sabato 24 settembre 2022

Lista Referendum e Democrazia, il ricorso respinto e altri problemi

Si era già scritto, commentando le decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale sui ricorsi relativi all'esclusione di liste, che la vicenda più meritevole di attenzione era quella legata alla ricusazione delle candidature della Lista Referendum e Democrazia, promossa dal movimento paneuropeo Eumans, co-presieduto da Virginia Fiume e Marco Cappato: com'è noto, gli uffici elettorali circoscrizionali e regionali non hanno riconosciuto validità alla raccolta di sottoscrizioni in forma digitale (praticata per cercare di 'svecchiare' il procedimento elettorale preparatorio, pur in assenza di modifiche alle disposizioni in vigore) e i magistrati della Corte di cassazione hanno confermato il verdetto. 
Nello stesso articolo si era anticipata la decisione dei promotori della lista di presentare un ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile presso il Tribunale di Milano, con l'assistenza legale di Giovanni Guzzetta, ordinario di diritto costituzionale a Tor Vergata (e la collaborazione di Giuseppe Corasaniti, docente di Diritto dell'amministrazione digitale alla Luiss e già sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione). Nel primo pomeriggio di martedì 20 settembre, tuttavia, è stata resa nota l'ordinanza con cui la prima sezione civile del Tribunale di Milano, nella persona del giudice designato Andrea Manlio Massimo Fabio Borrelli, ha respinto il ricorso presentato dal legale rappresentante dell'associazione Referendum e Democrazia Marco Perduca e da alcuni candidati al Senato in Lombardia (tra cui Alessandro Ciofini, già candidato con il Partito pirata, e soprattutto Emilio De Capitani, direttore esecutivo del Fundamental Rights European Experts Group e a lungo segretario della Commissione Libertà civili del Parlamento. Europeo); alla decisione di segno negativo si è accompagnata la condanna alle spese del procedimento cautelare (5mila euro, con in più gli "accessori di legge").

Il ricorso

I ricorrenti in sede cautelare avevano chiesto che la Lista Referendum e Democrazia fosse ritenuta ammissibile alle elezioni politiche del 25 settembre (quanto alle candidature presentate al Senato in Lombardia), ordinando all'Ufficio elettorale lombardo (superando la sua decisione del 23-24 agosto e quella dell'Ufficio elettorale centrale nazionale) di riammettere la lista, eliminando con appositi atti urgenti ogni pregiudizio alla partecipazione al voto. In alternativa (o soprattutto) si puntava a ottenere lo stesso risultato dopo aver interpellato la Corte di giustizia dell'Unione europea o la Corte costituzionale, perché valutassero se l'art. 18-bis del testo unico per l'elezione della Camera (che impone di fatto la raccolta cartacea delle firme) e l'art. 2, comma 6 del Codice dell'amministrazione digitale (a norma del quale le disposizioni del codice "non si applicano limitatamente all'esercizio delle attività e funzioni [...] di consultazioni elettorali") fossero compatibili col quadro normativo europeo o con la Costituzione. La Corte di Lussemburgo avrebbe dovuto interpretare l'art. 25, paragrafo 2 del Regolamento UE n. 910/2014 in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno ("una firma elettronica qualificata ha effetti giuridici equivalenti a quelli di una firma autografa"), valutando se con tale disposizione contrastassero quelle italiane sulla raccolta firme a sostegno delle liste; la Corte costituzionale, invece, avrebbe dovuto valutare la costituzionalità delle norme citate "nella parte in cui non consentono la sottoscrizione in formato digitale della presentazione di liste, dell'accettazione delle medesime e del deposito digitale delle stesse presso gli uffici elettorali competenti", prendendo come parametri gli artt. 2, 3, 48, 49, 51, 57, 58 e 117 Cost. (l'ultimo guardando all'art. 3 del I Protocollo addizionale alla Cedu, all'art. 25 del Patto internazionale sui diritti civili e politici dell'Onu e al citato art. 25, par. 2 del Regolamento UE n. 910/2014).
Il contenzioso, comunque, si presentava fin dall'inizio proiettato anche dopo il voto, pure nell'eventualità che le richieste non fossero state accolte: i ricorrenti, infatti, avevano annunciato di voler instaurare un giudizio di merito, in cui chiedere al giudice di accertare il loro diritto a presentare liste (e vedere accettate le proprie candidature) "anche mediante documento informatico sottoscritto mediante firma elettronica qualificata a cui è associato un riferimento temporale validamente opponibile ai terzi depositato tramite supporto elettronico (pen-drive) quale duplicato informatico, ai sensi dell’art. 1 comma 1, lett. i-quinquies) del Codice dell’amministrazione digitale e con accompagnamento delle sottoscrizioni con duplicato informatico [...] dei certificati d’iscrizione nelle liste elettorali acclusi ai messaggi di posta elettronica certificata ricevuti dalle amministrazioni comunali"; se fosse stato accertato quel diritto, si sarebbe chiesta la condanna delle amministrazioni resistenti (Presidenza del Consiglio, ministeri dell'interno e della giustizia) a risarcire i danni subiti a causa della lesione del loro diritto. L'impostazione della causa di merito secondo i canoni dell'azione di accertamento e dichiarativa segue la strada già percorsa da vari anni dai giudizi intrapresi per sottoporre le norme elettorali politiche a giudizio di costituzionalità (a partire dalla causa aperta dagli avvocati Aldo Bozzi, Claudio Tani e Felice Besostri, alla base di Corte cost., sent. n. 1/2014) e che era stata ritenuta valida dalla Corte costituzionale - con la sentenza n. 48/2021 - anche con riferimento alle presunte lesioni del diritto di elettorato passivo, legate tra l'altro alle norme sulla raccolta firme (sul punto, però, bisognerà tornare più avanti).
Non disponendo del testo del ricorso, per il contenuto occorre rifarsi all'intervento di Giovanni Guzzetta alla conferenza stampa dell'associazione Referendum e Democrazia successiva al deposito dell'atto presso il Tribunale di Milano. Per dimostrare che c'era almeno il sospetto che il ricorso fosse fondato (il cosiddetto fumus boni iuris), il ricorso ha innanzitutto sostenuto che già ora le sottoscrizioni raccolte digitalmente dovrebbero essere una valida forma di sostegno alle candidature da presentare: per Guzzetta e per i ricorrenti, non c'è "una ragione [...] per ritenere che non ci siano norme nel nostro ordinamento in grado di consentire la presentazione delle firme [...] in forma elettronica", si dovrebbe solo applicare il Codice dell'amministrazione digitale. I ricorrenti contestano la tesi degli uffici elettorali, basata sull'art. 2, comma 6 di tale codice, per cui quella fonte non si applica "limitatamente all'esercizio delle attività e funzioni [...] di consultazioni elettorali", espressione per Guzzetta "grammaticalmente quasi incomprensibile"; in ogni caso, l'interpretazione alla base della ricusazione "dà per scontato [...] che 'consultazioni elettorali” significhi tutto ciò che riguarda la attività che conduce alle elezioni", dalla convocazione dei comizi agli atti post-scrutinio (escludendo che la sottoscrizione di una lista sia un'attività o una funzione pubblica). Per i ricorrenti, invece, "la consultazione elettorale è il momento in cui si svolgono le operazioni di voto", cioè le elezioni propriamente dette (che iniziano con la preparazione dei seggi e cui si applica la giurisdizione delle Camere, mentre per gli atti precedenti il giudice è quello ordinario, secondo Corte cost. n. 48/2021). Voler leggere, come gli uffici elettorali, in modo estensivo l'espressione, includendovi pure gli atti preparatori alle elezioni, limiterebbe i diritti delle persone (qui, il diritto di elettorato passivo) e andrebbe contro il principio generale per cui, se una disposizione limita un diritto fondamentale, va letta in senso restrittivo (per contenere quella limitazione). 
