domenica 28 marzo 2021

La Dc mai morta e i documenti mai letti abbastanza

Appare davvero infinita, la saga della Democrazia cristiana e dello scudo crociato: alle volte ad alimentarla sono le stesse persone che cercano di raccontarla, quando la incontrano sulla loro strada per caso o per scelta. Non è certo una novità, succede ormai da tanto tempo: quando, alla fine di novembre del 2005, Sebastiano Messina volle far vivere plasticamente ai lettori della Repubblica il disorientamento che si poteva provare tra un numero già allora imprecisato di democrazie cristiane e affini, gli bastò fare una passeggiata a piazza del Gesù e un po' di scale in un Palazzo Cenci Bolognetti piuttosto buio e in ristrutturazione. Lo mise per iscritto e ne uscì un passaggio intermedio memorabile, all'interno di un articolo intitolato Sta in un codicillo nascosto il destino elettorale della Dc che merita di essere riletto oggi, immaginando di stare davanti a quel palazzo (che oggi di democristiano non ha più nulla) con l'idea di cercare la Democrazia cristiana (per le autonomie) di Gianfranco Rotondi:
Sulla facciata, una sola targa: "Partito dei democratici cristiani". Sarà questo? Saliamo al secondo piano, dove una volta c'era lo studio del segretario, e bussiamo. Scusi, è qui il partito di Rotondi? "No, questo è il partito di Prandini". Torniamo indietro e troviamo, sulla scala di fronte, il vecchio, inconfondibile scudo crociato. "Democrazia Cristiana". Dev'essere qui. E invece no. "Questa è la Dc, certo, ma non è il partito di Rotondi" spiega un po' seccato il professor Giuseppe Pizza, consegnandomi un biglietto da visita sul quale c'è scritto: "Segretario della Democrazia Cristiana". Siamo in quello che fu, subito dopo la guerra, l'appartamento di De Gasperi: oggi è la sede di una delle tre Democrazie Cristiane.
Magari fossero state solo tre, allora e in seguito: sarebbe stato più facile capirci qualcosa. Ora sarebbero invece otto secondo 
Nino Luciani, 83 anni, un nome che i frequentatori di questo sito e gli appassionati delle vicende democristiane (o ri-democristiane) conoscono bene. Ieri mattina il Corriere della Sera gli ha dedicato l'intera pagina 25, occupata da un'intervista di Stefano Lorenzetto (sotto la rubrica Confessioni): del "neosegretario della 'vera' Dc" (così lo chiama il giornalista) si ripercorre la storia personale e politica, cercando di capire come sia arrivato a ricoprire quel ruolo e chiedendogli anche qualche commento sulla politica di oggi (potrebbe forse esimersi un segretario della Dc?). Tempo qualche mezz'ora e il traffico si è fatto rovente tra i telefoni e le e-mail dei "democristiani non pentiti": sono più di quelli che si potrebbe immaginare, spesso hanno molta voglia di parlare, puntualizzare e scrivono, parlano e postano. Per esempio, sul sito della Democrazia cristiana (il cui segretario politico è Renato Grassi) c'è un espresso invito al Corriere perché rettifichi, firmato da Grassi e dal segretario amministrativo e legale rappresentante Mauro Carmagnola; Alberto Alessi (già parlamentare Dc, figlio di Giuseppe, nel cui studio nacque il simbolo del partito storico, e tra le figure apicali del partito ora guidato da Grassi) ha mandato ai suoi contatti un giudizio severo sul contenuto dell'intervista; uno status Facebook di Emilio Cugliari, che della Dc si qualifica come "presidente facente funzione", inizia con "Ogni tanto qualcuno si sveglia al mattino e dice di essere Napoleone" (il resto ognuno può leggerlo da sé). Lo stesso Luciani, invece, nel diffondere il contenuto della medesima "ai Membri del CN della DC; agli On.li Parlamentari; ai Vescovi italiani" ha tenuto a precisare che "La credibilità e il risultato raggiunto è merito del duro lavoro e sacrificio di tanti, dentro e fuori".
La Dc, insomma, fa ancora notizia, eccome, a oltre ventisette anni da quel gennaio 1994 che ne sancì la fine politica. Solo politica, naturalmente: sul piano giuridico continuava a esistere. Lo sostiene da anni chiunque si proclami segretario, presidente, coordinatore, legale rappresentante del partito che fu di Alcide De Gasperi. In effetti non è per nulla sbagliato sostenerlo, ma se si chiede a queste persone cosa questo significhi davvero e chi rappresenti ora la Dc, il coro si sfrangia in coretti, a volte può persino trasformarsi in un'unione di solisti. Ognuno dei quali canta una melodia democratica e cristiana leggermente diversa, che finisce quasi sempre in "io"; altre volte in "noi", ma in ottave diverse (nel senso che il "noi" di una persona non coincide con quello detto da un'altra, anche se magari c'è chi è passato da un "noi" all'altro nel corso degli anni, a seconda del tentativo che sembrava più prossimo alla riuscita, causando inevitabilmente l'aumento della confusione).
Per cercare di capire qualcosa di questo coro a molte voci (non proprio armoniche), è bene cogliere anche occasioni come questa, per capire se effettivamente si apprende qualcosa di nuovo rispetto a quello che si sa, qualche tassello in più che può rendere il quadro più completo, avendo magari l'accortezza di non prendere per oro colato ogni informazione e dettaglio, se non altro perché provengono da una persona che è naturalmente "parte in causa". Un'operazione che - a scanso di equivoci - dovrebbe essere fatta qualunque fosse l'interlocutore, concedendogli peraltro sempre la buona fede: tra i molti, Renato Grassi (e i suoi, come Alessi e Carmagnola), Emilio Cugliari, Angelo Sandri, Publio Fiori, Giuseppe Pizza, Pierluigi Castagnetti, Alessandro Duce, Mario Tassone, Gianni Fontana, Franco De Simoni, Raffaele Cerenza, Raffaele Lisi e ovviamente Gianfranco Rotondi. Era stato proprio lui, del resto, di fronte al sottoscritto che gli aveva chiesto se fosse più grave credere o non credere a un politico, a rispondere "Bisogna avere il coraggio di credergli, ma anche la prudenza di dubitare. Non prendere per oro colato tutto quello che dice, fare qualche verifica ed essere anche un po' tolleranti".
Che ha detto dunque nell'intervista Luciani? Ha iniziato ricordando che la Dc non è mai morta: "Martinazzoli il 21 gennaio 1994 convocò a piazza del Gesù il consiglio nazionale. Con lui, erano in 27. [...] Deliberarono all'unanimità che la Dc assumesse la denominazione di Partito popolare italiano, mantenendo il simbolo dello scudocrociato. Ma non potevano farlo [...] La Cassazione ha sancito che lo scioglimento doveva essere decretato dall'assemblea dei soci, non dal consiglio nazionale. Pertanto sono da considerarsi nulli tutti i successivi tentativi di autoconvocazione di altri consessi decisionali e dei congressi. Infatti tali richieste andavano rivolte al consiglio nazionale. Che però nel frattempo era decaduto".
L'ultimo simbolo della Dc
Già qui è il caso di fermarsi un momento. Che la Dc non sia mai morta è vero, ma semplicemente perché nessuno l'ha mai sciolta. Mai. In quella seduta di consiglio nazionale (tenuto al centro studi De Gasperi alla Camilluccia il 29 gennaio 1994, non il 21, giorno in cui invece si tenne la direzione nazionale della Dc) non si decise alcuno scioglimento, ma "soltanto" il cambio di nome da Dc a Ppi, già dichiarato nell'assemblea fondativa del 18 gennaio presso l'Istituto Sturzo. Del cambio di nome in effetti ha parlato anche Luciani e ha ragione quando dice che quel passaggio - anche se non si trattò di scioglimento - non poteva spettare al consiglio nazionale: spettava infatti al congresso (si deve intendere così l'assemblea dei soci), se non altro perché il nome faceva parte dello statuto e le modifiche statutarie toccavano - appunto per statuto - al congresso. 
Questa cosa, in effetti, non l'ha detta direttamente la Corte di cassazione, bensì la Corte d'appello nel 2009, in una corposa sentenza (n. 1305) in cui, in effetti, si è detto pure che l'atto di cambio di nome ad opera dal consiglio nazionale era così viziato (essendo stato compiuto da organo incompetente) da essere "inesistente". La sentenza di Cassazione cui fa riferimento Luciani (la n. 25999/2010) in effetti si è limitata a respingere tutti i ricorsi delle varie parti, ritenendoli inammissibili o infondati. Ovviamente, fino ad allora, per la maggior parte delle persone comuni e per molti di coloro che erano stati democristiani la Dc era morta e sepolta; qualcuno ha anche agito sul suo patrimonio, ma questa è un'altra storia (talmente complicata e delicata che l'emicrania potrebbe sembrare poca cosa; peraltro, lo stesso Luciani dice che per la "sua" Dc il patrimonio "non è un problema attuale").
Dopo la sentenza della Cassazione, in ogni caso, c'era stato almeno un tentativo reso noto dalle cronache di rifare la Dc partendo dal consiglio nazionale, cercando di riconvocarlo a norma di statuto, per poi svolgere un congresso, il tutto nel 2012: l'anno dopo quei passaggi furono sospesi dal tribunale di Roma e in seguito dichiarati nulli, per il mancato rispetto delle forme prescritte (dalla legge o dallo statuto).
Il simbolo usato ora da varie Dc
Finito nel nulla quel tentativo, Luciani tentò di seguire un'altra strada, suggerita probabilmente dai suoi "amici dell’Università di Bologna, giuristi di razza che discendono dagli antichi glossatori dell'Alma Mater Studiorum": quella di agire non attraverso lo statuto, ma mediante il codice civile, unica via potenzialmente praticabile visto il decorso del tempo che aveva fatto decadere le cariche ("
I partiti sono associazioni: articolo 36 del codice civile. Quando manca l’amministratore, nel caso della Dc il presidente, il segretario o il consiglio, per le convocazioni ci si deve rivolgere al tribunale: articolo 20. Ho seguito la via maestra"). Il primo tentativo - di cui non c'è traccia nell'intervista, ma non era fondamentale dirlo - era datato 2014, ma non andò a buon fine perché a chiedere la convocazione dell'assemblea degli associati della Democrazia cristiana erano state solo tre persone, con Luciani primo firmatario; due anni dopo, invece, il tentativo venne ripetuto su scala decisamente più ampia. Quella richiesta di convocare l'assemblea fu presentata al presidente del tribunale di Roma; il 14 dicembre 2016, in effetti, un giudice di quel tribunale (Guido Romano) dispose la convocazione di quell'assemblea nelle date e nel luogo indicato dai richiedenti (Hotel Ergife, 25-26 febbraio 2017), designando Luciani - primo firmatario della richiesta - convocatore e presidente di quella riunione di soci. Riunione che in effetti, in una giornata a dir poco tumultuosa, elesse presidente Gianni Fontana (già indicato come segretario dal congresso del 2012 dichiarato nullo).
