Appare davvero infinita, la saga della Democrazia cristiana e dello scudo crociato: alle volte ad alimentarla sono le stesse persone che cercano di raccontarla, quando la incontrano sulla loro strada per caso o per scelta. Non è certo una novità, succede ormai da tanto tempo: quando, alla fine di novembre del 2005, Sebastiano Messina volle far vivere plasticamente ai lettori della Repubblica il disorientamento che si poteva provare tra un numero già allora imprecisato di democrazie cristiane e affini, gli bastò fare una passeggiata a piazza del Gesù e un po' di scale in un Palazzo Cenci Bolognetti piuttosto buio e in ristrutturazione. Lo mise per iscritto e ne uscì un passaggio intermedio memorabile, all'interno di un articolo intitolato Sta in un codicillo nascosto il destino elettorale della Dc che merita di essere riletto oggi, immaginando di stare davanti a quel palazzo (che oggi di democristiano non ha più nulla) con l'idea di cercare la Democrazia cristiana (per le autonomie) di Gianfranco Rotondi:
Sulla facciata, una sola targa: "Partito dei democratici cristiani". Sarà questo? Saliamo al secondo piano, dove una volta c'era lo studio del segretario, e bussiamo. Scusi, è qui il partito di Rotondi? "No, questo è il partito di Prandini". Torniamo indietro e troviamo, sulla scala di fronte, il vecchio, inconfondibile scudo crociato. "Democrazia Cristiana". Dev'essere qui. E invece no. "Questa è la Dc, certo, ma non è il partito di Rotondi" spiega un po' seccato il professor Giuseppe Pizza, consegnandomi un biglietto da visita sul quale c'è scritto: "Segretario della Democrazia Cristiana". Siamo in quello che fu, subito dopo la guerra, l'appartamento di De Gasperi: oggi è la sede di una delle tre Democrazie Cristiane.
La Dc, insomma, fa ancora notizia, eccome, a oltre ventisette anni da quel gennaio 1994 che ne sancì la fine politica. Solo politica, naturalmente: sul piano giuridico continuava a esistere. Lo sostiene da anni chiunque si proclami segretario, presidente, coordinatore, legale rappresentante del partito che fu di Alcide De Gasperi. In effetti non è per nulla sbagliato sostenerlo, ma se si chiede a queste persone cosa questo significhi davvero e chi rappresenti ora la Dc, il coro si sfrangia in coretti, a volte può persino trasformarsi in un'unione di solisti. Ognuno dei quali canta una melodia democratica e cristiana leggermente diversa, che finisce quasi sempre in "io"; altre volte in "noi", ma in ottave diverse (nel senso che il "noi" di una persona non coincide con quello detto da un'altra, anche se magari c'è chi è passato da un "noi" all'altro nel corso degli anni, a seconda del tentativo che sembrava più prossimo alla riuscita, causando inevitabilmente l'aumento della confusione).
Per cercare di capire qualcosa di questo coro a molte voci (non proprio armoniche), è bene cogliere anche occasioni come questa, per capire se effettivamente si apprende qualcosa di nuovo rispetto a quello che si sa, qualche tassello in più che può rendere il quadro più completo, avendo magari l'accortezza di non prendere per oro colato ogni informazione e dettaglio, se non altro perché provengono da una persona che è naturalmente "parte in causa". Un'operazione che - a scanso di equivoci - dovrebbe essere fatta qualunque fosse l'interlocutore, concedendogli peraltro sempre la buona fede: tra i molti, Renato Grassi (e i suoi, come Alessi e Carmagnola), Emilio Cugliari, Angelo Sandri, Publio Fiori, Giuseppe Pizza, Pierluigi Castagnetti, Alessandro Duce, Mario Tassone, Gianni Fontana, Franco De Simoni, Raffaele Cerenza, Raffaele Lisi e ovviamente Gianfranco Rotondi. Era stato proprio lui, del resto, di fronte al sottoscritto che gli aveva chiesto se fosse più grave credere o non credere a un politico, a rispondere "Bisogna avere il coraggio di credergli, ma anche la prudenza di dubitare. Non prendere per oro colato tutto quello che dice, fare qualche verifica ed essere anche un po' tolleranti".
