La scienza che si occupa di studiare le elezioni, come branca della scienza politica, è conosciuta tra le studiose e gli studiosi con il nome tecnico di psefologia. La prima parte di questa parola, probabilmente inconsueta per la maggior parte delle persone, rimanda al termine greco psêphos, che indica il "ciottolo", il "sassolino" usato ad Atene per votare (in seguito avrebbe preso forme particolari, anche diverse a seconda del contenuto del voto, per esempio sulla condanna o sull'assoluzione): l'identificazione era stata tale da far associare quel nome all'atto stesso del voto o all'idea della procedura elettorale.
Proprio l'etimologia di questo termine inconsueto, dal momento che i "ciottoli" dovevano essere contati, ricorda una volta di più che le elezioni sono fatte innanzitutto di numeri: lungi dall'essere freddi e aridi, però, questi meritano di essere letti e analizzati con attenzione, collocati nel loro contesto storico, sociale e politico (da ricostruire con cura) e considerati per ciò che possono comunicare, spiegare e lasciar intuire su coloro che hanno espresso quei voti, sul loro comportamento e sulle loro ragioni. Si tratta, insomma, di "far parlare" i numeri, cosa che in realtà comporta munirsi di strumenti per comprendere le informazioni che i numeri possono trasmettere e per riuscire a diffondere quelle stesse informazioni a ogni persona interessata.
Considerando tutto questo, è interessante sapere che da pochissime settimane il Mulino ha pubblicato Le elezioni regionali in Italia. Il comportamento elettorale nelle regioni a statuto ordinario (1970-2020), ultimo libro scritto da Luca Tentoni, analista politico, a lungo giornalista ed editorialista per varie testate giornalistiche (incluso lo spazio online Mente politica): nel corso del suo lungo impegno ha autore di numerosi volumi e saggi su istituzioni, sistemi elettorali e comportamento politico degli italiani.
Tappe precedenti: dalle politiche nelle "capitali regionali"...
Lo stesso libro di cui si è detto poc'anzi, in effetti, rappresenta il capitolo conclusivo di un percorso "a trilogia" iniziato - per lettrici e lettori - nel 2018, con la pubblicazione (sempre per il Mulino) di Capitali regionali. Le elezioni politiche nei capoluoghi di regione (1946-2018). In questo cammino a tre tappe, infatti, Tentoni ha scelto di offrire e analizzare i dati relativi alle tre competizioni elettorali più rilevanti del paese (politiche, europee, regionali), rilevando le peculiarità di ogni consultazione, i mutamenti nelle scelte dell'elettorato, i fattori storici, sociali e territoriali che possono averli condizionati nel corso del tempo. Quel primo volume, in particolare, aveva osservato essenzialmente i numeri delle elezioni politiche (guardando però anche alle amministrative del 1946 e alla prima tornata referendaria, del 1974), prestando attenzione con uno sguardo diacronico al comportamento di elettrici ed elettori dei principali partiti nelle varie aree territoriali (individuate generalmente come Nord-Ovest, Nord-Est, Centro-Nord già delle "regioni rosse", Roma-Lazio, Sud ampliato, Isole) e tracciando un utile bilancio della "prima Repubblica" (fino al voto del 1992) e di una "seconda Repubblica allargata" (così verrebbe da dire, essendo incerta agli occhi di chi scrive ora la qualificazione delle ultime legislature).
L'autore, peraltro, aveva volutamente scelto come proprio punto di osservazione le "capitali regionali", ossia i capoluoghi di regione e di provincia autonoma, mettendone in luce le particolarità fin dal capitolo introduttivo (utilissimo per chi è interessato alla psefologia, al pari della nutrita bibliografia finale): quelle città, infatti, a volte piuttosto omogenee rispetto al contesto territoriale regionale (come nelle regioni "già rosse") e altre volte piuttosto dissimili (Tentoni porta gli esempi di Milano e Venezia), presentano alcune caratteristiche ricorrenti. Per prima cosa, soprattutto nel periodo che va fino alla metà degli anni '70, le "capitali regionali" acquisiscono un peso rilevante nel panorama elettorale nazionale grazie alle migrazioni interne (anche se dagli anni '80 esso si è un po' ridimensionato). Secondariamente, nel periodo della "prima Repubblica" il voto nei capoluoghi di regione è risultato meno concentrato sui primi due o tre partiti rispetto alle "periferie" e il numero effettivo di partiti partecipanti è sempre maggiore nei centri rispetto agli altri comuni, fino a far registrare una certa frammentazione del quadro politico; nella seconda Repubblica la tendenza è parsa inversa (tranne che alle elezioni del 2018), ma la concentrazione sui due principali soggetti elettorali (c.d. "indice di bipartitismo") nelle "capitali regionali" è comunque più bassa rispetto alla prima fase repubblicana italiana e il numero di partiti è di norma superiore rispetto ad allora. Questo ha fatto parlare Luca Tentoni di "mercato aperto" (o comunque più vasto) per i capoluoghi, interessati anche da rilevanti fenomeni di movimento elettorale da una consultazione all'altra, spesso più marcati o più "fattibili" che in periferia.