Doveva essere un "nuovo inizio", che però ha continuato a essere accidentato, tra ricorsi, un nuovo XIX congresso contestato (nel 2018 e, secondo Luciani, poi "revocato") e purtroppo pure la malattia che ha colpito Fontana. Questi si sarebbe dimesso dal suo ruolo di presidente e per opera di Luciani si sarebbe rimessa in moto la "macchina congressuale" (sia pure su scala ridotta), che avrebbe celebrato (via Skype) un nuovo XIX congresso il 24 ottobre 2020 che avrebbe eletto lo stesso Luciani segretario politico.
Quest'esito, in realtà, non è esattamente incontestato: il gruppo che fa capo a Renato Grassi (eletto segretario nel XIX congresso del 2018, quello che per Luciani è stato "revocato") rivendica come pienamente legittimo il proprio percorso, contestato invece da altri soggetti, ad esempio da Raffaele Cerenza e Franco De Simoni (che hanno impugnato gli atti del 2017 e del 2018 e, nel frattempo, avrebbero provveduto a un'autoconvocazione degli iscritti Dc che avrebbe portato a riattivare per altra via il partito); altri ancora contestano proprio gli ultimi passaggi che avrebbero portato Luciani alla segreteria (come Emilio Cugliari, che come detto si proclama presidente facente funzione della stessa Dc dallo scorso 1° luglio). Erano e sono tuttora in piedi varie cause: alcune si trascinano da anni, relative a eventi che in certi casi hanno perso del tutto valore anche per chi vi ha partecipato. Altre sono molto più recenti come quella iniziata da Mauro Carmagnola come segretario amministrativo e rappresentante legale della Dc contro Nino Luciani, per tentare di bloccare il XIX congresso telematico che avrebbe eletto lo stesso Luciani: in effetti il tribunale di Roma (di nuovo nella persona del giudice Romano) il 25 gennaio ha rigettato la domanda, come dice Luciani, ma in effetti si trattava solo di un procedimento cautelare, nel quale non sono stati riconosciuti gli estremi del "pregiudizio grave e irreparabile" nella celebrazione di quel "congresso" (che tra l'altro nel frattempo si era già svolto). Va detto anche che in effetti - e salvo errore - è ancora sotto giudizio l'assemblea del 2017 convocata da Luciani su disposizione del tribunale di Roma, così come finora manca un provvedimento giudiziario che abbia dichiarato nullo, annullato o sospeso il congresso del 2018 che aveva eletto Grassi (non lo ha impugnato nemmeno Luciani e probabilmente direbbe che non ce n'è nemmeno bisogno, ritenendo lui di averlo "revocato" già nel 2019.
In effetti Luciani cita altre decisioni contrarie a Grassi: in particolare, quelle relative alla bocciatura del contrassegno contenente lo scudo crociato presentato in occasione delle elezioni europee del 2019. Il Viminale in effetti ne chiese la sostituzione, sia per la presenza dello scudo crociato, sia per l'uso senza autorizzazione della grafica del Ppe (al quale la Dc-Grassi non è affiliata) e, quando i delegati della Dc si opposero rivolgendosi all'Ufficio elettorale nazionale, si videro bocciata la loro opposizione; non ebbero miglior esito i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, presentati per cercare di vedersi riconosciuto l'uso legittimo del simbolo. Va detto però, per correttezza, che il problema del simbolo era legato soprattutto al contemporaneo deposito del simbolo da parte dell'Udc (presente in Parlamento), anche se in effetti le decisioni parlavano della cessata attività della Dc dal 1993, notando che non si era fatta valere alcuna continuità giuridica rispetto a quell'esperienza (altrove Luciani aveva notato che ciò sarebbe stato possibile, esistendo almeno il verbale dell'assemblea del 2017 e quello del congresso del 2018 - allora non ancora "revocato" - ma forse quei documenti non furono prodotti).
Nell'articolo c'è poi un interessante campionario di nomi che non lascia indifferenti i "malati di politica": Giuseppe Pizza, abilissimo nel far e lasciar credere di essere diventato titolare legittimo ed esclusivo dello scudo crociato (ma da tempo scomparso dai riflettori); Angelo Sandri, infaticabile segretario della "sua" Dc da molti anni (almeno dal 2004 in modo ininterrotto), per qualcuno privo di ogni legittimità, per altri colui che negli anni ha presentato più liste con lo scudo crociato in molte parti d'Italia (e Luciani gli riconosce "il merito di averla tenuta in piedi con orgoglio"); Gianfranco Rotondi, cui Luciani attribuisce Rivoluzione cristiana (che certamente esiste ancora, non risultando sciolta, ma probabilmente è "in sonno", ad aspettare tempi migliori); Publio Fiori, tra i primi a far valere - già nel 1994 - l'argomento della mancanza di un congresso e in seguito fondatore di Rifondazione Dc (poi Rinascita popolare). L'elenco potrebbe continuare, nella consapevolezza che "s’è provato di tutto per metterli d’accordo, ma non c’è stato verso. Vogliono comandare. Benedetta gente! Non è meglio essere primi in provincia che secondi a Roma?".
Sicuramente è vero che la sede di Piazza del Gesù (cioè Palazzo Cenci-Bolognetti) è "dei suoi proprietari" (cioè l'istituto Pasteur - Fondazione Cenci-Bolognetti) e che all'interno non c'è più nessun partito che si richiama alla Dc ("Fontana la affittò per tre anni, ma costava troppo"). Luciani ha parlato anche di "Dc regionali" in via di organizzazione, mail spedite con "reazioni entusiastiche" (si noti che dalle parti della Dc-Grassi si parla da settimane, mesi di adesioni di decine di sindaci e consiglieri, con l'organizzazione in Sicilia affidata a Totò Cuffaro). E se anche ora non ci sono notabili tra i soci, per Luciani "sono dietro le quinte. Mario Segni è informato. Nel 2002 combattei con lui per la politica pulita. Al momento giusto penso che si farà vivo anche Rotondi". Cioè giusto in tempo per le elezioni politiche del 2023 da affrontare "da soli, secondo la linea di Fontana. Niente pastette con Forza Italia o Udc. Siamo un partito di centro che guarda a sinistra, come sosteneva Alcide De Gasperi".
Nell'intervista c'è ancora spazio per qualche microstoria notevole di un "democristiano da sempre" ("Dal 1975 al 1980 fui consigliere a Comacchio. La maggioranza Pci-Psi sollecitava il dialogo, ma non ci ascoltava. Così il pittore Remo Brindisi, con me all’opposizione, durante le sedute disegnava per noia pecorelle e pastori e mi regalava i dipinti con le dediche"), che rivendica il merito di aver trasformato "Giorgio Guazzaloca da macellaio in sindaco" e che vorrebbe avere "altri due anni di vita solo per vederla correre, la mia Dc. Sapesse quante sofferenze m’è costata! Ma ho fiducia. Altrimenti non avrei cominciato".
In tutta la chiacchierata, peraltro, mancano due particolari importanti, ben noti a chi frequenta questo sito. Innanzitutto, il fondamento del ruolo che oggi Nino Luciani rivendica è rappresentato dal decreto del giudice Romano del 14 dicembre 2016 che dispone la convocazione dell'assemblea dei soci della Democrazia cristiana del 25-26 febbraio 2017, affidandone la materiale organizzazione allo stesso Luciani. Per poter ottenere quel risultato, tuttavia, occorreva - ex art. 20, comma 2 del codice civile - il 10% degli associati alla Dc. La richiesta per il giudice risultava "legittimamente formulata" perché era stata superata quella quota del 10% degli iscritti "risultante dall'ultimo elenco disponibile". Un elenco che però era stato "ricostruito per autodichiarazione [...] dei soci che erano stati iscritti negli anni 1992 o dintorni [...] e che, nel 2012, hanno rinnovato la condivisione delle finalità, dei valori di riferimento della Democrazia cristiana ai fini della celebrazione al XIX Congresso, in Roma 11-12 novembre 2012". Quell'ultimo elenco dei soci, dunque, era stato ricostruito nel periodo tra il consiglio nazionale della Dc riconvocato il 30 marzo 2012 e il congresso di novembre: gli atti del primo e del secondo, tuttavia, sono stati prima sospesi e poi dichiarati nulli e a demolire gli effetti del consiglio nazionale del 2012 (dunque l'atto in base al quale si è potuta effettuare la ricognizione dei soci) era stato proprio il giudice Romano. Lui, peraltro, alla fine del 2016 non aveva approvato espressamente l'elenco degli iscritti: si era limitato a dire che l'istanza "appar[iva] legittimamente formulata", ma in seguito sarebbe stato possibile far valere ogni altra questione "in via contenziosa". E in effetti - salvo errore - gli atti dell'assemblea disposta dal giudice Romano e convocata da Luciani sarebbero ancora al centro di una causa civile, andata decisamente per le lunghe.
Naturalmente è possibile che quella causa si estingua o che si concluda a favore di Luciani. Resterebbe però la questione legata al valore delle sentenze del 2009 e del 2010, soprattutto nei confronti del Partito popolare italiano (ancora esistente sul piano giuridico, pur inattivo da molti anni). Perché quelle due pronunce dicono anche, a volerle leggere bene, che gli atti che hanno trasformato la Dc in Ppi erano viziati, ma non sono stati dichiarati nulli, anche perché il Ppi non era parte del processo in cui i giudici hanno rilevato quei vizi, quindi non si era nemmeno potuto difendere. Questo significa che i giudici hanno notato che quegli atti del 1994 erano viziati come passaggio intermedio per poter dire che nessuno tra i litiganti di quei processi (Cdu, Udc, Dc-Pizza, Dc-Sandri e altri) aveva titolo per dirsi titolare esclusivo del nome e del simbolo della Dc, ma quegli stessi atti sono ancora pienamente validi per il Ppi. Se volesse, dunque, il Ppi potrebbe ancora agire per difendere la titolarità di nome e simbolo. Lo farà? E, nel caso, a chi toccherà raccontarlo?

