lunedì 29 novembre 2021

M5S, sentenza di secondo grado sulla titolarità di nome e simbolo

Sono trascorsi ormai quasi quattro anni da quando il 20 dicembre 2017, in uno studio notarile milanese, Luigi Di Maio e Davide Casaleggio costituirono come soggetto giuridico il MoVimento 5 Stelle attualmente operante sulla scena politica italiana (il terzo con quel nome), passato dalla guida politica di Di Maio a quella (temporanea) di Vito Crimi, fino a quella attuale di Giuseppe Conte. Più o meno a metà di questo periodo, cioè due anni fa (nel mese di ottobre del 2019), il tribunale di Genova decise in primo grado l'azione giudiziaria intrapresa dal curatore speciale del "primo" M5S, fondato da Beppe Grillo nel 2009, contro le due associazioni omonime costituite in seguito: in quella sentenza la giudice sostenne che il M5S-1 non avesse titolo per ottenere la disponibilità del sito www.movimento5stelle.it e l'esclusiva titolarità del nome e del simbolo del MoVimento, ritenendo però che il primo M5S, per poter agire (su un sito diverso), avesse bisogno dei dati degli iscritti per poterli contattare. Quella decisione è stata ora confermata in secondo grado: la corte d'appello di Genova ha infatti appena rigettato l'appello proposto dal curatore speciale nell'interesse del M5S-1. 

