sabato 29 ottobre 2022

Il Comitato Nord: torna il "verde Lega" (e il Nord), ma senza simbolo

Nessuno, in tutta onestà, 
avrebbe mai potuto immaginare che la rielezione di Umberto Bossi in Parlamento, pur a 35 anni dal primo ingresso (nel 1987 al Senato), potesse essere in dubbio, come invece era sembrato dopo la diffusione dei primi dati elettorali elaborati. Com'è ormai assodato, invece, Bossi, presidente federale a vitdella Lega Nord (per l'indipendenza della Padania) è stato rieletto alla Camernel collegio plurinominale Lombardia 2 - P01 (quello di Varese) sotto le insegne della Lega per Salvini premier (che, come si sa, è un soggetto giuridico diverso, costituito nel 2017), e, un pugno di giorni dopo il suo ritorno a Montecitorio, ha subito prodotto reazioni notevoli con la sua iniziativa - divulgata dAdnkronos il 1° ottobre - di creare un Comitato Nord, quale soggetto collettivo interno alla Lega per Salvini premier (cioè rivolto ai suoi iscritti), "finalizzato esclusivamente a riconquistare gli elettori del Nord, visto il risultato elettorale del 25 settembre per rilanciare la spinta autonomista".
Più di qualcuno ha parlato di "strappo", ma lo stesso Bossi nel giro di qualche giorno ha precisato che nell'iniziativa "non sono coinvolti nomi che non fanno parte del partito e alla base c’è il rispetto della militanza", oltre che il principio bossiano di sempre, "far valere le ragioni del Nord", a partire dalle richieste di autonomia, ma senza scissioni. Lo stesso hanno detto le due figure cui Bossi haffidato il compito di coordinare il Comitato Nord, l'europarlamentare Angelo Ciocca e l'ex deputato (nel senso che happena mancato la riconferma) e già segretario della Lega Lombarda Paolo Grimoldi (lui peraltro sembraver marcato di più la necessità che le decisioni nel partito non si prendano solo al centro).
Si trattava, dunque, di un'iniziativa internalla Lega per Salvini premier, volta soprattutto a non perdere voti tra i militanti leghisti storici che hanno aderito anche a quel partito. Qualcosa di nettamente diverso, ad esempio, dall'iniziativa che si è celebrata il 15 ottobre a Biassono (MB) - su impulso, tra gli altri, di Alessio Anghileri e Gianni Fava (nome ben noto, insieme a quello di Gianluca Pini, a chi frequenta questo sito con assiduità e segue le battaglie per la "riattivazione" della Lega Nord) - e denominatPer il Nord! Riparte la battaglia!: si trattava dell'autoconvocazione "aperta tutti" coloro che avevano a cuore l'autonomiautentica (non a caso ha partecipato anche Roberto Gremmoautonomista sempre senzavere mai aderito al Carroccio), ma rivolta innanzitutto a chi è rimasto socio ordinario militante della Lega Nord, non certo della Lega per Salvini premier. Si vedrà con il tempo se da quell'incontro nascerà un progetto politico consistente.
Tornando al Comitato Nord, da qualche giorno il soggetto collettivo si è dotato del sito https://comitatodelnord.info/, nel quale compare - dopo essere apparso su varie grafiche legate ai primi eventi organizzati un logo simile a una freccia, costituita da due parallelogrammi disposti "a specchio" uno sopra l'altro: verde quello in alto, sotto la parola (bianca, in carattere Impact"Comitato", blu quello in basso, sotto la parola (gialla) "Nord", in corsivo e piuttosto massiccia. Sembrsignificativo il recupero tanto della parola "Nord" (anche se l'aveva già fatto in precedenzGrande Nord di Roberto Bernardelli e Angelo Alessandri) quanto del verde: quando, alla fine del 2017, era stato presentato il simbolo elettorale che in seguito avrebbe caratterizzato la Lega per Salvini premier, era infatti venuto meno il "Sole delle Alpi" e, con questo, ogni traccia di verde (mentre il blu e il giallo sono rimasti).
Non è tuttavia opportuno parlare di quel logo come di un simbolo. Si tratta di una grafica che, in un certo senso, sembra frutto dell'evoluzione del fregio con cui erano marcati vari contenuti visuali riferiti uno dei due coordinatori, Paolo Grimoldi, fino all'esito delle elezioni politiche del 25 settembre a lui sfavorevolianzi, il recupero del verde sembra iniziato proprio con le sue grafichea partire dal 4-5 ottobre (in un primo tempo, peraltro, la dicitura impiegata era "Comitato del Nord", così come suggerisce tuttora l'indirizzo del sito. 