sabato 27 marzo 2021

Firme ed esenzioni: nulla cambia, ma si apre la via per i ricorsi pre-voto

Per il momento le regole sulla raccolta delle firme per le elezioni politiche e sull'esenzione da questa restano uguali (anche se qualche chiarimento importante, con possibili ricadute anche in materia di simboli, è arrivato). Ieri la Corte costituzionale ha pubblicato la sentenza n. 48/2021, con cui ha deciso le questioni di legittimità sollevate nella causa di accertamento dell'integrità del diritto di elettorato politico passivo promossa nel 2019 da Riccardo Magi e da +Europa: il giudice delle leggi doveva valutare l'eventuale incostituzionalità di alcuni passaggi del procedimento elettorale preparatorio, in particolare relativi alla raccolta delle firme a sostegno delle candidature e alle esenzioni da quell'onere. 
Se ci si limita al dispositivo della sentenza, si deve appunto dire che nulla è cambiato: alcune questioni sono state dichiarate infondate (quelle che puntavano a una riduzione a un quarto del numero delle sottoscrizioni da raccogliere), altre inammissibili (quelle sulla mancata estensione dell'esonero dalla raccolta firme). Guardando con più attenzione, in realtà, si scopre che qualche profilo di novità interessante questa sentenza lo presenta; conviene però percorrere con attenzione i vari passaggi della pronuncia.

Di cosa si discuteva

Vale innanzitutto la pena ricordare, sia pure in breve, su cosa era chiamata a decidere la Corte costituzionale. il 7 novembre 2019 Riccardo Magi e +Europa avevano presentato un ricorso contro il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministero dell'interno, chiedendo al Tribunale civile di Roma di accertare l'integrità del diritto di elettorato passivo (con riferimento alle prossime elezioni politiche, immaginando che si tengano con la legge ora in vigore), con particolare riguardo all'applicazione dell'art. 18-bis del testo unico per l'elezione della Camera (d.P.R. n. 361/1957, modificato nel 2017), che regola la raccolta delle sottoscrizioni a sostegno delle candidature e le esenzioni da tale onere; i ricorrenti dubitavano della costituzionalità della norma sotto vari profili. 
Il 1° settembre 2020 la giudice del Tribunale civile di Roma Carmen Bifano ha ritenuto che due di quei dubbi fossero "non manifestamente infondati", dunque li ha sottoposti alla Corte. Le questioni di legittimità costituzionale riguardavano i commi 1 e 2 dell'art. 18-bis del testo unico per l'elezione della Camera, potenzialmente in contrasto con gli artt. 1, comma 2; 3; 48, comma 2; 51, comma 1; 117, comma 1 Cost. (quest'ultimo con riferimento all'art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952).
Con riguardo al comma 1, la giudice sospettava che fosse incostituzionale nella parte in cui "richiede per la presentazione delle candidature per il rinnovo della Camera dei deputati un numero minimo di 1500 sottoscrizioni per ogni collegio plurinominale, ovvero di 1500 ridotto della metà in caso di scioglimento della Camera dei deputati che ne anticipi la scadenza di oltre centoventi giorni": tale scelta sarebbe stata irragionevole se confrontata alla riduzione a un quarto delle firme previste, operata nel 2013 e nel 2018 (come a dire che c'era stata la consapevolezza che sarebbe stato impossibile rispettare i requisiti ordinari per presentare le candidature). Quanto al comma 2, il vizio sarebbe stato nell'esentare dalla raccolta firme solo i partiti o gruppi che contavano su un gruppo dall'inizio della legislatura in entrambe le Camere e non anche in un solo ramo del Parlamento (come invece era stato previsto - sia pure con riferimento a una data precisa - per le prime elezioni successive al 2013, per cui il parametro per ritenere "seria" una candidatura era stato allora meno restrittivo). Per il Tribunale il problema non stava tanto nella richiesta di un numero consistente di firme o nella previsione di ipotesi di esonero dalle sottoscrizioni, ma nel "congiunto e concreto effetto di una pluralità di limiti all'esercizio del diritto di candidarsi" (tante firme da raccogliere in circoscrizioni ristrette e in pochi giorni; pochissimi partiti esonerati dalla raccolta, tra l'altro sulla base di norme contenute nei regolamenti parlamentari; incertezza dovuta a prassi deleterie per cui i requisiti in materia di firme ed esenzioni sono puntualmente resi più accessibili dalle forze presenti in Parlamento solo a ridosso dello scioglimento delle Camere) e tali effetti negativi sarebbero amplificati per le forze interessate a coalizzarsi, ma non esenti dalla raccolta firme.

venerdì 26 marzo 2021

Ancora Italia, un Dante tricolore per Vox Italia (dopo la scissione)

