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mercoledì 20 gennaio 2021

Il futuro del gruppo Italia viva - Psi, dopo la fiducia di Nencini a Conte

Archiviato il rito della fiducia al governo Conte-bis nei due rami del Parlamento con un doppio esito positivo - ma con una maggioranza piuttosto risicata al Senato e in ogni caso lontana dalla maggioranza assoluta di 161, non essenziale per la sopravvivenza / legittimazione dell'esecutivo, ma oggettivamente importante per poter sperare di operare in modo efficace - restano aperte varie questioni da approfondire. Una di queste, inevitabilmente, riguarda la situazione all'interno del gruppo Italia viva - Psi al Senato, dopo che ieri sera senatrici e senatori di Iv hanno scelto di astenersi, mentre il socialista Riccardo Nencini - una volta riammesso al voto dopo la mancata risposta alla prima e alla seconda "chiama" - ha votato "Sì" alla questione di fiducia posta dal governo.
Naturalmente un dissenso o un voto disomogeneo all'interno di un gruppo parlamentare non è necessariamente qualcosa di drammatico (anche su questioni non di coscienza): è accaduto spesso, senza produrre per forza conseguenze per chi ha votato difformemente dalla maggioranza del gruppo. Qui tuttavia l'attenzione suscitata sulla questione si giustifica sotto vari profili. Da una parte, infatti, la scelta di Nencini di votare a favore del governo spicca se messa a confronto con l'astensione di tutti gli altri membri del gruppo presenti in aula, riferibili a Italia viva; dall'altra, non si dimentica che proprio Nencini, come unico candidato del Psi eletto in Senato (sia pure in un collegio uninominale) e facente riferimento a un partito che col suo simbolo aveva concorso alle elezioni (sia pure all'interno di un cartello elettorale, Insieme) era nelle condizioni - in base alle ultime riforme del regolamento senatoriale - di costituire un gruppo autonomo a Palazzo Madama cui partecipare insieme a senatrici e senatori di Iv: costoro, senza un aiuto esterno, non avrebbero avuto la possibilità di emergere come soggetto collettivo al Senato, dovendo limitarsi a egemonizzare il gruppo misto. A molti è venuto dunque spontaneo, già nei giorni precedenti, domandarsi cosa sarebbe stato del gruppo parlamentare Iv-Psi, se Nencini avesse deciso - come era parso di capire appunto dopo le dimissioni della delegazione vicina a Matteo Renzi - di continuare sostenere il governo Conte-bis come "costruttore" a differenza di coloro che appartenevano allo stesso gruppo costituito su sua richiesta e con il beneficio legato al suo partito.

Le parole scritte e dette

La questione si è puntualmente concretizzata proprio ieri sera - alle porte della notte - dopo il "Sì" rocambolesco in "zona ultraCesarini" previa riammissione al voto dopo il controllo delle immagini della chiusura della votazione. Sulla sua pagina Facebook, Nencini ha giustificato il ritardo nell'ingresso in aula ("La segreteria del partito è durata diverse ore con strascichi altrettanto lunghi") e ha parlato della sua scelta: "La mia posizione era nota: astensione benevola in attesa di capire se le aperture del presidente Conte all'area socialista fossero davvero fondate. Avrei comunque votato a favore dello scostamento di bilancio e del decreto Ristori e di qualsiasi altra misura per fronteggiare la pandemia. Una posizione che è emersa chiaramente dal mio intervento in aula. E che è stata apprezzata dalla maggioranza. Insomma, una posizione responsabile che teneva conto dello stato difficile del Paese e metteva in risalto la diversità rispetto al voto di Italia Viva". Anche la scelta di non rispondere alle "chiame" e di non partecipare al voto, in effetti, sarebbe stata diversa rispetto alla posizione di Iv, ma alla fine è arrivato il voto favorevole. Intervistato dal Fattoquotidiano.it appena uscito dall'aula, l'ex segretario Psi aveva detto qualcosa di più sulla sua decisione: "Ho ascoltato la relazione del presidente del Consiglio, che avevo già ascoltato ieri a Montecitorio; sulla base di quella c'è stata una risposta anche nella replica che abbiamo valutato". Il tono, soprattutto nella parte finale, non sembrava esageratamente convinto; in ogni caso si è capito che si è trattato di una scelta scaturita da una valutazione collegiale, evidentemente maturata nella segreteria terminata poco prima dell'ingresso in aula.
Nencini e il Psi, dunque, hanno scelto di restare in maggioranza (e anche per questo il senatore rifiuta ogni tentativo di associarlo "a parlamentari che hanno votato la fiducia provenendo dall'opposizione", ritenendo che si tratti di "due storie completamente diverse"); Italia viva, al contrario, ha scelto di non fare più parte di quella maggioranza, così come le forze di maggioranza hanno manifestato l'idea di non ritenere più affidabile quel partito come interlocutore. Si può dunque pensare che nello stesso gruppo convivano e continuino a convivere una forza di maggioranza e una di opposizione? E, se la convivenza dovesse terminare, il Psi toglierebbe al gruppo dei renziani i benefici legati al proprio simbolo?
La questione non è semplice e merita di essere trattata con attenzione. Innanzitutto bisogna notare che sul tema non ci sono interventi ufficiali del Partito socialista italiano o del suo segretario, Enzo Maraio. Per l'esattezza, l'unica posizione ufficiale era quella approvata dalla segreteria il 17 gennaio e divulgata. Lì si è ribadita l'esigenza di "formare una maggioranza organica dentro un quadro politico certo, senza immaginare soluzioni di fortuna", cercando invece di "ricostruire l’unità delle forze di maggioranza": per questo c'era bisogno di affrontare questa fase "con coraggio e visione lunga", ad opera di "un governo autorevole" e "ripartendo da questa coalizione, che va rafforzata e allargata alle forze di ispirazione europeista presenti in parlamento". Nello stesso documento si dava mandato a Maraio e Nencini "di gestire la fase di crisi dell’esecutivo nel rapporto con le forze politiche di maggioranza".