I precedenti e le richieste

È bene cercare di capire meglio la situazione, riepilogando le precedenti "puntate". Poche settimane dopo la fondazione del M5S-3 (2017), il 12 gennaio 2018, il tribunale di Genova aveva nominato un curatore speciale per il primo MoVimento 5 Stelle (2009, quello che prima si è chiamato M5S-1): un gruppo di iscritti della prim'ora aveva infatti lamentato un conflitto di interessi di Beppe Grillo perché rivestiva un ruolo di vertice nei tre MoVimenti creati via via, distinti tra loro (anche per regole e programmi) e come tali confondibili. Poco più di un mese dopo la nomina Luigi Cocchi, cioè l'avvocato scelto come curatore speciale, aveva a sua volta presentato ricorso al tribunale di Genova: aveva chiesto di inibire l'uso del nome e del simbolo a Grillo e alle altre associazioni MoVimento 5 Stelle fondate nel 2012 (M5S-2) e nel 2017 (M5S-3), perché il primo soggetto giuridico (la "non associazione") avrebbe visto tutelata la sua identità personale e la possibilità di agire solo avendo la titolarità esclusiva di quei segni distintivi; allo stesso tempo, il curatore aveva chiesto che fossero consegnate al M5S-1 le banche dati delle persone iscritte alla "non associazione", in modo che i nuovi rappresentanti del primo MoVimento potessero comunicare di nuovo con gli aderenti.
Visto che per Cocchi la confondibilità dei tre soggetti giuridici con lo stesso nome rischiava di pregiudicare irreparabilmente i diritti del M5S-1, il tribunale di Genova era intervenuto innanzitutto in sede cautelare. Una prima ordinanza (il 27 marzo 2018) aveva respinto le richieste del curatore, distinguendo la "non associazione" del 2009 dai due MoVimenti fondati in seguito (qualificabili come partiti, a differenza del primo soggetto) e ritenendo che mancasse la prova della titolarità del nome, del simbolo o del diritto al loro uso in capo al M5S-1; la richiesta di ottenere i dati degli iscritti era poi stata giudicata "sproporzionata e sbilanciata", perché avrebbe comportato la consegna di molti dati personali a fronte di una richiesta di pochi iscritti rispetto al numero di aderenti. In sede di reclamo, una nuova ordinanza (emessa il 24 maggio 2018) confermò di non trovare indizi per poter attribuire solo alla "non associazione" la titolarità del nome e del simbolo del M5S, ma aggiunse - pur senza pronunciarsi sull'esclusivo accesso al sito www.movimento5stelle.it - che aprire un nuovo sito-sede del M5S-1 per poter operare di nuovo sarebbe stato possibile solo dopo la consegna dei dati degli iscritti al curatore speciale (non agli iscritti). 
La prima giudice (quella che aveva emesso l'ordinanza del tutto sfavorevole al ricorrente), nella citata sentenza di primo grado, confermò in pieno il verdetto del collegio di reclamoPosto che la causa era relativa a diritti della personalità e non di diritti di uso economico di un marchio (benché il simbolo del M5S fosse stato registrato anche così), per la giudice nessuno aveva contestato alla "non associazione" il diritto a chiamarsi MoVimento 5 Stelle e a usare il simbolo, mentre questa voleva ottenere l'esclusiva su quei segni. Il fatto era che non ci sarebbe stata alcuna scissione seguita a una trasformazione di un soggetto politico, ma un contenzioso tra un soggetto collettivo destrutturato che si qualificava come "non associazione" (M5S-1) e due associazioni strutturate, qualificabili come partiti e non frutto di scissioni (anzi, in continuità politica con la "non associazione"). Mancava poi la prova che il M5S-1 fosse il solo titolare del nome e del simbolo: dal "non statuto" e da altri documenti sarebbe emersa una titolarità dei segni in capo a Beppe Grillo, né il curatore non aveva provato che l'uso elettorale del simbolo fosse stato autorizzato dal M5S-1 (anzi, la versione del "non statuto" approvata nel 2015 attribuiva la titolarità al M5S-2, poi la V rossa e le cinque stelle erano già parte del simbolo della Lista CiVica a 5 Stelle, legata a Grillo), quindi nome e simboli non erano parte del patrimonio esclusivo della "non associazione" del 2009. I tre soggetti omonimi, per la sentenza, denotavano continuità politica ed evoluzione rispetto al M5S-1, senza rischi di confusione per gli elettori; in più, le lamentele di pochi soci non bastavano per dire che il M5S-2 e il M5S-3 avevano usato nome e simbolo contro la volontà del M5S-1. Nonostante ciò, pur mancando prova della titolarità in capo alla "non associazione" del sito e del dominio www.movimento5stelle.it, senza la disponibilità del sito il M5S-1 non poteva più operare e per poter continuare l'attività su un sito analogo doveva disporre dei dati essenziali degli iscritti (frattanto consegnati al curatore speciale).
La decisione di primo grado evidentemente non aveva soddisfatto il curatore speciale del MoVimento 5 Stelle (2009), che nel mese di gennaio del 2020 ha impugnato la sentenza. Cocchi, innanzitutto, ha contestato la mancata dimostrazione della titolarità esclusiva del nome in capo alla "non associazione", ribadendo che ogni soggetto giuridico ha diritto al nome e all'identità personale e negando che la presentazione precedente delle Liste Civiche a 5 Stelle (e quella seguente di altri gruppi locali) potesse escludere quella titolarità esclusiva di cui si è detto e che Beppe Grillo, quale titolare del marchio del M5S, fosse anche automaticamente titolare del nome. Il ricorrente, poi, ha contestato la ricostruzione della lite come contrapposizione tra una "non associazione" che nega di essere un partito e due associazioni-partito, trattandosi giuridicamente di tre associazioni non riconosciute (e nessuna delle tre è stata inserita nel registro dei partiti), senza contare che il nome è il principale segno di identificazione di un soggetto e va tutelato a prescindere dalla sua natura. Nessun rilievo avrebbe avuto la volontà del M5S-3 di usare il nome del M5S-2 per porsi nello stesso contesto politico di questa o della "non associazione" (anzi, sarebbe comunque stato grave scegliere di usare un nome esistente, dichiarando di essere e agire in piena continuità con il soggetto di cui si è ripresa la denominazione); da ultimo, il fatto stesso che in primo grado il M5S-3 avesse rifiutato una proposta di conciliazione che aveva previsto l'adozione come proprio statuto del "non statuto" del M5S-1, ritenendo che questo fosse "inconciliabile" con quello dell'associazione del 2017, dimostrava per il ricorrente che non c'era alcuna continuità politica tra la "non associazione" del 2009 e l'associazione del 2017. 
Quanto al simbolo, per il curatore speciale del M5S-1 la sentenza di primo grado si contraddiceva nel sostenere prima che non si dovesse applicare il "diritto dei marchi" e nel negare poi che la "non associazione" avesse la titolarità esclusiva del simbolo sulla base delle frasi del "non statuto" o del regolamento che parlavano del contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo e dei post che avrebbero riaffermato la titolarità in capo allo stesso Grillo: per Cocchi, il M5S-1 aveva comunque usato per primo il simbolo (prima della registrazione come marchio dello stesso) e in ogni caso doveva prevalere il diritto all'identità personale della "non associazione" che per anni si è fregiata dell'emblema; di più, i soci del M5S-1 non avrebbero accettato di "spogliarsi" della titolarità del loro emblema a favore del M5S-2 (fondato nel 2012), anche dopo le modifiche al "non statuto" e al regolamento intervenute tra il 2015 e il 2016. Altri motivi di appello riguardavano il rigetto della richiesta di rientrare nella disponibilità del sito www.movimento5stelle.it (ribadendo che di questo doveva ritenersi titolare la "non associazione" e che comunque questa l'aveva pacificamente usato fino alla fine del 2017, quando ne è stata spogliata) e la questione del risarcimento del danno (per Cocchi i danni esistevano, anche solo quanto all'impossibilità di mantenere i contatti con i soci che non si erano iscritti al M5S-3 e di presentare candidature con il proprio nome e simbolo).
Nell'appello, dunque, il curatore speciale aveva chiesto di restituire al M5S-1 la piena ed esclusiva disponibilità del sito, di accertare e dichiarare la titolarità esclusiva del nome e del simbolo del M5S in campo alla "non associazione" (inibendo l'uso dei segni o di nomi e fregi confondibili a Grillo e ai MoVimenti costituiti in seguito), nonché di condannare gli appellati al risarcimento dei danni. Ben diversa, ovviamente, era la posizione di Beppe Grillo e delle associazioni denominate MoVimento 5 Stelle. In particolare, Grillo e il M5S-2 avevano chiesto di rigettare per intero i motivi di appello (chiedendo anzi che quella intentata da Cocchi fosse considerata "lite temeraria", cioè in malafede o con colpa grave); analoga richiesta era venuta dal M5S-3 (qui non era stata chiesta la lite temeraria, ma comunque che si disponesse il pagamento di "una somma equitativamente determinata").