Parlare di simbolo appare inopportuno anche e soprattutto dopo la diffidarrivata direttamente da via Bellerio qualche manciata di ore fa. Ieri, infatti, si è appreso attraverso i media di un messaggio di posta elettronica indirizzato a Fabrizio Cecchetti (coordinatore regionale della Lega Lombarda per Salvini premierda Giulio Centemeroamministratore federale della Lega per Salvini premier. Quella carica, si badi bene, in base allo statuto del partito non si può equiparare a quella che in altri partiti è il tesoriere: nella Lega per Salvini premier, infatti, all'amministratore federale non spetta solo "la gestione amministrativa ed economico-finanziaria" del soggetto politico-giuridico, mespressamente anche la rappresentanza legale del partito (che altrove è nelle mani del segretario o del presidente). Di seguito si riporta il testo dell'e-mail:
Caro Fabrizio Cecchetti, ti scrivo in qualità di amministratore federale per segnalarti che ho provveduto a inviare diffida a cessare la promozione dell'associazione politica "Comitato Nord" nei confronti degli iscritti a Lega per Salvini Premier, e l'utilizzazione dei simboli e della denominazione del partito. Ho inoltre depositato segnalazione presso il Garante della Protezione dei dati personali, per la violazione in opera da parte dell'associazione "Comitato Nord" che sta procedendo a una raccolta di dati personali degli iscritti di Lega per Salvini Premier in violazione della normativa sulla privacy. In quanto legale rappresentante ti confermo la totale estraneità di Lega per Salvini Premier rispetto all'iniziativa in questione, promossa da un soggetto giuridico distinto dal partito e in nessun modo ad esso collegato.
Una nota del partito precisa che "l'intervento della Lega per Salvini Premier nei confronti dell’associazione Comitato Nord ha motivazioni di carattere esclusivamente giuridico: non esiste, e non esisterà mai, alcun problema politico o personale tra Matteo Salvini e Umberto Bossi. [...] La democrazia interna al Movimento è testimoniata dal fatto che oltre il 70% delle Sezioni ha già rinnovato segretari e direttivi [...]. Il dibattito interno non autorizza però in alcun modo violazioni della normativa in materia di trattamento dei dati personali dei Militanti della Lega, a rischio di multe milionarie". Questo testo aiuta probabilmente a inquadrare meglio la scelta della Lega per Salvini premier: primancora che un avvertimento a chi sta curando l'iniziativa del Comitato Nord (aspetto che da più parti comunque è stato visto in quest'azione), l'azione dell'amministratore sembra volta evitare ogni rischio di conseguenze nefaste per il partito di Salvini derivanti dall'attività di raccolta, trattamento e impiego di dati delle persone iscritte, come se quell'attività fosse riconducibile alla Lega per Salvini premier. Il sito non sembra contenere il simbolo leghista o anche solo il riferimento ad Alberto da Gussano, in compenso si trova l'appello di Bossi ai soci di quel partito perché aderiscano al comitato (e fin qui passì), ma soprattutto sotto al form di raccolta dati (incluso il numero della tessera del partito) si precisa che l'iscrizione, oltre a essere gratuita, è "riservatai tesserati della Lega Salvini Premier". Il messaggio si limita ribadire quanto Bossi ha detto dall'inizio, ma per qualche lettore potrebbe suggerire un collegamento con iniziative "ufficiali" del partito che da via Bellerio devono aver voluto evitare. Non è da escludere poi che siano state alla base della diffida eventuali altre iniziative lanciate dal comitato per fare proseliti (invio di messaggi online, in cui forse il simbolo leghista c'era).
Si vedrà dunque come continuerà questa vicenda: il Comitato Nord continuerà a operare, ma senza insegne del Carroccio visibili. I militanti che parteciperanno dovranno accontentarsi di portarli dentro di sé.

venerdì 28 ottobre 2022

Il ritorno dell'assemblea dei 58 e il Partito popolare italiano mai sciolto

Certe notizie possono sembrare di poco valore, almeno per la persona comune che vi si imbatte, m
assumono un interesse immediato per chi appartiene alla schiera dei #drogatidipolitica. Possono bastare poche righe, magari di un tweet, e le antenne di chi ha buona memoria o non cessa di vestire i panni di archeo-entomologo della politica italiana si attivano immediatamente. 