Ipotesi sul futuro del simbolo e del gruppo

Se si considera tutto questo, è facile immaginare che - anche in mancanza di notizie ufficiali, che probabilmente non arriveranno in una situazione ancora decisamente fluida - non sia all'ordine del giorno del Psi la scelta di revocare all'alleanza con Italia viva i benefici legati al simbolo socialista. Certo, ieri sera è accaduto qualcosa di nuovo, con un voto diversificato tra gli esponenti di Iv e l'unico rappresentante del Psi (che ha votato in coerenza con le posizioni precedenti); non è però la prima volta che questo avviene, potendosi ricordare la sfiducia ad Alfonso Bonafede votata da Nencini a maggio dell'anno scorso (mentre Italia viva all'epoca scelse, sia pure con fatica, di opporsi), così come si ricordano altre divergenze, ad esempio in materia di giustizia e di scuola. 
Proprio sulla base di questi precedenti, non ci si potrebbe stupire se Nencini decidesse di rimanere nel gruppo attuale (e il Psi confermasse che il gruppo lo rappresenta) continuando a votare in maniera autonoma, anche difforme rispetto a senatrici e senatori di Italia viva. Nessuna norma di alcun tipo vieta o scoraggia questo scenario, che sarebbe certamente singolare e al limite anomalo, ma certo non irregolare: a dirla tutta, poi, in Senato si è visto di ben peggio (basti pensare alle disomogeneità del gruppo Grandi Autonomie e Libertà nella scorsa legislatura: è vero che quel gruppo non sarebbe mai potuto nascere vigente il regolamento attuale, ma è esistito e bisogna prenderne atto). Lasciare immutato il gruppo Italia viva - Psi, insomma, sarebbe un modo per riconoscere il percorso fatto sin qui (e tenere fede a un accordo stipulato un anno e mezzo fa), senza rinunciare all'autonomia e alla libertà nell'esercizio del mandato parlamentare di ciascun membro e ciascuna componente.
Almeno un'altra ragione, peraltro, fa apparire irrealistica ogni discussione sulla revoca del simbolo Psi e dei suoi benefici all'attuale gruppo parlamentare. In una fase in cui il governo ha bisogno di ampliare la maggioranza che lo sostiene, nessuno può essere pienamente certo che coloro che oggi si riconoscono in Italia viva (e nella scelta di astenersi) non possano in un secondo momento ritrovarsi nella proposta dell'esecutivo. Non si può dunque escludere che la maggioranza che ha operato finora in appoggio al governo Conte-bis non possa ricostituirsi e magari ampliarsi: se fosse così, sarebbe inutile pensare di disporre diversamente del simbolo e del gruppo (che, facendo ipotesi, potrebbe essere il nucleo di una compagine parlamentare europeista, in cui i socialisti non si sentirebbero certo a disagio).
Si tratta naturalmente, come si diceva, solo di ipotesi, per quanto tutt'altro che implausibili. Naturalmente sarebbe altrettanto sbagliato pensare che possano andare bene a chiunque: per quanto il documento della segreteria Psi sia stato approvato all'unanimità, non tutti erano favorevoli a mantenere il sostegno al governo. L'aveva chiarito già prima della segreteria del 17 gennaio, ad esempio, Mauro Del Bue: lui lì si sarebbe schierato contro l'appoggio in Senato "a quel che resta del governo Conte", ma anche contro "lo scioglimento del gruppo Psi-Italia viva", mentre avrebbe valutato positivamente il sostegno a "un governo forte e rappresentativo capace di affrontare come si deve la pandemia, e di gestire al meglio il Recovery [...]. Dunque un esecutivo guidato dalla persona più autorevole e rappresentativa disponibile. E che possa contare su una maggioranza europeista, poggiata su partiti d'impronta socialista e popolare". Quanto accaduto in Senato ieri sera non ha soddisfatto Del Bue che, nel rassegnare le proprie dimissioni da direttore dell'Avanti! on line, ha dato un giudizio molto duro sul "Sì" di Nencini: "Un voto a favore di Conte all’ultimo minuto dopo certo Ciampolillo non è una cosa dignitosa. Oltretutto indecifrabile. Incomprensibile".