La sentenza di secondo grado

Il collegio di giudici della terza sezione civile della corte d'appello di Genova ha ritenuto infondato l'appello e l'ha respinto in pieno. Per la corte innanzitutto sarebbe toccato al curatore speciale dimostrare che la "non associazione" aveva avuto la titolarità esclusiva del nome e del simbolo descritto nel "non statuto" (confermando che nessuno aveva mai contestato al M5S-1 il diritto a usare quei segni): per il collegio il tenore dell'art. 3 del "non statuto" ("Il nome del Movimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso") è inequivocabile. Quella frase non potrebbe essere letta ritenendo che Grillo fosse titolare esclusivo solo del simbolo e non del nome: anzi, per i giudici sarebbe una lettura "capziosa", essendo "evidente che i 'diritti d'uso', posti alla fine del periodo, non possono che riferirsi tanto al nome quanto al contrassegno, indicati all’inizio del medesimo periodo". Il collegio ha ribadito poi la natura del M5S-1 quale "realtà del tutto destrutturata" (aderendo alla ricostruzione del M5S-2, in base alla quale - si cita dalla sentenza che verosimilmente riassume il contenuto degli scritti di parte - "occorre quasi fare una forzatura per qualificarla come associazione non riconosciuta perché anche quest’ultima soggiace alla disciplina prevista dagli artt. 36 e segg c.c. mentre nel caso in esame non si rinviene alcuna disposizione relativa al funzionamento degli organi deliberativi dell’ente. In realtà si trattava solo di un sito internet volto a favorire lo scambio di opinioni e il confronto tra quanti intendevano accedervi"): basterebbe questo per qualificare i MoVimenti fondati nel 2012 e nel 2017 come "evoluzione dell’Associazione del 2009", la cui costituzione formale è stata necessaria per partecipare alle competizioni elettorali. 
La mancanza di titolarità esclusiva (sul nome e) sul simbolo del M5S in capo alla "non associazione" emergerebbe anche dalle disposizioni del "non statuto" sulla designazione dei candidati alle elezioni e dall'art. 3 dello statuto del M5S-2 (nel quale si dichiarava che Grillo, titolare esclusivo del contrassegno, lo metteva a disposizione dell'associazione costituita nel 2012 giusto per il perseguimento dei fini di questa): non poteva dunque dirsi che il regolamento approvato nel 2016 riferisse la titolarità del contrassegno alla "non associazione" del 2009 (M5S-1) invece che all'associazione del 2012 (M5S-2). Per i giudici non serviva alcuna altra argomentazione relativa alle liste presentate con quel simbolo: era sufficiente riferirsi al testo del "non statuto" per rilevare che tra i diritti di cui può fregiarsi la "non associazione" non c'è "l'esclusività dell'uso del nome e del simbolo" (né il M5S-1 avrebbe potuto invocare a suo favore una sentenza del tribunale di Roma del 2018, passata in giudicato, in cui si diceva che "l’esistenza di detto M5S costituito nel 2009 e la sua operatività sia reale che virtuale nel periodo precedente alla formale costituzione dell’Associazione Movimento 5 Stelle del 2012 possono ritenersi pacifiche fra le parti", visto che quella controversia riguardava tra l'altro la legittimità del regolamento pubblicato da Grillo nel 2014, sulla base del quale erano state decise alcune espulsioni, dunque un oggetto del tutto diverso).
Quanto al motivo di appello relativo al sito, per i giudici era da ritenere infondato: all'inizio la sede del Movimento era collegato "in modo ancora più marcato" a Beppe Grillo (www.beppegrillo.it, eletto come sede del M5S-1) e sarebbe stato già rilevato nella sentenza di primo grado che il dominio www.movimento5stelle.it, creato il 9 ottobre 2009, era stato venduto alla Casaleggio Associati s.r.l. il 9 novembre 2010 e poi ceduto nel 2015 al M5S-2, che ne è titolare. Il curatore speciale del M5S-1 non avrebbe invece provato che fosse della "non associazione" la titolarità esclusiva di quel dominio (in più, secondo i giudici, si si sarebbe dovuto impiegare un diverso strumento processuale per essere reintegrati nel possesso del sito). Da ultimo, la corte d'appello ha ribadito che la domanda di risarcimento danni del curatore speciale della "non associazione" doveva essere respinta, poiché non sarebbe stata dimostrata "alcuna condotta lesiva da parte delle appellate cui causalmente potere ricondurre gli asseriti fatti lesivi da cui sarebbero scaturiti i danni".
Essendone stati respinti tutti i motivi, l'appellante (il curatore speciale) è stato condannato - per il principio della soccombenza - a rifondere alle parti appellate le spese di questo secondo grado di giudizio (non anche del primo); la corte d'appello non ha invece ritenuto che quella del curatore speciale fosse una lite temeraria (non sarebbe stata dimostrata "l'effettiva e concreta esistenza di un danno" dovuto al comportamento processuale dell'avversario, tenuto per giunta con dolo o colpa grave (cioè sapendo che le proprie tesi erano infondate o che i mezzi per agire erano "irrituali o fraudolenti").