Ciò, dal punto di vista "simbolico" che inevitabilmente interessa chi frequenta questo sito, può tradursi in una scheda elettorale più affollata di contrassegni; quest'eventualità, tuttavia, non può che dipendere molto dalla conformazione del sistema elettorale (in particolare dal tipo di collegi e dal numero di circoscrizioni sul territorio regionale). Soprattutto, però, proprio la situazione più aperta, dinamica e meno monopolizzata dai partiti maggiori genera un maggior numero di simboli dotati di consenso percettibile e, magari, rappresentati in Parlamento; anche qui, però, questa seconda parte dell'affermazione è strettamente dipendente dalle regole scelte per trasformare i voti in seggi (dalla formula elettorale e dall'entità delle eventuali soglie di sbarramento). Tutto questo non può dipendere soltanto dalla maggiore quantità di elettrici ed elettori che si riscontra nelle "capitali regionali" e non negli altri comuni: questo non avrebbe alcuna influenza in sé sulle percentuali delle varie candidature. Un ruolo assolutamente rilevante in questi fenomeni, piuttosto, sembra spettare a un fattore qualitativo, legato alla composizione diversa e maggiormente varia dell'elettorato (comunque più ampio) nei capoluoghi: proprio la presenza di un maggior numero di istanze agevola una varietà più consistente di proposte elettorali e, in alcuni casi, rende più facile la rappresentanza anche alle forze "minori" più radicate o di maggior impatto.
Tutto ciò è stato illustrato elezione dopo elezione (prestando attenzione anche ai passaggi intermedi) e, soprattutto, con l'ausilio di un gran numero di tabelle e svariati grafici, mettendo a disposizione una grande mole di dati da leggere, accostare e considerare insieme.
... ai numeri delle europee
Il secondo volume del trittico di Tentoni, pubblicato dal Mulino nel 2019, era Le elezioni europee in Italia. Un percorso fra storia e dati (1979-2019). L'opera ha avuto il merito di riconoscere al voto per il Parlamento europeo la dignità che merita, a dispetto dei minori studi che l'hanno riguardato e dell'attenzione limitata (distorta in chiave nazionale) posta dai media, dalle forze politiche e pure dal corpo elettorale.
La dottrina ha qualificato quelle consultazioni come "elezioni di second'ordine": l'etichetta richiama votazioni nelle quali il tasso di mobilitazione - e anche di affluenza - è minore rispetto a quello delle elezioni "di prim'ordine" come le politiche (benché i temi della propaganda, come detto, siano spesso di livello nazionale) e non di rado si creano le condizioni perché elettrici ed elettori penalizzino le forze di maggioranza, dando più consenso a quelle di opposizione, di protesta, neocostituite o legate a determinati raggruppamenti federativi europei. Proprio le minori ricadute del voto europeo sulla situazione politica interna, tuttavia, per alcuni studiosi spingerebbero elettori ed elettrici a un voto più "sincero", meno dettato dalla razionalità e dall'intento di orientare la politica nazionale: ciò non di rado ha posto le basi per risultati rilevanti di liste di scopo o monotematiche, di partiti estremi o addirittura antieuropei (non è un controsenso: esiste un contesto migliore per dare un segnale contro l'Europa-così-com'è?). Già queste sono ottime ragioni per approfondire le dinamiche e i numeri delle elezioni europee, con strumenti analoghi a quelli visti per le "capitali regionali"; di più, a volte proprio il voto per il Parlamento europeo è stato un banco di prova per esperimenti elettorali (anche di natura "simbolica") che in qualche caso hanno proseguito il loro cammino, mentre in altri si sono subito dissolti, dunque anche questo merita approfondimento.
Tentoni ha così messo in luce come il tasso di mobilità tra un'elezione europea e l'altra sia maggiore di quanto accada per le elezioni politiche, tanto per i numerosi rivolgimenti nazionali che possono avvenire nel corso di una legislatura europea, quanto per l'influenza che può giocare la presenza di forze politiche nuove, aggregazioni ad hoc e liste di scopo. Non si deve dimenticare, poi, che fino al 2004 si è favorita una certa frammentazione del quadro per la presenza di una legge elettorale proporzionale priva di correttivi; l'introduzione, nel 2009, della soglia di sbarramento del 4% ha posto un significativo ostacolo all'entrata all'Europarlamento di forze politiche di una certa consistenza, ma già rimaste escluse dalla rappresentanza nazionale, spingendo alla formazione di alleanze e cartelli elettorali.
Anche qui, in ogni elezione (ben inquadrata storicamente a livello nazionale ed europeo), si è analizzato il comportamento elettorale con riferimento alle forze politiche (o alle liste elettorali) più rilevanti: si è valutato il loro "peso" nelle "capitali regionali" e negli altri comuni guardando alle cinque circoscrizioni della legge elettorale e impiegando di nuovo le sei aree d'Italia individuate nel libro precedente, cercando sempre di dare ragione dei risultati riscontrati.