Renzi: "Nencini non può togliere il simbolo". Eppure...

Tornando al simbolo, in ogni caso, bisogna registrare anche una dichiarazione di Matteo Renzi, rilasciata durante la puntata di Porta a porta: a Bruno Vespa che gli diceva come Nencini avesse dichiarato di "non togliere il simbolo del Psi a Italia viva", l'ex presidente del Consiglio ha risposto "Il senatore Nencini non può togliere il simbolo: il simbolo è servito per costituire il gruppo. Dopo la costituzione del gruppo noi ci siamo candidati e una delle condizioni è quella che si siano candidate in altre elezioni - in questo caso elezioni regionali in Campania, in Toscana... - quindi questa storia del gruppo non esiste. Il senatore Nencini deciderà che cosa fare della sua esperienza parlamentare, ma il logo non lo toglie perché non lo può togliere".
Si prende atto con rispetto dell'opinione di Renzi; è altrettanto necessario però contestare questa ricostruzione, o almeno precisarla e correggerla a dovere.
 Certamente il simbolo del Psi - o meglio, l'apporto del Psi in quanto partito che aveva partecipato alle elezioni politiche con propri candidati e un contrassegno e aveva eletto almeno un senatore - è servito a costituire il gruppo, tant'è che ad annunciare la costituzione del gruppo è stato proprio Nencini, unico esponente Psi della compagine. Allo stesso modo è vero che , una volta costituito il gruppo, Italia viva ha presentato liste in altre competizioni elettorali: lo ha fatto, in particolare, alle regionali in Campania (da sola), Liguria (con Psi e +Europa nella lista Massardo presidente), Marche (con Psi, Demos e civici), Puglia, Toscana (con +E), Valle d'Aosta (con forze locali) e Veneto (con Civica per il Veneto, Pri e Psi), nonché in varie elezioni comunali. 
Basta questo per dire che "questa storia del gruppo non esiste" perché "una delle condizioni" (si suppone perché il gruppo parlamentare continui a esistere) è l'aver partecipato ad "altre elezioni", genericamente intese? In teoria non lo si può escludere, ma si deve dire che la lettura che sembra proporre Renzi sarebbe del tutto contraria allo spirito con cui era avvenuta la riforma del regolamento del Senato nel 2017. Cerchiamo di capire, innanzitutto, su cosa dovrebbe fondarsi la tesi renziana. Stando al testo vigente dell'art. 14, comma 4 del regolamento, "Ciascun Gruppo dev'essere composto da almeno dieci Senatori e deve rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di Senatori". Si è già visto che la richiesta del Psi di costituire il gruppo contenente la propria denominazione è stata ritenuta rispondente ai requisiti indicati dalla disposizione, tanto a quello numerico (per il concorso degli aderenti a Italia viva) quanto a quello elettorale-politico (per la partecipazione del Psi alle liste di Insieme e l'elezione di Nencini); si è anche detto che, in realtà, questa lettura del regolamento andava esattamente contro il disegno anti-frammentazione con cui si erano introdotte le nuove regole, volte a non consentire la formazione di gruppi legati a partiti nati dopo le elezioni; il nuovo partito - Iv - era però riuscito a ottenere di fatto un suo gruppo col concorso di un solo eletto riferibile a un partito che aveva corso alle elezioni - il Psi - e che peraltro aveva ottenuto l'elezione non in una lista del partito, ma in un collegio uninominale.