Qualche riflessione

Fin qui il contenuto della decisione di secondo grado, del quale si prende certamente atto. Nel pieno rispetto di chi ha emesso la sentenza, sembra comunque opportuno fare qualche riflessione.
Ci si vede costretti, innanzitutto, a ripetere quanto detto nel commentare la sentenza di primo grado: si può anche discutere sul fatto che il M5S-1 non volesse diventare un partito e non avesse una struttura definita, a differenza dei MoVimenti costituiti in seguito, ma sul piano giuridico rileva soltanto che tanto la "non associazione" del 2009 (a dispetto dell'etichetta scelta), quanto le associazioni fondate nel 2012 e nel 2017 sono associazioni non riconosciute, in base all'articolo 36 del codice civile. Di queste due, la prima non ha mai chiesto di essere inserita nel Registro dei partiti politici previsto dalla legge (e non ha  mai sottoposto a esame il suo statuto); non risulta che lo abbia fatto finora nemmeno l'associazione fondata nel 2017, anche se ora potrebbe doverlo fare, se portasse avanti l'idea di accedere al finanziamento indiretto, cioè alla ripartizione del 2 per mille del gettito Irpef (per accedervi, però, occorre appunto che la Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici dichiari lo statuto del M5S conforme alle previsioni di legge). Non si mette certo in dubbio che le associazioni del 2012 e del 2017 presentino differenze rispetto alla "non associazione" del 2009 (a  differenza di questa, sono state costituite con atto notarile e hanno partecipato alle elezioni, oltre ad avere un diverso contenuto statutario); non per questo, però, sembra di poter dire che da tali differenze si possono far derivare differenze nella titolarità e nel godimento di diritti. Con queste parole non si sta escludendo che ci siano altre ragioni per dire che il M5S-1 non ha la titolarità esclusiva dei suoi segni di identificazione (nome e simbolo): si dice solo che non sembra possibile affermare che il M5S-1 non è titolare esclusivo di questi sulla base del fatto che è un soggetto collettivo destrutturato, mentre gli altri soggetti omonimi sono partiti.
La sentenza di appello si concentra poi sul passaggio del "non statuto" del 2009 per cui "Il nome del MoVimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso": per i giudici è ovvio che Grillo è "unico titolare" non solo dei diritti d'uso del simbolo, ma anche del nome, ritenendo che non si possano scindere nome e contrassegno. Da un certo punto di vista la posizione è comprensibile, poiché il contrassegno è in gran parte la "visualizzazione" del nome. Non sono però mancati casi in cui si è distinta la titolarità giuridica del nome e del simbolo: un precedente noto è legato alla vicenda di Scelta civica per l'Italia, quando Mario Monti si era opposto all'uso del nome del partito da lui fondato per distinguere un nuovo gruppo parlamentare, ma gli era stato eccepito dall'Ufficio di Presidenza della Camera che in base ai documenti da lui prodotti era titolare del simbolo del partito, non anche del nome. In passato (specie in questo contributo sui raggruppamenti politici delle Camere uscito sulla Rivista AIC, alle pagine 44 e 45) ho espresso perplessità sulla decisione, sostenendo che allora le vicende giuridiche di nome e simbolo del partito erano state "di fatto disgiunte" con leggerezza: ne resto convinto, ma le mie perplessità nascevano soprattutto dal non aver potuto vedere il contenuto dei documenti in base ai quali Monti si riteneva titolare anche del nome. 
Tornando al caso del M5S, pur comprendendo il ragionamento "logico" dei giudici, credo anche che i pochi testi rilevanti vadano "presi sul serio": se il "non statuto" dice che Grillo è "unico titolare dei diritti d'uso dello stesso", al singolare, è evidente il riferimento al contrassegno registrato a suo nome, ma solo a quello; pure lo statuto del M5S-2 (2012) indica Grillo come "titolare esclusivo del contrassegno", senza parlare del nome. Quando si interpreta un testo giuridico, anche quello di un atto tra privati, l'argomento letterale è sempre il primo a dover essere applicato: se si è scritta una cosa, quella è, almeno finché non si decide di cambiarla (cosa che è sempre possibile). Certamente non va dimenticato che, in base all'art. 1362 del codice civile, "[n]ell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole" (anche se questo non è esattamente un contratto); è anche vero però che le parole quelle sono e da lì si deve partire. Naturalmente dire che il "non statuto" e altri documenti non sembrano assegnare a Beppe Grillo la titolarità esclusiva del nome del M5S non significa concludere in automatico che titolare esclusivo del nome è il M5S-1 (2009); anche qui si intende solo che un'attenta lettura suggerisce di non usare le disposizioni viste sin qui per attribuire la titolarità esclusiva del nome a un soggetto diverso dal M5S-1 (per negarla a questo).