Se poche ore fa si è parlato delle pagine quasi dimenticate del Partito democratico di Romeo Piacenti che, nei primi anni di attività, schierava come proprio simbolo, il profilo di Dante Alighieri. Nell'anno in cui ricorrono i settecento anni dalla morte del poeta, però, era già stato lanciato nelle scorse settimane un altro progetto politico: per qualcuno è una novità, per altri l'evoluzione di qualcosa che già c'era, per altri ancora è frutto di una scissione - o, se si preferisce, di una separazione consensuale - appunto relativa a un progetto già esistente. La novità è rappresentata da Ancora Italia, soggetto politico che si pone come "maturazione" di Vox Italia, di cui ci si è già occupati in passato.
A dare notizia che qualcosa all'interno di quel soggetto politico era stato proprio Diego Fusaro, saggista, studioso di filosofia, già noto come "ideologo" di Vox Italia (anche se lui ha sempre tenuto a impiegare la denominazione "Vox Italiae") pur restando esterno al partito ("l'avevo chiarito fin dall'inizio con i fondatori, quando sono venuti a incontrarmi nel 2019: chi si dice insoddisfatto o deluso per il mio mancato ingresso diretto nell'agone politico, magari anche come candidato, si è erroneamente illuso perché io sono stato coerente"). In un filmato diffuso su YouTube il 23 febbraio Fusaro dava notizia di un'assemblea che si sarebbe (e si è effettivamente) svolta il 27 febbraio a Roma (alla presenza dei dirigenti del partito e con i militanti connessi a distanza): "è il segno che si sta crescendo, che si comincia a maturare, a prendere il mare aperto dopo un anno e mezzo di lavoro con zelo nel porto". 
Il primo simbolo di Vox
In questi mesi si sono aperti vari circoli di Vox Italia in gran parte del paese, raggiungendo - lo ha detto sempre Fusaro - i 3mila iscritti "pur avendo costantemente contro il circo mediatico e il clero giornalistico"; l'assemblea doveva servire appunto a fare ulteriori passi avanti, tra l'altro verso un congresso (magari da svolgere in primavera) che avrebbe dovuto rinnovare l'ufficio di presidenza. Quell'assemblea, però, serviva anche e soprattutto per presentare il nuovo nome e il nuovo simbolo del soggetto che fino a quel momento si è chiamato Vox Italia. 
Pur mantenendo ferma l'identità politica e soprattutto la personalità giuridica - cosa su cui Fusaro ha insistito molto, richiamando la delibera firmata pochi giorni prima dai tre membri (uscenti) dell'ufficio di presidenza (il segretario Giuseppe Sottile, il tesoriere Marco Pipino e il presidente Francesco Toscano, fondatori del partito) - la denominazione, com'è detto, sarebbe diventata Ancora Italia, mentre il simbolo, oltre a riportare il nome in grande evidenza il nuovo nome (e, al di sotto, in un segmento blu, la dicitura "per la Sovranità democratica"), avrebbe incluso "la figura stilizzata di Dante Alighieri con i tre colori della bandiera italiana", come si legge nello statuto che sarà approvato nell'assemblea del 2-3 aprile convocata anche per l'approvazione dei documenti economico-finanziari del partito. Proprio nel #Dantedì di ieri, sulla pagina Facebook di Ancora Italia si è illustrata la scelta del simbolo: "Oggi è la giornata dedicata a Dante Alighieri. Noi di "Ancora Italia" abbiamo scelto di consacrare a lui, con devozione e rispetto, il nostro simbolo. Siamo infatti convinti che solo dalla grande cultura italiana, di cui Dante è somma espressione, si possano creare davvero le condizioni per una rinascenza della Patria. Il sommo poeta ci ha magnificamente ricordato che non siamo stati creati per vivere come bruti, come cioè il neoliberismo vorrebbe che vivessimo: siamo, invece, stati creati per seguire la virtù e la conoscenza, cioè per diventare esseri umani in senso pieno, creando una società all'altezza di questo fondamentale compito".
Cos'ha portato a quei cambiamenti? "Il nome 'Vox Italia' - ha detto sempre Fusaro - era sicuramente suggestivo e seducente, ma al tempo stesso problematico: in Spagna c'è un altro movimento politico che ha scelto di chiamarsi Vox ed è sideralmente distante dalla visione del mondo che difendiamo, un partito che si iscrive nell'ordine della destra liberista e che poco o nulla ha a che vedere con la nostra concezione saldamente democratica e socialista. Ci è parso dunque di grande importanza mutare il nome: quando si cresce occorre fare chiarezza, fare un salto di qualità, trovando un nome che non ci ponga in ogni volta in condizione di debolezza e ci costringa a spiegare chi siamo e chi non siamo". 
Al di là di questo, è stato lo stesso Fusaro a richiamare due ragioni per il cambio di nome (ma non di rotta): un dissidio all'interno dell'ufficio di presidenza e, soprattutto, differenze di visione maturate nel corso del tempo e del processo di maturazione. Avrebbero dunque preso forma, abbastanza presto in realtà, due diverse prospettive  "ugualmente legittime e degne", legate anche al fatto che il progetto sarebbe cresciuto "troppo in fretta". Ha scomodato Hegel e la sua Fenomenologia dello spirito per spiegare cosa fosse accaduto in Vox: "Un partito si rivela dunque vincitore solo perché si scinde a sua volta in due partiti: così infatti esso mostra di possedere in se stesso il principio che prima combatteva e di avere quindi rimosso l'unilateralità che lo caratterizzava all'inizio". Il primo "partito" è stato definito da Fusaro "elettorale" ed è quello che vorrebbe massimizzare sul piano elettorale gli sforzi nell'immediato, credendo che la situazione di emergenza che si vive non conceda tempo per le lungaggini culturali e organizzative, essendo necessario solo tradurli in piazze mobilitate e partecipazione elettorale "con tutti coloro i quali hanno una visione grossomodo simile a quella di Vox, anche a costo di perdere parte dell'identità pur di portare a casa il risultato della sovranità monetaria". Il secondo partito - quello cui lo stesso Fusaro si sente più vicino - è invece quello "culturale", che ritiene indispensabile un'organizzazione spirituale e culturale: essa richiede un lavoro paziente, un progetto "che senza fretta si sviluppi molecolarmente nel tempo e cresca egemonizzando uno spazio politico e dialogando con le forze politiche "di area", che ritengono imprescindibile la sovranità nazionale per la democrazia e per i diritti sociali".
Il conflitto tra le due correnti ha portato a separare le proprie strade: chi ha scelto la strada dell'impegno innanzitutto culturale, a partire da Fusaro ("Senza una teoria rivoluzionaria difficilmente si può avere un partito rivoluzionario") e dal presidente Francesco Toscano, ha conservato la continuità giuridica del partito (e il codice fiscale) ma ha scelto un nome e un simbolo diversi, meno "problematici" e più consoni al meglio precisato corso, quello del "Pensare altrimenti". Chi invece ha preferito concentrarsi sulla via elettorale e di un "agire altrimenti" ha mantenuto - evidentemente in base a un accordo tra i fondatori, rendendo possibile ciò che non potrebbe mai accadere secondo le norme civilistiche - il nome Vox Italia, gli account dei social network e anche il vecchio simbolo, sia pure leggermente aggiornato (al di sotto è comparsa la dicitura "Costituzione e futuro"), pur avendo formalmente la necessità di costituire un soggetto giuridico nuovo e autonomo. Si tratterebbe, come comunicato da esponenti di quella linea, di "oltre i due terzi dei dirigenti nazionali e regionali e due dei tre soci fondatori", cioè Giuseppe Sottile e Marco Pipino; tra gli altri nomi rilevano - per chi frequenta questo sito - soprattutto quelli di Marco Mori, già leader di Riscossa Italia, Orlando Iannotti, tra i riferimenti dei Forconi, e Sabrina Banzato, già candidata alla presidenza della Regione Marche per Vox. Per la separazione occorrerà attendere l'assemblea del 2-3 aprile di Vox Italia, che muterà il nome in Ancora Italia e approverà il nuovo statuto e i rendiconti; a quel punto potrà costituirsi una nuova associazione, con nuovo statuto ma mantenendo nome, simbolo e programma. 
"L'emergenza di questo paese - si legge in un post sulla pagina Facebook di Vox Italia - ci impone di agire pacificamente ma con urgenza ed immediatezza nella costruzione del fronte unico più grande per l'uscita dall'Euro e dall'Unione Europea, che è anche il primo punto del programma di Vox Italia. In una parola l'emergenza di questo paese ci impone azioni coerenti con i nostri obiettivi. Ogni altra forma del dissenso del pensiero che non si traduca in azione, oggi risulta oramai sterile, fine a sé stessa, fuori tempo massimo, se non la forma più raffinata di gate-keeping". Un altro post, di inizio marzo, chiarisce ancora meglio la questione: "Secondo un antico procedimento per separare il grano dalla paglia, dopo la battitura, bisognava attendere che l’aria si muovesse. Allora il contadino lanciava in aria le spighe e il vento separava il grano, facendo volare via la paglia. É quello che é avvenuto in Vox Italia. Abbiamo separato il grano dalla paglia. In un momento così buio abbiamo bisogno di valorosi, di operai, di uomini liberi, generosi e altruisti".
Le due linee emerse, peraltro, si traducono anche nella scelta di guardare a forze politiche diverse: se il soggetto nascente che manterrà il nome Vox Italia, "in nome di ciò che 'accomuna' tutte le componenti della stessa 'galassia', ovvero la sovranità politica, monetaria e costituzionale", ritiene "imprescindibile l'unione di tutte le nascenti forze sovraniste presenti sul campo, a partire da quelle (come ItalExit di Gianluigi Paragone) che abbiano concrete probabilità di uscire dall'irrilevanza e svolgere un ruolo parlamentare effettivo"; si è già detto invece della propensione per le forze propugnatrici di una "sovranità democratica e socialista" della linea "culturale" che si chiamerà Ancora Italia.
Le prossime settimane serviranno a capire come evolverà questa "distinzione" e se ci saranno altri aggiustamenti simbolici; per il momento si registra il ritorno di Dante in politica (dopo il Pd "piacentiano"). Con la certezza che l'Italia che il rinnovato soggetto politico auspica è ben lontana dal laio "Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!" tratto dal VI canto del Purgatorio della Commedia. E forse, ironia della sorte, nessuna delle due anime che si trovavano in Vox Italia vuole quell'esito; su come evitare di arrivarci, però, la pensano diversamente.

