlamentare indipendente (Lamberto Roberti).

Sud: 12 liste ammesse, 5 non ammesse
Liste ammesse: Fratelli d'Italia, Lega Salvini Premier, Forza Italia - Noi moderati, Alternativa popolare, Partito democratico, MoVimento 5 Stelle, Azione - Siamo europei, Stati Uniti d'Europa, Alleanza Verdi e Sinistra, Libertà, Pace Terra Dignità, Partito animalista - Italexit per l'Italia.
Liste e candidature non ammesse: Forza Nuova, Democrazia sovrana popolare, Italia dei diritti, Unione cattolica italiana, Parlamentare indipendente (Lamberto Roberti).

Isole: 11 liste ammesse, 3 non ammesse
Liste ammesse: Fratelli d'Italia, Lega Salvini Premier, Forza Italia - Noi moderati, Alternativa popolare, Partito democratico, MoVimento 5 Stelle, Azione - Siamo europei, Stati Uniti d'Europa, Alleanza Verdi e Sinistra, Libertà, Pace Terra Dignità (riammessa dopo integrazione certificati di iscrizione dei sottoscrittori).
Liste non ammesse: Forza Nuova, Democrazia sovrana popolare, Partito animalista - Italexit per l'Italia.

sabato 27 aprile 2024

Europee, la Cassazione respinge le opposizioni sui contrassegni

L'Ufficio elettorale nazionale presso la Corte di cassazione, a quanto si apprende, ha già deciso sulle opposizioni in materia di contrassegni presentate nelle scorse ore contro le decisioni della Direzione centrale per i servizi elettorali del Ministero dell'interno e discusse quest'oggi a ora di pranzo: a quanto si sa, almeno tre delle quattro opposizioni presentate sarebbero state respinte o addirittura dichiarate inammissibili (anche se è molto probabile che anche la quarta non abbia avuto esito positivo).
Per prima il collegio ha affrontato l'opposizione presentata dal Partito animalista - Italexit per l'Italia, volta a ottenere la ricusazione del contrassegno della lista Libertà a causa della presenza della miniatura del Movimento per l'Italexit oppure, in subordine, l'eliminazione del solo elemento contenente l'espressione "Italexit". Le lamentele di Italexit (già anticipate nella memoria depositata presso il Viminale lunedì), tuttavia, non sono state esaminate nel merito: l'opposizione, infatti, è stata dichiarata inammissibile perché non sarebbe stata notificata entro 48 ore dalla decisione del Viminale "ai depositanti delle liste che vi abbiano interesse", in particolare al depositante del contrassegno Libertà. Qui indubbiamente c'era un soggetto controinteressato, visto che l'opponente aveva chiesto la ricusazione o almeno la modifica di un contrassegno altrui: non potendosi leggere diversamente la disposizione in materia di notifica, le doglianze non sono state nemmeno prese in considerazione.
Più complessa è stata la questione posta dalla Lista Marco Pannella, che aveva chiesto di riammettere il suo contrassegno Stati Uniti d'Europa. La lista Pannella aveva contestato l'idea che la tutela per i contrassegni "presentati in precedenza" privilegiasse i primi depositati per la singola elezione, credendo che la disposizione dovesse invece riferirsi al preuso pubblico di un fregio, in ambito elettorale o politico (anche senza presentare liste): il deposito nel 2019 del simbolo con la dicitura "Stati Uniti d'Europa" abbinata alla rosa nel pugno su fondo giallo, ammesso dal Viminale, avrebbe dovuto rendere ammissibile il nuovo contrassegno (quasi identico), a prescindere dal deposito precedente di alcune ore di un contrassegno con lo stesso nome da parte di un diverso soggetto (la lista Stati Uniti d'Europa promossa da +Europa, Italia viva, Psi, Radicali italiani, Libdem europei e L'Italia c'è). Al Viminale che aveva rilevato come nel 2022 la lista Pannella avesse depositato un contrassegno diverso, con la rosa nel pugno ma senza la dicitura contestata, per cui non si sarebbe consolidato un "uso notorio" dell'emblema, il depositante aveva eccepito la diversa natura delle elezioni (e dei messaggi da veicolare negli emblemi), rivendicando invece un uso continuo del concetto, del nome e del simbolo "Stati Uniti d'Europa" da parte della Lista Pannella e del Partito radicale. 
In concreto, poi, era stata contestata anche la confondibilità del contrassegno contestato con quello depositato in precedenza, in considerazione della grafica completamente diversa, apprezzabile dall'elettore comune odierno, avendo riguardo sia a vari elementi del contrassegno sia a una sua visione d'insieme. Da ultimo, si era negato che quello fatto per conto della Lista Pannella fosse un "deposito emulativo", cioè volto unicamente a precludere surrettiziamente l'uso della denominazione al soggetto che aveva depositato per primo: proprio il precedente deposito del 2019 (con ammissione) e l'uso anche successivo del fregio fatto dal Partito radicale avrebbe dovuto far considerare del tutto "genuina" la scelta di presentare il contrassegno in quest'occasione. Per il Viminale, in risposta all'opposizione della lista Pannella, l'uso dell'identica espressione "Stati Uniti d'Europa" in posizione dominante in entrambi i contrassegni avrebbe potuto "confondere anche gli elettori di non scarsa conoscenza della vita e degli orientamenti delle varie forze politiche"; nel ribadire che la tutela dei contrassegni "presentati in precedenza" deve riferirsi, come da decisioni precedenti, alla "priorità del materiale deposito del contrassegno" nella singola competizione elettorale, il Ministero dell'interno non ha ritenuto rilevanti le iniziative pubbliche in cui il simbolo di Stati Uniti d'Europa sarebbe stato usato in questi anni, o (si deve intuire) per lo meno non tanto rilevanti da compensare la mancata presentazione di liste con il contrassegno contestato e da far parlare di uso effettivo dello stesso; non è mancato un riferimento alla norma che non consente il "deposito emulativo" dei contrassegni.  