Questo significa che l'accordo tra il Psi e Italia viva obbliga le forze politiche fino alla fine della legislatura, senza poter essere sciolto? Ovviamente no: non solo Nencini potrebbe certamente decidere di abbandonare il gruppo e approdare altrove, ma - se lo facesse - potrebbe chiedere al segretario Psi di revocare l'uso del nome e del simbolo al gruppo attualmente condiviso con Italia viva, per il solo, evidente fatto che quel gruppo non rappresenterebbe più (anche) quella forza politica e non si potrebbe costringere un partito a lasciare i suoi segni distintivi - noti e definiti - in uso a una forza politica con cui non ha più legami. Neanche l'avere presentato alle citate regionali liste in cui figurano uniti i simboli di Psi e Iv vincolerebbe in qualche modo i socialisti: ogni elezione, com'è facile immaginare, fa storia a sé, non influenzando in automatico accordi nazionali né venendone influenzata.
Bisogna allora forse interpretare diversamente le parole di Renzi, ad esempio sostenendo che anche qualora Nencini e il Psi decidessero di abbandonare il gruppo e di revocare a questo nome e simbolo socialisti, il gruppo di Italia viva potrebbe continuare a esistere senza quell'apporto: ciò vuoi perché le caratteristiche per costituire il gruppo devono esistere certamente all'inizio ma non è richiesto esplicitamente che debbano permanere anche in seguito, vuoi perché nel frattempo Italia viva potrebbe avere acquistato un titolo autonomo a esistere come gruppo, in particolare grazie alla partecipazione ad elezioni. Entrambe le letture sono astrattamente possibili, ma presentano altrettante criticità che vanno evidenziate.
Sotto il primo profilo, è vero che formalmente l'art. 14, comma 6 prevede come unica ipotesi esplicita di scioglimento di un gruppo il caso in cui la compagine "perda pezzi" fino a scendere sotto i dieci membri (e lo scioglimento non è automatico, ma va dichiarato), mentre non è espressamente previsto lo scioglimento qualora un partito ritenga che un gruppo non lo rappresenti più e gli revochi nome e simbolo (un'ipotesi cui forse chi aveva concepito le nuove norme non aveva pensato, magari credendo che un partito che aveva partecipato alle elezioni ed eletto senatori non avrebbe mai negato a se stesso l'uso delle proprie insegne). Trattandosi di regole nuove, non ancora sottoposte a stress, non ci sono precedenti direttamente invocabili; parrebbe però irragionevole ritenere che, a fronte della sanzione dello scioglimento in caso di venir meno del requisito numerico, non accada nulla qualora venga meno il requisito politico che aveva permesso al gruppo di nascere, solo perché nulla in proposito si dice. In più, se si guarda alla Camera (che pure ha prassi diverse dal Senato), la ratio di alcuni precedenti non depone a favore della tesi renziana. Si pensi al caso, qui già trattato, della scissione interna a Scelta civica: nel 2016 il segretario Enrico Zanetti e altri eletti abbandonarono il gruppo per costituirne un altro con meno di venti membri - il regolamento di Montecitorio lo permette ai gruppi legati a partiti che hanno partecipato alle elezioni ed eletto deputati - dicendo che era il nuovo gruppo a rappresentare il partito, non più il vecchio (il che prova che un partito può ben dire di non essere più rappresentato da un certo gruppo). Il gruppo più risalente rimase sì in vita (con un nome che non creasse confusione), ma con l'intesa che in tempi rapidi avrebbe dovuto raggiungere la consistenza minima richiesta agli altri gruppi (non riuscendovi, il gruppo venne sciolto).