giovedì 25 marzo 2021

Quando Dante divenne il simbolo del Partito democratico (di Piacenti)

Come da copione, il "Dantedì" è riuscito ancora una volta ad attirare l'attenzione - almeno per qualche manciata di ore - sulla figura di Dante Alighieri, tanto più nell'anno in cui si ricordano i sette secoli trascorsi dalla morte del poeta. Eppure, al di là delle rime, delle strofe, di fieri pasti, virtute-e-canoscenza e riveder-le-stelle, a qualche appartenente alla categoria del #drogatidipolitica è riaffiorata inesorabile una domanda. E non riguarda tanto la carriera politica di "Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante" (come forse oggi lo si dovrebbe indicare sui manifesti e sui documenti delle candidature), quanto una sua apparizione poco nota nella politica italiana del Novecento: ma quella volta in cui Dante si è fatto votare in Emilia-Romagna?. Già, perché per almeno due volte, alle elezioni politiche, gli elettori emiliano-romagnoli sulle schede trovarono il profilo del "Sommo Poeta", con tanto di cappuccio e serto d'alloro.
Quel simbolo fece la sua prima comparsa ufficiale nel 1976, alle elezioni politiche: nella sola circoscrizione Emilia-Romagna al Senato, unicamente nella circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì alla Camera. Si trattava, probabilmente, degli unici territori in cui l'ideatore di quel progetto politico, Romeo Piacenti - nato a Gaggio Montano, in provincia di Bologna, il 30 settembre 1923 - era riuscito a raccogliere le firme necessarie per partecipare alla consultazione elettorale. Alla Camera arrivarono 2797 voti (lo 0,12% nella circoscrizione, lo 0,01% a livello nazionale), mentre al Senato di schede votate per Dante se ne raccolsero 3074 (grazie alla presenza in tutta la regione, così da colmare anche gli eventuali voti dei minori di 25 anni venuti meno: a livello regionale e nazionale le percentuali erano esattamente le stesse, 0,12% e 0,01%). Le persone candidate erano sempre le stesse: Piacenti, Romano Fabbri (nato a Porretta Terme il 28 ottobre 1937), Maria Bastoni, Giuseppe Dolfin, Alfredo Genazzano, Bianca Pasqualini Mariotti e Giuliano Lapillo era la squadra su cui Dante poteva contare per la sua prima avventura elettorale.
Non è dato sapere per quale motivo Piacenti avesse scelto il profilo di Dante (forse per la sua capacità di rappresentare l'Italia e per la tendenza a considerarlo un "moderato", per aver parteggiato per i guelfi bianchi), anche se nel 1983, quando il simbolo venne depositato al Viminale in occasione delle elezioni politiche, la redazione romana della Stampa scrisse che "il simbolo, non si capisce bene, forse è Dante o forse è Petrarca" (tradizionalmente incoronato d'alloro sopra il cappuccio proprio come Alighieri); già, perché nei corridoi del Ministero dell'interno il simbolo "dantesco" sarebbe apparso per lungo tempo. Anzi, a dire il vero per la prima volta era comparso nel 1972, esattamente identico a quello che sarebbe finito sulle schede quattro anni dopo. Profilo di Dante piuttosto severo, il nome molto piccolo al di sotto e, di fianco, le iniziali P e D puntate e rese in modo decisamente geometrico.
Nel 1979 Piacenti ritentò con il suo progetto elettorale, sperando di avere qualche chance in più per spiegarlo e farlo conoscere: per l'occasione fece qualche ritocco al simbolo, lasciando quasi intatto il profilo di Dante (ma schiarendo in modo piuttosto artigianale il collo della tunica), rendendo più visibile il nome della lista (spostandolo in alto e disponendolo ad arco) e portando le lettere della sigla sotto al volto di Dante (stavolta rimpicciolendole e rendendole più regolari, meno "artigianali"). Mise in campo lo stesso sforzo umano del 1976, raccogliendo le firme nelle medesime circoscrizioni e addirittura candidando le stesse persone, senza nessun cambiamento. Nella stessa circoscrizione della Camera in cui si era presentato tre anni prima arrivarono 3108 voti, pari allo 0,19%: un po' meglio del 1976, ma insufficienti per schiodarsi dalla posizione di lista meno votata (e dallo 0,01% a livello nazionale). Anche al Senato i voti aumentarono, diventando 3748, pari allo 0,15%, ma i simboli del Partito democratico rimasero i meno votati nella circoscrizione emiliano-romagnola. 
Nel frattempo si era cominciato a votare anche per il consiglio regionale: se nel 1970 e nel 1975 Piacenti non aveva partecipato, nel 1980 era ben deciso a farlo. Anche in quell'anno, ovviamente, c'era il problema delle firme, ma era anche spuntata una soluzione: da tempo, infatti, Roberto Gremmo e Roberto Bernardelli erano riusciti a stabilire buoni rapporti con l'associazione Lista per Trieste (nota come "lista del Melone") guidata da Manlio Cecovini e questa, dopo l'elezione alla camera di Aurelia Gruber Benco nel 1979, era in grado di presentare liste senza raccogliere firme e di estendere il beneficio alle formazioni che avessero presentato candidature insieme a questa. In quel 1980, dunque, i triestini si dichiararono disposti a esentare dalle sottoscrizioni liste autonomiste (come quelle di Gremmo) e pure altri progetti di respiro soprattutto locale. Quello di Piacenti era proprio tra questi: in quelle condizioni, avrebbe provato a presentarsi in tutta l'Emilia-Romagna e anche un po' più in là: persino alle elezioni in Toscana, nella sola circoscrizione di Pistoia, il simbolo finì sulle schede. Si trattava di una versione ancora diversa rispetto all'anno precedente: gli elettori videro una "bicicletta", con la "ruota destra" triestina e quella sinistra con il volto di Dante, circondato dalle espressioni "Democrazia diretta", "Autonomia" ed "Ecologia". Niente "Partito democratico" stavolta, chissà perché; in tutta la regione arrivarono 2396 voti, pari allo 0,08%; a Pistoia, per il suo sbarco, il simbolo ottenne 221 voti (0,12% a livello circoscrizionale, il solito 0,01% a livello regionale).
Il rapporto stretto con il "melone" non terminò con quell'esperienza: nel 1983 Piacenti si ritrovò candidato direttamente per la Lista per Trieste con Fabbri e altri, sotto un simbolo che non corrispondeva proprio all'orizzonte spaziale del fondatore di quel Partito democratico. Erano stati depositati comunque il simbolo del 1979 e quello con il nome più complesso intravisto alle regionali, ma probabilmente allora Piacenti preferì non impegnarsi nella raccolta firme. Quella volta, in compenso, nella solita circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì alla Camera la Lista per Trieste ottenne solo 1200 voti, meno della metà di quanto ottenuto nel 1979 (al Senato i voti furono ancora meno e non andò meglio nella circoscrizione delle Marche), segno che la lista era assai meno riconoscibile da quelle parti rispetto al volto di Dante.
Alle elezioni europee del 1984 Piacenti depositò comunque l'emblema del 1979, pur senza impegnarsi a farlo finire sulle schede. Fu però l'ultima volta, perché dal 1987 il Partito democratico made in Bononia conobbe una prima rivoluzione grafica: l'immagine di Dante Alighieri fu sostituita con un enorme quadrifoglio e, all'occorrenza, alla denominazione ufficiale fu affiancato un riferimento ai "pensionati" (con la minuscola perché non si trattava ancora del futuro Partito pensionati). In ogni caso, Piacenti venne candidato proprio nelle liste della Liga Veneta - Pensionati uniti, stavolta nella circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia, prendendo 40 voti.
A dire il vero, la svolta era già stata anticipata nel 1985, quando alle regionali Piacenti aveva presentato varie liste del Partito democratico in diverse regioni, stavolta utilizzando l'esenzione dell'Union Valdôtaine - non si sa come, vista la scarsa propensione del partito, dopo la morte di Bruno Salvadori, a collaborare con altri progetti politici - per presentare una sorta di cartello elettorale autoprodotto. Il quadrifoglio era lo stesso che si sarebbe visto in seguito e, oltre a contenere la "pulce" dell'Uv, c'era anche la sigla del "P.D." ultima maniera; le altre due "foglie" erano occupate da due misteriosi simboli della galassia "piacentiana". Né il nome ufficiale delle liste aiuta a capire meglio: Union Valdôtaine-Partito Democratico-Upap-Ecologia (Upap potrebbe essere la sigla di Unione pensionati - Alleanza pensionati, ma non c'è da esserne certi). In Emilia-Romagna, peraltro, peggio del Partito democratico (4815 voti, 0,16%) fece il Partito nazionale pensionati, con meno della metà dei consensi. 
Piacenti sarebbe ritornato alla sua precedente circoscrizione (più romagnola che emiliana) nel 1992, candidato questa volta - e di nuovo con Fabbri - nella sua lista Movimento europeo automobilisti, dal simbolo decisamente artigianale (così com'era artigianale la variante presentata per il solo Senato, ma non utilizzata, che al posto dell'automobile inseriva addirittura il cavallino rampante passato da Francesco Baracca alla Ferrari); nella circoscrizione arrivarono 2107 voti (0,12%). Nelle bacheche del Viminale finì comunque anche il simbolo del Partito democratico - Pensionati con il quadrifoglio, benché non sia stato usato nemmeno in quell'occasione (avendo corso dunque solo alle regionali del 1985). Nel frattempo, Piacenti aveva lavorato a un progetto di Superlega, a una divisione dell'Italia in tre dipartimenti (già teorizzata nel 1987 e arrivata ben prima del pensiero di Gianfranco Miglio) e a una marea di altre aggregazioni politiche e sociali, che meriterebbero più spazio altrove.
Tempo due anni e Romeo Piacenti cambiò di nuovo orizzonte grafico alla sua creatura: nel 1994 convertì anche il Partito democratico al colore, rimpicciolendo di molto il quadrifoglio (ora verde su fondo giallo) e aggiungendo l'immagine di un asinello scalciante nella parte inferiore del simbolo, guardando ovviamente alla politica statunitense. Con quell'emblema Piacenti si candidò alle elezioni politiche (indimenticabile una sua partecipazione all'appello al voto di Tribuna elettorale sulla Rai - ancora rintracciabile su Radio Radicale - in cui comunicava di "aver impartito ai vicepresidenti nazionali del mio partito, residenti negli Stati Uniti d'America, di attivare quanto necessario per informare personalmente il presidente degli Stati Uniti d'America Bill Clinton e il presidente delle Nazioni Unite sulle discriminazioni elettorali attuata contro il Partito democratico") e, nella circoscrizione Emilia-Romagna alla Camera, ottenne 7675 voti (0,25%), ma al Senato i voti lievitarono a 37533 (1,41%).
Quella, a quanto consta, fu l'ultima partecipazione elettorale diretta di Piacenti, che però non smise di frequentare il Viminale anche solo per il deposito dei simboli. Tanto per dire, la prese male - anzi, malissimo - quando nel 1999 alle europee Romano Prodi e Arturo Parisi misero in piedi il progetto dei Democratici, utilizzando proprio l'asinello (sia pure nel disegno differente di Francesco Cardinali): per l'occasione depositò di nuovo il simbolo, ma rimpicciolendo il quadrifoglio e ingrandendo l'asinello, giusto per mettere in chiaro che lui era arrivato prima (anche se non avrebbe poi presentato alcuna lista, visto che la raccolta delle firme per le elezioni europee era già allora proibitiva; meglio, le avrebbe presentate senza firme, vedendosele bocciare); tentò anche di opporsi all'ammissione del contrassegno prodiano, ma senza successo.
Il simbolo (ormai senza più quadrifoglio) sarebbe comparso nelle bacheche del Viminale ancora nel 2001 e nel 2004, poi non se n'è più avuto notizia; da allora non si sa più nulla dello stesso Piacenti, deceduto ma non è dato sapere quando. A vedere la storia elettorale del suo Partito democratico viene in mente, almeno in parte, quella vecchia battuta di Roberto Benigni, ripetuta da lui anche una manciata di ore fa al Quirinale: "Dante ha fatto il politico per tanto tempo, è stato prima nei guelfi, poi quando i guelfi son diventati bianchi e neri è diventato guelfo bianco, ha cambiato opinione. Poi lo hanno esiliato, ingiustamente condannato, ed è diventato ghibellino [...]. Alla fine non ne poteva più, non si fidava più di nessuno e ha detto 'basta con la politica, faccio parte per me stesso' e ha fatto un partito in cui c'era solo lui, 'Per Dante', Pd. Non vinse mai". Un regalo, in compenso, lo ha fatto a tutti i #drogatidipolitica (che sarebbero felici di possedere l'intera collezione dei suoi simboli, da quelli effimeri a quelli duraturi): fu proprio Piacenti, nel 1994 - esattamente il 25 aprile - mentre era in fila al Viminale, a trasformare Mirella Cece nella presidente del Sacro romano impero cattolico. Ma questa, ovviamente, è un'altra storia.