Nelle analisi proposte da Tentoni acquista rilievo pure lo sguardo rivolto alle nuove forze politiche o agli esperimenti elettorali ad hoc destinati alle europee. Il primo anno interessante sembra essere il 1989: per l'autore ha peso l'8% di voti "conquistato da liste non presenti alle elezioni europee precedenti". Appaiono vincitrici la Federazione dei Verdi (Verdi Europa, col sole che ride) e i Verdi Arcobaleno (alla prima apparizione elettorale), nonché l'Alleanza Nord, evoluzione ampliata della Lega Lombarda (premiata rispetto alle elezioni politiche di due anni prima); non pareva buono invece il risultato degli Antiproibizionisti sulla droga, che pagavano di certo la scelta dei radicali di "disseminarsi" su quattro liste, ma almeno riuscivano a ottenere un seggio con questa lista (e uno con la lista Pli-Pri).
Saltando al 1999 - consultazione connotata dal "trionfo della frammentazione" e con una concentrazione di voti tra le due prime liste più contenuta - si è assistito all'affermazione di due soggetti nettamente europeisti: da una parte la Lista Pannella, che schierava il nome di Emma Bonino (già proposta come presidente della Repubblica) e aveva raccolto "un voto contingente per il cambiamento e il rinnovamento della politica [...], un messaggio ai poli lanciato da un elettorato d'opinione giovane e altamente scolarizzato", arrivando all'8,4% ma superando il 12% nel Nord-Ovest e nel Triveneto; dall'altra i Democratici, legati all'esperienza di Romano Prodi al governo (e in polemica con le evoluzioni del centrosinistra), capaci di cogliere il consenso del "movimento dei sindaci" (legato a varie anime di centrosinistra e non solo) ed "embrione di quello che potrebbe essere il nuovo Ulivo, dopo quello del '96" (sul punto si tornerà). Era apparso un insuccesso, invece, l'accordo tra Alleanza nazionale e il Patto Segni sotto le insegne dell'elefantino: "i cartelli elettorali [...] non hanno quasi mai successo" e il risultato era buono solo a Roma (23,2%).
La proliferazione di sigle e la frammentazione degli eletti italiani si confermano nel 2004: hanno partecipato 25 liste e 16 hanno ottenuto seggi (nel 1999 erano state 19 su 26). I partecipanti sarebbero però stati di più se non si fosse riscontrata una prima, diffusa tendenza all'aggregazione di forze ritenute simili. Valeva per chi aspirava a un ruolo chiave nel futuro politico italiano, come i tre partiti maggiori del centrosinistra (Ds, Margherita e Sdi, con l'apporto dei Repubblicani europei) raccolti in Uniti nell'Ulivo, il vero antecedente della riproposizione ulivista alle elezioni del 2006 (e tutto sommato con pochi voti persi per strada rispetto alla somma dei consensi precedenti, anzi preparando un rafforzamento della futura Unione); valeva anche per le forze minori, interessate non a superare uno sbarramento (non ancora previsto, ma è stata l'ultima volta) ma a ottenere un seggio in più o semplicemente un seggio. Hanno centrato l'obiettivo Alternativa sociale (Alessandra Mussolini ha ottenuto un seggio anche grazie agli apporti di Forza Nuova e del Fronte nazionale) e, in un certo senso, anche il tandem Di Pietro-Occhetto con la lista Italia dei valori - Società civile (non una semplice apertura del partito dominante nel simbolo - come l'Udeur ampliata a Mino Martinazzoli - esistendo un accordo tra l'Idv e il gruppo Riformatori per il nuovo Ulivo, peraltro finito in malo modo); niente da fare invece per il cartello Pri - Liberal Sgarbi (il "partito della bellezza") e per allargamenti ininfluenti, come quello del Patto dei liberaldemocratici di Segni che aveva accolto Carlo Scognamiglio. Tentoni nota poi la prima partecipazione del Movimento No Euro, promosso da Renzo Rabellino: con il suo 0,22%, esso "costituisce una piccola ma a suo modo significativa testimonianza di come il tema sia già presente - sia pure a livello molto marginale - nel dibattito politico italiano".
Le ultime tre elezioni europee, soprattutto a causa della diminuzione dei seggi da distribuire e dell'introduzione dello sbarramento al 4%, hanno visto calare il numero di soggetti elettorali in campo (senza contare che un numero rilevante di questi, spesso frutto della "federazione" di più forze, è finito sulla scheda solo grazie all'esenzione dalla raccolta firme, a volte ottenuta con il collegamento a gruppi stranieri rappresentati al Parlamento europeo, senza godere di alcun eletto uscente) e ancora di più il numero delle forze politiche che hanno ottenuto europarlamentari; in queste consultazioni si sono verificati un tasso di mobilità dell'elettorato (tra poli, ma anche tra partiti della stessa area) consistente e una crescente astensione.