I membri dell'Ufficio elettorale nazionale si sono posti anche qui il problema della mancata notifica dell'opposizione al depositante dell'altro simbolo contenente la denominazione Stati Uniti d'Europa: non c'era a rigore un controinteressato (la Lista Pannella non ha chiesto la ricusazione o sostituzione di quel contrassegno), ma si poteva comunque parlare di liste "che [...] abbiano interesse" all'esito dell'opposizione. Dalla decisione del collegio, però, si apprende che alla camera di consiglio ha partecipato il depositante di Stati Uniti d'Europa (Nicolò Scibelli): questi effettivamente non aveva ricevuto la notifica dell'opposizione, ma "ha dichiarato di non dolersi [...] della mancata notifica [...], né di avere motivo per contrastare la posizione dell'opponente". L'opposizione è stata così ritenuta ammissibile: se ci si fosse limitati a quest'osservazione, non ci si sarebbe stupiti se l'Ufficio elettorale nazionale avesse deciso di riammettere il contrassegno di cui il Viminale aveva chiesto la sostituzione. 
I giudici, invece, hanno confermato il giudizio di confondibilità, alla luce dei criteri dell'art. 14, comma 4 del d.P.R. n. 361/1957, criteri considerati "equiordinati" e comunque riferiti ai contrassegni "considerati nella loro capacità indicativa d'un determinato gruppo partecipe della competizione elettorale" (e non, dunque, nel loro uso al di fuori di quella procedura). Ritenendo che tanto la componente grafica quanto quella "scritta o denominativa" di un contrassegno "possono porre problemi di confondibilità pur nel contesto di un'innegabile diversità visiva dei contrassegni", per il collegio la scritta perfettamente corrispondente e "che domina per dimensioni entrambi i contrassegni" rappresenta l'unico elemento di confondibilità, ma poiché "funge da uguale elemento denominativo" è sufficiente a creare il rischio di confusione: non basterebbero a evitarlo le differenze grafiche tra i due emblemi, non negate, perché presupporrebbero "una scelta da parte dell'elettore che sia frutto della memorizzazione del logo nel suo insieme visivo, mentre nulla autorizza a escludere che questi ricordi soltanto o principalmente la denominazione del contrassegno. Di qui un'innegabile possibilità di disorientamento nella scelta". Dopo aver concluso che la confondibillità c'è, per l'Ufficio elettorale nazionale la tutela prevista dal testo unico per l'elezione della Camera deve andare a chi ha fisicamente depositato per primo il simbolo al Viminale nella singola competizione, non a chi rivendica il preuso "il cui richiamo implicherebbe un'inammissibile esegesi controletterale della norma" (e per sostenere la correttezza dell'interpretazione proposta si sottolinea che la fattispecie del "deposito emulativo", o "disturbatore" come si legge nella decisione, sarebbe stata introdotta proprio per limitare la portata del preuso). Queste considerazioni per i giudici sono state sufficienti per confermare il verdetto di esclusione, senza valutare gli argomenti in materia di "deposito emulativo" (tema ritenuto comunque "sovrabbondante" rispetto al tema della confondibilità).
Nell'ovvio rispetto del ragionamento seguito dal collegio di giudici di Cassazione, probabilmente occorrerebbe riflettere sull'opportunità - sulla base delle norme vigenti o anche ipotizzando una loro modifica - di non privare di tutela il preuso di un simbolo o di un contrassegno (anche quando non si sia concretizzato nella presentazione di liste: lo stesso deposito presso il Viminale è un uso di natura pubblica, anche grazie alla pubblicità data a questa fase di presentazione dai media e dallo stesso Ministero dell'interno). Posto che "Stati Uniti d'Europa" è, prima ancora che il nome di una futura lista e di un progetto elettorale non concretizzatosi nel 2019, un ideale cui poter tendere e che certamente non può essere esclusivamente di una parte politica (un po' come il dirsi comunisti, socialisti, liberali etc.), essendo stato proposto e citato da varie figure nel corso del tempo, si avverte qualcosa di "non giusto" nel mero giudizio di confondibilità che porta all'esclusione di un contrassegno e che, pur valendo soltanto per questa competizione elettorale, difficilmente potrebbe non avere strascichi futuri. Com'è noto, la legge tutela espressamente i nomi e i simboli dei partiti presenti in Parlamento, non tanto a vantaggio dei partiti quanto del loro elettorato (reale o potenziale); ci si dovrebbe però chiedere se sia giusto, per il futuro, non tutelare il preuso di un simbolo per il solo fatto che questo non si è trasformato in lista e (dunque) non si è nemmeno affacciato alle aule parlamentari. Anche perché, in mancanza di tutela, qualunque soggetto politico nascente, magari come aggregazione di soggetti esistenti, potrebbe in futuro prendere spunto per il proprio nome da quelli di simboli depositati in passato (anche solo al turno elettorale precedente) non seguiti dalla presentazione di liste e farlo proprio, magari avendo l'accortezza di mettersi in fila in anticipo per assicurarsi un titolo preferenziale in sede di valutazione dei contrassegni e, ancora prima, di pubblicizzare in modo consistente la propria iniziativa per far avvertire un legame tra il nuovo nome scelto e la propria iniziativa politico-elettorale.
Sul discorso della confondibilità, vale la pena sottolineare che le riflessioni dell'Ufficio elettorale nazionale sul rischio di confusione creato anche solo dal nome sembra frutto soprattutto della modifica del 2005 all'art. 14 del d.P.R. n. 361/1957, quando la "legge Calderoli" precisò che gli elementi di confondibilità dovevano rilevare "anche se in diversa composizione o rappresentazione grafica" (comma 4; il comma precedente da allora sanziona anche la riproduzione di "simboli, elementi e diciture, o solo alcuni di essi", ma qui non può parlarsi in pieno di "uso tradizionale"). Non è affatto improbabile che il giudizio di confondibilità formulato dipenda anche e soprattutto dal fatto che il simbolo escluso non contenga altri elementi letterali e che l'elemento in comune sia proprio la potenziale denominazione e non una semplice unità testuale.
Maurizio Turco, a nome della lista Pannella, ha già annunciato il ricorso al Tar del Lazio, rimedio previsto per le elezioni europee in base al codice per il processo amministrativo. Ricorso che farà anche la Democrazia cristiana: Nino Luciani, che aveva depositato il contrassegno con lo scudo crociato in qualità di segretario politico (insieme al segretario amministrativo Carlo Leonetti), ha fatto sapere che la sua opposizione è stata respinta, in particolare per l'uso dello "scudo crociato con croce rossa su sfondo bianco e scritta bianca 'LIBERTAS'" nel simbolo, il che lo renderebbe confondibile con quello dell'Udc, presente in Parlamento; è stata respinta contestualmente la richiesta di imporre la sostituzione del contrassegno dell'Udc. 