Che ha detto dunque nell'intervista Luciani? Ha iniziato ricordando che la Dc non è mai morta: "Martinazzoli il 21 gennaio 1994 convocò a piazza del Gesù il consiglio nazionale. Con lui, erano in 27. [...] Deliberarono all'unanimità che la Dc assumesse la denominazione di Partito popolare italiano, mantenendo il simbolo dello scudocrociato. Ma non potevano farlo [...] La Cassazione ha sancito che lo scioglimento doveva essere decretato dall'assemblea dei soci, non dal consiglio nazionale. Pertanto sono da considerarsi nulli tutti i successivi tentativi di autoconvocazione di altri consessi decisionali e dei congressi. Infatti tali richieste andavano rivolte al consiglio nazionale. Che però nel frattempo era decaduto".
L'ultimo simbolo della Dc |
Questa cosa, in effetti, non l'ha detta direttamente la Corte di cassazione, bensì la Corte d'appello nel 2009, in una corposa sentenza (n. 1305) in cui, in effetti, si è detto pure che l'atto di cambio di nome ad opera dal consiglio nazionale era così viziato (essendo stato compiuto da organo incompetente) da essere "inesistente". La sentenza di Cassazione cui fa riferimento Luciani (la n. 25999/2010) in effetti si è limitata a respingere tutti i ricorsi delle varie parti, ritenendoli inammissibili o infondati. Ovviamente, fino ad allora, per la maggior parte delle persone comuni e per molti di coloro che erano stati democristiani la Dc era morta e sepolta; qualcuno ha anche agito sul suo patrimonio, ma questa è un'altra storia (talmente complicata e delicata che l'emicrania potrebbe sembrare poca cosa; peraltro, lo stesso Luciani dice che per la "sua" Dc il patrimonio "non è un problema attuale").
Dopo la sentenza della Cassazione, in ogni caso, c'era stato almeno un tentativo reso noto dalle cronache di rifare la Dc partendo dal consiglio nazionale, cercando di riconvocarlo a norma di statuto, per poi svolgere un congresso, il tutto nel 2012: l'anno dopo quei passaggi furono sospesi dal tribunale di Roma e in seguito dichiarati nulli, per il mancato rispetto delle forme prescritte (dalla legge o dallo statuto).
Il simbolo usato ora da varie Dc |
Doveva essere un "nuovo inizio", che però ha continuato a essere accidentato, tra ricorsi, un nuovo XIX congresso contestato (nel 2018 e, secondo Luciani, poi "revocato") e purtroppo pure la malattia che ha colpito Fontana. Questi si sarebbe dimesso dal suo ruolo di presidente e per opera di Luciani si sarebbe rimessa in moto la "macchina congressuale" (sia pure su scala ridotta), che avrebbe celebrato (via Skype) un nuovo XIX congresso il 24 ottobre 2020 che avrebbe eletto lo stesso Luciani segretario politico.
Quest'esito, in realtà, non è esattamente incontestato: il gruppo che fa capo a Renato Grassi (eletto segretario nel XIX congresso del 2018, quello che per Luciani è stato "revocato") rivendica come pienamente legittimo il proprio percorso, contestato invece da altri soggetti, ad esempio da Raffaele Cerenza e Franco De Simoni (che hanno impugnato gli atti del 2017 e del 2018 e, nel frattempo, avrebbero provveduto a un'autoconvocazione degli iscritti Dc che avrebbe portato a riattivare per altra via il partito); altri ancora contestano proprio gli ultimi passaggi che avrebbero portato Luciani alla segreteria (come Emilio Cugliari, che come detto si proclama presidente facente funzione della stessa Dc dallo scorso 1° luglio). Erano e sono tuttora in piedi varie cause: alcune si trascinano da anni, relative a eventi che in certi casi hanno perso del tutto valore anche per chi vi ha partecipato. Altre sono molto più recenti come quella iniziata da Mauro Carmagnola come segretario amministrativo e rappresentante legale della Dc contro Nino Luciani, per tentare di bloccare il XIX congresso telematico che avrebbe eletto lo stesso Luciani: in effetti il tribunale di Roma (di nuovo nella persona del giudice Romano) il 25 gennaio ha rigettato la domanda, come dice Luciani, ma in effetti si trattava solo di un procedimento cautelare, nel quale non sono stati riconosciuti gli estremi del "pregiudizio grave e irreparabile" nella celebrazione di quel "congresso" (che tra l'altro nel frattempo si era già svolto). Va detto anche che in effetti - e salvo errore - è ancora sotto giudizio l'assemblea del 2017 convocata da Luciani su disposizione del tribunale di Roma, così come finora manca un provvedimento giudiziario che abbia dichiarato nullo, annullato o sospeso il congresso del 2018 che aveva eletto Grassi (non lo ha impugnato nemmeno Luciani e probabilmente direbbe che non ce n'è nemmeno bisogno, ritenendo lui di averlo "revocato" già nel 2019.