Se il 2009 era stato connotato dalla "vittoria dei 'secondi'", cioè dall'affermazione delle forze minori delle due coalizioni (Lega Nord e Italia dei valori) a danno di quelle maggiori, il 2014 ha visto il record di voti e percentuale del Pd (legato al c.d. "effetto Renzi" e mai più eguagliato), il risultato buono ma calante del MoVimento 5 Stelle e ha registrato gli ultimi tentativi riusciti di superare il 4% con un cartello (quello, graficamente discutibile, tra Ncd e Udc, poi trasfuso nel progetto di Area popolare ma durato poco) e con una lista di area, quasi di scopo (L'Altra Europa con Tsipras). Il 2019, infine, è stato segnato dalla grande avanzata in tutto il paese della Lega (non più Nord, ma pur sempre radicata soprattutto in quelle aree, mentre il M5S si è ormai meridionalizzato); il nuovo partito di Matteo Salvini è però riuscito a penetrare assai più nelle periferie rispetto alle "capitali regionali", al contrario del Pd che appare sempre più "urbano e metropolitano".
Le regioni prima delle regioni
Arrivando al volume da poco uscito e che completa la trilogia, Luca Tentoni sceglie meritoriamente di iniziarlo ricordando in poche pagine la prima stagione delle regioni: quella che ha portato alla loro previsione nella Costituzione (si riassumono soprattutto il dibattito alla Costituente e il compromesso raggiunto in seno a quell'organo, senza trascurare ciò che è avvenuto nei decenni precedenti), ma anche gli anni della lunga inattuazione costituzionale. Com'è noto, si dovette attendere il 1968 per l'approvazione della legge elettorale per i consigli delle regioni a statuto ordinario e il 1970 per le prime elezioni regolate da quelle norme: "in seguito ai risultati negativi delle amministrative del 951 e al mancato scatto della legge maggioritaria per la Camera (1953) - ricorda l'autore - la Dc comprende che una rapida attuazione delle regioni può dare ai socialcomunisti uno spazio politico - sia pure locale, ma in almeno tre regioni del Paese - che può rappresentare una base istituzionale e politica di contrasto al governo centrale".
Al "congelamento" degli anni '50 ha fatto seguito il "disgelo" degli anni '60 con l'avvento del centrosinistra: durarono a lungo le resistenze di varie forze politiche (soprattutto all'interno della Dc, ma non solo), anche intorno al sistema elettorale da adottare, con varie proposte di elezione di secondo grado, fino alla scelta di un meccanismo proporzionale con distribuzione di gran parte dei seggi su circoscrizioni provinciali. Il percorso di approvazione fu comunque lungo e accidentato e, dopo l'esito delle elezioni politiche del 1968 - non favorevole al disegno regionale - si dovette comunque aspettare il ritorno di un esecutivo di centrosinistra (dopo la strage di Piazza Fontana) per la fissazione delle prime elezioni regionali e l'approvazione della legge sulla finanza regionale, indispensabile per poter attuare davvero le regioni.
Queste pagine introduttive, pur prive dell'apparato di "numeri" che caratterizzerà i capitoli seguenti, sono importanti soprattutto per chi non ha sufficienti conoscenze delle dinamiche politiche e costituzionali, senza le quali è difficile inquadrare a dovere il ruolo effettivamente giocato dalle elezioni regionali dal 1970 in poi. Tentoni si premura anche di far notare che, volendo guardare ai dati elettorali delle elezioni dal 1946 al 1968 con riguardo alle sole future regioni a statuto ordinario, i partiti di centrodestra (Dc, Pli, Msi, monarchici) vedono ridotte le loro percentuali rispetto al dato nazionale soprattutto per il venir meno dell'apporto della Sicilia, mentre socialisti e comunisti raggiungono così quote più elevate: partendo da quei dati, si nota che tra il blocco di centro (Dc, Pli, Pri) e quello di sinistra (Pci, Psi, Psdi e Psiup, considerando l'intero periodo che precede il 1970) nel 1948 e nel 1958 prevale visibilmente il primo, mentre negli altri appuntamenti elettorali sono piuttosto vicini tra loro, ma la distanza aumenta se ai centristi si sommano i voti riconducibili al Psdi (che nel frattempo aveva partecipato a vari governi con la Dc).
I primi vent'anni (quelli del proporzionale)
Le prime elezioni regionali arrivano nel 1970, un anno di crisi politica (e in piena "strategia della tensione") ma anche di riforme rilevanti, in particolare l'approvazione dello Statuto dei lavoratori, delle norme sul referendum e della "legge Fortuna-Baslini" sul divorzio (in questo caso con l'opposizione della Democrazia cristiana, pronta ad avvalersi del nuovo strumento referendario per cercare di abrogare la legge); vota il 92,5% degli aventi diritto, ma le schede nulle e bianche sono comunque 1,3 milioni, con un aumento relativo rispetto al passato.