L'Ufficio elettorale nazionale, in particolare, dopo aver ricordato i numerosi contenziosi pre-elettorali precedenti (per cui il collegio di giudici di Cassazione si è dovuto occupare di opposizioni in materia in tutte le elezioni politiche ed europee a partire dal 2006), ha ribadito come - al pari di quanto si è ricordato all'inizio - in questa sede non contino le norme civilistiche e, in effetti, nemmeno troppo gli esiti dei contenziosi su chi sia correttamente titolare della Dc, ma "unicamente [...] la normativa, di rilevanza pubblicistica, dettata dall'art. 14" del testo unico per l'elezione della Camera, "al fine di garantire una corretta e consapevole scelta da parte dell'elettore verso una determinata forza politica e di tutelarne 'l'affidamento identitario' che ogni elettore ripone nei segni, simboli ed espressioni che individuano un determinato partito". L'articolo prima citato, in particolare, prevede una tutela ad hoc di cui beneficiano i partiti presenti in Parlamento, il cui simbolo "da essi tradizionalmente usato" viene protetto per evitare il "rischio di possibili errori o confusioni elettorali" a danno di quelle formazioni (anche se l'art. 14, comma 6 tutela innanzitutto i potenziali elettori). 
Per i giudici, l'Udc è presente in Parlamento "già da più di vent'anni" e, dal punto di vista della norma che si considerano, non sarebbero rilevanti "il pre-uso di un simbolo [...] e le questioni circa la legittimità e titolarità di tale pre-uso, pure sollevate dagli opponenti, anche richiamando controversie e giudicati civili" (a partire, c'è da giurarlo, dalla pluricitata sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione del 2010); conta piuttosto il fatto che l'Udc sia presente in questa legislatura attraverso un gruppo condiviso al Senato e una componente condivisa alla Camera (anche se, com'è noto, alle elezioni politiche del 2022 - come in quelle del 2018 - i parlamentari dell'Udc sono stati eletti solo nei collegi uninominali, mentre le liste cui il partito ha partecipato assieme ad altre forze politiche non hanno superato le soglie di sbarramento). Ciò basta, per il collegio, a far scattare la tutela privilegiata per le forze politiche presenti in Parlamento, mentre sulla base dell'art. 14 citato non può riconoscersi come "tradizionale" l'uso dello scudo crociato da parte della Dc, perché "dal 1993 quel partito ha definitivamente cessato la propria attività politica, da quella data non ha più avuto alcun rappresentante eletto in Parlamento e, quindi, il gruppo politico non può accreditarsi legittimo continuatore di quel partito, mancando proprio la dimostrazione storico-giuridica della 'continuità'".
Non concorda affatto con i contenuti della decisione Luciani: da una parte, come si è ricordato più volte su questo sito, lui è convinto che la Democrazia cristiana da lui guidata sia in piena continuità con quella che aveva operato fino al 1994, per aver seguito - dopo la ricordata sentenza di Cassazione del 2010 - il percorso indicato dal tribunale di Roma nel 2016, per cui l'uso dello scudo crociato dovrebbe considerarsi "tradizionale"; dall'altra parte, ritiene che l'Udc sia presente in Parlamento solo dal 2006 (dopo le elezioni politiche di quell'anno, a nulla rilevando il periodo 2002-2006, visto che alle politiche del 2001 l'Udc non esisteva ancora) e che in questa legislatura e in quella precedente l'Udc non possa considerarsi presente in Parlamento, visto che nel 2018 e nel 2022 le liste i cui contrassegni contenevano il simbolo del partito non sono arrivate al 3%. Per Luciani, poi, i giudici non avrebbero tenuto conto di pronunce civili che sancirebbero l'impossibilità di separare nome e simbolo di un partito, dovendosi impiegare nel caso criteri di precedenza storia (ovviamente, di nuovo, sulla base dell'asserita continuità tra Dc "storica" e Dc-Luciani). Per tutte queste ragioni, la Dc - che nelle scorse settimane ha intentato un'azione civile, di cui si parlerà a tempo debito - si rivolgerà ai giudici amministrativi, sperando che possa accadere qualcosa di simile a quello che (pur nella differenza delle condizioni, trattandosi allora di elezioni politiche e non vigendo ancora per le europee il citato codice del processo amministrativo) era in un primo tempo avvenuto nel 2008 con la Dc-Pizza, riammessa dal Consiglio di Stato dopo l'esclusione da parte di Viminale e Ufficio elettorale centrale nazionale.
Nulla è cambiato anche per Parlamentare indipendente, il contrassegno presentato da Lamberto Roberti e ritenuto non in grado di consentire la presentazione di liste (un tempo si sarebbe detto "senza effetti"), a seguito della mancata presentazione della dichiarazione di trasparenza. Roberti aveva contestato sia il fatto che la comunicazione della Direzione centrale per i servizi elettorali abbia parlato di "partito" e non di "candidato individuale" ("Quanto affermato è palesemente falso e trattandosi di atto della procedura elettorale, rileva il reato di falso in atto pubblico finalizzato ad un più grave reato quale Attentato alla Costituzione, essendo il sottoscritto unico cittadino italiano portatore del diritto elettorale passivo. Il Diritto elettorale passivo ed attivo è un principio fondamentale inalienabile"), sia la mancata previsione della possibilità di presentare candidature individuali alle elezioni europee (problema già sollevato nel 2019, ma appunto in sede di valutazione delle liste), sia la richiesta dello statuto o della dichiarazione di trasparenza, a suo dire onere non esigibile per una candidatura individuale che, "non essendo vietata", sarebbe "ammessa d’ufficio, anche perché è l’unica rispettosa del principio costituzionale del diritto elettorale passivo del cittadino". L'Ufficio elettorale nazionale, però, ha dichiarato inammissibile l'opposizione di Roberti: questo sia perché il gravame sarebbe stato presentato leggermente oltre il termine di 48 ore previsto dalla legge, sia perché la regola della necessità della dichiarazione di trasparenza non ammetterebbe eccezioni, nemmeno per le candidature individuali.