In effetti Luciani cita altre decisioni contrarie a Grassi: in particolare, quelle relative alla bocciatura del contrassegno contenente lo scudo crociato presentato in occasione delle elezioni europee del 2019. Il Viminale in effetti ne chiese la sostituzione, sia per la presenza dello scudo crociato, sia per l'uso senza autorizzazione della grafica del Ppe (al quale la Dc-Grassi non è affiliata) e, quando i delegati della Dc si opposero rivolgendosi all'Ufficio elettorale nazionale, si videro bocciata la loro opposizione; non ebbero miglior esito i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, presentati per cercare di vedersi riconosciuto l'uso legittimo del simbolo. Va detto però, per correttezza, che il problema del simbolo era legato soprattutto al contemporaneo deposito del simbolo da parte dell'Udc (presente in Parlamento), anche se in effetti le decisioni parlavano della cessata attività della Dc dal 1993, notando che non si era fatta valere alcuna continuità giuridica rispetto a quell'esperienza (altrove Luciani aveva notato che ciò sarebbe stato possibile, esistendo almeno il verbale dell'assemblea del 2017 e quello del congresso del 2018 - allora non ancora "revocato" - ma forse quei documenti non furono prodotti).
Nell'articolo c'è poi un interessante campionario di nomi che non lascia indifferenti i "malati di politica": Giuseppe Pizza, abilissimo nel far e lasciar credere di essere diventato titolare legittimo ed esclusivo dello scudo crociato (ma da tempo scomparso dai riflettori); Angelo Sandri, infaticabile segretario della "sua" Dc da molti anni (almeno dal 2004 in modo ininterrotto), per qualcuno privo di ogni legittimità, per altri colui che negli anni ha presentato più liste con lo scudo crociato in molte parti d'Italia (e Luciani gli riconosce "il merito di averla tenuta in piedi con orgoglio"); Gianfranco Rotondi, cui Luciani attribuisce Rivoluzione cristiana (che certamente esiste ancora, non risultando sciolta, ma probabilmente è "in sonno", ad aspettare tempi migliori); Publio Fiori, tra i primi a far valere - già nel 1994 - l'argomento della mancanza di un congresso e in seguito fondatore di Rifondazione Dc (poi Rinascita popolare). L'elenco potrebbe continuare, nella consapevolezza che "s’è provato di tutto per metterli d’accordo, ma non c’è stato verso. Vogliono comandare. Benedetta gente! Non è meglio essere primi in provincia che secondi a Roma?".
Sicuramente è vero che la sede di Piazza del Gesù (cioè Palazzo Cenci-Bolognetti) è "dei suoi proprietari" (cioè l'istituto Pasteur - Fondazione Cenci-Bolognetti) e che all'interno non c'è più nessun partito che si richiama alla Dc ("Fontana la affittò per tre anni, ma costava troppo"). Luciani ha parlato anche di "Dc regionali" in via di organizzazione, mail spedite con "reazioni entusiastiche" (si noti che dalle parti della Dc-Grassi si parla da settimane, mesi di adesioni di decine di sindaci e consiglieri, con l'organizzazione in Sicilia affidata a Totò Cuffaro). E se anche ora non ci sono notabili tra i soci, per Luciani "sono dietro le quinte. Mario Segni è informato. Nel 2002 combattei con lui per la politica pulita. Al momento giusto penso che si farà vivo anche Rotondi". Cioè giusto in tempo per le elezioni politiche del 2023 da affrontare "da soli, secondo la linea di Fontana. Niente pastette con Forza Italia o Udc. Siamo un partito di centro che guarda a sinistra, come sosteneva Alcide De Gasperi".