L'esistenza del Regolamento UE n. 910/2014 sull'identificazione elettronica e sui servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno, poi, per Guzzetta e per i ricorrenti dovrebbe "riavvicinare le legislazioni, proprio in tema di identità digitale, e [...] creare un quadro normativo unitario, quindi un'armonizzazione proprio in tema di firme elettroniche", soprattutto grazie all'art. 25. paragrafo 2, in base al quale "una firma elettronica qualificata ha effetti giuridici equivalenti a quelli di una firma autografa". Secondo loro non si poteva opporre, come hanno fatto gli uffici elettorali, che il regolamento riguarda in realtà le "transazioni elettroniche" e non può estendersi anche a ogni altro settore in cui è richiesta una firma. Il regolamento (noto come "regolamento eIDAS"), oltre a essere direttamente applicabile, porrebbe dunque un principio generale in materia di validità della firma elettronica qualificata: su quella base, ogni norma interna in contrasto dovrebbe essere disapplicata direttamente da ogni pubblica autorità, inclusi ovviamente gli organi incaricati di vagliare le liste e i giudici.
Quanto alla possibilità di rivolgersi alla Corte costituzionale - in sede di ricorso d'urgenza o di giudizio di merito - per vagliare la legittimità delle norme in materia di raccolta firme (e di non applicabilità del Codice dell'amministrazione digitale alle "consultazioni elettorali"), l'argomento più forte era l'irragionevole disparità di trattamento tra le firme volte alla presentazione delle liste (ancora "costrette" all'analogico-autografo) e quelle a sostegno delle proposte di legge di iniziativa popolare e di referendum, dal 2021 possibili anche in formato digitale. Per Guzzetta si è di fronte a "una violazione [...] flagrante dell'art. 3 della Costituzione, e per giunta paradossale, perché, mentre le norme sulla raccolta delle firme o sull’esistenza necessaria di un certo numero di firme sono norme di rango legislativo, benché [...] finalizzate ad assicurare la genuinità della firma che si presenta, le norme che invece prevedono la raccolta di firme per i referendum e per le iniziative popolari sono norme previste direttamente dalla Costituzione": non avrebbe senso consentire la raccolta firme in formato digitale per un procedimento previsto in Costituzione e non permetterlo per un iter regolato solo con legge (il legislatore avrebbe potuto scegliere soluzioni diverse dalla raccolta delle sottoscrizioni, a partire dalla cauzione). Si sono indicate poi altre norme costituzionali ritenute violate dall'attuale sistema per dimostrare la serietà delle candidature: gli stessi parametri erano stati impiegati nel ricorso presentato nel 2019 da +Europa per poter indubbiare la costituzionalità della raccolta firme (sotto altri aspetti), ricorso che portò alla citata sentenza n. 48/2021. Il tutto mentre è scaduto invano il termine di sei mesi dall'entrata in vigore della "legge Rosato" entro il quale un decreto del Viminale avrebbe dovuto definire "le modalità per consentire in via sperimentale la raccolta con modalità digitale delle sottoscrizioni necessarie per la presentazione delle candidature e delle liste in occasione di consultazioni elettorali", anche con l'uso della firma digitale o elettronica qualificata.

L'ordinanza (e un dubbio che pesa)

Si è già anticipato che contro la posizione dei ricorrenti si sono schierati con nettezza la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell'interno e quello della giustizia: il 15 settembre, infatti, si sono costituiti, chiedendo - in vista dell'udienza del 19 settembre - il rigetto del ricorso. Ci sarà tempo e un altro spazio per approfondire in seguito (non disponendo, anche in questo caso, degli atti di parte) le questioni legate al merito contenute nella memoria; i promotori della lista hanno peraltro fatto sapere che, tra gli argomenti spesi dall'Avvocatura dello Stato, c'era anche quello in base al quale "le elezioni sono un complesso procedimento, con rigorose scansioni temporali che, in caso di accoglimento del ricorso, sarebbero completamente stravolte al punto da imporre di fissare una nuova data per la convocazione dei comizi elettorali. […] Di fatto il provvedimento cautelare auspicato dai ricorrenti imporrebbe di differire lo svolgimento delle elezioni". Ai veri #drogatidipolitica, tra l'altro, è sembrato di tornare indietro di quattordici anni e mezzo, quando il Consiglio di Stato aveva riammesso la Dc-Pizza (con una decisione discussa e discutibile, oltre che assai stringata) alle elezioni politiche del 2008 e il Ministero dell'interno si rivolse alla Corte di cassazione con regolamento di giurisdizione, visto che l'eventuale rinvio delle elezioni per "restituire" un mese intero di campagna elettorale al partito prima escluso avrebbe messo a rischio il rispetto dell'art. 61 Cost., a norma del quale "Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti". In quel caso il Viminale si vide riconoscere che non spettava al giudice amministrativo pronunciarsi sui ricorsi in materia di contenzioso pre-elettorale politico: in quel modo si sventò il rischio di rinvio del voto.
Anche nel 2022 il rischio di rinviare le elezioni politiche sembra tramontato, ma per ragioni diverse. Se i ricorrenti rivendicavano di aver corredato le liste con "un sufficiente numero di sottoscrizioni" e di aver ottenuto che ogni firmatario usasse "una firma elettronica qualificata e una marca temporale qualificata, nel rispetto del Codice dell'Amministrazione Digitale, del DPCM 22 febbraio 2013, del Regolamento eIDAS 910/2014 e dei relativi standard ETSI, nonché delle circolari AgiD", l'Avvocatura dello Stato non si è limitata a ritenere le "sottoscrizioni non analogiche" non idonee alla valida presentazione di liste elettorali. La stessa ordinanza del giudice designato del Tribunale civile di Milano, infatti, spiega come la difesa erariale abbia eccepito anche il "difetto di prova circa la sussistenza e validità delle sottoscrizioni prescritte anche eventualmente in formato digitale", aggiungendo che il giudice civile in sede cautelare non avrebbe potuto riammettere la lista "senza preventivo accertamento della regolarità della presentazione quanto meno secondo le modalità astrattamente delineate nel ricorso introduttivo". Secondo il giudice, quel riferimento bastava a far ritenere controversa la stessa "presentazione agli Uffici elettorali regionale e centrale, da parte dei ricorrenti, di sottoscrizioni digitali regolari e in numero sufficiente"; a suo dire sarebbe toccato proprio ai ricorrenti dimostrare tale presentazione di firme digitali regolari e in numero congruo, visto che ciò "costituisce il presupposto di fatto che [...] legittimerebbe la pronuncia dei provvedimenti richiesti". Il giudice non ha creduto di essere stato "posto in condizione di verificare la sussistenza" della presentazione di un numero sufficiente di firme digitali/elettroniche regolari e questo è stato per lui sufficiente a ritenere che non ci fosse alcun elemento per credere minimamente fondata la richiesta della lista Referendum e Democrazia di essere riammessa.
Chi scrive ora dubitava che si sarebbe arrivati a un accoglimento della domanda. Un'ordinanza di riammissione della lista, inevitabilmente basata sul riconoscimento - sia pure in sede cautelare - della validità della raccolta delle sottoscrizioni in formato digitale, avrebbe di fatto spalancato la porta "per via giudiziaria" alla presentazione di liste in quel modo, alle prossime elezioni politiche e anche alle altre scadenze elettorali, cambiando profondamente l'orizzonte del voto in Italia: lo scenario al sottoscritto sarebbe certamente garbato (per il poco che possono valere le opinioni personali), ma difficilmente sarebbe stato accettabile in presenza non di un silenzio del Parlamento in materia, ma di un voto della commissione Bilancio della Camera a metà dicembre 2021 in cui i voti favorevoli all'emendamento - a prima firma di Riccardo Magi, concepito da Mario Staderini - con cui si voleva introdurre la firma in formato digitale anche per la presentazione delle liste per le elezioni politiche erano stati pari a quelli contrari (con molte assenze significative) e dunque l'emendamento era stato respinto. La posizione tenuta dal giudice designato ha permesso a costui di non pronunciarsi su una materia scivolosa, con potenziali effetti che sarebbero andati ben oltre la singola vicenda (e, anzi, la stessa ordinanza si premura di precisare che "non spetta certo al Tribunale esprimere in astratto principi giuridici, bensì risolvere concrete controversie"); le argomentazioni usate per 'sbarazzarsi' della questione, tuttavia, non soddisfano affatto.