mercoledì 24 marzo 2021

Europeisti, un simbolo poco noto (che rischia di sparire presto)

L'articolo 15 del regolamento del Senato prevede, al comma 3-bis, che ogni gruppo parlamentare debba dotarsi di un proprio regolamento (approvato dall'assemblea di tutti i membri del gruppo), mentre il successivo comma 3-quater aggiunge che le informazioni relative a "ciascun posto di lavoro alle dipendenze del Gruppo" devono essere pubblicate e liberamente consultabili "on line, nel sito internet del Gruppo". Ciò significa, "in soldoni", che ogni gruppo deve avere un proprio sito internet, raggiungibile (anche) attraverso il sito del Senato. Naturalmente lo stesso regolamento non prevede anche l'obbligo per ciascun gruppo di avere un proprio simbolo, anche se di norma il problema non si pone: se le norme che prevedono l'articolazione dell'assemblea in gruppi sono figlie dell'avvento (oltre cent'anni fa, per la Camera) della prima legge elettorale proporzionale a scrutinio di lista e del "riconoscimento" dei partiti, è normale che al gruppo corrisponda il simbolo del partito di riferimento; non è nemmeno raro che possano corrispondere più simboli, qualora il gruppo sia stato costituito unendo le compagini parlamentari di diversi partiti, ognuno con il proprio emblema. In passato, in realtà, è capitato che nascessero gruppi non legati a emblemi di partito (si pensi ai gruppi della Sinistra indipendente, i cui membri erano stati tutti eletti nelle liste del Partito comunista italiano), oppure che esistessero i simboli delle singole realtà presenti in un gruppo, ma mancasse un emblema relativo al nome che il gruppo stesso aveva scelto come denominazione "collettiva" (si pensi ai casi di 
Iniziativa responsabile, poi Popolo e territorio  e di Coesione nazionale nella XVI Legislatura, nonché di Gal - Grandi autonomie e libertà nella XVII Legislatura).
Non è dunque prescritto, né scontato che un gruppo parlamentare (al Senato come alla Camera) abbia un proprio simbolo, anche identico a quello dell'eventuale partito di riferimento o autonomo da questo. Con una visitina ai siti, tuttavia, si possono avere delle sorprese, in particolare sbirciando nel sito del gruppo Europeisti - Maie - Centro democratico. Non appena si viene condotti nel sito https://europeistimaiecd.it, creato alla fine di gennaio, appare infatti subito un simbolo tanto prevedibile quanto sorprendente sotto diversi aspetti. L'elemento più prevedibile, in base al nome scelto, è il fondo blu con le dodici stelle gialle in cerchio della bandiera dell'Unione Europea, così come è gialla la parola "Europeisti", che campeggia in orizzontale poco sopra il diametro del cerchio. 
Non sorprende nemmeno che il simbolo contenga riferimenti - peraltro scritti in carattere piccolissimo - al Movimento associativo italiani all'estero e a Centro democratico, dal momento che proprio grazie a una di queste due formazioni (o a entrambe, ciascuna per la propria parte) il gruppo si è potuto costituire, in base al nuovo testo del regolamento del Senato. Semmai, può stupire un po' di più il fatto che entrambe le forze politiche, a dispetto del loro ruolo significativo nella genesi del gruppo, non abbiano inserito la "pulce" del loro simbolo all'interno dell'emblema di gruppo, anche solo per una questione di visibilità (è vero che il blu-Europa del fondo ricorda un po' i colori del Maie, ma è difficile che sia questo accostamento a venire in mente). La riflessione viene spontanea, se si considera - e qui c'è un altro profilo di sorpresa - che la parte inferiore del simbolo contiene un tricolore in tre puntini: non si tratta ovviamente di una mera citazione della bandiera italiana, ma di un riferimento grafico a Italia23, associazione e progetto politico - e magari pure elettorale, in futuro - rivendicato da Gianfranco Rotondi e guidato da Raffaele Fantetti, presidente del gruppo parlamentare (anche il sito internet dell'associazione Italia23, di cui si può leggere lo statuto, nella grafica somiglia molto a quello, decisamente successivo, degli Europeisti). Ci sono dunque due soggetti politici citati con il loro nome (riconoscibili ma non troppo visibili) e ce n'è uno citato solo in grafica, ma senza il nome: questo potrebbe rendere almeno riconoscibile l'associazione di Fantetti, ma ciò è opinabile visto che sono in pochi a riconoscere quella grafica, quindi sarebbe stato forse più utile citare il nome per ottenere visibilità (al momento, dunque, l'inserimento dei tre puntini sembra più un vezzo, per alludere a un progetto senza citarlo espressamente).
Questo simbolo, dunque, è assai poco noto, ma rischia di restare tale e pure di avere vita breve. Giusto ieri, infatti, attraverso l'Ansa (che a sua volta cita "fonti parlamentari"), si è appreso che la senatrice Tatiana Rojc si appresta a tornare nel gruppo del Pd, lasciato a gennaio espressamente per consentire al gruppo Europeisti - Maie - Centro democratico di raggiungere la consistenza minima di dieci membri (una scelta compiuta "in zona Cesarini", come dimostra l'aggiunta a penna sul foglio con cui si era annunciata la nascita del gruppo, tra l'altro nell'unica riga lasciata vuota a metà dell'elenco, proprio nella posizione che secondo l'ordine alfabetico sarebbe toccata ad Alessandrina Lonardo in Mastella). "La mia casa è il Pd e infatti sono qua per sostenere non solo il segretario ma anche tutto il gruppo dei senatori. Mi riconosco in questo contesto", ha detto Rojc ad Ansa, ma la legge dei numeri è dura: dieci erano i membri del gruppo all'epoca della costituzione e dieci sono tuttora, senza alcun'aggiunta. Ciò significa che, qualora Rojc tornasse nel gruppo del Pd, il gruppo degli Europeisti scenderebbe sotto la soglia minima e, a norma dell'art. 14, comma 6 del regolamento del Senato, il gruppo dovrebbe automaticamente essere dichiarato sciolto e i suoi membri avrebbero tre giorni di tempo per dichiarare il loro gruppo di approdo, venendo in alternativa iscritti d'ufficio al gruppo misto. Se fosse così e, nel frattempo, non si aggiungesse nessuno a quel gruppo, si sarebbe di fronte a una delle vite più brevi per un'articolazione parlamentare e per il suo simbolo, già peraltro poco noto di per sé.