Questo è proprio quanto è accaduto il 25 ottobre, quando sul profilo Twitter di Lucio D'Ubaldo, già assessore a Roma ed eletto deputato nel 2008 con il Pd, ora capo del blog Il Domani d'Italia e dell'Associazione nazionale dei Democratici cristiani, è apparso un breve testo nel quale si dava conto della riunione, avvenuta in quello stesso giorno, della cosiddetta "assemblea dei 58", organo che - si leggeva - "assicura la continuità del Ppi", vale a dire del Partito popolare italiano che nel 2002 sospese la propriattività politica in coincidenza con la nascita della Margherita (nella quale i suoi iscritti in buona parte confluirono). Il tweet erabbinato, tra l'altro, al simbolo del Ppi adottato nel 1995 dalla parte che non aveva condiviso la linea di Rocco Buttiglione e si era riconosciuta in Gerardo Bianco (in questo sito si era raccontata la genesi politico-grafica di quel fregio, in dialogo con Giuliano Bianucci: l'immagine scelta, tra l'altro, è proprio quella messa in rete da chi scrive), anche se nel corso degli anni il simbolo era cambiato (lo scudo nel gonfalone aveva riacquistato la croce, sia pure sfumata, ed era ritornato il nome, non più conteso) e nel 2002 la versione impiegata era un po' diversa.   
Dal momento che la vicenda politico-giuridica dei Popolari è piuttosto complicata (quanto quella della Dc, alla quale è indissolubilmente legata), la cosa migliore da fare è ottenere informazioni di prima mano, per cui chi scrive si è rivolto direttamente a Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Ppi. "Il 25 ottobre - ha spiegato - si è tenuta una riunione dell'assemblea dei rappresentanti degli iscritti del Ppi, organo che informalmente veniva chiamato 'assemblea dei 58', perché la platea dell'ultimo congresso dei Popolari, che si svolse dall'8 al 10 marzo 2002 al Palazzo dei Congressi dell’Eur, elesse un organo collegiale, di cui facevano parte il segretario in carica, cioè io, e altre 57 figure, tra le quali gli ex segretari Martinazzoli, Jervolino Russo, Bianco e Marini, affidando a questo la gestione di ciò che rimaneva del Ppi".
Conviene prendere il testo degli ultimi punti delle deliberazioni congressuali del 2002, per avere maggiore contezza di quanto venne deciso allora. Lì si legge che il congresso del Ppi, approvata la relazione del segretario Castagnetti e invitati gli iscritti a partecipare da subito alla vita della Margherita (pur con vari impegni da parte dei delegati al congresso costituente), 
delibera di sospendere, a partire dalla data di conclusione del Congresso Costitutivo della Margherita, la propria attività in quanto partito a livello nazionale e locale, affidandone lo svolgimento agli organi provvisori del nuovo partito;
dà mandato all'Assemblea dei rappresentanti degli iscritti di compiere tutti i necessari atti preliminari e conseguenti, inclusi quelli relativi al coordinamento della presenza dei popolari nella Margherita al fine di agevolarne la costituzione e di portare a compimento il percorso nelle strutture periferiche; 
in particolare, affida allo stesso organo la gestione del personale, valorizzandone la condizione professionale, oltre che del patrimonio materiale ed immateriale del PPI, nonché le competenze relative a Il Popolo, con facoltà di compiere e di autorizzare qualsiasi atto di ordinaria e straordinaria amministrazione, nonché di stabilire indirizzi per lo svolgimento di funzioni analoghe da parte delle strutture locali;
dà mandato, infine, all'organo suddetto di procedere agli adempimenti, inclusi quelli relativi all'esercizio della potestà statutaria, funzionali alla costituzione dell'Associazione Politico-culturale dei popolari, strutturata su base territoriale e partecipativa e finalizzata ad alimentare l'elaborazione politica e culturale del popolarismo, a conservarne la storia, a trasmetterne l'esperienza e le idealità alle future generazioni.