In poche righe, in sostanza, il giudice ha detto che toccava alla lista Referendum e Democrazia dimostrare che davvero le firme erano state raccolte in numero sufficiente e che erano valide (provenendo da elettori non candidati di quei collegi e senza essere doppie): in mancanza di quella prova, non si poteva nemmeno discutere sul valore delle firme e sulla riammissione della lista. Carmelo Palma ha illustrato così il ragionamento su Public Policy: "Nella sostanza l’argomento circolare del giudice è il seguente: l'Ufficio centrale regionale non ha contato e verificato le firme depositate, ritenendo inammissibile la modalità di raccolta (firme digitali e non autografe), e dunque manca la prova che esse, nel loro numero, fossero pari o superiori a quelle previste dalla legge e fossero tutte di cittadini elettori della circoscrizione regionale; visto che però il presupposto del ricorso della lista 'Referendum e Democrazia' circa la validità delle firme digitali è che le firme fossero valide e sufficienti e l’Ufficio elettorale non le ha contate e verificate proprio perché erano digitali manca il presupposto del ricorso!". Non si vede in effetti come i ricorrenti avrebbero potuto dare la dimostrazione richiesta, visto che questa era stata consegnata su supporto informatico, cioè una pen drive, una "chiavetta Usb": ricorda Palma che "nulla avrebbe impedito al giudice di pronunciarsi sul punto dell'ammissione della lista", cosa che avrebbe potuto fare chiedendo all'Ufficio elettorale regionale di consegnare il supporto con le firme elettroniche qualificate (e, pur non avendo letto il ricorso o gli altri atti della Lista Referendum e Democrazia, ci si rifiuta di credere che in quei documenti non sia mai stata chiesta l'esibizione dei file delle firme conservate in Corte d'appello a Milano). 
Al ragionamento di Carmelo Palma si aggiunge un altro punto: la lista avrebbe forse potuto dimostrare l'esistenza e congruità delle firme esibendo una copia informatica delle firme stesse, fornita magari su un'altra chiavetta Usb. Non può sfuggire, però, che solo pochi mesi fa, a marzo, il Garante per la protezione dei dati personali aveva espresso un parere piuttosto critico sullo schema di d.P.C.M. sulla disciplina della piattaforma per la raccolta delle firme per i referendum e le proposte di legge di iniziativa popolare: in quella sede si legge, tra l'altro, che "i dati dei sottoscrittori di una proposta di referendum o di progetto di legge vanno inquadrati nell'ambito delle particolari categorie di dati personali di cui
all’art. 9, par. 1, del Regolamento [generale sulla protezione dei dati ,il famigerato GDPR, ndb] in quanto rivelano - ancor più del dato relativo alla mera partecipazione alla consultazione referendaria - le opinioni o la posizione politica del sottoscrittore" e, come tali, erano meritevoli di particolare protezione. Considerando questo, è probabile che se i promotori o i candidati della lista avessero conservato copia delle sottoscrizioni e dei dati personali a queste connessi, sarebbe stata rilevata una violazione delle norme in materia di privacy: questo avrebbe avuto conseguenze pesanti e magari il giudice si sarebbe rifiutato di considerare valido questo modo di dimostrare l'esistenza e regolarità delle sottoscrizioni.
 

Il reclamo e altri problemi all'orizzonte

Com'era prevedibile, i ricorrenti hanno deciso di presentare reclamo contro la prima decisione del Tribunale di Milano, per loro decisamente insoddisfacente. Era altrettanto prevedibile che l'udienza per trattare il reclamo - presentato il 21 settembre - fosse fissata a rito elettorale già compiuto, col serio rischio che quel passaggio si riveli del tutto inconsistente e improduttivo di effetti (essendosi ormai svolte le elezioni). Diverso si presenta il discorso per il giudizio di merito da instaurare in seguito: lì, proprio com'è avvenuto dopo il ricorso di +Europa presentato nel 2019 (a 'bocce elettorali ferme'), potrebbe esserci più facilmente lo spazio per valutare la situazione 'a cognizione piena' e per sollevare una nuova questione di legittimità costituzionale sulle disposizioni in materia di raccolta firme, stavolta con riguardo alla validità delle sottoscrizioni ottenute in forma digitale.
Proprio questa vicenda, peraltro, sembra dimostrare in modo concreto che la strada tracciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 48/2021, per cercare di 'dare comunque un giudice'  ai contenziosi sui diritti eventualmente lesi nel procedimento pre-elettorale politico, è fondamentale ma non è sufficiente. L'udienza fissata presso il Tribunale di Milano in sede cautelare è arrivata solo sei giorni prima delle elezioni (un tempo in cui è anche solo difficile immaginare che un giudice si prenda la responsabilità di bloccare la 'macchina elettorale' e mandare al macero le schede già stampate), il reclamo addirittura dopo il voto: difficile immaginare che un sistema simile possa garantire una qualche forma di tutela giurisdizionale a chi si sente leso nel proprio diritto di elettorato passivo. Queste osservazioni sembrano ancora più calzanti con riguardo a casi come questo, nei quali non si discute tanto su una 'ingiustizia del caso singolo' (errato conteggio delle firme, validità di singole sottoscrizioni o delle loro autenticazioni...), ma sulla legittimità delle norme che regolano il procedimento, magari con la necessità di rivolgersi alla Corte costituzionale: se 'a bocce elettorali ferme' (si sarebbe tentati di dire 'in tempo di pace') questo è concepibile ed è accaduto, in prossimità delle elezioni (dunque 'in tempo di guerra') è ben difficile che qualcuno si prenda la responsabilità di una scelta che potrebbe bloccare il cammino verso il voto a poca distanza dall'apertura delle urne o, comunque, rischiare seriamente di delegittimare il voto stesso (se il giudice avesse scelto di sollevare la questione di costituzionalità, si sarebbe votato comunque, ma con una rilevante spada di Damocle sul valore e sulla serietà di queste elezioni).
La situazione, in realtà, è ancora più complicata di così, come dimostra (almeno) una coppia di casi decisi stavolta dal giudice amministrativo: due giorni fa, infatti, il Tar Roma (sezione II-bis) ha emesso due sentenze che meritano di essere prese in considerazione. La prima è stata pronunciata sul ricorso di Impegno civico, l'associazione legata all'ex consigliere regionale del Lazio Fabio Desideri, con cui si era impugnata l'ammissione del contrassegno della lista Impegno civico - Centro democratico, chiedendo pure di ritirare schede e manifesti elettorali già stampati contenenti quel nome e quel simbolo; la seconda segue invece a una delle bocciature delle liste di noi Di Centro - Europeisti (in particolare in Puglia), con le ricorrenti che chiedevano la riammissione della lista. Entrambi i ricorsi sono stati dichiarati inammissibili per difetto assoluto di giurisdizione: questo non stupisce, visto che Corte cost. n. 48/2021 aveva individuato per gli atti preparatori alle elezioni la giurisdizione del giudice civile; sono però alcune riflessioni del Tar - quasi identiche nelle due pronunce - a risultare significative e non proprio soddisfacenti.