Esisterebbe, dunque, una condizione diversa per permettere a un gruppo di continuare a vivere anche dopo il "disconoscimento" da parte del partito che l'aveva fatto nascere? Renzi, come si è visto, ha fatto riferimento alla partecipazione elettorale del partito: potrebbe bastare a legittimare la permanenza del gruppo di Italia viva? In via del tutto teorica qualche margine potrebbe esserci: il terzo periodo dell'art. 14, comma 4, in cui si dice che "è ammessa la costituzione di Gruppi autonomi, composti da almeno dieci Senatori, purché corrispondenti a singoli partiti o movimenti politici che si siano presentati alle elezioni uniti o collegati", parla genericamente di presentazione "alle elezioni", senza ulteriormente specificare. Limitandosi a interpretare quel periodo, insomma, si potrebbe pensare che un partito che abbia presentato liste in una competizione elettorale (a maggior ragione se in più casi e a livello regionale) insieme alla forza politica con cui ha costituito il gruppo parlamentare, con contrassegni che mettano in evidenza entrambi i simboli, potrebbe a sua volta creare un gruppo autonomo in corso di legislatura sulla base di quel requisito elettorale (oltre che di quello numerico). 
Detto questo, bisogna subito mettere in luce i gravi limiti di questa lettura. Innanzitutto questa non terrebbe conto del complesso dell'articolo e del comma: all'inizio del comma 4, infatti, è preciso il riferimento alle "elezioni del Senato"; in seguito si parla solo di "elezioni", ma almeno nel periodo seguente è chiaro che quelle elezioni possono essere solo le stesse elezioni senatoriali, altrimenti la frase non avrebbe senso; sarebbe dunque ragionevole riferire anche la presentazione "alle elezioni" del periodo che interessa qui alle "elezioni del Senato" di cui al primo periodo. Soprattutto, però, è impossibile non notare che, se davvero fosse sufficiente una partecipazione congiunta di due partiti a una qualunque elezione, senza altre precisazioni, verrebbe del tutto meno qualunque limite alla frammentazione dei gruppi che pure era palese in sede di elaborazione delle nuove norme regolamentari. Proprio perché non si precisa nulla in quel periodo sul tipo, sul livello e sul numero di elezioni da considerare, qualunque partito nato in corso di legislatura potrebbe chiedere di formare un gruppo di almeno dieci senatori per il solo fatto di aver presentato anche una sola lista in un solo comune (e ogni anno si tengono elezioni comunali...) con un partito titolare di un gruppo già presente in Parlamento: se, ad esempio, dodici membri del gruppo del Pd volessero costituire il gruppo senatoriale autonomo di Europa Verde, potrebbero farlo per il solo fatto di aver presentato una lista comune alle regionali in Valle d'Aosta l'anno scorso. Un meccanismo simile potrebbe ripetersi un numero indefinito di volte (limitato solo dalle dimensioni dei gruppi parlamentari esistenti...), con effetti incalcolabili sulla composizione dell'assemblea e sulle risorse da destinare ai gruppi.
Dovrebbe bastare questo a ritenere non percorribile l'ipotesi enunciata da Renzi a Porta a porta. Si ripete però che, proprio perché non ci sono precedenti, potenzialmente il primo caso potrebbe anche essere deciso nel modo inteso dal fondatore di Italia viva (non è nemmeno da escludere che lui o altri membri del gruppo abbiano parlato di queste ipotesi con qualche funzionario parlamentare, valutandone la percorribilità). Non si dimentichi nemmeno che, in caso di interpretazione dubbia del regolamento, la Presidenza del Senato si potrebbe rivolgere alla Giunta per il regolamento, di cui fanno parte esponenti di tutti i gruppi (per Italia viva c'è Davide Faraone): pur fondata su argomenti giuridici, è innegabile che la scelta di interpretare in un modo o in un altro le disposizioni regolamentari è sempre di natura politica, perché politiche sono le posizioni di chi compone l'organo e i motivi che stanno alla base di una tesi o dell'altra (specie se ciascuna di esse ha almeno una parte di ragione). Se il problema si porrà, dunque, lo si affronterà a tempo debito; magari, come detto, non ce ne sarà nemmeno bisogno, perché il Psi e il suo simbolo resteranno dove sono ora.