I nomi dei componenti dell'assemblea dei rappresentanti degli iscritti del Ppi si possono tuttora leggere nel vecchio sito del partito: si scopre quindi che ne erano parte, oltre a Pierluigi Castagnetti, pure Gerardo Bianco, Ciriaco De Mita, Rosa Russo Jervolino, Mino Martinazzoli, Franco Marini e Nicola Mancino, nonché Giuseppe Aloise, Emanuela Baio, Egidio Banti, Marco Barbieri, Valerio Beneforti, Giovanni Bianchi, Rosy Bindi, Alessandro Bizjak, Guido Bodrato, Giancarlo Bolognini, Massimo Bulbi, Giovanni Burtone, Maria Luisa Cassanmagnago, Pierluigi Castellani, Mario Cavallaro, Franco Ciliberti, Tommaso Coletti, Giampaolo D'Andrea, Giuseppe Di Fabio, Roberto Dominici, Lino Duilio, Vittorio Fravezzi, Gabriele Frigato, Anton Giulio Galati, Nino Giagu, Luigi Gilli, Antonio Iannamorelli, Salvatore Ladu, Rino La Placa, Enrico Letta, Lorenzo Mannelli, Salvatore Margiotta, Sergio Mattarella, Bernardo Mazzocca, Margherita Miotto, Gianfranco Moretton, Gianfranco Morgando, Gabriele Mori, Nicodemo Oliverio, Giovanni Orsenigo, Franco Paoletti, Luca Parodi, Giorgio Pasetto, Michele Pinto, Giuseppe Pirro, Lapo Pistelli, Andrea Rigoni, Enzo Russo, Gianvalerio Sanna, Patrizia Toia e Nicola Tremante. Si può facilmente notare che il nome informale di "assemblea dei 58" da tempo non era più attuale, visto il venir meno di varie figure di rilievo, a partire da Franco Marini e Ciriaco De Mita; non potendo disporre delle regole con le quali si era provveduto a eleggere quelle persone, non si sa se fosse prevista la possibilità di ricostituire il plenum dell'organo con surroghe (è facile notare, per esempio, che lo stesso D'Ubaldo non faceva parte di quell'elenco sopra riportato).
Dall'elezione di quell'organo sono trascorsi quasi 21 anni, eppure l'esistenza giuridica del Partito popolare italiano non si è ancora conclusa: "Quelle persone - spiega oggi Castagnetti - rappresentano ancora il Ppi sospeso, di cui io sono l'ultimo segretario e la cui rappresentanza legale spettal tesoriere di allora, Luigi Gilli, nonché al segretario generale Nicodemo Oliverio": si tratta delle due figure indicate dalla prima seduta dell'assemblea dei rappresentanti degli iscritti, tenuta il 19 marzo 2002 ancora nella sede di Piazza del Gesù al numero 46 (Palazzo Cenci-Bolognetti). Oggi la sede si è spostata un po' più in là, in via del Gesù 72: lì hanno sede tanto il Ppi, quanto l'associazione politico-culturale I Popolari: coloro che l'hanno costituita, secondo quanto spiega Castagnetti, di fatto coincidono con l'organo residuo del Ppi. Ma come mai, dopo oltre due decenni, il Ppi non è ancora stato posto in liquidazione? "Non possiamo ancora scioglierlo - spiega sempre Castagnetti - perché ci sono ancora contenziosi in corso, essenzialmente legati a sede periferiche e società immobiliari della Dc". Sulla complessità e delicatezza di questi contenziosi non c'è quasi bisogno di soffermarsi: di alcune vicende relative agli immobili, per dire, nel corso degli anni si sono occupati la magistratura e i media, dunque non sembra opportuno soffermarsi in breve su questioni che meriterebbero un serio approfondimento documentale. 
Meglio tornare, dunque, alla riunione dell'assemblea dei rappresentanti degli iscritti del Ppi. "Lfacciamo una volta l'anno - spiega, concludendo, Castagnetti - e questa volta l'abbiamo fatta dopo le elezioni, presso l'istituto Sturzo, quindi è stato inevitabile discutere di politica: ci interessa, in particolare, di quello che avviene dei cattolici all'interno del Pd". L'argomento, come si può intuire, è particolarmente caldo visto l'avvio del percorso congressuale del Partito democratico, avviato dalla lettera di Enrico Letta di fine mese e che si sta via via snodando: del tema, c'è da giurarlo, si parlerà ancora (anche perché dubbi, perplessità, insoddisfazioni e malumori in questi anni non sono certo mancati) e non è escluso che il simbolo del gonfalone rispunti, in un modo o nell'altro.