Nessun dubbio sul fatto che le disposizioni in vigore affidino al giudice amministrativo solo la giurisdizione sul contenzioso per le elezioni amministrative, regionali ed europee. I giudici però insistono nel dire che il contenzioso sulle elezioni politiche è "ripartito tra l'Ufficio centrale nazionale - competente per [...] le controversie relative alla esclusione di liste e candidature - e le Assemblee di Camera e Senato, cui è attribuito il controllo del procedimento elettorale, in virtù di una norma eccezionale di carattere derogatorio"; a loro sostegno citano la sentenza n. 9151/2008 delle sezioni unite civili di Cassazione (che disse l'ultima parola sul 'caso Pizza') e la n. 259/2009 della Corte costituzionale (che aveva affidato al Parlamento la cognizione dei ricorsi, individuando gli strumenti del conflitto di giurisdizione o del conflitto di attribuzioni per reagire al continuo sottrarsi delle stesse Camere alle decisioni in materia), ricordando pure che il governo non aveva esercitato la delega a introdurre la giurisdizione amministrativa esclusiva nelle controversie sull'iter preparatorio alle elezioni politiche. Per il Tar, però, non cambia nulla neanche dopo la sentenza costituzionale n. 48/2021: "ciò - si legge nelle sentenze - non autorizza a ritenere tout court che la presente controversia possa essere devoluta, illico et immediate, alla cognizione del giudice ordinario", poiché "in un quadro in cui è la stessa Costituzione a disporre termini stringenti per il completamento del procedimento per l'elezione delle Camere" (il termine di 70 giorni dallo scioglimento), "la semplice devoluzione della controversia al giudice ordinario, in assenza della previsione di un rito ad hoc esperibile dinanzi a quel plesso giurisdizionale, che assicuri una giustizia pre-elettorale tempestiva, si tradurrebbe, di fatto, in una forma di tutela che interviene ad elezioni concluse, precludendo così la possibilità di una tutela giurisdizionale efficace e tempestiva delle situazioni soggettive immediatamente lese dai predetti atti".
Per il Tar Roma, dunque, il giudice civile è sì il giudice del procedimento pre-elettorale politico, ma di fatto ora questo può procedere solo all'accertamento, almeno fino a un intervento del legislatore che preveda un rito di cognizione piena ma "compatibile con le esigenze di certezza e celerità" legate all'iter elettorale. Quell'intervento, com'è noto, non c'è stato, né per regolare il procedimento davanti al giudice civile, né per prevederlo davanti al giudice amministrativo: si è ricordato che il progetto di legge in materia, approvato in Senato proprio dopo la sentenza n. 48/2021, non ha poi terminato il suo percorso alla Camera. Ora, non è dato sapere se la posizione del Tar romano sia diffusa anche altrove, ma chi studia il diritto costituzionale ed elettorale non può essere soddisfatto: se anche dopo la sentenza n. 48/2021 della Corte costituzionale si pensa che il giudice civile, non avendo adeguati strumenti per farlo, non possa comunque occuparsi pienamente del contenzioso pre-elettorale politico, ciò comporta che quelle situazioni sarebbero ancora una volta prive di giudice, almeno finché permane l'inerzia del Parlamento. Inerzia che si somma all'inerzia di Parlamento e Governo in materia di raccolta firme in forma digitale: una somma che purtroppo incide - e pesantemente - su un diritto assolutamente rilevante, parte fondamentale della nostra democrazia. 

martedì 13 settembre 2022

Spigolando tra le (tantissime) decisioni di Cassazione sulle candidature

Mentre mancano poco meno di due settimane alla chiusura dei seggi, il procedimento preparatorio alle elezioni politiche del 2022 può dirsi concluso sotto ogni aspetto. Oltre a essere state rese note nei giorni scorsi tutte le candidature attraverso la pagina "Trasparenza" pubblicata dal Ministero dell'interno, proprio ieri il sito della Corte di cassazione ha finalmente reso note le decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale sui ricorsi presentati dalle forze politiche contro le esclusioni di liste e candidature deliberate dagli uffici elettorali circoscrizionali e regionali subito dopo il deposito delle liste. Il "finalmente" è dovuto all'attesa certo non breve (il 22 agosto, per dire, erano state pubblicate le decisioni prese due giorni prima sulle opposizioni in materia di contrassegni), ma guardando la mole dei provvedimenti pubblicati oggi forse si può capire per quale motivo sia servito tanto tempo (anche solo per scansionare tutto): il sito della Suprema Corte, infatti, contiene ben 156 decisioni, emesse dall'Uecn tra il 24 e il 31 agosto, anche se in effetti la numerazione arriva fino a 164 e qualche numero è saltato (questi "buchi" si potrebbero spiegare considerando i numeri d'ordine come riferiti non alle decisioni - il che implicherebbe che qualche decisione non è stata resa nota - ma ai ricorsi presentati, per cui qualcuno potrebbe nel frattempo aver rinunciato all'impugnazione).
Dei 156 provvedimenti emessi dall'Ufficio elettorale centrale nazionale e pubblicati, 6 riguardano il Partito comunista italiano e altrettanti il Movimento Politico Pensiero e Azione (Ppa); 26 sono relativi a Forza Nuova, 22 ai Gilet arancioni - Unione cattolica italiana, 21 a noi Di Centro - Europeisti, 5 ad Alternativa per l'Italia, ben 37 alle liste presentate da Partito animalista, Ucdl e 10 Volte Meglio, 3 a ItalExit, 4 a Vita, 7 alla Lista Referendum e Democrazia; completano il quadro 12 decisioni sui ricorsi presentati da Destre unite - Italia reale, 2 su quelli relativi alle lamentele di Italia dei diritti, uno presentato da Italia sovrana e popolare, uno da Tomaso Picchioni, uno da Sud chiama Nord, uno da Noi moderati e uno da Alleanza Verdi e Sinistra. A quanto risulta, gli ultimi tre ricorsi sono gli unici a essere stati accolti dai collegi di magistrati, mentre tutti gli altri sono stati respinti o addirittura considerati irricevibili (quest'ultima eventualità si è avuta ogni volta in cui i ricorsi sono stati presentati direttamente presso la Corte di cassazione e non presso la cancelleria del rispettivo Ufficio centrale circoscrizionale/regionale). Per i vari soggetti politici coinvolti, in ogni caso, le decisioni meritano di essere guardate nel dettaglio: in più di un caso si è trattato di problemi legati al numero di firme raccolte o alla pretesa - ritenuta infondata - di esonero dalla raccolta stessa, ma non sono mancate ipotesi diverse. .  
Come si è visto, a fare la parte del leone - con 37 decisioni su 156 rese disponibili online - sono le decisioni sui ricorsi relativi alle liste presentate da Partito animalista - Ucdl - 10 Volte Meglio, ma respinte in molte regioni (tranne che in Emilia-Romagna, Calabria e parte della Campania). Come si ricorderà, le tre forze politiche erano convinte di avere diritto all'esenzione dalla raccolta firme, grazie alla posizione di 10 volte meglio: più che l'iscrizione di quel soggetto al Registro dei partiti politici, a quanto si apprende dalla lettura delle decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale, i presentatori si erano basati sulla presenza parlamentare qualificata della forza politica guidata da Enrico Maria Bozza, che dal 
18 aprile 2019 al 17 dicembre 2019 ha legato il proprio nome a una componente del gruppo misto della Camera. Sulla base di questo, la lista sperava di poter essere ritenuta esente dalla raccolta firme, anche se le disposizioni in vigore - in particolare l'art. 6-bis del 'decreto elezioni 2022' (d.l. n. 41/2022) - perché si potesse applicare l'esonero richiedevano espressamente che i partiti fossero "costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere al 31 dicembre 2021", senza alcun riferimento alle componenti politiche del gruppo misto.