lunedì 22 agosto 2022

Simboli, l'Ufficio elettorale nazionale rigetta tutte le opposizioni

La Corte di Cassazione ha reso note le decisioni con cui l'Ufficio elettorale centrale nazionale si è pronunciato sulle opposizioni presentate da coloro che hanno rifiutato l'invito del Ministero dell'interno a sostituire il proprio contrassegno o hanno contestato l'ammissione di altri emblemi - ritenuti confondibili - da parte del Viminale in vista delle elezioni politiche del 25 settembre 2022. In tutti e sette i casi, il collegio di giudici ha respinto le opposizioni o le ha dichiarate inammissibili, confermando di fatto il quadro dei 75 contrassegni ammessi dal Viminale (70 in prima battuta e altri 5 dopo un "ritocco" alla grafica o l'integrazione dei documenti presentati). Leggere il contenuto delle decisioni è utile, oltre che per comprendere il percorso che ha portato i giudici a quelle scelte, anche per capire meglio e chiarire in modo definito gli aspetti critici rilevati dal Ministero dell'interno al momento della non ammissione del singolo contrassegno.

La prima opposizione di cui si è occupato l'Ufficio elettorale centrale nazionale ha riguardato il Partito pensionati al centro, il cui emblema era stato depositato - con il numero 14 - da Michele Cremona, indicato quale segretario della forza politica. Il Viminale, tuttavia, aveva chiesto di modificare l'emblema perché conteneva la parola "Pensionati" scritta nel modo che per molti anni ha caratterizzato le partecipazioni elettorali del Partito pensionati fondato e guidato da Carlo Fatuzzo. Cremona ha però eccepito che il simbolo ufficiale del Partito pensionati - soggetto politico peraltro non iscritto al registro dei partiti e che non ha formalmente depositato il contrassegno in quest'occasione - descritto dallo statuto sarebbe un altro (con "un cerchio con scritta Pensionati e due figure umane di anziani che si sostengono") e che in ogni caso altri partiti con la parola "pensionati" nel nome sarebbero stati ammessi nel corso degli anni (a partire da Pensionati e invalidi di Luigina Staunovo Polacco); in questo caso, anzi, Cremona ha rivendicato il consenso prestato da Giacinto Boldrini (indicato come presidente del Partito pensionati e già senatore tra il 2012 e il 2013, candidato in quota Pensionati nel Pdl e subentrato nell'ultimo anno della XVI legislatura) alla presentazione del contrassegno con la dicitura "Partito pensionati al centro" (tutte queste affermazioni, peraltro, farebbero concludere che per lo stesso Cremona, in effetti, il suo Partito pensionati al centro sarebbe un soggetto giuridico diverso rispetto ai Pensionati di Fatuzzo, a dispetto di quanto si è scritto il giorno del deposito del contrassegno).
Per i giudici, però, non conta il fatto che lo statuto del Partito pensionati tuttora descriva un simbolo diverso da quello effettivamente depositato e impiegato per le elezioni (Cremona dice il vero, ma questa storia merita un racconto a parte): il controllo di confondibilità va fatto pure con gli emblemi concretamente utilizzati in modo tradizionale, anche qualora - come in questo caso - il partito non depositi il suo emblema consueto. Di più, il problema non è dato dall'uso della parola "Pensionati", ma il fatto che sia scritta con quel carattere, con quel colore e in posizione centrale creerebbe confondibilità, senza che siano in grado di evitarla le scritte aggiunte, "di dimensioni ridottissime [...], difficilmente leggibili nella versione del contrassegno di 3 cm, quale è quella utilizzata nella scheda di votazione" (il richiamo espresso al colore, poi, sembra voler distinguere il caso in questione da quello dei Pensionati e invalidi, che impiega in effetti la parola nella stessa posizione e scritta con identico carattere, ma la tinge di nero e la colloca in un altro contesto cromatico). Quanto alla "legittimazione" all'uso del simbolo rivendicata da Cremona, per i giudici sarebbe servito un mandato da parte del segretario Carlo Fatuzzo, non bastando la nota dell'ex senatore Boldrini (che "si qualifica presidente del Partito pensionati, ma non fornisce alcuna documentazione a supporto della sua legittimazione"). Un dettaglio è rilevante: per il collegio la tutela dei contrassegni tradizionali vale a prescindere dall'iscrizione di un partito nel relativo Registro, che peraltro sarebbe previsto "esclusivamente per specifiche finalità connesse ad agevolazioni fiscali"; l'osservazione, oltre a porre in dubbio il valore di "patente di democrazia interna" che si era voluto conferire all'iscrizione al registro con il d.l. n. 149/2013, fa pensare che l'Ufficio elettorale centrale nazionale non voglia legare a tale iscrizione effetti diversi, inclusa forse l'esenzione dalla raccolta firme (si vedrà se il tema arriverà all'attenzione del collegio).
 