Quanto alla continuità dei tre soggetti giuridici (associazioni non riconosciute) che portano il nome di MoVimento 5 Stelle, continuità ovviamente solo politica (nessuno mette in dubbio che si tratti di entità giuridiche diverse), resta valido ciò che si è scritto due anni fa: usare il metro della continuità politica per avallare l'uso di un segno identificativo è almeno in parte pericoloso, perché - applicandolo in modo esteso - in questo modo si potrebbe consentire a chiunque voglia porsi in continuità con un soggetto associativo/politico esistente l'uso del nome e della grafica di quello stesso soggetto, senza che questo possa opporsi (magari eccependo che il nuovo ente giuridico ha un programma diverso, politiche di alleanza diverse contrastanti con l'identità originaria, etc.). Naturalmente la vicenda è complicata dal fatto che il nome "MoVimento 5 Stelle" fa parte del segno grafico registrato come marchio (italiano e comunitario) da Beppe Grillo, per cui i piani dei segni di identificazione e dei marchi hanno finito per sovrapporsi e confondersi; i giudici intervenuti in questa vicenda hanno escluso che si discutesse di diritto della proprietà industriale, ma pur limitando la causa ai profili del diritto al nome e dell'identità personale si sono avvalsi ugualmente dei riferimenti a un "contrassegno registrato". 
Va poi richiamato un altro profilo già affrontato due anni fa. Di certo il giudice non può valutare la continuità o la coerenza politica di un soggetto rispetto ai suoi programmi (la cosa è nota e accettata da tempo). Di certo però il M5S-3, ente giuridico diverso al M5S-1 e costituito con l'idea di "travasarvi" gran parte degli iscritti alla "non associazione" (ritenuta non più in condizione di operare), è ormai soggetto molto lontano dal MoVimento 5 Stelle del 2009: se questo valeva nel 2019, vale ancora di più oggi, dopo il corso impresso al M5S dalla guida di Giuseppe Conte). Ora, considerando che l'art. 5 del "non statuto" individua tra i requisiti di ammissione il non far parte "di partiti politici o di associazioni aventi oggetto o finalità in contrasto con quelli sopra descritti" e che il venir meno di tale requisito è presupposto per la cancellazione dell'utente, se si rinvenissero contrasti tra il M5S-3 e il M5S-1, questi renderebbero incompatibili le iscrizioni ai due soggetti (comportando un recesso dalla "non associazione") e a quel punto qualche problema in più legato all'uso dei nomi ci sarebbe. Anche la corte d'appello di Genova, infatti, ha ribadito che nessuno ha mai contestato al M5S-1 il diritto a usare il nome o il simbolo usato in passato (privato, si immagina, del riferimento al sito di Beppe Grillo). Su questa base, in teoria, chi è tuttora aderente alla "non associazione" dovrebbe poter organizzare indisturbato una manifestazione, locale o nazionale, spendendo il nome e il simbolo di questa senza impedimenti; di più, se gli aderenti al M5S-1 avessero deciso di aprire il nuovo sito per riprendere le loro attività sulla base dei dati degli iscritti ricevuti, sempre in teoria dovrebbero poterlo fare. 
Si deve dire in teoria perché, ovviamente, i problemi ci sarebbero: i poteri del curatore speciale sono limitati alla rappresentanza in giudizio, ma non è il rappresentante legale del M5S-1, per cui non sarebbe agevole capire chi avrebbe titolo per convocare riunioni, organizzare eventi, ricostruire un sito usando i dati consegnati da Grillo. Lo stesso discorso varrebbe per un'ipotesi anche più delicata: se il diritto del M5S-1 (2009) a usare il nome e il simbolo usati in precedenza non è contestato, pur non essendo esclusivo, che succederebbe se decidesse di partecipare alle elezioni con quei segni identificativi? Qui il discorso si complicherebbe di molto: com'è noto, le elezioni sono regolate da norme speciali - non si applicano quelle legate ai segni di identificazione o ai marchi - e si dà parecchio peso all'affidamento degli elettori, che non devono essere sviati con l'uso di simboli simili a quelli di partiti o movimenti presenti in Parlamento (come il M5S-3). Sarebbe anche difficile individuare l'eventuale soggetto titolato a presentare il contrassegno o le candidature (o a delegarne la presentazione); certo è che sembrerebbe oggettivamente strano sostenere che un soggetto politico può utilizzare un nome e un simbolo (pur senza pretendere di essere l'unico a farlo) e poi impedirgli di usarlo nella sede più importante (quella elettorale). Non ci si sente, poi, di intervenire sulla questione relativa al sito internet, troppo complessa e delicata per essere liquidata in poche righe. 
Quanto si è detto finora, tuttavia, sembra dare sufficienti elementi per sostenere che la sentenza di secondo grado su questa vicenda, sempre nel rispetto di chi ha avuto il compito di decidere, lascia aperti alcuni dubbi non irrilevanti e alcuni problemi che potrebbero sorgere da questa. Alcuni problemi, ovviamente, non dovevano essere risolti da questo collegio giudicante (come quelli legati a possibili usi del nome e del simbolo operati dal M5S-1, sulla base di quanto non è stato contestato a questo ente); allo stesso tempo, bisogna ricordare che decisioni diverse da quella presa avrebbero potuto oggettivamente porre la forza politica più votata nel 2018 (e tuttora con una buona rappresentanza parlamentare, pur se ridotta rispetto a qualche anno fa) nella condizione di non operare o, per lo meno, di non operare più con lo stesso nome e lo stesso simbolo e che in ogni caso, il ricordato intreccio tra prassi, norme sui diritti della personalità e segni distintivi ha contribuito a creare una matassa complessa, difficile da dipanare. Per ora ci si limita alle riflessioni fatte sin qui; in caso di eventuali sviluppi, ci sarà altro da commentare.