36 provvedimenti su 37 sono di fatto 'decisioni-fotocopia', quasi identiche alla prima; in alcune decisioni, addirittura, il testo è stato letteralmente 'copia-incollato', lasciando lo spazio per indicare a mano l'ufficio elettorale che in prima battuta aveva ricusato le liste e la data di quel primo verdetto (l'espediente, efficace sul piano dell'uniformità delle decisioni, ma forse poco elegante, risulta impiegato anche per altre forze politiche presentatrici di ricorsi quasi identici in più circoscrizioni). In ogni caso, i presentatori delle liste avevano contestato la mancata esenzione per il venir meno del "requisito della rappresentatività al 31/12/2021 in una delle due Camere", ritenendo bastasse il fatto che 10 Volte Meglio fosse stato "costituito in gruppo parlamentare nel corso della legislatura". Per l'Ufficio elettorale centrale nazionale, però, non ha diritto all'esonero una lista cui concorre un partito che ha partecipato "ad un gruppo costituito prima della data del 31 dicembre 2021 e cessato a tale data": secondo i giudici, "la disposizione stessa è del tutto inequivocabile nel dire che il requisito della partecipazione ad un gruppo dovrebbe sussistere alla data del 31 dicembre 2021", non rilevando dunque la ratio del favor partecipationis rivendicata dai presentatori della lista; quanto all'argomento della presenza del Partito animalista al Parlamento europeo (speso dai presentatori in continuità col legame con i partiti animalisti europei rappresentati a Strasburgo che nel 2019 aveva permesso al Partito animalista di correre senza firme), è stato ritenuto "non valutabile, trattandosi di una affermazione solo generica". 
Colpisce in realtà che l'Ufficio elettorale centrale nazionale non abbia mai ravvisato che 10VM è stato costituito non in gruppo (autonomo), ma solo in componente del gruppo misto: si deve forse dedurre che, in base alle disposizioni vigenti, il collegio di giudici della Corte di cassazione avrebbe ritenuto esentato un soggetto politico costituito in componente alla data del 31 dicembre 2021 (come Alternativa)? Non è dato di avere la risposta a questa domanda, mentre si può notare che l'ultima decisione del collegio di giudici è stata originata dalla "istanza di autotutela" presentata dal Partito animalista - Ucdl - 10 Volte Meglio, che ha dunque chiesto l'annullamento delle decisioni che avevano confermato l'esclusione delle liste: l'istanza, tuttavia, è stata dichiarata inammissibile, visto che le decisioni di cui si è chiesto l'annullamento erano "inserite nell'ambito del complesso procedimento elettorale in cui sono, peraltro, previste specifiche forme di impugnazione" (e, in ogni caso, negli argomenti degli istanti non c'era "alcun elemento di novità rispetto a quanto evidenziato negli originari ricorsi").
L'Ufficio elettorale centrale nazionale ha respinto poi i ricorsi presentati da Forza Nuova, anche in questo caso non riconoscendo la fondatezza della pretesa esenzione dalla raccolta firme. In particolare, secondo Roberto Fiore, il testo del citato art. 6-bis del 'decreto elezioni 2022', nel sollevare dall'onere di raccogliere le sottoscrizioni anche i partiti o gruppi "che abbiano presentato candidature con proprio contrassegno alle ultime elezioni [...] dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia in almeno due terzi delle circoscrizioni e abbiano ottenuto almeno un seggio assegnato in ragione proporzionale", rendeva sufficiente che il partito ottenesse "almeno un seggio nelle elezioni europee, anche non tra quelli assegnati all'Italia", evidentemente - di nuovo - sulla scorta di quanto avvenuto alle scorse elezioni europee, in occasione delle quali (dopo la decisione dell'Ufficio elettorale nazionale che aveva riammesso la lista dei Verdi europei) era stata ammessa a concorrere senza firme ogni lista che avesse dimostrato un legame con un partito politico europeo che avesse ottenuto almeno un eletto al Parlamento europeo grazie ai partiti nazionali affiliati. 
In particolare, Fiore rivendica l'elezione in quota Alliance for Peace and Freedom di due eurodeputati in Grecia (appartenenti ad Alba Dorata) e altri due in Slovacchia (con il Partito popolare Slovacchia nostra). I componenti del collegio, tuttavia, hanno respinto le lamentele di Forza Nuova - le cui liste risultano tutte ricusate - rimarcando come la disposizione dell'art. 6-bis sia "assolutamente testuale nel prevedere che il riferimento alle elezioni europee sia limitato alla elezione dei membri spettanti all'Italia". Fiore aveva già annunciato di non voler accettare questa lettura, ritenendo che una disciplina più restrittiva di quella dettata per le elezioni europee fosse discriminatoria: si prevedono dunque ricorsi in quella sede. 
Risultano aver presentato oltre 20 ricorsi anche i Gilet arancioni, che sostenevano - con ragioni piuttosto difficili da comprendere, anche per chi aveva commentato la notizia fin dall'inizio - di avere diritto all'esenzione in seguito alla nuova alleanza con l'Unione cattolica italiana di Angelo Presutti. Tutte le liste presentate, a differenza di quanto comunicato in prima battuta da Antonio Pappalardo, sono state bocciate proprio per la totale mancanza di firme e l'impossibilità di individuare nel caso concreto anche solo una delle ipotesi in cui in effetti si solleva un gruppo politico dall'onere della ricerca delle sottoscrizioni.
A tale proposito, non disponendo dei ricorsi presentati in nome della lista (che, a quanto si apprende, contenevano varie censure delle decisioni degli uffici elettorali circoscrizionali e regionali), ci si limita a prendere atto di quanto riportato dalle decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale. In particolare, lì si legge che - ma già si sapeva - l'Unione cattolica italiana aveva partecipato già precedentemente [...] ad altre competizioni elettorali", senza che però il ricorso stesso alleghi che il partito si sia mai costituito in gruppo parlamentare (men che meno nella legislatura in conclusione), precisando anzi che la partecipazione elettorale si è avuta "a prescindere dall'effettiva elezione a membro della Camera o del Senato della Repubblica e/o Parlamento europeo". L'unico appiglio su cui si basava la pretesa di esonero dalla raccolta delle firme era il collegamento tra l'Unione cattolica italiana e l'Unione di centro, testimoniato soltanto da una mera "lettera d'intenti", di certo non sufficiente a giustificare un effetto così forte come l'esenzione.
Più interessante risulta essere il caso della ventina di decisioni legate ai ricorsi presentati da noi Di Centro - Europeisti, ciò per varie ragioni: innanzitutto perché i provvedimenti affrontano ipotesi diverse di esclusioni, dalla presentazione tardiva delle liste (in Sardegna) alla mancata comunicazione formale del sostituto delegato al deposito delle candidature (in Trentino - Alto Adige: le sostituzioni vanno fatte "con un unico atto, autenticato da notaio" e non via Pec o comunque con un messaggio "privo di firma digitale o analogica), dal mancato rispetto del numero minimo di persone candidate nei collegi plurinominali (in Piemonte) alla violazione dell'alternanza di genere all'interno delle liste (vizio che non risulta sanabile, essendo l'alternanza di uomini e donne prescritta "a pena di inammissibilità"). Accanto a queste decisioni, altre riguardano proprio la questione dell'esenzione dalla raccolta firme, esclusa tanto dagli uffici circoscrizionali e regionali, quanto dall'Ufficio elettorale centrale nazionale: il caso, che aveva destato interesse fin dai giorni precedenti il deposito del contrassegno, merita di essere analizzato anche perché la lista è presente in varie circoscrizioni (con riferimento alla Camera, la si trova in Basilicata, Calabria, Campania 1 e 2, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia 1-4, Molise; in Senato c'è anche in Piemonte) e ci si sente di escludere che, a parte in Campania, siano state raccolte le firme ovunque. Ciò significa che in mezza Italia la lista è stata ammessa sulla base di elementi che nell'altra metà (e nella circoscrizione Estero) sono stati invece ritenuti insufficienti per fondare l'esenzione dalla raccolta firme.