La decisione numero 3 riguarda il contrassegno del Movimento politico Libertas, che come si sa era stato presentato in doppio esemplare, dunque si era immaginato che uno dei due sarebbe stato ricusato. Come si è scritto, il primo - col n. 5 - presentato dall'ex candidato sindaco a Roma Paolo Oronzo Magli era stato ricusato, mentre quello presentato dal presidente Antonio Fierro - che aveva dichiarato di non aver delegato Magli a presentare - era stato considerato non in grado di consentire la presentazione di liste (non essendo state presentate le circoscrizioni per il deposito). La decisione dell'Ufficio elettorale centrale nazionale ora consente di sapere che in realtà il Ministero non ha contestato il doppio deposito del contrassegno, ma l'uso della parola Libertas all'interno di uno scudo, ritenuto confondibile con quello fatto dall'Udc all'interno del contrassegno ultracomposito di Noi moderati. Magli non ha accettato di modificare il proprio fregio, ricordando che il partito sarebbe stato presente in Parlamento nella XVII legislatura, attraverso il senatore Bartolomeo Pepe, e che lo stesso contrassegno ha partecipato indisturbato a varie competizioni amministrative (inclusa appunto quella di Roma nel 2021).
Questi argomenti, però, non sono stati ritenuti pregiati dai membri del collegio: per loro, infatti, "lo scudo e soprattutto la parola Libertas costituiscono [...] elementi identificativi del simbolo tradizionalmente usato dall'Udc" e il loro uso da parte del Mpl sarebbe fonte di confondibilità che potrebbe indurre in errore gli elettori; i giudici hanno poi richiamato la tutela accordata ai partiti rappresentati in Parlamento (come è da anni l'Udc). Quanto alla rappresentanza parlamentare nella XVII legislatura, i giudici non l'hanno negata (pur rilevando che Pepe era stato eletto in Senato col Movimento 5 Stelle nel 2013 e aveva poi aderito al gruppo Gal, facendo inserire nella denominazione completa del gruppo anche il riferimento al Movimento politico Libertas dal 16 febbraio 2016 al 4 ottobre 2017), ma hanno concordato col Ministero nel rilevare che il Mpl non ha mai concorso alle elezioni politiche o europee né ha avuto propri eletti, così non scatta la tutela concessa ai simboli usati tradizionalmente da chi è presente in Parlamento (occorre quindi almeno la partecipazione alle elezioni nazionali con quel simbolo, senza per forza aver ottenuto eletti, ma non basta una presenza limitata nel tempo - e, si suppone, in consistenza numerica - in Parlamento). Non si è ritenuto valido neanche l'argomento della partecipazione indisturbata al voto amministrativo: posto che, per i giudici, Magli non l'ha documentata (e sarebbe bastato - ci si permette di dire - produrre il manifesto delle candidature alle ultime comunali romane), per il collegio tali partecipazioni non rilevano "trattandosi di elezioni diverse da quelle politiche", regolate da altre norme. Se in passato - specie con riguardo al Msi-Saya - all'argomento della partecipazione a precedenti elezioni amministrative si era opposto che quelle erano "competizioni particolarmente circoscritte" (cosa che era forse più difficile da dire per il comune di Roma), stavolta si è fatta prevalere la questione delle norme diverse che regolano l'ammissione dei contrassegni.
 