La Dc perde qualcosa rispetto alle elezioni politiche, ma tiene bene soprattutto in Veneto (non a Venezia) e al Sud e conquista comunque la guida di 12 regioni su 15 (spesso avendo peraltro in giunta i socialisti, in una riedizione regionale del centrosinistra). La sinistra ottiene invece la presidenza delle altre tre: in Emilia-Romagna e Umbria tocca al Pci (che cresce in varie regioni, soprattutto al Nord e al Centro "rosso" e nelle zone urbane, ma non in Lazio e al Sud dove avanza il Msi), mentre il Psi guida la Toscana. Nel frattempo, la corsa autonoma di Psi e Psdi (dopo l'esperimento unificato nel 1968) mostra una volta in più che in politica 2+2 fa sempre meno di 4 e conviene procedere separati; a destra il Msi cresce, soprattutto nei capoluoghi di regione (ma più avanti crescerà di più), i monarchici sono quasi scomparsi.
Il successivo appuntamento del 1975 è preceduto da "una lunga e travagliata stagione politica" (già analizzata da Tentoni in Capitali regionali) tra elezioni anticipate, avanzata dei missini, proposte di "compromesso storico", primo referendum (che ha visto la sconfitta del fronte antidivorzista), terrorismo perdurante e maggiori poteri alla polizia. Tanto l'onda lunga del referendum sul divorzio (come fattore di secolarizzazione) quanto l'ampliamento della platea dei votanti (con l'abbassamento per legge della maggiore età da 21 a 18 anni, che di fatto ha innescato un ricambio dell'elettorato) influiscono nettamente sul risultato del voto: la Dc resta il primo partito, ma arretra (soprattutto in Veneto e nelle periferie), come pure il Pli; il Pci avanza invece sensibilmente (e un po' anche i socialisti), recuperando soprattutto voti dalla sinistra estrema e portando avanti lo schieramento di sinistra, che guida Piemonte, Liguria e Lazio oltre alle regioni conquistate nel 1970 (in presidenze guadagna però più il Psi del Pci). Quanto al Msi, va meglio rispetto alle regionali precedenti (e si distingue soprattutto nelle "capitali regionali" di Lazio e Sud allargato), ma cala rispetto all'exploit del 1972.
Non appare certo più tranquillo l'avvicinamento al voto del 1980, segnato da due elezioni anticipate (1976 e 1979), dal rapimento e dall'uccisione di Aldo Moro nel 1978 e da altri atti terroristici, dalla crisi economica e dall'inizio del "duello va sinistra" tra Pci e il Psi di Bettino Craxi. In un tempo segnato da vari scandali, l'astensione e le schede bianche/nulle aumentano; il Pci rispetto al 1975 perde quasi due punti (fuori dalle "regioni rosse"), vari consiglieri e la guida di una regione; i democristiani recuperano (soprattutto in Lazio e al Sud, ma si confermano deboli nei capoluoghi) e i socialisti guadagnano qualcosa (specie nelle "capitali regionali").
Cinque anni più tardi, nel 1985, dopo una sola elezione anticipata (1983), i primi governi a guida non democristiana (i due esecutivi di Spadolini e i due di Craxi) e lo storico sorpasso del Pci sulla Dc alle europee del 1984 (dopo la morte di Enrico Berlinguer), le regionali appaiono soprattutto come "test dei rapporti di forza tra i partiti". Mentre calano, ma non dappertutto, democristiani e comunisti (e i socialisti crescono lievemente, e tendono a meridionalizzarsi, mentre sono al governo), sale il numero dei partiti effettivi: compaiono infatti le Liste Verdi (1,8%, con maggiore forza al Nord e nel Lazio, nonché in tutti i capoluoghi) e la Liga Veneta (3,7% in Veneto).
Quest'ultimo avvento permette di trovare un tratto di continuità con le elezioni del 1990, quando - mentre l'affluenza cala ancora e le schede bianche e nulle invece aumentano - si impone la presenza della Lega Nord: grazie alla presenza in Parlamento della Lega Lombarda - Lega Nord, riesce a presentare proprie liste in tutta l'Italia (magari declinata come Lega Centro o Lega Sud, ma sempre con la "pulce" di Alberto da Giussano) e, se nelle regioni "rosse" si ferma all'1,6% supera il 5% in Piemonte, Liguria e Veneto, arrivando addirittura al 18,9% in Lombardia (sempre però ottenendo risultati migliori in periferia rispetto ai capoluoghi). Il numero di partiti effettivamente rappresentati aumenta anche grazie al successo contemporaneo di Verdi e Verdi arcobaleno e ai pochi seggi ottenuti dai radicali che per la prima volta concorrono alle regionali, attraverso varie forme di liste antiproibizioniste. In tutto ciò, mentre la Dc cala un po' (soprattutto per la concorrenza leghista al Nord) e il Pci ci rimette parecchio quasi ovunque (anche perché, dopo la "svolta della Bolognina", è in piena transizione e ancora non si capisce dove finirà; non ne approfitta però Democrazia proletaria, che era andata meglio nel 1985), tra i partiti maggiori guadagna solo il Psi (essenzialmente in Lazio e al Sud).