sabato 1 ottobre 2022

Per fare il nuovo Pd ci vuole un simbolo (ma serve un'identità chiara)

Nessuno dei commenti sul risultato elettorale del 25 settembre ha classificato il Partito democratico tra i vincitori di questa chiamata alle urne; ne, del resto, poteva essere altrimenti. Il 19,07% ottenuto alla Camera è ben più basso del 33,18% del Pd di Walter Veltroni del 2008 (che perse) e del 25,43% del Pd di Pierluigi Bersani del 2013 (che "non vinse"); è di poco più alto del 18,76% ottenuto dal Pd guidato da Matteo Renzi nel 2018, ma allora quella percentuale era frutto di 
6.161.896 voti, mentre ora le schede con la croce sul Pd sono state 5.356.180.
Nella prima conferenza stampa seguita al voto, il segretario dem Enrico Letta ha parlato di risultato insoddisfacente (pur nella sostanziale tenuta, a fronte delle flessioni significative di altri partiti di rilievo) e della necessità di un percorso accelerato verso il nuovo congresso, con lui che non si candiderà alla segreteria. Si è trattato del primo segno di rinnovamento, che ne preparava altri, in forma di auspicio e non solo. Questi ieri sono stati condensati nella lettera rivolta alle iscritte e agli iscritti "sul Congresso Costituente del Nuovo Pd" (così si legge nel sito del partito) e diffusa attraverso i canali demDi seguito il testo della lettera, che sembra opportuno riportare per intero:

Carissime e carissimi,
sono passati pochi giorni dal voto che ha sconvolto gli equilibri politici italiani ed europei e sento la necessità di rivolgermi a ciascuno di voi per ringraziarvi dello straordinario impegno profuso in questa durissima campagna elettorale.
Abbiamo perso. Ne usciamo con un risultato insufficiente, ma ne usciamo vivi. E sulle nostre spalle c’è oggi la responsabilità di organizzare un’opposizione seria alla destra. 
Abbiamo il tempo e abbiamo la forza morale, intellettuale e politica per rimetterci in piedi. Le basi per ripartire ci sono. Pur avendo subito la concorrenza di chi ci ha preso di mira con inusitata asprezza, con il dichiarato obiettivo di mettere in discussione la nostra stessa esistenza in vita, siamo il secondo partito italiano, la forza guida dell’opposizione e uno tra i maggiori partiti riformisti e progressisti europei. E ciò in un contesto nel quale tutte le forze politiche principali, tranne FdI, hanno perso molti o moltissimi consensi rispetto alle precedenti elezioni politiche. Oppure ottenuto risultati molto inferiori rispetto ai proclami. 
L'esito di queste elezioni è stato segnato dall’impossibilità - non torno qui sulle responsabilità - di presentarci con un quadro vasto di alleanze. La legge elettorale, profondamente sbagliata e che abbiamo provato invano a cambiare, favorisce chi le realizza. La destra, pur con tutte le sue divisioni, si è coalizzata e ha prevalso nella stragrande maggioranza dei collegi uninominali, ottenendo così la maggioranza dei seggi in Parlamento. Ad essa non corrisponde una maggioranza nel Paese: ciò accresce il nostro dovere di organizzare una opposizione dura e intransigente sui valori e sulle politiche, sempre nell’interesse generale dell’Italia e delle istituzioni repubblicane.
Allo stesso tempo, in questa campagna scandita da insidie e veleni, si sono manifestati evidenti i limiti della nostra proposta ed è emersa una mancanza molto grave di capacità espansiva nella società italiana. Sono limiti che ci obbligano a un confronto serissimo e sincero tra di noi. 
Perché il Pd, per sua stessa natura, deve essere un partito espansivo e largo. Se manca questa aspirazione entra in crisi la sua ragione d’essere. Per questo dobbiamo essere pronti a rimettere tutto in discussione. Ora possiamo farlo, dopo potrebbe essere troppo tardi. 
Fermarsi a enunciare le tante, pur legittime, ragioni consolatorie per un risultato che comunque ci assegna il ruolo di guida dell’alternativa sarebbe sbagliato. Non è questo l’atteggiamento col quale ho voluto interpretare il mio compito di guida del PD. E non sarà questo il modo con cui vivrò questa fase. 
Quel che vi propongo è di accettare di entrare in profondità nei problemi per risolvere i nodi che ci bloccano e poi, a partire da questo sforzo genuino e determinato, di scegliere insieme la nuova leadership e il nuovo gruppo dirigente.
Abbiamo bisogno di un vero Congresso Costituente. Per questo vi chiedo di partecipare con passione e impegno, accanto ad altri che spero vorranno raggiungerci per fare insieme un percorso che, come proporrò alla Direzione convocata per la prossima settimana, dovrebbe essere articolato in quattro fasi. 