domenica 28 novembre 2021

Il Partito radicale secondo Spadaccia, la storia col simbolo in copertina

In Parlamento entrarono nel 1976 e ci sarebbero rimasti a lungo, con candidature autonome, liste di scopo o sotto insegne di altri partiti; continuano a esserci ancora oggi, anche se in modo diverso rispetto al passato. Ci si riferisce ai radicali, ma non si potrebbe raccontare la loro storia senza quella del Partito radicale, nata oltre vent'anni prima dell'approdo in Parlamento e tuttora in evoluzione. A raccontare quell'avventura - perché tale è stata ed è - dal suo punto di vista è ora Gianfranco Spadaccia, che del Pr è stato due volte segretario (1967-68 e 1974-76): lo ha fatto in un libro pubblicato da Sellerio all'inizio di novembre, dal titolo Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia. Si tratta di un volume di quasi 760 pagine (includendo anche indici e bibliografia)... da una constatazione, che è anche una consapevolezza: "manca una storia completa del Partito Radicale. Non mancano pubblicazioni, ma riguardano la figura di Marco Pannella oppure singole battaglie e periodi 
particolari". Era dunque giusto che a raccontare quella storia fosse chi quelle battaglie, quei periodi particolari ma anche quasi tutti gli altri momenti (meno epici, ma non meno significativi) li ha vissuti in prima linea o come testimone privilegiato. 