mercoledì 14 agosto 2019

Senato, nuovi gruppi grazie ai simboli (e a dispetto del regolamento)?

Mentre ci si prepara alle comunicazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte il 20 agosto al Senato e il 21 agosto alla Camera, è il caso di tornare su un punto che ieri era stato solo marginalmente toccato, ma è tutto meno che irrilevante, per lo meno su queste pagine. In effetti da ieri, secondo alcuni, l'eventualità che Matteo Renzi abbandoni il Pd assieme agli eletti a lui più vicini è meno attuale, o comunque si allontana nel tempo; nonostante questo, merita un po' di attenzione l'espediente - ad alto tasso simbolico - di cui si era vociferato nei giorni scorsi per consentire la scissione sul piano parlamentare, con la nascita di gruppi autonomi in entrambe le Camere.

La stretta regolamentare...

A Montecitorio, come si sa, è solo questione di numeri, visto che il regolamento consente a qualunque compagine di almeno 20 deputati di costituirsi in gruppo autonomo; fino a tutta la legislatura precedente, anche a Palazzo Madama era così, con la differenza che - visti i numeri dimezzati - di eletti ne bastavano 10. Alla fine della XVII legislatura, tuttavia, i senatori hanno approvato rilevanti modifiche al regolamento dello stesso Senato, che sono intervenute, tra l'altro, rendendo severe le regole per la formazione dei gruppi, per porre un limite e magari scoraggiare la nascita di nuove formazioni politiche, pronte a causare nuovi cambi di casacca (tecnicamente si parla di "transfughismo parlamentare").
In particolare, il nuovo testo dell'art. 14, comma 4 continua a prevedere la consistenza minima di 10 senatori, ma precisa che ogni gruppo "deve rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall'aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di Senatori", specificando che un gruppo può rappresentare - e, di conseguenza, riportare nel nome - tutti i partiti che abbiano presentato "congiuntamente liste di candidati con il medesimo contrassegno", quindi tutte le forze federate o riunite in cartello (forse, per quello che si può immaginare, anche se quei partiti o movimenti non erano visivamente presenti nel contrassegno). Unica deroga numerica è concessa al gruppo che rappresenta le minoranze linguistiche, che può essere composto anche solo da cinque senatori: il gruppo Per le autonomie sta in piedi con nove membri, anche grazie all'adesione di due senatori a vita (Elena Cattaneo e Giorgio Napolitano), Pierferdinando Casini (su di lui si dovrà tornare) e Gianclaudio Bressa (Pd, ma eletto a Bolzano grazie all'accordo con la Svp). 

... e la via per allentarla

Stando così le cose non ci sarebbe alcuno spazio per la nascita di gruppi che rappresentino partiti nati durante la legislatura: l'art. 15, comma 3 precisa anzi che "nuovi Gruppi parlamentari possono costituirsi nel corso della legislatura solo se risultanti dall'unione di Gruppi già costituiti". Appare chiaro dunque il senso della riforma: unici movimenti concessi tra i gruppi in Senato, in teoria, sono quelli per aggregare, non per disgregare
Il regolamento, in realtà, lascia uno spiraglio per la nascita di gruppi autonomi, citato dallo stesso art. 15, comma 3: al di là del gruppo delle minoranze linguistiche (che può anche nascere a legislatura iniziata), si rimanda al penultimo periodo dell'art. 14, comma 4, in base al quale possono costituirsi gruppi autonomi sempre di almeno 10 senatori, "purché corrispondenti a singoli partiti o movimenti politici che si siano presentati alle elezioni uniti o collegati". L'uso di questi due distinti aggettivi non è casuale e non sono affatto sinonimi (nel diritto, del resto, se si usano parole diverse una qualche differenza di significato deve pur esserci). Parlare di partiti o movimenti uniti alle elezioni rimanda a quelle forze politiche che hanno concorso alla costruzione di una lista, apparendo uniti anche visivamente nel contrassegno comune: facendo l'esempio con la lista Insieme - del tutto casualmente! - ciò consentirebbe la nascita di gruppi del Psi, dei Verdi e dell'Area civica di Zedda, mentre sarebbe più difficile far sorgere un gruppo autonomo ulivista, se non altro perché l'emblema è solo evocato e l'Ulivo come soggetto giuridico non ha partecipato alla lista.
La disposizione, tuttavia, parla anche di partiti o movimenti "collegati", un termine che alla luce della legge elettorale può significare una sola cosa: il riferimento, cioè, sarebbe alle liste collegate in coalizione, che dunque sostengono il medesimo candidato nei vari collegi uninominali. Così, per proseguire l'esempio di prima, la lista Insieme - sempre casualmente! - potrebbe formare, ove se ne creassero le condizioni, un gruppo autonomo di dieci senatori già solo per il fatto di avere partecipato alle elezioni del 2018 come lista della coalizione di centrosinistra, che ha eletto molti senatori nei collegi uninominali: questo anche se, in ipotesi, nessuno degli eletti fosse stato indicato da quella lista, dal momento che è sufficiente che vi sia stato un collegamento e grazie a questo vi siano stati eletti.