La decisione numero 6 riguarda la vicenda delicata del Partito liberale italiano, il cui simbolo - come si ricorderà - era comparso due volte, identico, nelle bacheche del Viminale. Si è già ricordato come il Ministero dell'interno abbia ammesso l'emblema n. 41, depositato per conto del segretario Roberto Sorcinelli, chiedendo invece la sostituzione del contrassegno n. 1, presentato per conto di Nicola Fortuna, anch'egli qualificatosi come segretario del Pli. Le premesse della decisione dell'Ufficio elettorale nazionale rivelano che, insieme al simbolo e agli altri documenti richiesti dalla legge, il depositante dell'emblema n. 41 avrebbe presentato anche copia del verbale del consiglio nazionale del 30 luglio in cui si era deciso un profondo mutamento nella guida e nella linea del partito (con l'indicazione di Sorcinelli come segretario con mandato pieno) e degli atti successivi con cui si sarebbe dichiarata la decadenza immediata dell'iscrizione al Pli di Fortuna, del presidente Stefano De Luca e di Giulia Pantaleo (a capo della Gioventù liberale italiana, nonché futura depositante del contrassegno n. 1), diffidando loro dall'uso di nomi o simboli riconducibili al Pli. Fortuna si era opposto alla richiesta di sostituire l'emblema, ritenendosi legittimato come segretario (fin dal 1° marzo 2020, insieme a Sorcinelli e Claudio Gentile) e negando invece la legittimità della convocazione del consiglio nazionale del 30 luglio, per cui si sarebbe dovuto ammettere il simbolo n. 1 ed escludere il n. 41.
Il collegio, come in passato ha fatto per altre vicende simili, ha precisato che non è di sua competenza l'esame delle vicende interne al partito: toccherà al giudice civile occuparsene, nel momento in cui gli atti della cui validità si discute dovessero essere impugnati (il che non appare affatto improbabile). Secondo i giudici - che nella decisione hanno precisato come questo caso, ben più degli altri, sia stato preceduto da una "ampia discussione orale" - conta soprattutto il fatto che il verbale del consiglio nazionale del 30 luglio, "redatto ed autenticato da notaio, non risulta ad oggi impugnato, né è stata preannunciata impugnazione alcuna, né comunque risulta che ne sia stata sospesa l'efficacia": poiché proprio sulla base di quel verbale - senza bisogno di considerare i singoli atti di caducazione delle iscrizioni - il Viminale ha dedotto la legittimazione di Roberto Sorcinelli come segretario e l'efficacia degli atti di "destituzione" di Fortuna (specie quale delegante al deposito del simbolo) e De Luca, mancherebbero i presupposti per l'opposizione (e per la richiesta di escludere il contrassegno in effetti ammesso), per cui il gravame è stato dichiarato inammissibile.

Ben tre delle sette opposizioni, tuttavia, riguardavano l'esclusione di simboli legati a forze politiche denominate Democrazia cristiana. Si erano rivolti all'Uecn tanto Vittorio Adelfi quale depositante della Dc presieduta da Francesco Petrino e coordinata da Francesco Mortellaro (simbolo n. 18, decisione n. 4), quanto Nino Luciani (simbolo n. 50, decisione n. 7), che si dichiara segretario della Dc, e Sabatino Esposito (simbolo n. 58, decisione n. 5), che del partito presiederebbe la commissione di garanzia dello statuto (unico organo rimasto in piedi, prima di riprendere un'attività più ampia): per tutti i loro contrassegni era stata rilevata la somiglianza foriera di confondibilità con riguardo al simbolo - per l'uso crociato impiegato dall'Udc - e anche al nome - riconosciuto alla Democrazia cristiana depositata da Mauro Carmagnola in nome e per conto di Renato Grassi; alla Dc-Esposito e alla Dc-Luciani (si usano queste etichette solo per identificare meglio i progetti politici) era stata anche contestata la mancanza della dichiarazione di trasparenza, per cui se alla Dc-Mortellaro era stata chiesta la sostituzione dell'emblema, dei contrassegni depositati da Luciani e da Esposito si era detto che non avrebbero consentito la presentazione di liste. Tutte e tre le Democrazie cristiane si erano opposte ai provvedimenti del Ministero dell'interno, rivendicando il proprio diritto all'uso esclusivo dello simbolo e del nome della Dc (addirittura Adelfi aveva chiesto l'esclusione della Dc-Grassi e che lo scudo crociato sparisse dal contrassegno di Noi moderati); quanto alle contestazioni sulla mancata dichiarazione di trasparenza, tanto Luciani quanto Esposito l'hanno consegnata oltre i termini (il secondo ha precisato di avere provveduto solo nel pomeriggio del 16 agosto per l'irreperibilità "di un notaio su tutto il territorio nazionale") pur ritenendo di avere adempiuto all'obbligo di trasparenza con il deposito dello statuto.
L'Ufficio elettorale centrale nazionale, però, ha respinto tutte le opposizioni. A proposito della dichiarazione di trasparenza, questa - con sottoscrizione del legale rappresentante regolarmente autenticata da notaio - è stata ritenuta obbligatoria per tutte le formazioni non iscritte al Registro dei partiti politici, non bastando il deposito di uno statuto in precedenza non riconosciuto conforme alla legge dall'apposita Commissione (e non potendosi invocare alcuno slittamento dei termini del procedimento elettorale - per esempio applicando norme dettate per i processi - visto che quelle "rigide scansioni temporali [...] garantiscono la trasparente e corretta competizione e, dunque, la democraticità delle elezioni"). Con espresso riguardo allo scudo crociato, i giudici hanno ricordato ancora una volta che "le vicende relative all'uso dello storico simbolo della Democrazia cristiana sono irrilevanti", come pure ogni questione "attinente all'individuazione del legittimo titolare del simbolo", dovendosi applicare solo le norme dettate per le elezioni, volte "a garantire l'affidamento identitario da parte dell'elettore": l'uso dello scudo crociato da parte dell'Udc - partito da tempo presente in Parlamento - viene tutelato dalla legge anche se il fregio è inserito in un contrassegno ben più complesso (quanto alla Dc-Grassi, di cui Vittorio Adelfi aveva chiesto l'esclusione, il collegio ha precisato che il suo contrassegno non è "tale da risultare confondibile con le denominazioni contenute in altri contrassegni ammessi").     
 