La prima sarà quella della "chiamata". Durerà alcune settimane perché chi vuole partecipare a questa missione costituente, che parte dall’esperienza della lista "Italia Democratica e Progressista", possa iscriversi ed essere protagonista in tutto e per tutto. 
La seconda fase sarà quella dei "nodi". Consentirà ai partecipanti di confrontarsi su tutte le principali questioni da risolvere. Quando dico tutte, intendo proprio tutte: l’identità, il profilo programmatico, il nome, il simbolo, le alleanze, l’organizzazione. E quando parlo di dibattito profondo e aperto, mi riferisco al lavoro nei circoli, ma anche a percorsi di partecipazione sperimentati con successo con le Agorà Democratiche. 
La terza fase sarà quella del "confronto" sulle candidature emerse tra i partecipanti al percorso costituente. Un confronto e una selezione per arrivare a due candidature tra tutte, da sottoporre poi al giudizio degli elettori. 
Infine, la quarta fase, quella delle "primarie". Saranno i cittadini a indicare e legittimare la nuova leadership attraverso il voto. 
Tutto può svolgersi a regole vigenti. E quindi può iniziare rapidamente. È un percorso aperto che può e deve coinvolgere, oltreché i nostri mondi di riferimento, anche il paese intero, dimostrando a tutti la forza e l’utilità di un partito-comunità, contrapposto ai tanti partiti personali che abitano oggi la nostra scena politica. 
Infine, è un percorso che concilia l’urgenza di affrontare i nostri problemi con la indispensabile rigenerazione del gruppo dirigente. Contenuti forti e volti nuovi sono entrambi necessari. Gli uni senza gli altri rischiano di trasformare il Congresso in un casting e in una messa in scena staccata dalla realtà e lontana dalle persone. Se non li bilanciamo con attenzione, ci trasformiamo definitivamente nelle maschere pirandelliane che evocai nel mio ormai lontano discorso del 14 marzo 2021. 
So che vogliamo tutti evitare questo epilogo. So che vogliamo tutti arrivare presto a un nuovo Pd e a una nuova leadership. 
Se ci muoviamo insieme in questa direzione, con coraggio e tempismo, dimostreremo di essere capaci di tornare in sintonia con le attese del Paese. 
Vi chiedo di credere in questo progetto e di esserne protagonisti attivi seguendo le indicazioni che usciranno dal dibattito della Direzione convocata per giovedì 6 ottobre. 
Vi chiedo soprattutto di avere fiducia nel "noi collettivo" che è molto meglio della somma dei tanti io. Questa è la grande forza del Partito Democratico. Questa è la nostra missione.

I contenuti politici sono certamente rilevanti in questa lettera aperta. A chi frequenta questo spazio, tuttavia, non può sicuramente sfuggire quanto scritto da Letta parlando della seconda fase del percorso costituente, quella dei nodi: quella in cui coloro che parteciperanno potranno "confrontarsi su tutte le principali questioni da risolvere", includendo "l'identità, il profilo programmatico, il nome, il simbolo, le alleanze, l'organizzazione". Sì, anche il simbolo. Una discussione e un confronto, peraltro, da non limitare agli organi rappresentativi nazionali del partito, ma da portare con un "dibattito profondo e aperto" nei circoli dem, come pure in "percorsi di partecipazione sperimentati con successo con le Agorà Democratiche". Già questo sarebbe oggettivamente un tratto di novità: fino a questo momento si era parlato in modo sommario, non diretto, di possibili cambi di nome o di simbolo, ma sempre come operazioni interamente gestite dal vertice, senza discussione con la base. Giusto per rinfrescare la memoria, se n'era parlato all'inizio del 2020, poco prima delle regionali in Emilia-Romagna, quando l'allora segretario Nicola Zingaretti aveva dichiarato alla Repubblica "Vinciamo in Emilia-Romagna, e poi cambio tutto: sciolgo il Pd e lancio il nuovo partito", lasciando presagire che ci si doveva aspettare una denominazione e un fregio politico nuovi; il deflagrare dell'era Covid-19 ha suggerito di mettere da parte questi progetti per occuparsi di altro, senza che per questo la vita del Pd sia stata meno travagliata (lo stesso arrivo di Letta alla segreteria è figlio di quella stagione).