Il secondo tempo (tra elezione diretta e nuovo Titolo V)
Un punto di svolta importante è costituito dal voto del 1995: è il primo a prevedere di fatto la designazione popolare del presidente della giunta regionale - con premio di maggioranza per la coalizione collegata - e risponde al nuovo contesto della "seconda Repubblica", che ha adottato una logica maggioritaria in un clima di sfiducia e delegittimazione nei confronti dei partiti (soprattutto dopo gli scandali emersi dal 1992). Molte delle formazioni che avevano eletto consiglieri nel 1990, alla nuova scadenza elettorale non operano più (Psi e Pli), hanno cambiato nome e simbolo (Pci, Dc, Msi) o sono diventate quasi ininfluenti (Pri e Psdi); al di là della Lega Nord, sulla scena agiscono soprattutto le nuove versioni dei vecchi partiti (Partito democratico della sinistra, Partito popolare italiano, Alleanza nazionale, insieme alle forze che rivendicavano la coerenza ideologica con Pci e Msi, cioè Rifondazione comunista e Fiamma tricolore) e un soggetto politico nuovo nato con l'avvento della "seconda Repubblica (Forza Italia). Il malessere del corpo elettorale emerge dall'ulteriore calo dell'affluenza e del nuovo aumento dei voti non validi, ma anche da un indice di volatilità molto elevato; in più, l'11,9% dei voti va a beneficio dei soli aspiranti alla presidenza (al Sud però il fenomeno è più ridotto, essendo radicato il voto di preferenza).
Inizia qui, dunque, il fenomeno di progressiva personalizzazione delle campagne elettorali regionali, centrate sulla figura candidata alla presidenza prima ancora che sulle forze politiche che la sostengono (anche per la possibilità di voto disgiunto o, più tecnicamente, panachage, con il voto all'aspirante presidente che ha maggior peso rispetto a quello alla lista per l'esito della competizione). Qui i candidati del centrosinistra riescono a prevalere in 9 regioni su 15, anche se in questa fase di solito le coalizioni sono più forti delle figure che propongono. Il Pds, come avveniva per il Pci, è più forte nei capoluoghi, mentre il Ppi - da intendersi come la parte vicina a Gerardo Bianco: le elezioni capitano nel bel mezzo della lite con i seguaci di Rocco Buttiglione, federati con i forzisti col nome di Polo popolare - è più presente negli altri comuni (com'era la Dc), ma con proporzioni ridotte rispetto al passato. Nell'altro schieramento, se Forza Italia è piuttosto omogenea tra centro e periferia, Alleanza nazionale è più forte in quasi tutti i capoluoghi e da Roma in giù (mentre la Lega, che qui corre quasi sempre da sola, è in fase calante, ma si conferma molto più forte in periferia rispetto alle "capitali regionali").
Opposto è l'esito delle elezioni regionali del 2000, tenutesi mentre il centrosinistra è al governo ma in cui quella coalizione risulta sconfitta, così come accadrà alle elezioni politiche circa un anno più tardi. Consolidato il meccanismo dell'elezione diretta (grazie alla riforma costituzionale del 1999 che la prevede espressamente, oltre a consentire alle regioni di determinare la propria forma di governo), cala di molto l'affluenza ma anche la volatilità del voto e la disomogeneità tra centro e periferia.
Il ritorno della Lega Nord nel centrodestra porta la coalizione - la futura Casa delle libertà - a prevalere in 8 regioni su 15, anche grazie al buon risultato di Forza Italia (più in periferia che nelle "capitali regionali") e all'apporto dei centristi (Ccd e Cdu) e nonostante le flessioni di Lega Nord (che ha abbandonato la sua fase secessionista, iniziata dopo il 1995) e An (ma nei capoluoghi tiene di più). Il centrosinistra appare più frammentato e quasi sempre in calo: vale tanto per i Democratici di sinistra (che hanno raccolto l'eredità dei Ds), quanto per Rifondazione comunista, i nel frattempo nati Comunisti italiani e per Ppi e Democratici; Tentoni peraltro segnala giustamente in Veneto il primo vero esempio di "lista del presidente", a sostegno della candidatura di Massimo Cacciari (Lista Cacciari - Insieme per il futuro) e accolta con un ottimo 13,6%, facilitato anche dall'assenza delle forze centriste della coalizione. Va anche notato che la consultazione del 2000 è l'ultima a vedere il rinnovo contemporaneo di 15 amministrazioni regionali: nel 2001 si dovrà rivotare in Molise (per l'annullamento del voto dell'anno precedente causa irregolarità nell'ammissione delle liste) e da allora gli sfalsamenti saranno sempre più numerosi e rilevanti.
Finiscono per prefigurare l'esito delle successive elezioni politiche anche le regionali del 2005, le prime successive alla riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione nel 2001. In una logica pienamente bipolare, il centrosinistra prevale nettamente sul centrodestra, essenzialmente per essere riuscito a mobilitare di più e meglio il proprio elettorato (soprattutto al Sud e nelle grandi città), anche nelle regioni solitamente in bilico tra i due schieramenti.