Dalle decisioni del collegio costituito presso la Cassazione si apprende che - come Clemente Mastella aveva detto a questo sito il giorno del deposito del simbolo - la richiesta di esonero era fondata sull'esistenza del gruppo parlamentare degli Europeisti dal 26 gennaio al 29 marzo 2021, ritenendo che il requisito dell'esistenza del gruppo "al 31 dicembre 2021" non coincidesse con l'esistenza "il 31 dicembre 2021", considerando cioè soddisfatta la condizione pure con un gruppo nato prima di tale data e scioltosi entro lo stesso termine. A sostegno della tesi (simile a quella seguita dal Partito animalista), il partito di Mastella ha allegato la nota con cui la segreteria generale del Senato ha comunicato al Viminale "l'elenco dei gruppi parlamentari nella XVIII Legislatura", dando conto dell'esistenza - prima del 31 dicembre 2021 - del gruppo Europeisti - Maie - Centro democratico: l'alleanza tecnica (e visibile nel simbolo) tra gli Europeisti di Raffaele Fantetti e noi Di Centro doveva così trasferire alla lista comune il beneficio dell'esonero. Secondo i membri dell'Ufficio elettorale centrale nazionale, invece, l'elenco prova solo che "né il partito [degli Europeisti] era costituito nelle due Camere a inizio legislatura, né era costituito in un gruppo alla data del 31 dicembre 2021": sulla base di questo dato, per il collegio non può "ovviamente darsi una lettura diversa da quella testuale, come richiede il partito fondando su una generica ratio legis", cioè il riconoscimento di seria consistenza (tale da non esigere la raccolta firme) ai partiti con presenza strutturata in gruppo parlamentare, purché sorto in tempi non troppo vicini alle elezioni. Si può concordare con la posizione dei magistrati di Cassazione, ma forse l'impossibilità di leggere diversamente la disposizione introdotta con il 'decreto elezioni 2022' tanto "ovvia" non era, visto che circa metà degli uffici elettorali ha ammesso le liste di noi Di Centro senza firme (e, benché siano legati all'applicazione di una disposizione dettata una tantum, si tratta di precedenti consistenti).
Finora, come si è visto, i contenziosi in materia di esenzione hanno riguardato essenzialmente la presenza parlamentare qualificata (in gruppo) di un soggetto politico. Il caso delle liste di Destre unite - Italia Reale, invece, somiglia almeno in parte a quello che ha riguardato Forza Nuova, anche se con alcune peculiarità da mettere in luce. Nei propri ricorsi, Destre unite - le cui liste sono state ammesse senza firme in Emilia-Romagna - non ha sostenuto di avere la rappresentanza parlamentare richiesta dalle norme in vigore; ha però in sostanza invocato l'applicazione anche alle elezioni politiche delle norme che le avevano consentito di presentare senza firme liste alle elezioni europee del 2019 (grazie al collegamento visibile nel simbolo con l'Alleanza europea dei movimenti nazionali, partito politico europeo rappresentato all'Europarlamento), sostenendo che eventuali limiti alla partecipazione volti a non valorizzare la rappresentanza al Parlamento europeo - dunque senza riconoscere l'esenzione al partito connesso al partito europeo rappresentato - dovessero essere disapplicati. Allo stesso tempo, non sembra estranea alla tesi di Destre unite l'idea che l'iscrizione di quel soggetto al Registro dei partiti politici dovrebbe produrre conseguenze anche sul piano della presentazione delle liste: si tratta, in particolare, della tesi esplorata dal 2018 dal movimento Ppa e spesso richiamata qui, anche considerando la maggiore stabilità, affidabilità e responsabilità che quello status pare in grado di garantire.
Di tale ultima questione non c'è traccia nelle decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale, che invece ha completamente demolito il ragionamento seguito da Destre unite: in particolare, per i componenti del collegio "ritenere che la norma che ha sostituito le precedenti le abbia nel contempo mantenute in vigore è affermazione francamente insostenibile". In effetti l'ufficio operante presso la Suprema Corte si sarebbe potuto limitare a sostenere che nessun intervento normativo aveva mai esteso alle elezioni politiche il potenziale esonerante del fare parte di un partito europeo rappresentato a Strasburgo: quella possibilità, tra l'altro, si era creata solo perché la legge per le elezioni europee non parlava espressamente di rappresentanti eletti tra gli europarlamentari spettanti all'Italia, come invece facevano le Istruzioni del Viminale (che però non hanno potere di limitare i diritti e in quel caso furono soccombenti) e, con nettezza, le disposizioni dettate una tantum dal 'decreto elezioni 2022'. Il collegio, invece, ha preferito ragionare sul piano logico, sostenendo che non si poteva sostituire una norma - ammesso, ci si permette di aggiungere, che questa esistesse e valesse anche per le elezioni politiche - e pretendere che vigesse ancora. L'Ufficio elettorale centrale nazionale si è poi sbarazzato in fretta di un'eventuale questione di costituzionalità sulle norme in materia di esenzione dalla raccolta firme: per chi studia il diritto costituzionale rileva innanzitutto che l'Uecn non è probabilmente un giudice (pur essendo composto da giudici di professione) e non opera all'interno di un procedimento contenzioso giurisdizionale; per il collegio, conta soprattutto il fatto che il ricorso non ha chiarito "esplicitamente quali siano le norme coinvolte e le specifiche ragioni, se non un generico disagio nel rispettare le (s)cadenze della normativa elettorale vigente)", per cui le censure non sarebbero valutabili.
Si è citato prima il caso del movimento Ppa, che alle elezioni europee del 2019 era riuscito a far ammettere - solo nell
a circoscrizione Nord-Est - la propria lista come forza politica iscritta al Registro dei partiti e come tale - a costo di forzare un po' il significato più facile da attribuire alle disposizioni in materia di presentazione delle candidature - esonerato dalla raccolta firme. Anche quest'anno il Ppa ha cercato di presentare liste senza raccogliere sottoscrizioni (proclamando anzi al Viminale la propria posizione di 'lista esente'), ma sono state tutte escluse.
I rappresentanti del partito fondato e guidato da Antonio Piarulli hanno provato a sostenere che la presentazione (con firme) alle elezioni politiche del 2008 e del 2013, nonché la citata partecipazione (senza firme) alle elezioni europee del 2019, insieme all'essere stata costituita per due volte in "gruppo parlamentare" nel 2012 e nel 2016 (anche se in entrambi i casi si trattava solo di una componente parlamentare alla Camera), fosse condizione sufficiente per ottenere l'esonero. L'Ufficio elettorale centrale nazionale si è limitato a rilevare - anche qui, come per il Partito animalista e per noi Di Centro - che il partito in questione non era costituito in gruppo alla data del 31 dicembre 2021 (a nulla rilevando l'aver potuto contare su un gruppo nelle legislature precedenti) e non godeva nemmeno di una delle altre condizioni alla base dell'esoneroPosto che anche qui il collegio di magistrati non spende una sola parola per contestare (eppure sarebbe stato facile...) che il movimento Ppabbiavuto gruppi parlamentari, ma solo componenti, si può vedere che questa volta il soggetto politico - immaginando che tutta la sua difesa sia stata riassunta per sommi capi nella decisione - non ha citato il presunto titolo derivante dall'iscrizione al Registro dei partiti politici: forse la precedente affermazione - resa dall'Ufficio elettorale centrale nazionale in sede di esame delle opposizioni sui contrassegni - in base alla quale il Registro dei partiti sarebbe previsto "esclusivamente per specifiche finalità connesse ad agevolazioni fiscali" (e non anche, per esempio, per esentare dalla raccolta firme) non è passata inosservata.
Tra i casi di cui l'Ufficio elettorale centrale nazionale si è dovuto occupare si sono anche quelli connessi ai ricorsi presentati dal Partito comunista italiano. Rilevante, anche se per ragioni non "simboliche", ma pratiche, è il caso delle quasi 800 firme autenticate da un avvocato che non aveva reso apposita dichiarazione di disponibilità ad autenticare le sottoscrizioni, con riferimento cioè a questa precisa tornata elettorale, ma lo aveva fatto per elezioni precedenti. Per il collegio, il testo dell'art. 14,della legge n. 53/1990 "certamente non può leggersi nel senso che la disponibilità ad autenticare le sottoscrizioni riferita
ad una elezione possa valere quale attribuzione di tale competenzanche per il futuro". In altri casi il partito aveva contestato l'esclusione per insufficienza di firme, chiedendo un nuovo conteggio delle stesse, ma l'esito è stato comunque negativo (e, nelle circoscrizioni del Lazio, c'era l'ulteriore problema del non aver coperto almeno due terzi dei collegi plurinominali di ogni circoscrizione).