martedì 23 marzo 2021

Italia Più 2050, nuovo nome e simbolo (non nuovo) per il post M5S?

Che sia pronto il nuovo simbolo per il nuovo progetto legato al MoVimento 5 Stelle? Questo si intende leggendo l'articolo pubblicato oggi sul Riformista a firma di Claudia Fusani, in cui si annuncia la nascita del "Movimento contista", come è scritto in prima pagina. Un progetto denominato Italia Più 2050, che avrebbe dovuto "
essere presentato entro l’inizio di primavera (21 marzo) ma il dinamismo del quadro politico dove tutto sta cambiando, implodendo e rinascendo alla velocità della luce ma nulla è ancora definitivo, ha suggerito di rinviare a dopo Pasqua". L'articolo di Fusani parla di un "documento di due pagine", che peraltro ora si può leggere anche al sito www.italiapiu2050.it:  "uno schema molto sintetico, e quindi divulgativo, di quello che dovrebbe essere il nuovo Movimento".
Il nucleo è rappresentato dalle seguenti frasi:
Siamo consapevoli che in seguito alla crisi pandemica del 2020/2021 esisterà un mondo di prima e un mondo di dopoItalia Più 2050 vuole servire da strumento per costruire il mondo di dopoVogliamo fare del nostro meglio per portare a compimento la transizione mite e coraggiosa inaugurata in Italia con l’istituzione del Ministero della Transizione Ecologica. Il primo passo per realizzare questo obiettivo, è quello di lavorare ad una ritrovata unità tra tutti i corpi intermedi della società. Per far questo è necessaria un'organizzazione democratica che, animata da idee lungimiranti, sia capace di veicolare messaggi chiari con l’ambizione di dare voce alle esigenze di tutti i cittadini, grazie ad una struttura capillare diffusa su tutto il territorio nazionale.
La parola "partito" non c'è, anche se il corpo intermedio per eccellenza, come "organizzazione democratica" in grado di "dare voce alle esigenze di tutti i cittadini" (tutti quelli che vi si riconoscono, ovviamente) e con una "struttura capillare" in tutto il territorio nazionale, è proprio il partito. Quella parola evidentemente è ritenuta scomoda, ma se così fosse non ci sarebbe da scandalizzarsi: chi ha dato luogo a questo progetto è certamente in ampia compagnia (in fondo a utilizzare la parola "Partito" nel loro nome, all'interno delle Camere, sono solo il Pd, il Psi, Psd'az, la Svp e il Patt). Se per i promotori di Italia Più 2050 "è giunto il momento di andare lontano" (no, niente Claudio Baglioni, niente Luca Carboni: non è il momento...), è intanto il caso di iniziare a farlo, senza formalizzarsi sull'etichetta dello strumento da utilizzare. Anche perché c'è molto da fare: Italia Più 2050, che si qualifica come "associazione culturale di promozione sociale", ha l'ambizione di "promuovere la transizione ecologica e lo sviluppo sostenibile in Italia", volendo contribuire a "correggere il nostro sistema sociale ed economico per creare e donare un futuro sostenibile alle prossime generazioni sul nostro buon pianeta". Ci si dovrebbe riuscire con i dodici punti dello schema di programma inserito nel documento-manifesto: 
Transizione Ecologica. Più benessere per il pianeta significa più benessere per le persone. 
Salute integrale. Più benessere fisico e mentale. Più assistenza socio-sanitaria di prossimità sui territori, più sport e prevenzione. 
Imprese e Fisco. Più incentivi per le imprese e la crescita sostenibile. Più equità fiscale: pagare tutti per pagare meno. 
Lavoro. Più occupazione: lavorare meno per lavorare tutti. 
Giovani e Famiglia. Più opportunità per sviluppare i propri talenti. Più contributi ed agevolazioni economiche alla nascita.  
Diritti e Parità di genere. Più giustizia sociale per le categorie deboli. Più investimenti per l’equiparazione salariale di genere. 
Sicurezza e Territori. Più legalità significa rispetto tra e per le persone. Più investimenti per la lotta alle mafie, alla corruzione e alla criminalità. Più vicinanza e fiducia  tra cittadini e Istituzioni. 
Giustizia. Più rapidità e tempi certi per i processi. 
Innovazione. Più semplice il rapporto tra Stato e cittadini grazie alla digitalizzazione. 
Trasporti. Più mobilità e infrastrutture sostenibili. 
Formazione permanente. Più educazione e apprendimento integrato di qualità. 
Unione Europea. Più unione dei popoli: Costituzione Europea, potestà legislativa al Parlamento Europeo, riforma dello Statuto della BCE.
Non è difficile vedere che il concetto chiave di tutto è quel "Più" che torna continuamente: evidentemente chi ha promosso il progetto ha scelto di puntare su quello (anche se ultimamente le vicende occorse a +Europa non suggeriscono particolare fortuna a quel brand), oltre che sull'orizzonte del 2050 ricordato in modo ciclico da Beppe Grillo in questo periodo (e alla base della richiesta di istituire il ministero della transizione ecologica e del sostegno ufficiale del M5S al governo guidato da Mario Draghi). 
Già, ma il simbolo? Nel documento-manifesto si trova solo una grafica orizzontale, che però è stata anche preparata in forma circolare e - soprattutto - depositata come marchio il 17 marzo scorso. La descrizione lì indicata è decisamente molto articolata: 
Logo circolare a fondo verde pieno, con un contorno concentrico di colore bianco. Nella parte superiore del circolo, creato dal contorno concentrico di colore bianco, che mantiene lo sfondo verde pieno, è presente la parola “Italia” di colore bianco vivo, centrata, in stampatello. Nella parte centrale del circolo, creato da contorno concentrico di colore bianco, che mantiene lo sfondo verde pieno, è presente la parola "Più" di colore giallo ocra, in corsivo. Sulla "i" della parola "Più" è presente al posto del puntino sulla "i" una piccola stella a cinque punte del medesimo colore giallo ocra. La parte inferiore è staccata da una banda tricolore ondulata (verde, bianca e rossa). Nella parte inferiore rimanente del circolo, creato dal contorno concentrico bianco e dalla banda tricolore, lo sfondo diventa celeste e vi è l’iscrizione "2050" di colore bianco pieno, centrata.
Il verde dunque è il colore dominante; nella parte superiore sono contenute due parole del nome su tre, con la parola "Italia" in bianco (praticamente identica a quella già impiegata da Scelta civica per l'Italia) e "Più" come solo elemento giallo rimasto; unico altro debole collegamento con il passato è la sola stella che sostituisce il puntino della "i" di "Più". Una lieve striscia tricolore lievemente ondeggiante - il cui verde si confonde con la sezione verde del simbolo - separa il segmento inferiore azzurro (che contiene il riferimento al 2050 ispirato da Grillo) dal resto del cerchio. 
Il segno distintivo è stato depositato per le categorie 16 (carta, stampati, articoli da ufficio e da imballaggi), 35 (pubblicità), 38 (telecomunicazioni), 41 (educazione, formazione, divertimento, attività sportive e culturali), 42 (servizi scientifici, tecnologici e di ricerca) e la classica 45 (servizi giuridici, servizi di sicurezza, servizi personali e sociali). Ma chi è stato a presentare la domanda di marchio? Richiedente risulta essere Parole Guerriere Italia, cioè "il think tank animato dalla deputata M5S e sottosegretaria al Sud Dalila Nesci", come si legge in un articolo della Repubblica.it che a sua volta cita un lancio di Adnkronos. Difatti nella pagina Facebook di Italia Più 2050 si legge:
Italia Più 2050 è la naturale evoluzione del think-tank #ParoleGuerriere e si muoverà nel solco tracciato da Beppe Grillo per il Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte. È un’associazione culturale che ha organizzato, dal 2017, decine di incontri di approfondimento: a Montecitorio, nelle regioni, in rete. Oggi, ispirati dalla visione che guarda al 2050 ci apriamo alla società civile, ai giovani e al futuro post pandemia. Obiettivo formazione e confronto, per mettere radici sui territori. Ecco la nostra mano tesa per promuovere la transizione ecologica e lo sviluppo sostenibile in Italia.