Tutt'altro scenario riguarda le elezioni del 2010 (seguite a una riforma costituzionale respinta e a due elezioni politiche, nel 2006 e nel 2008 - queste ultime anticipate - anche se in effetti il periodo elettorale da considerare per le regioni va dal 2008 al 2011): il centrodestra (dominato dal Popolo della libertà) prevale in 7 regioni su 13. Nei singoli risultati, peraltro, risulta spesso determinante la collocazione dell'Unione di centro, a volte alleata del centrosinistra, a volte del centrodestra, altre volte ancora in posizione autonoma. Nel centrosinistra si deve rilevare un'avanzata significativa dell'Italia dei valori, soprattutto al Centro-Sud e soprattutto nei capoluoghi di regione (sarà però l'ultimo vero momento di gloria per il partito di Antonio Di Pietro); da ultimo, fa la sua prima comparsa in una competizione elettorale di rilievo il MoVimento 5 Stelle, con un elettorato ancora proveniente soprattutto dal centrosinistra e dall'Idv.
Nei turni elettorali regionali tra il 2013 e il 2015 si conferma un nuovo mutamento consistente, con il centrosinistra che si afferma in 12 regioni su 15, anche grazie a un centrodestra spesso diviso (e con la rediviva Forza Italia in caduta libera, mentre la Lega Nord sta crescendo anche in regioni diverse da quelle tradizionali) e a un M5S assai più debole alle regionali rispetto alle elezioni politiche. Si deve peraltro dare conto, come correttamente fa Tentoni, dell'esplosione delle "liste del presidente", non di rado risultate la prima o la seconda formazione più votata della coalizione vincitrice: è il caso delle liste presentate a sostegno di Roberto Maroni in Lombardia (2013), di Luca Zaia in Veneto, Vincenzo De Luca in Campania e Michele Emiliano in Puglia (2015). Dinamiche molto simili si ripeteranno nei turni elettorali regionali dipanatisi dal 2018 al 2020: anche in questo caso, com'è noto, si è verificata un'alternanza, per cui la maggior parte delle competizioni è stata vinta dal centrodestra (stavolta a trazione Lega - Fratelli d'Italia, ma lo svolgimento delle elezioni nelle regioni a statuto ordinario in ben otto appuntamenti elettorali distinti non aiuta certo a svolgere una lettura complessiva di una realtà che a questo punto non presenta alcun tratto di omogeneità.
Tirando le somme
Luca Tentoni dedica l'ultimo capitolo del volume a varie considerazioni su tutte le consultazioni regionali svoltesi finora. Correttamente, anche in questa sede, si è considerato come punto di svolta il periodo 1995-2001, durante il quale è stata introdotta l'elezione diretta del presidente (con relativo cambio di sistema elettorale), si è modificata la forma di governo regionale in senso presidenziale e si sono contestualmente dotate le regioni di un maggior numero di poteri e funzioni: ciò tuttavia ha portato a una "regionalizzazione" solo parziale dell'offerta elettorale (essenzialmente con la presentazione delle liste personali di chi si candida alla presidenza e di altre formazioni di livello regionale o diffuse soprattutto in certe regioni) e dei comportamenti dell'elettorato (con il voto a tali formazioni, oppure con la pratica del "voto disgiunto" o al solo candidato presidente).
In più, appare ragionevole l'osservazione in base alla quale, anche dopo la svolta ricordata, non si è davvero riusciti a rendere autonome le elezioni regionali (o meglio, la loro lettura e valutazione) rispetto al quadro politico nazionale: ciò valeva quando ci si limitava a fare il conto di quante regioni avesse ottenuto l'una o l'altra coalizione (più o meno omogenee rispetto a quelle operanti in Parlamento) nel turno elettorale regionale complessivo, ma ciò è ancora più valido da quando - vuoi per le dimissioni del presidente, spesso in seguito a scandali giudiziari, con applicazione del principio simul stabunt simul cadent, vuoi per l'annullamento delle competizioni elettorali per irregolarità riscontrate - si è prodotto un sempre maggiore "sfarinamento" delle elezioni regionali, con una distribuzione del rinnovo degli organi in un ciclo triennale (2013-2015 e 2018-2020 negli ultimi due casi). Per quanto questo abbia concentrato "per la prima volta l'attenzione dell'opinione pubblica e della stampa su regioni delle quali non ci si occupava mai in precedenza" (cosa che avrebbe dovuto favorire l'emersione delle peculiarità regionali), non si è mai rinunciato del tutto a vedere ogni singola competizione come un test per verificare la tenuta o la praticabilità di una coalizione a livello nazionale.