Anche in precedenza, del resto, più di una voce - a volte con nome e cognome, più spesso indistinta e legata a rumors - si era levata per suggerire di mettere mano al nome e, già che ci si era, di ritoccare poco o molto anche il simbolo (in modo permanente e non solo con riferimento alla singola tornata elettorale). Su questo sito, ad esempio, tra il 2016 e il 2017 si era parlato almeno in un paio di occasioni della possibilità di dimezzare il nome del partito, chiamandolo solo "Democratici", anche se quell'etichetta non era affatto nuova. Nessuna persona che appartenga alla schiera dei #drogatidipolitica, infatti, può seriamente avere dimenticato che i Democratici era la creatura politica di Romano Prodi e Arturo Parisi, nata nel 1999 in vista delle elezioni europee: come simbolo Francesco Cardinali (AdvCreativi) aveva realizzato un asinello che guardava all'iconografica classico-satirica dei dem degli Stati Uniti, ma nello stile ricordava piuttosto l'asinello cartoon di Pinocchio nella versione Disney. Ancora prima, a metà del 2010, quando non erano ancora passati tre anni dalla fondazione del Pd, Debora Serracchiani sul Post aveva bollato quello del suo partito come un "asettico marchio-logo" che aveva sostituito "simboli identitari di fortissimo impatto" (scudo e falce-martello), di cui frattanto avevano preso il posto "gentili e rassicuranti simboli vegetali" (ci torniamo tra poco).
Ora, qui si sta parlando di rinnovare il Partito democratico e la sua guida - si può, per una volta, evitare di parlare di leadership? - insieme alla classe dirigente, e non di costituire un nuovo soggetto politico (anche se le persone più scaramantiche avrebbero preferito questa soluzione, nella speranza che fosse necessario darsi una casa nuova per lasciare dietro le spalle tutte le storture e i difetti di quella vecchia); l'intenzione comunicata da Letta, in ogni caso, non sembra meramente "di facciata" e, soprattutto, non deve essere così se vuole sperare di avere qualche effetto positivo per il partito stesso. 
Certamente i confronti sul nome e sul simbolo riguardano gli aspetti più legati all'immagine del partito, dunque quelli più visibili e delicati: il fatto che proprio il segretario dichiari pubblicamente che i segni distintivi del Pd possono essere messi in discussione dalla base del partito stesso sembra dimostrare che la fase di cambiamento, di passaggio è autentica. Se negli ultimi anni le modifiche ai simboli sono state sostanzialmente frutto di scelte 'dall'alto', operazioni pensate e volute dai vertici per un riposizionamento politico (con un coinvolgimento della base ridottissimo o pressoché nullo), forse la situazione in cui ora versa il Pd ricorda di più quelle - assai travagliate - che hanno interessato il Pci e il Msi, anche se in entrambi questi casi si era di fronte a un radicale mutamento ideale, i cui impulsi erano venuti interamente dai vertici, anche in materia simbolica.
Tornando alla transizione che riguarderà il Partito democratico, nei pensieri scritti da Debora Serracchiani dodici anni fa si ritrovano due parole chiave su cui concentrarsi ora per capire meglio la situazione, cioè "simbolo" e "identitario". Non è un mistero che, nel corso degli anni, si siano registrati vari segni di insoddisfazione nei confronti dell'emblema realizzato nel 2007 da Nicola Storto, allora 25enne creativo da poco entrato nell’agenzia Inarea di Antonio Romano. Quando fu intervistato da questo sito, Storto spiegò che il committente - il Pd di Veltroni - aveva espressamente chiesto "un logo molto semplice, leggibile e riconoscibile anche da persone con un basso livello di istruzione, memorabile e con i colori istituzionali italiani". Per assurdo, l'aver rispettato in pieno quelle 'regole d'ingaggio' creando un fregio basato sul lettering delle iniziali del partito e sul tricolore ha comportato un problema: quello del Pd, infatti, è sempre stato vissuto come marchio o come logo, non come simbolo, per la mancanza al suo interno di un'immagine definita, un soggetto in cui riconoscersi. 