Il casus reflectionis e gli altri casi possibili 

Un'operazione del genere potrebbe essere "normale" (o almeno non desterebbe perplessità) per una forza che avesse superato di poco il 3% a livello nazionale e, per la distribuzione dei seggi a livello regionale, non fosse riuscita a raggiungere da sola i 10 senatori con gli eletti nella quota proporzionale, avendo bisogno dei vincitori dei collegi uninominali per arrivare al numero minimo richiesto. Non è detto invece - ma sulle intenzioni non è il caso di fare troppe congetture - che i riformatori avessero in mente di consentire di avere un gruppo, evidentemente con l'apporto di fuoriusciti da altri gruppi, anche a forze politiche coalizzate che avevano ottenuto assai meno di 10 eletti (tutti nei collegi uninominali). Si tratta della situazione, per esempio, della lista Insieme, che al Senato ha ottenuto un solo eletto, Riccardo Nencini, candidato nel collegio uninominale di Arezzo. L'ex segretario del Psi attualmente è vicepresidente del gruppo misto, ma lui stesso avrebbe dichiarato a ilfattoquotidiano.it: "C’è una discussione in corso, ma vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni". Discussione su cosa? Sul fatto che possa nascere un nuovo gruppo parlamentare di cui faccia parte lo stesso Nencini (magari guidato da lui stesso, ma forse non è fondamentale), fondato su quello spiraglio regolamentare che consentirebbe alla lista Insieme cui si riferirebbe Nencini di costituirsi in gruppo, accogliendo nel contempo Renzi e i senatori a lui vicini e accostando al nome di Insieme l'etichetta che i renziani dovessero scegliere di darsi (ore fa si parlava di "Azione civile", ipotesi che ora non ha più alcun valore). Ottenendo, tra l'altro, come notava sempre ilfattoquotidiano.it, il risultato politico di non uscire dal centrosinistra, "visto che Insieme era associata proprio al Pd". 
Ora, non si sa se la scissione in casa dem ci sarà e se questo ragionamento resterà solo un esercizio di stile. Risulta chiaro, tuttavia, che se questa strada venisse aperta, potrebbe essere seguita anche da ogni altra lista che ha partecipato in coalizione alle elezioni del 2018, anche se non ha ottenuto suoi eletti nel proporzionale. Si trova in questa condizione, per esempio, +Europa, che al Senato ha eletto solo Emma Bonino nel collegio di Roma - Gianicolense ed è attualmente tesoriera del gruppo misto: questo ovviamente non significa che debba per forza nascere un gruppo di +E (con transfughi venuti da non si sa dove), né che Bonino accetterebbe di unire un nuovo nome al suo, ma formalmente la cosa sarebbe possibile.
Lo stesso scenario riguarderebbe la lista nazionale meno votata della coalizione di centrosinistra, vale a dire Civica popolare, che aveva in bella vista la peonia "petalosa" e il cognome di Beatrice Lorenzin, mentre assai meno leggibili erano le "pulci" di Italia dei valori, Centristi per l'Europa, Unione (per il Trentino, con la margherita di Dellai), L'Italia è popolare e Alternativa popolare. Unico eletto riconducibile alla lista al Senato, com'è noto, è Pierferdinando Casini, come detto aderente al gruppo Per le autonomie; sulla carta, tuttavia, con altri 9 aderenti potrebbe costruire un suo gruppo, denominandolo Civica popolare (ma anche Centristi per l'Europa, volendo: il nome è abbastanza generico) e magari accostare a tale nome quello della compagine che dovesse ospitare.
Anche nel centrodestra, peraltro, c'è un soggetto disponibile: si tratta del cartello Noi con l'Italia - Udc, che a dispetto del suo 1,2% ha eletto quattro senatori nei collegi uninominali, cioè Paola Binetti, Antonio De Poli e Antonio Saccone dell'Udc e Gaetano Quagliariello di Idea. Al momento tutti e quattro sono parte del gruppo di Forza Italia, ma in teoria - anche se è improbabile che loro considerino questa eventualità - potrebbero portare in dote la loro condizione per costituire un gruppo autonomo che porti anche il loro nome, ovviamente solo in seguito all'apporto di almeno sei senatori (il che è tutto meno che scontato, anche perché è tutto da vedere che ci siano le condizioni perché nascano vari partiti per scissione).
Sempre sulla carta, infine, avrebbe le carte per consentire la nascita di un nuovo gruppo anche Liberi e Uguali, che fuori da ogni coalizione ha eletto quattro senatori, tutti nel gruppo misto (compresa Loredana De Petris, che presiede il gruppo come parte della compagine più numerosa). Anche qui la possibilità che nasca un gruppo è puramente teorica, che si immagini l'ingresso di semplici fuoriusciti o (ancora di più) di un raggruppamento organizzato che voglia appoggiarsi a Leu per ottenere la nascita di un gruppo parlamentare altrimenti impossibile. Di ogni opzione, per irreale che sia, è giusto dare conto, a patto di non farla credere come probabile o addirittura imminente.
In questo elenco dei "gruppabili" (orribile, non lo si userà mai più!), si dovrebbero comprendere anche i simboli che al Senato hanno ottenuto un eletto (solo) all'estero: è il caso, in particolare, del Maie - Movimento associativo italiani all'estero, e dell'Usei - Unione sudamericana emigrati italiani. I due senatori del Maie (Ricardo Antonio Merlo e Adriano Cario, eletto però con l'Usei) fanno parte del gruppo misto, quindi in teoria potrebbero ugualmente fungere da leva per ottenere la nascita di un nuovo gruppo; di certo, è meno facile per una forza politica nuova appoggiarsi a un gruppo che ha chiaramente una matrice legata agli italiani all'estero. 