Si può condividere il rilievo di Tentoni in base al quale non sembra corretto qualificare le elezioni regionali come consultazioni di second'ordine, in base a quanto si è già detto per le elezioni europee. Innanzitutto si sono potute verificare dinamiche partitiche comunque autonome rispetto al quadro nazionale e consolidate, come la sistematica maggiore forza del Psi a livello regionale (in quanto forza concreta di governo, rispetto al livello nazionale) o al contrario la ricorrente debolezza nelle regioni del M5S, nemmeno nelle condizioni di porsi come principale forza di opposizione (per cui parte del suo elettorato nazionale fa puntualmente scelte diverse alle regionali). Guardando poi ai rapporti tra risultati delle elezioni regionali e delle elezioni politiche, non è affatto stata sistematica la penalizzazione dei partiti al governo del Paese (e quando questa non è avvenuta non è stato per forza attribuibile a una "luna di miele" con la maggioranza uscita dal voto politico) così come non si è sempre assistito a un elettorato più generoso nei confronti delle forze nazionali di opposizione, minori o nuove. Da ultimo, sono gli stessi partiti e leader politici (alcuni più di altri) a creare le condizioni per una "campagna elettorale permanente" o comunque a caricare di significati ulteriori le competizioni elettorali regionali: questo, tra l'altro, ha prodotto nuove forme di mobilitazione (incluse le citate "liste personali"), anche in considerazione dell'instabilità di certi sistemi regionali e di come determinate regioni (specie quelle considerate "rosse") assai di recente abbiano dimostrato di essere diventate contendibili.
Portando a compimento la riflessione iniziata nel 2018 con Capitali regionali, Tentoni rileva poi l'importanza della "geografia elettorale" nell'analisi dei risultati del voto: l'indice di disomogeneità geopolitica è mutato nel corso del tempo, vedendo progressivamente calare le distanze tra capoluoghi di regione e altri comuni nella "prima Repubblica" salvo che nella sua ultima consultazione (quella della crisi di Dc e Pci e dell'affermazione leghista e dei "verdi", pur se in modo diverso tra centri e periferie); nella "seconda Repubblica", invece, l'andamento dell'indice si è mostrato altalenante, fino a raggiungere nell'ultimo ciclo elettorale (2018-2020) i valori più elevati della storia regionale italiana.
Questo, in conclusione, per l'autore sarebbe solo uno degli indici di un comportamento elettorale degli italiani "costantemente diversificato e particolare", che anche in occasione del voto politico finisce per far emergere le differenze fra varie aree del Paese: pure quell'esito risulta infatti legato "alla volatilità delle regioni che sono in bilico anche in occasione dei rinnovi dei rispettivi Consigli e dei presidenti", così come "ci sono zone dove si vincono o si perdono le elezioni nazionali grazie a mutamenti di voto anche drastici e repentini", tipici delle aree regionali in cui "i sistemi partitici e i comportamenti di voto sono meno radicati e bloccati che altrove". Sono queste, del resto, le condizioni che favoriscono la messa in campo di simboli omnibus, assai poco identitari e centrati soprattutto sulla persona candidata o su una generica affezione alla regione o alla comunità territoriale, senza precludersi il voto di questa o quell'area politica tradizionale (per quel poco che ne resta): le ultime elezioni regionali, in questo senso, hanno mostrato vari esempi di questo tipo.
Ogni tentativo di "misurare" realtà e fenomeni immateriali come i comportamenti elettorali porta inevitabilmente con sé una marea di problemi, limiti e soprattutto di scelte: dei punti di osservazione, dei termini di paragone, dei parametri da impiegare. Certamente non è possibile osservare tutto, dunque non si riesce nemmeno a intuire e men che meno a dimostrare ogni decisione o movimento rilevante. Nonostante questo, i tre volumi dedicati da Luca Tentoni al comportamento elettorale in occasione del voto politico, europeo e regionale (sempre senza abbandonare l'attenzione per i capoluoghi di regione, in rapporto con il resto del territorio) mettono a disposizione un'enorme mole di dati utili a chi voglia osservare meglio le dinamiche elettorali: alcuni sono più facili da rintracciare (soprattutto in Rete, grazie all'archivio del Ministero dell'interno), altri - specie quelli relativi agli indici impiegati e alla situazione nelle "capitali regionali" e negli altri comuni - sono frutto di un lavoro certosino di calcolo e rappresentazione (in tabella o in grafico) dell'autore e, oltre a fondare le sue riflessioni, sono pronti per generare altre osservazioni per chi voglia approfondirli.
La lettura dei tre libri di Tentoni - si può anche partire dall'ultimo, ma la comprensione è piena solo considerando l'intero trittico - di certo richiede molta attenzione per il gran numero di informazioni contenute; per chi ha meno familiarità con certi strumenti di osservazione dei dati può essere opportuna anche una discreta dose di pazienza, per cercare di apprezzare più a fondo la rilevanza di alcuni "numeri" offerti nelle varie pagine. Senza dubbio, tuttavia, l'opera qui analizzata offre un ritratto dinamico, attento e veritiero dell'Italia che vota: un ritratto certamente articolato e complesso, perché così lo ha reso - ancora di più negli anni recenti, ma anche in passato - proprio il comportamento di elettrici ed elettori, nelle mille sfaccettature che il Paese offre di sé.
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