Un'immagine, a dire il vero, c'era e c'è, per quanto piccola: ci si riferisce, ovviamente, al rametto di ulivo posto sotto al logo tricolore, assente nei primi studi del simbolo di Storto, ma inserito su pressante invito dei committenti (sempre l'autore spiegò al sottoscritto che si trovò "la soluzione più indolore possibile ed esteticamente più gradevole"). Quelle richieste, in fondo, si possono capire: la scelta di richiamare nel fregio politico del Partito democratico 'l'antenato' all'origine di quella forza politica - dunque l'Ulivo che Romano Prodi aveva voluto nel 1995 - finiva per ricordare un altro passaggio storico precedente (che pure fu realizzato in condizioni diverse, come evoluzione di un unico partito e non con la sostanziale unione di due strade politiche diverse). Quando infatti il Partito comunista italiano, tra il 1990 e il 1991, scelse di trasformarsi nel Partito democratico della sinistra, non aveva abbandonato del tutto il fregio tradizionale: era stato un modo per rendere chiaro che il Pds era lo stesso soggetto politico (e giuridico) che si chiamava prima Pci e per impedire a chi non condivideva il nuovo corso ideale di appropriarsi degli antichi segni (come in effetti tentò di fare il gruppo che poi si sarebbe denominato Rifondazione comunista). La doppia bandiera con falce e martello, tuttavia, era stata posta da Bruno Magno - come ha raccontato lui stesso anche su questo sito - alla 'base' di un vero simbolo, cioè l’albero della sinistra, che pure da più parti fu subito 'battezzata' come una quercia: si era trattato di un'immagine chiara, che aveva avuto un ruolo e un impiego nella storia della sinistra e nel corso degli anni tante persone si sono riconosciute e identificate, anche sul piano ideale. 
Com'è noto, il simbolo del Pci smise di coprire parte del tronco della 'quercia' nel 1998: in quell'anno il cammino di evoluzione conobbe un'altra tappa con la costituzione dei Democratici di sinistra e fu sempre Magno a sostituire falce e martello con la rosa del Partito socialista europeo, nel quale i Ds - in continuità con il Pds - si collocarono. Tornando al Partito democratico invece, è facile notare che il Pd di oggi non è identico al Pd delle origini per idee, posizioni e guida (anche se non mancano tratti comuni e varie persone sono rimaste, le modifiche conosciute in quindici anni di attività sono parecchie) e non è nemmeno identico all'Ulivo del 1996 o del 2006, eppure il rametto è rimasto dov'era stato collocato nel 2007. Non è affatto un caso, come sa chi conosce da anni questo sito, che alla fine del 2013 Andrea Rauch, vale a dire colui che aveva creato il simbolo dell'Ulivo per Romano Prodi (poi 'narrato' insieme ad Alessandro Savorelli) basandosi su un ramoscello di ulivo che aveva personalmente strappato da un albero vicino alla sua casa di campagna, avesse chiesto all'allora segretario dem Matteo Renzi di rimuovere il rametto dal simbolo, un po' per la perdita di legame tra Pd e Ulivo, un po' perché quella miniatura era quasi illeggibile all'interno del nuovo logo (che anzi ne veniva 'sporcato'). La richiesta di Rauch non è stata esaudita, né da Renzi, né da chi è venuto dopo di lui.
Volendo tirare le somme (e parafrasando Ci vuole un fiore di Sergio Endrigo e Gianni Rodari), per fare il "nuovo Pd" ci vuole un simbolo, ma un simbolo vero, ben identificabile - anche sul piano figurativo - e in cui potersi riconoscere, in grado di suscitare emozioni e non 'sacrificato' all'interno di un logo più anonimo. Facile a dirsi, molto più difficile a farsi e non solo perché creare un simbolo per un partito - come si è visto abbondantemente nel corso degli anni - è un lavoraccio. Il fatto è che, continuando sul sentiero rodarian-endrighiano, "per fare un simbolo ci vuole un'identità", per giunta definita con una certa chiarezza (nei suoi contenuti e nei suoi confini), altrimenti la missione di chi deve creare il segno grafico diventa praticamente impossibile. Qui si tocca indubbiamente un tasto assai dolente, perché l'identità rappresenta un problema con cui il Partito democratico ha fatto i conti fin dalla sua nascita (e, se possibile, anche prima) e che ciclicamente - tra "ma anche", battaglie sui valori e cambi di vertice - si è ripresentato. Se non si affronta seriamente e con senso di responsabilità la questione, diventa impossibile dare un simbolo al "nuovo Pd"; di più, sarebbe inutile persino cambiare del tutto il contenitore, perché ci si porterebbe dietro il 'difetto di fabbricazione' maggiore del Partito democratico. In un caso o nell'altro, si rischierebbe una sconfitta - grafica e ideale - in partenza: almeno in politica, prima di decidere la foto da mettere sulla carta d'identità, è essenziale mettersi bene d'accordo su come riempire il documento.