Le origini

Nicolò Carandini davanti alla prima "Marianna" (1956)
Già, perché Spadaccia 
della storia che ripercorre fa parte fin dall'inizio, cioè fin da quando Il Mondo di Mario Pannunzio, in un numero del dicembre 1955, pubblicò i nomi dei fondatori del Partito radicale, incluso il suo: lui non veniva né dalla sinistra liberale fuoriuscita dal Pli di Giovanni Malagodi, né dal filone già azionista-liberalsocialista, ma dall'associazionismo e dall'attivismo studentesco e goliardico (cui sono dedicati due capitoli del libro - tra i più "personali", insieme a quello sull'infanzia e sulla formazione - in cui emergono già figure come Pannella, Franco Roccella e Sergio Stanzani). Avevano scelto di chiamarsi "radicali" perché erano convinti che "liberale fosse ormai una parola usurata, in qualche modo malata, non più utilizzabile da chi volesse trasformare, anche in senso liberale, il Paese": troppo sentore di destra, conservazione, reazione o contiguità con il potere, quindi era meglio cambiare.
Leopoldo Piccardi ed Ernesto Rossi
al tavolo degli "amici del Mondo"
Durò poco però la "prima vita" del Partito radicale
, che alle iniziative degli "amici del Mondo" volte a discutere i problemi istituzionali, politici ed economici del Paese (anche con l'apporto di competenze esterne) accompagnò forme organizzative e statutarie assai meno innovative: se la prima partecipazione alle amministrative del 1956 portò pochi eletti, la corsa elettorale del 1958 con il Partito repubblicano italiano fu un bagno di sangue senza esiti apprezzabili (tranne l'ottenere più apertura della Rai nelle campagne elettorali successive, ma non per i radicali, ancora fuori dal Parlamento) e in seguito non si sciolse una certa ambiguità tra gli obiettivi di riforma radicale del sistema e una non netta chiusura a eventuali alleanze (oltre che con la "sinistra democratica") con la Dc; anche il ruolo rilevante nell'opposizione al governo Tambroni non riuscì a tradursi in un'alternativa politica (si aprì invece la strada al centrosinistra aperto al Psi). Nel 1960 alle elezioni amministrative i radicali inserirono alcuni candidati nelle liste dei socialisti e ottennero buoni risultati, ma il "caso Piccardi" scoppiato l'anno dopo e le fuoriuscite di Pannunzio e 
del gruppo legato al Mondo prima, dello stesso Piccardi e di Ernesto Rossi poi, misero a serio rischio la sopravvivenza di quell'esperienza.