Quanto agli altri ricorsi respinti - e precisando che, come per il Pci, questi riguardano partiti o gruppi politici che sono comunque riusciti a presentare liste in un numero significativo di collegi e circoscrizioni - quelli presentati da Alternativa per l'Italia riguardavano varie irregolarità nella raccolta firme (sottoscrizioni prive di certificato elettorale oppure con dati incompleti o incongrui, come pure certificati di iscrizione alle liste "in copia analogica autenticata da soggetto ignoto o non autorizzato"); altrove è capitato che alla lista di Mario Adinolfi e Simone Di Stefano siano stati contestati il raggiungimento del numero minimo di sottoscrizioni in certi collegi o la mancata copertura della quota di collegi richiesta dalla legge. 
I ricorsi di Vita riguardavano la mancata presentazione tempestiva di alcuni documenti relativi a singole persone candidate (per il collegio non importa che la mancata presentazione sia frutto di distrazione e i tempi da rispettare dovevano essere quelli dettati dalla legge, a nulla valendo l'integrazione in sede di ricorso), la copertura solo parziale dei collegi della circoscrizione o - in Campania - l'inidoneità di alcuni soggetti autenticatori (per non aver comunicato la disponibilità ad autenticare o per avere esercitato la funzione fuori dal proprio territorio di competenza). Da segnalare, sempre per la lista guidata da Sara Cunial ed Edoardo Polacco, come in Puglia il simbolo non risulti presente sulle schede della Camera perché in uno dei collegi plurinominali (che avrebbe consentito di coprire i due terzi degli stessi) mancava un certo numero di firme: i presentatori della lista avevano lamentato il furto di 189 sottoscrizioni con relativi certificati, ma non è stata considerata valida o affidabile (sul piano della corrispondenza ai documenti originali) la documentazione presentata in seconda battuta, visto che mancherebbe la dichiarazione di conformità rilasciata dal comune di Cerignola. 
I tre ricorsi di ItalExit riguardavano il Trentino - Alto Adige (per il quale non si considera valido - con riferimento ai collegi uninominali del Senato - il deposito del contrassegno al Viminale; di più mancava una procura speciale al depositante delle candidature da parte del capo politico) e il Molise: quest'ultima regione aveva visto - come raccontano le agenzie - il venir meno di circa 300 firme che erano state raccolte da Orlando Iannotti (già sindaco di Oratino ed esponente di rilievo dei Forconi) ma non erano state consegnate dopo che si era deciso di candidare persone estranee al contesto regionale. Le decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale si sono limitate a rilevare l'insufficienza nel numero delle sottoscrizioni presentate (nonché altri vizi che erano stati riscontrati).
Quanto all'unico ricorso presentato da Italia sovrana e popolare, questo riguarda la lista ricusata in Campania nei collegi plurinominali 1 e 2, perché a depositare le liste sarebbe stata una persona diversa da quelle indicate come delegate effettive o supplenti. Per la formazione politica, la presentazione sarebbe stata regolare perché il delegato effettivo era comunque presente nei locali dell'Ufficio elettorale regionale e il cancelliere avrebbe sbagliato nell'accettare la lista da uno soggetto non indicato quando invece era presente chi aveva titolo per depositare; secondo il collegio di cassazione, però, quelle della lista erano "affermazioni generiche e indimostrate, non tali da smentire quanto accertato dall'ufficiale che ha ricevuto gli atti". 
Si era presentato presso la Corte d'appello di Roma dichiaratamente senza aver raccolto le firme Antonello De Pierro per la sua Italia dei diritti, proprio con l'idea di contestare il sistema che ha reso particolarmente difficile la raccolta firme in un tempo così breve. Dalle decisioni dell'Uecn si apprende che Italia dei diritti avrebbe ritenuto nullo il provvedimento di esclusione perché esso non indicava l'autorità cui presentare ricorso; il collegio istituito presso la Cassazione, tuttavia, ha respinto il gravame, sottolineando che alla materia elettorale non si applica la legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, mentre la legge elettorale (cioè il testo unico per l'elezione della Camera) indica chiaramente nell'Uecn "l'autorità cui presentare il ricorso".
Merita di essere considerato a parte il ricorso presentato da Tomaso Picchioni, che aveva presentato la propria candidatura individuale nel collegio di Brescia, convinto com'è che debba essere possibile candidarsi al di fuori di logiche di lista per consentire un voto diretto e senza favorire l'elezione altrui. Questo tuttavia oggi non è possibile (al di fuori delle elezioni suppletive), visto che anche le candidature nei collegi uninominali sono necessariamente legate a quelle di lista nei collegi plurinominali. L'ufficio elettorale circoscrizionale presso la Corte d'appello di Milano aveva dunque escluso la candidatura di Picchioni per la sua stessa formazione (ciò anche sotto profili ulteriori rispetto alla mancata copertura delle candidature richiesta dalla legge: sarebbero in particolare mancate le firme nel numero richiesto con relativa autenticazione): 
Picchioni si era così rivolto all'Ufficio elettorale centrale nazionale, non per chiedere di essere riammesso al procedimento elettorale, "bensì unicamente [per] contestare la legittimità costituzionale dell'art. 18-bis, comma 1 e 2-bis" del d.P.R. n. 361/1957, cioè delle disposizioni che oggi non ammettono candidature individuali, ritenendo violato il principio di personalità del voto (leggendo il riferimento al "voto personale" ex art. 48, comma 2 Cost. non solo come "voto espresso dalla singola persona", ma anche "a una precisa persona e non ad altre); aveva chiesto pure di indubbiare il vincolo a candidarsi in un solo collegio uninominale, credendo che ciò limiti irragionevolmente il diritto elettorale passivo. L'Ufficio elettorale centrale nazionale ha però ritenuto inammissibile il ricorso, perché dichiaratamente non volto a contestare l'esclusione (unico 'interesse ad agire' riconosciuto in questi casi), e perché il collegio non ha riconosciuto quello instaurato come giudizio entro il quale sollevare una questione di legittimità costituzionale (qualcosa di simile a quanto si è visto per i casi di Destre unite), rilevando anche che il ricorso non conteneva elementi per valutare la rilevanza e la non manifesta infondatezza dei dubbi di costituzionalità (e negando che al principio di personalità del voto potesse darsi la lettura contenuta nel ricorso stesso). Se fosse stata approvata la legge sul contenzioso pre-elettorale politico, ci sarebbe stato un vero giudizio davanti a un giudice (amministrativo) e in teoria ci sarebbe stato spazio per le questioni di legittimità costituzionale, anche se i tempi accelerati non ne avrebbero comunque favorito il sorgere; frattanto, dal 1990, l'Italia - quale paese partecipante alla riunione di Copenhagen della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) - si era impegnata pure a garantire "il diritto dei cittadini di candidarsi a cariche politiche o pubbliche, personalmente o in rappresentanza di partiti o organizzazioni politiche, senza discriminazione alcuna".
L'Ufficio elettorale centrale nazionale ha invece riammesso la lista di Sud chiama Nord alla Camera in Emilia-Romagna perché nel frattempo erano stati consegnati i certificati elettorali mancanti (ritenendo che il requisito di validità delle liste sia costituito dalla firma delle stesse, mentre i certificati di iscrizione alle liste elettorali servirebbero a valutare la "correttezza delle sottoscrizioni stesse" e possono essere consegnati entro le ore 12 del giorno successivo alla ricusazione della lista, a patto che le firme ci fossero già e fossero regolari nel numero e nei dati). Si è decisa pure la riammissione di Noi Moderati in Molise alla Camera (ritenendo che, pur non essendo stato rispettato in origine il numero minimo di candidati effettivi, potesse essere inserita la prima persona candidata supplente nel rispetto dell'alternanza di genere) e dell'Alleanza Verdi e Sinistra in Abruzzo (essendo stato prodotto tempestivamente l'atto di presentazione di lista debitamente firmato dalla persona a ciò titolata e, soprattutto, autenticato prima che scadesse il termine di presentazione).