Il quadro delle decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale si completa con la seconda pronuncia, relativa all'opposizione presentata da Dino Giarrusso contro l'ammissione del contrassegno Sud chiama Nord presentato per conto di Cateno De Luca (si tratta dell'emblema in cui è però più evidente la dicitura De Luca sindaco d'Italia). Come si ricorderà, il Viminale aveva chiesto la sostituzione del fregio elettorale depositato da Giarrusso - quello originale di Sud chiama Nord, senza il riferimento a De Luca, al n. 13 - e Giarrusso aveva scelto addirittura di ritirarlo; dalla decisione, però, si apprende che contestualmente l'europarlamentare si era opposto all'ammissione del contrassegno presentato per conto di De Luca (al n. 10), rivendicando - come già anticipato a I simboli della discordia - per sé il titolo a decidere sull'uso del nome del soggetto politico da lui fondato il 25 giugno, aggiungendo di aver depositato il simbolo come marchio d'impresa il 5 agosto. L'opposizione, tuttavia, è stata giudicata inammissibile dal collegio dell'Ufficio elettorale presso la Cassazione: avendo Giarrusso ritirato il proprio emblema, non sarebbe stato più titolato a opporsi (anche se la decisione stessa sembra contraddirsi: prima scrive che il ritiro si è concretizzato alle 14 e 49 del 16 agosto e che alle 14 e 40 era stata presentata l'opposizione, poi si legge che Giarrusso avrebbe rinunciato alla presentazione "già prima della formulazione dell'opposizione: sono stati forse scambiati gli orari?).
Chiusa definitivamente la partita dei contrassegni - a meno che qualcuno tenti di rivolgersi al giudice civile: ora è possibile, ma la strada resta complessa e dagli esiti incerti - resta quella delle candidature, di cui ora si completa l'esame. Sicuramente alcuni profili meriteranno attenzione e saranno approfonditi più in là.

domenica 28 gennaio 2018

Opposizioni sui simboli, la Cassazione conferma tutto (ma cancella Sgarbi)