A che pro?

Resterebbero sprovviste di questa possibilità, insomma, solo le liste che hanno partecipato alle ultime elezioni ma che non hanno avuto alcun eletto, nemmeno nei collegi uninominali: niente gruppo (autonomo, ma con altri aventi diritto chissà...), dunque, per Potere al popolo!, CasaPound Italia, Il popolo della famiglia, Italia agli italiani (Forza Nuova e Fiamma tricolore), Partito comunista, Partito valore umano, Per una sinistra rivoluzionaria, Pri-Ala, Autodeterminatzione, Grande Nord, Lista del popolo per la Costituzione, Democrazia cristiana (di Fontana e Grassi), Destre unite - Forconi, Patto per l'autonomia, SìAmo, Stato moderno solidale e Rinascimento - Mir o per il Movimento della libertà (Estero).
Come si diceva, non è affatto detto che tutte le possibilità in campo (sette in totale) si trasformino in gruppi, anzi potrebbe non verificarsene nessuna (in fondo ci vuole pur sempre una compagine nutrita disposta a uscire da un gruppo esistente), ma sulla carta tutto è possibile. E i vantaggi sarebbero indubbi, per chi cambia gruppo e chi dà la possibilità di attivarne un nuovo, quasi come se fosse un taxi: maggiore visibilità - con tempi dedicati nelle discussioni e voce in capitolo nell'organizzazione dei lavori di aula - e soprattutto maggiori risorse e spazi per agire a livello parlamentare.
Rispetto al passato, a legge vigente, almeno un vantaggio verrebbe meno: quello legato alla raccolta firme. In vista dei precedenti appuntamenti elettorali, infatti, avere un gruppo parlamentare in almeno una delle Camere era un risultato molto ambito, perché consentiva spesso di essere esentati dall'onere delle sottoscrizioni; in qualche caso poteva persino bastare l'aver costituito una componente alla Camera (si veda quello che è accaduto alle elezioni del 2008). Questa volta, invece, l'applicazione "a regime" della legge elettorale è chiara nel richiedere, per far scattare l'esenzione, l'esistenza dei gruppi in entrambe le Camere, ma dall'inizio della legislatura: lo sa bene Liberi e Uguali, che alla Camera ha potuto costituire un gruppo in deroga (14 invece di 20 membri, ma aveva partecipato in modo consistente alle elezioni), ma con i suoi quattro eletti non ha potuto fare lo stesso al Senato, dunque dovrebbe raccogliere le firme anche se dovessero arrivare rinforzi per costituire un gruppo autonomo. E questo, si badi bene, nonostante sia stata proprio l'esenzione dalla raccolta firme applicata una tantum alle elezioni del 2018 a permettere la presentazione di tutte le liste che, sulla carta, potrebbero fungere da taxi per forze nate in corso di legislatura che volessero costituire un gruppo autonomo.
Al momento, dunque, rimarrebbero ferme solo le esenzioni dei doppi gruppi esistenti (MoVimento 5 Stelle, Pd, Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d'Italia) e della Svp. Tutto questo, ovviamente, a meno che non si decida di mettere mano alla legge, eliminando le esenzioni o estendendole e, già che ci si è, modificando le norme per la raccolta firme. Ma questa, ovviamente, è un'altra storia che merita un'analisi molto più approfondita e lo studio di soluzioni concrete.