Si è volutamente lasciato in fondo il caso della Lista Referendum e Democrazia, legata all'iniziativa promossa da Marco Cappato, Virginia Fiume, Marco Perduca e altre figure di rilievo. Com'è noto, sulle liste e candidature si è deciso di raccogliere e presentare le sottoscrizioni in forma digitale (precisamente con firma elettronica qualificata), attraverso la piattaforma già usata per sottoscrivere le richieste di referendum su eutanasia e liberalizzazione della cannabis (e coloro che hanno scelto di firmare hanno pagato un contributo, per coprire i costi legati all'uso di quella piattaforma privata). La presentazione è stata accompagnata dal deposito di una memoria volta a far ritenere legittimo l'impiego della raccolta firme in formato digitale.
Tutte le liste erano state escluse dagli uffici elettorali circoscrizionali e regionali, sia pure con motivi diversi. Per l'Ufficio elettorale regionale del Piemonte - la cui decisione è stata contestata dal primo ricorso esaminato dall'Uecn - il Codice dell'amministrazione digitale (d.lgs. n. 82/2005, art. 2) esclude espressamente che le proprie disposizioni, equiparanti di fatto documenti digitali e analogici, si possano applicare alle "consultazioni elettorali"; non era mai stato emanato il decreto ministeriale previsto dalla legge n. 165/2017 (che introdusse il sistema elettorale Rosatum-bis) che avrebbe dovuto regolare l'uso sperimentale della firma digitale ed elettronica per la presentazione delle candidature) e non era possibile estendere alle elezioni politiche l'uso della firma elettronica qualificata consentito per le proposte di legge di iniziativa popolare e di referendum grazie al testo in vigore del d.l. n. 77/2021; da ultimo, non c'erano norme dell'Unione europea in grado di ampliare direttamente il perimetro dell'uso consentito della firma elettronica qualificata (né si poteva arrivare allo stesso esito applicando i principi costituzionali, visto che la raccolta firme tradizionale cartacea, secondo l'ufficio regionale, non limitava "uguaglianza e partecipazione dei cittadini alla vita politica nazionale"). Altri collegi, come quello regionale per l'Emilia-Romagna, hanno escluso la lista pur riconoscendo che "l'uso del così proposto strumento informatico non [è] giuridicamente incompatibile con la normativa speciale in materia elettorale e con i principi costituzionali cui essa deve ispirarsi"; lo strumento della firma elettronica qualificata, tuttavia, è stato ritenuto "per fatti concludenti, oggettivamente inidoneo a consentire le verifiche compiutamente da effettuarsi secundum legem e nei tempi richiesti dalla legge" (forse per la mancata precisazione per legge, com'era avvenuto con il d.l. n. 77/2021, che quelle firme non necessitano di autenticazione).
Nei suoi ricorsi, la lista ha rilevato che la lettura combinata della previsione del decreto ministeriale sulla sperimentazione della raccolta firme in forma digitale per le liste e della disposizione del 2021 sulla raccolta in quella stessa forma per i referendum (insieme alla pratica di quest'ultima) "dimostra che è stata svolta positivamente la 'sperimentazione' [...] e, quindi, non può che ritenersi conforme a Costituzione estendere la possibilità di uso di modalità digitali anche alla raccolta delle firme per le liste": ciò anche in assenza del citato decreto ministeriale, semplicemente impiegando il criterio dell'applicazione analogica e il principio di ragionevolezza. In più, secondo i ricorrenti, le stesse norme europee - in particolare il regolamento (Ue) n. 910/2014 sull'identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno - imporrebbero tale applicazione (il ricorso proponeva anche in subordine una questione di costituzionalità). 
L'Ufficio elettorale centrale nazionale, nonostante ciò, ha respinto tutti i ricorsi della lista e sostenuto che le firme così raccolte non sono da ritenersi valide, sulla base di "norme il cui contenuto non consente alcun margine di opinabilità". In particolare, l'equiparazione tra documenti analogici e digitali operata dal Codice dell'amministrazione digitale per l'Uecn "non opera nella materia elettorale" (così viene tradotto il riferimento alle "consultazioni elettorali"); mancherebbero interventi normativi specifici in grado di ammettere l'uso della firma elettronica qualificata per le elezioni politiche (mentre ciò nel 2021 è stato espressamente previsto per referendum e proposte di legge di iniziativa popolare). Considerare le previsioni introdotte con il d.l. n. 77/2021 per referendum e leggi di iniziativa popolare come 'sperimentazione positiva' da far valere per consentire l'uso della firma elettronica qualificata anche per le elezioni politiche, per il collegio, è "al di fuori di ogni legittimo ambito di opinabilità", trattandosi di "un'interpretazione del tutto creativa" e ritenuta dall'ufficio perfino "contraria" alle disposizioni che legherebbero la sperimentazione della raccolta firme digitale per le elezioni politiche all'emissione di un decreto del Viminale (che doveva arrivare entro sei mesi). Non avrebbe invece alcun rilievo il regolamento Ue citato, nel senso che non imporrebbe di superare le norme interne in materia di valore della sottoscrizione elettronica (sembra però più rilevante il fatto che, per il collegio, quel superamento introdurrebbe "incertezza di lettura di disposizioni in una materia alquanto delicata" e probabilmente l'organo non ritiene opportuno contribuire a questo risultato). Da ultimo, sull'eventuale questione di legittimità costituzionale da sollevare, l'Uecn si limita a riportare i suoi dubbi sulla propria natura di giudice e su quella di 'giudizio' del procedimento in corso, rilevando poi che il ricorso non avrebbe indicato con precisione le norme da indubbiare e altri elementi per l'esame di rilevanza e non manifesta infondatezza.
Chi scrive è del tutto favorevole alla raccolta delle sottoscrizioni delle liste in formato digitale (anche perché costringerebbe a chiudere le liste per tempo, senza consentire riempimenti o modifiche "a mano" dell'ultimo minuto), ma nutriva poche speranze in un esito diverso dell'esame dei ricorsi: si sarebbe trattato di un'innovazione troppo ampia e 'radicale', riferita a un passaggio cruciale della "macchina democratica", da pensare che potesse farsene carico un collegio qualificato ma di incerta natura (giudice, organo amministrativo o altro?), senza il minimo intervento del Parlamento (anche a valle, dopo un eventuale decreto-legge del governo, che però da dimissionario ha ritenuto inopportuno agire). A metà dicembre del 2021, anzi, la commissione Bilancio della Camera ha respinto di un soffio un emendamento simile a quello (sempre a prima firma di Riccardo Magi, concepito da Mario Staderini) con cui si erano introdotte le firme digitali ed elettroniche qualificate per i referendum e le proposte di legge di iniziativa popolare. Questo argomento, pur mai citato nelle decisioni di cui si dispone, probabilmente ha avuto un peso non indifferente: un conto è se il Parlamento non decide, un altro conto è se respinge, pur di misura, un'innovazione. Potrà cambiare idea (e sarebbe davvero necessario), ma nell'immediato è difficile non tenerne conto. Nel frattempo, la battaglia giuridica si sposta al tribunale civile di Milano: lì è stato presentato un ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, preparato dal costituzionalista Giovanni Guzzetta (e considerando anche le riflessioni del giurista Giuseppe Corasaniti), prendendo tra l'altro sul serio la sentenza n. 48/2021 che ha indicato nel giudice ordinario il giudice delle situazioni lese durante il procedimento elettorale preparatorio. L'udienza di discussione è prevista per il 19 settembre e si cercherà di seguire la vicenda con attenzione: le sue ricadute andrebbero ben oltre le elezioni che si celebrano il 25 settembre.