Chi ha avuto modo di studiare le decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale, costituito presso la Corte di cassazione, sa che nella quasi totalità dei casi questo finisce per confermare le decisioni con cui il Ministero dell'interno ha chiesto di sostituire un contrassegno e cui il depositante si sia opposto (ma si dà anche il caso in cui qualche avente diritto si è lamentato dell'accettazione di un emblema che a suo dire lo danneggiava). Stavolta non è andata diversamente: su quattro opposizioni, infatti, i magistrati di cassazione ne hanno respinte, in un certo senso, tre e mezza. 
Osservazione preliminare: quest'anno il numero delle opposizioni da decidere è stato molto contenuto. Certamente il dato è in linea con la notevole contrazione dei simboli presentati: nel 2013, per dire, le opposizioni erano state 10, a fronte però di 219 simboli presentati (quest'anno, va ricordato, erano soltanto 103); a contenere decisamente il numero delle contestazioni, tuttavia, ha contribuito anche il discreto numero di contrassegni sostituiti (ben sei su dieci ritenuti non accettabili). Va anche dato merito alla Corte di cassazione per avere reso pubbliche, in questa occasione, le sue decisioni, consentendo a tutti di prenderne visione sul suo sito.
Ciò detto, il solo accoglimento parziale di un'opposizione ha riguardato il simbolo che unisce Rinascimento (il partito fondato da Vittorio Sgarbi) e il Mir di Gianpiero Samorì. L'opposizione n. 1 era stata presentata proprio da Vittorio Sgarbi, che il 23 gennaio aveva fatto arrivare al Viminale alcuni documenti con cui chiedeva di ritirare il simbolo di Rinascimento dalla consultazione (e l'accettazione del ruolo di capo della forza politica). Essendo comunque stato ammesso il contrassegno, Sgarbi si è rivolto all'Ufficio elettorale nazionale per ottenere che sparissero dal simbolo i riferimenti a lui e al suo partito (nome e mani) o che fosse ricusato l'intero contrassegno. Il ministero aveva considerato gli atti di Sgarbi tardivi, ammettendo al più che si togliesse il solo riferimento a Sgarbi, avendo questi ritirato la sua accettazione della guida della forza politica. Così è andata: per i magistrati Sgarbi non poteva chiedere di annullare l'ammissione del simbolo (sono legittimati solo i depositanti dei simboli ricusati e i depositanti di un contrassegno ritenuto confondibile), ma aveva titolo per chiedere la rimozione del suo nome, poiché questo poteva indurre in errore i votanti (facendo credere che Sgarbi fosse ancora a capo della forza politica, mentre invece aveva stretto un accordo con Forza Italia). Nel giro di qualche ora il riferimento a Sgarbi è sparito, a tutto vantaggio di quello del Mir di Samorì, che risulta ora visibile a chiunque; il nome Rinascimento (più piccolo, come in origine) e il particolare di Michelangelo, invece, sono rimasti al loro posto, non essendo stati ritenuti confondibili.
L'opposizione n. 2 è stata presentata dal Movimento sociale italiano - Destra nazionale di Gaetano Saya e Maria Antonietta Cannizzaro, che anche questa volta si era visto bocciare il contrassegno dal Ministero dell'interno, ovviamente per la presenza della fiamma tricolore, ritrovabile anche nel segno di Fratelli d'Italia. Saya aveva lamentato la lesione dei propri diritti sul segno (depositato nel 2011 come marchio) e aveva soprattutto sventolato la sentenza della Corte d'appello di Firenze che, a detta sua, avrebbe dovuto assegnare irrevocabilmente la fiamma al Msi.
Per l'Ufficio elettorale nazionale, invece, quella sentenza non rileva affatto, perché per l'ammissibilità valgono soltanto le norme elettorali, considerate lex specialis rispetto a ogni altra norma (comprese quelle civilistiche sui segni di identificazione o distintivi) e qui conta il fatto che Fratelli d'Italia non solo è presente in Parlamento con la fiamma, ma ha certamente partecipato alle elezioni europee del 2014 con un simbolo contenente la fiamma (e con quello si è sottoposta al giudizio del Viminale): proprio come in passato, insomma, l'opposizione è stata rigettata.
Più delicata era la questione legata ai Libeguali di Luciano Chiappa: lui aveva presentato due emblemi per rivendicare la primogenitura del concetto di "libegualità" (anche rispetto ai Liberi e Uguali di Grasso), ma era stato invitato dal Viminale a sostituire i contrassegni "e, nel contempo, a modificare la stessa denominazione del partito". Con l'opposizione n. 3, Chiappa aveva rifiutato di cambiare il nome, ritenendo che ciò non sia previsto dalla legge ("Sarebbe a dir poco singolare, sotto il profilo dello stato di diritto e dei principi del nostro ordinamento giuridico [...] che sia imposto per atto ministeriale ad un libero gruppo politico non solo il diniego del diritto all'esercizio dell’uso della sua propria preesistente denominazione ma persino l’obbligo della sua modificazione"); quanto al simbolo, il depositante aveva dato una lettura solo storica del criterio di precedenza previsto dalla legge elettorale (e non anche con riguardo all'ordine di arrivo nei giorni del deposito: Liberi e Uguali era stato presentato il giorno prima), lamentando l'assoluta mancanza di "uso tradizionale" del nome da parte di Liberi e Uguali, visto che il gruppo parlamentare è stato costituito il 20 dicembre 2017, ma nello stesso giorno Chiappa aveva diffidato il gruppo affinché non utilizzasse quel nome. 
I magistrati di Cassazione hanno sì ridimensionato l'invito a modificare la denominazione del partito, ritenendo che questo riguardasse solo il nome presente all'interno del simbolo (e non anche il nome vero e proprio del soggetto politico), ma hanno comunque rigettato l'opposizione. Si è ritenuto che prevalesse l'esistenza in Parlamento di un gruppo con "Liberi e Uguali" nella denominazione (anche se quel nome era stato aggiunto solo negli ultimi giorni della legislatura), a tutela non tanto dei partiti o delle liste ma dei loro elettori; di più, l'Ufficio elettorale ha sostenuto che il concetto di "uso tradizionale" vada interpretato "alla luce dell'evoluzione storica degli strumenti di informazione che consentono di portare a conoscenza quasi immediata della intera collettività tutti i cambiamenti e i processi evolutivi del contesto politico", dunque anche con riferimento alla "notorietà acquisita tramite la diffusione dei mass media"
Si tratta esattamente delle stesse tesi sostenute dalla Direzione centrale dei servizi elettorali nel 2013, quando a lamentarsi della possibile esclusione era stato il Movimento politico Fratelli d'Italia di Salvatore Rubbino, esistente e partecipante a elezioni locali ben prima che Giorgia Meloni costituisse il suo partito (ma erano già state citate espressamente dall'Ufficio nella decisione n. 8/2013, relativa alla titolarità elettorale del contrassegno di Grande Sud); averle ripetute anche in quest'occasione ha l'effetto pratico di certificare che la notorietà mediatica, magari ottenuta da chi gode di per sé di visibilità o ha ingenti risorse da investire in pubblicità, finisce per rendere irrilevante il titolo di chi ha immaginato prima un nome uguale o simile o addirittura lo ha usato elettoralmente, ma solo a livello locale o circoscritto. La tutela degli elettori e del loro affidamento è importante, ma questa consapevolezza è oggettivamente piuttosto avvilente, perché "a pelle" c'è qualcosa di sbagliato. Tanto più che qui il gruppo rivendica non una semplice preesistenza, ma l'essere un gruppo politico "che nel neologismo Libeguali esprime un progettualità e una fondazione filosofica nettamente distinta, alla radice e nei suoi risvolti politici pratici, rispetto a ciò che può essere portato nel nome Liberi e Uguali", dunque con una proposta ideale e politica del tutto diversa da ogni altra proposta attuale (a partire dal concetto di "libegualità", che supera libertà e uguaglianza con "libera individualità ed eguale socialità").
L'ultima opposizione era stata presentata da Diego Coroni, che aveva depositato il simbolo della Democrazia cristiana su mandato del presidente dell'associazione Gianni Fontana, ma si era visto chiedere la sostituzione per la somiglianza dello scudo crociato con quello utilizzato dall'Udc nel cartello con Noi con l'Italia. L'opposizione, a dire il vero, aveva sorpreso molti, visto che proprio Coroni lo stesso giorno aveva accolto l'invito del Viminale e aveva presentato un nuovo simbolo (quello a metà tra il lenzuolo, la bandiera e la vela crociata); il depositante, però, intendeva far riconoscere l'infondatezza della richiesta di sostituzione e far valere l'interesse a impedire l'uso dello scudo a Noi con l'Italia - Udc. L'Ufficio elettorale centrale nazionale, peraltro, ha correttamente considerato inammissibile l'opposizione, "per l'assoluta mancanza di interesse del ricorrente che ormai utilizza il nuovo contrassegno depositato" (oltre che per contrarietà alla dichiarazione di rinuncia a contenziosi sul simbolo che viene ritualmente sottoscritta in sede di sostituzione del contrassegno). Si trattava probabilmente dell'opposizione dall'esito più prevedibile; certo è che, con la sua presentazione, si è arrivati alla settima elezione nazionale di fila con almeno una decisione dell'Uecn su simboli legati alla Dc e a chi ritiene di poterne usare il simbolo. Un primato davvero considerevole, non c'è che dire.