A quell'associazione, sempre secondo Adnkronos, farebbero riferimento "circa 40 parlamentari del Movimento 5 Stelle". Si vedrà prossimamente se in effetti il simbolo sarà utilizzato in ambito politico, se servirà per una semplice associazione o se mirerà a qualcosa di più. Nel frattempo, però, ci si può domandare se coloro che hanno commissionato e fatto produrre il simbolo in questione abbiano fatto verificare l'assenza di emblemi già depositati, simili anche solo in base al nome. Perché Italia più come marchio era già stato depositato come marchio nel 2012 e proprio in ambito politico: il richiedente era infatti Antonio De Poli, tra le principali figure dell'Udc e verosimilmente depositante in nome dello stesso partito, tanto di questo emblema quanto di Più Italia (e di Più Veneto e Veneto Più), sempre con l'accento verde creato dalla piega di un nastro tricolore. Ovviamente non è detto che De Poli abbia l'intenzione di lamentarsi per quest'uso, anche perché la domanda di registrazione del marchio fu respinta (forse per la contemporaneità del fine politico e della forma circolare, oggetto di un parere negativo sulla registrazione come marchio da parte della Direzione centrale dei servizi elettorali del Ministero dell'interno). C'è tempo, in ogni caso, per vedere come andrà a finire, anche se nome e simboli non sono proprio nuovi.

venerdì 19 marzo 2021

Sinistra d'Azione, la spada azionista fiammeggia di nuovo

Una legge non scritta prevede che sui contrassegni elettorali tendenzialmente non sia concessa la presenza di armi, poiché la legge prevede che all'interno del seggio "È assolutamente vietato portare armi o strumenti atti ad offendere" (art. 43 del testo unico per l'elezione della Camera). Posto che ci sono state eccezioni, anche significative (almeno tra gli emblemi depositati al Viminale e ammessi), a parte gli scudi - crociati e non, in ogni caso nati per difendere - si salvano le spade, soprattutto delle statue (Alberto da Giussano, ma non solo), così come a suo tempo si era salvata la spada fiammeggiante del Partito d'azione. Questa - già legata, com'è noto, al movimento politico Giustizia e Libertà e alle omonime brigate partigiane - era finita sulle schede delle elezioni del 1946, ma non aveva vissuto a sufficienza per arrivare a quelle del 1948. 
Dall'inizio del 2013, tuttavia, quella spada così caratteristica è tornata su un emblema, per ora non finito sulle schede ma non meno esistente: quello della Sinistra d'Azione, soggetto politico ora presieduto da Silvano Mulas. A descrivere il nuovo simbolo è lo stesso statuto, che usa queste parole: "Il simbolo è di forma circolare. Lo sfondo del simbolo è suddiviso in quattro fasce orizzontali ondulate i cui colori, procedendo dal basso verso l'alto, passano dall'arancione scuro (tendente al rosso), all'arancione, all'arancione chiaro (tendente al giallo), al giallo. La metà inferiore del simbolo è occupata, centralmente, dalla spada fiammeggiante 'giellista' / 'azionista', di colore bordeaux scuro. In prossimità del limite tra la metà inferiore e la metà superiore del simbolo, sovrapposta alla fascia arancione, compare la scritta 'Sinistra d'Azione', in bianco, disposta in modo da seguire l'andamento ondulatorio delle fasce. La metà superiore del simbolo è occupata dalla sigla 'SdA', in grande, del medesimo colore della spada. Anche la sigla 'SdA' è disposta in modo da seguire l'andamento ondulatorio delle fasce".
Al di là del simbolo appena descritto, è il caso di capire come si sia arrivati a Sinistra d'azione. Alla base di quest'esperienza si può ritrovare il Movimento d'azione Giustizia e Libertà, nato nel 1993 per cercare di raccogliere di nuovo coloro che si richiamavano a Giustizia e Libertà e al Partito d'azione e presieduto da Aldo Garosci (in seguito è sorta anche la Federazione nazionale dei Circoli Giustizia e Libertà, coordinata da Vittorio Cimiotta e attiva solo sul piano ideale, culturale e politico). Anche in quel simbolo naturalmente c'era la spada fiammeggiante, collocata su una sagoma dell'Italia colorata di verde, collocata all'interno delle stelle d'Europa su fondo blu.
Nel mese di aprile 2005 era poi stato fondato il Nuovo Partito d'azione, che del vecchio emblema manteneva solo la spada, non fiammeggiante ma comunque caldissima, posata sopra un libro aperto. Nato per ridare "una casa politica agli azionisti" e riportare nella politica italiana il nome di un'esperienza di valore (una tradizione da diffondere, ma anche da reinterpretare alla luce dei nuovi tempi), il Npa fu guidato dal filosofo Pino Quartana e aveva l'idea di "costruire una formazione politica composta prevalentemente da quadri e militanti scelti in modo da perseguire obiettivi ideali e politici di alto profilo", "un partito certamente di testimonianza, ma anche di opinione e di proposta politica", collocato saldamente nel centrosinistra per il quale voleva essere "coscienza critica e momento di raccordo".
Tra gli iscritti al Nuovo Partito d'azione c'erano anche i fondatori di Sinistra d'azione, espulsi nel 2012 dopo una battaglia - come si legge nel sito - a favore di una maggior democrazia interna anche con riguardo allo statuto. "Gli esuli del Npa, azionisti nel cuore - si legge ancora - sentono il bisogno ed il dovere di continuare la lotta politica per i valori azionisti e dopo un periodo di riflessioni e di discussioni, nasce la carta dei valori di Sinistra d'Azione". Da lì si sarebbe arrivati al 12 gennaio 2013, giorno in cui Andrea Fontana, Enea Melandri, Silvano Mulas e Francesco Postiglione (come risulta dallo statuto stesso) fondarono Sinistra d’azione il 12 gennaio 2013. Lo scopo era sempre "creare una rete azionista capace di accogliere e coinvolgere quanti in Italia vogliano rifarsi a questi stessi valori, per promuovere e sviluppare il pensiero azionista nel panorama politico italiano, svolgendo contemporaneamente una azione di divulgazione culturale ma anche di azione politica sul territorio".
Ciò spiega l'impegno profuso da Sinistra d'Azione per mettere in piedi varie iniziative, fino a un primo avvicinamento a Possibile, ancora guidato da Giuseppe Civati, all'interno del quale nacque a Milano il circolo "Socialismo liberale"; in seguito poi quell'esperienza è terminata ("per l'impossibilità di una vera partecipazione democratica", si legge sempre nel sito) e l'impegno è proseguito nell'Alleanza popolare per la democrazia e l'uguaglianza (progetto guidato da Anna Falcone e Tomaso Montanari). Esauritosi quel progetto alla vigilia delle elezioni del 2018, Sinistra d'Azione ha scelto di sostenere Europa Verde alle europee del 2019 (la stessa lista appoggiata da Possibile di Beatrice Brignone) e continua a contribuire al progetto anche in seguito.
Sinistra d'Azione ha una propria Carta dei valori, che si anticipa in sette punti fondamentali: qualità della vita; rispetto dell'altro; etica e morale pubblica; libertà delle azioni dell'individuo; giustizia sociale e aiuto alle parti deboli; democrazia reale e partecipata; laicità dello Stato. Sulla base della Carta è stato predisposto un programma, che si affianca al più generico intento di portare avanti (e rileggere) gli ideali azionisti. Nella speranza che la spada del Partito d'azione non smetta mai di fiammeggiare.