Nell'intervista c'è ancora spazio per qualche microstoria notevole di un "democristiano da sempre" ("Dal 1975 al 1980 fui consigliere a Comacchio. La maggioranza Pci-Psi sollecitava il dialogo, ma non ci ascoltava. Così il pittore Remo Brindisi, con me all’opposizione, durante le sedute disegnava per noia pecorelle e pastori e mi regalava i dipinti con le dediche"), che rivendica il merito di aver trasformato "Giorgio Guazzaloca da macellaio in sindaco" e che vorrebbe avere "altri due anni di vita solo per vederla correre, la mia Dc. Sapesse quante sofferenze m’è costata! Ma ho fiducia. Altrimenti non avrei cominciato".
In tutta la chiacchierata, peraltro, mancano due particolari importanti, ben noti a chi frequenta questo sito. Innanzitutto, il fondamento del ruolo che oggi Nino Luciani rivendica è rappresentato dal decreto del giudice Romano del 14 dicembre 2016 che dispone la convocazione dell'assemblea dei soci della Democrazia cristiana del 25-26 febbraio 2017, affidandone la materiale organizzazione allo stesso Luciani. Per poter ottenere quel risultato, tuttavia, occorreva - ex art. 20, comma 2 del codice civile - il 10% degli associati alla Dc. La richiesta per il giudice risultava "legittimamente formulata" perché era stata superata quella quota del 10% degli iscritti "risultante dall'ultimo elenco disponibile". Un elenco che però era stato "ricostruito per autodichiarazione [...] dei soci che erano stati iscritti negli anni 1992 o dintorni [...] e che, nel 2012, hanno rinnovato la condivisione delle finalità, dei valori di riferimento della Democrazia cristiana ai fini della celebrazione al XIX Congresso, in Roma 11-12 novembre 2012". Quell'ultimo elenco dei soci, dunque, era stato ricostruito nel periodo tra il consiglio nazionale della Dc riconvocato il 30 marzo 2012 e il congresso di novembre: gli atti del primo e del secondo, tuttavia, sono stati prima sospesi e poi dichiarati nulli e a demolire gli effetti del consiglio nazionale del 2012 (dunque l'atto in base al quale si è potuta effettuare la ricognizione dei soci) era stato proprio il giudice Romano. Lui, peraltro, alla fine del 2016 non aveva approvato espressamente l'elenco degli iscritti: si era limitato a dire che l'istanza "appar[iva] legittimamente formulata", ma in seguito sarebbe stato possibile far valere ogni altra questione "in via contenziosa". E in effetti - salvo errore - gli atti dell'assemblea disposta dal giudice Romano e convocata da Luciani sarebbero ancora al centro di una causa civile, andata decisamente per le lunghe.
Naturalmente è possibile che quella causa si estingua o che si concluda a favore di Luciani. Resterebbe però la questione legata al valore delle sentenze del 2009 e del 2010, soprattutto nei confronti del Partito popolare italiano (ancora esistente sul piano giuridico, pur inattivo da molti anni). Perché quelle due pronunce dicono anche, a volerle leggere bene, che gli atti che hanno trasformato la Dc in Ppi erano viziati, ma non sono stati dichiarati nulli, anche perché il Ppi non era parte del processo in cui i giudici hanno rilevato quei vizi, quindi non si era nemmeno potuto difendere. Questo significa che i giudici hanno notato che quegli atti del 1994 erano viziati come passaggio intermedio per poter dire che nessuno tra i litiganti di quei processi (Cdu, Udc, Dc-Pizza, Dc-Sandri e altri) aveva titolo per dirsi titolare esclusivo del nome e del simbolo della Dc, ma quegli stessi atti sono ancora pienamente validi per il Ppi. Se volesse, dunque, il Ppi potrebbe ancora agire per difendere la titolarità di nome e simbolo. Lo farà? E, nel caso, a chi toccherà raccontarlo?
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