Il "secondo tempo" dei radicali

Il simbolo del Pr nel 1963
Proprio Gianfranco Spadaccia
- arrivato al "primo" Partito radicale da giovane socialdemocratico, iscritto al Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli e vorace lettore del Mondo - fu tra i protagonisti della "seconda vita" del Partito radicale, assieme alle altre figure che con Marco Pannella avevano aderito dal 1961 alla corrente interna "Sinistra radicale" e ad altre persone che erano rimaste, non condividendo gli abbandoni precedenti. "Decidemmo di assumere la continuità non solo politica ma anche giuridica del Partito Radicale", racconta Spadaccia, ricordando il "nuovo inizio" con una segreteria a tre (che comprendeva Pannella, tornato in Italia proprio per far rivivere il partito) e la presidenza di Elio Vittorini, il lancio di Agenzia Radicale e le sue campagne (soprattutto quelle sulla "pubblicità redazionale" dell'Eni e sullo scandalo dell'assistenza pubblica a Roma), l'incontro nel 1965 con il socialista Loris Fortuna e l'inizio delle battaglie comuni per introdurre il divorzio in Italia (con la creazione della Lega italiana per l'istituzione del divorzio, cui aderirono pure rilevanti esponenti del Pci, il sostegno al cammino della legge in Parlamento), le campagne per la libertà sessuale, ma soprattutto la preparazione del terzo congresso (straordinario), svolto nel maggio 1967 a Bologna: lì - pochi mesi dopo la morte di Ernesto Rossi, tra i padri nobili del Pr - nacque ufficialmente il "nuovo" Partito radicale, il cui statuto delineava "
un partito laico e libertario, a forte impronta federativa", alternativo ai modelli del centralismo democratico comunista e del correntismo democristiano, con spazio per partiti regionali e movimenti tematici federati, senza organi disciplinari, con tessera garantita a chiunque si fosse voluto iscrivere (pur avendo la tessera di un altro partito). Primo segretario unico fu Spadaccia, che fin dai primi anni di attività del partito aveva sostenuto un disegno partitico simile a quello scelto dal 1967.
Spadaccia (secondo da sinistra) con Pannella
e altri, nella campagna pro divorzio
Il '68 in arrivo non facilitò la partecipazione dei giovani negli anni seguenti (interessati in parte da lì in avanti ad altri tipi di lotte) e in quello stesso anno il Pr non partecipò alle elezioni ("
non esistevano per noi le condizioni politiche e organizzative per alleanze elettorali e tanto meno per una presentazione autonoma"); proseguì però l'impegno su vari fronti, da quello antimilitarista (soprattutto per prevedere l'obiezione di coscienza, con il primo sciopero della fame di Pannella per oltre trenta giorni, nel 1972, la legge approvata alla fine dello stesso anno, tante marce per piangere il sacrificio dei morti e contestare il culto delle armi e manifestazioni per rispondere al terrorismo) a quello per la libertà sessuale (arrivando a veder dichiarato incostituzionale il reato di plagio), senza trascurare le battaglie per la legge sul divorzio, approvata nel 1970 (dopo le prime elezioni regionali, cui i radicali non parteciparono ma sostennero il Psi) grazie all'impegno delle forze parlamentari laiche. Superato il vaglio della Corte costituzionale, la legge fu oggetto del primo referendum abrogativo convocato in Italia (e rinviato al 1974, visto che nel 1972 si tennero le elezioni anticipate, cui i radicali non parteciparono, anzi alcuni bruciarono i certificati elettorali per protesta contro il voto obbligatorio e l'assenza dalle Tribune dei partiti non presenti in Parlamento).
Il numero di Liberazione uscito
dopo il referendum sul divorzio
(da https://archivi.polodel900.it)
Com'è noto, al referendum sull'aborto chiesto dai cattolici vinse il No con un margine significativo (e lo mise in luce in modo netto Liberazione, testata radicale fondata a settembre del 1973, diretta da un giovane Vincenzo Zeno-Zencovich e concepita graficamente da Piergiorgio Maoloni), ma per i radicali quella vittoria fu soprattutto un punto di (nuova) partenza per le battaglie in corso e per altri fronti di impegno legati ai diritti civili. Così, mentre la Corte costituzionale - con la sentenza n. 225/1974 - chiedeva per il futuro della Rai un assetto e un atteggiamento più pluralistico e aperto (invitando in sostanza il Parlamento a legiferare in materia e aprendo, due anni più tardi, alla "libertà d'antenna" a livello locale), nuovi impegni iniziavano o si intensificavano: ad esempio, l'attacco al nuovo sistema di finanziamento pubblico ai partiti (introdotto giusto nel 1974 e criticato per la mancanza di controlli e per gli spazi che il finanziamento illecito poteva ancora avere) e la lotta per depenalizzare e rendere legittima l'interruzione volontaria di gravidanza: il volume di Spadaccia ricorda il grande impegno di Adele Faccio e del Centro informazione sterilizzazione e aborto, che al congresso del 1974 si federò al Pr. 

La rosa nel pugno e l'approdo in Parlamento

Spadaccia (il terzo al tavolo, da sinistra) a un evento
organizzato il 30 novembre 1975 a Roma
Quel congresso, svoltosi a Milano, fu probabilmente il primo in cui emerse con un certo rilievo il simbolo con cui il Partito radicale e l'intera area corrispondente si sarebbero identificati di più (al punto tale da finire anche in bella vista sulla copertina del libro di Gianfranco Spadaccia): la rosa nel pugno. Anzi, il pugno e la rosa, per tradurre l'espressione francese le poing et la rose, visto che il primo a utilizzare quell'immagine - opera di Marc Bonnet - era stato il Parti socialiste francese, prima tra il 1969 e il 1970 e poi, in modo più massiccio, tra il 1971 (anno del fondamentale congresso di Epinay) e il 1972. E proprio da François Mitterrand - con cui sarebbe arrivata in qualche modo la disponibilità per il Partito radicale del segno che in Francia aveva segnato la rinascita del socialismo e si stava diffondendo anche in altri paesi europei. Dopo aver rievocato in nota l'incontro tra Mitterrand, Pannella e Giacomo Mancini (ai quali sarebbe stato offerto il simbolo, poi adottato dal Pr perché il Psi non era pronto a rinunciare a falce, martello, libro e sole), scrive Spadaccia:
Rinunciammo al vecchio simbolo del Partito Radicale del Mondo, che avevamo sempre chiamato affettuosamente «la Marianna» ma in realtà era una via di mezzo fra la donna con berretto frigio e la Minerva, per adottare il simbolo della «rosa nel pugno». Intendevamo con questo anche, abbastanza esplicitamente, abbandonare un simbolo che aveva vaghe reminiscenze giacobine per adottarne uno che ci sembrava coerente con le nostre scelte nonviolente, oltre a essere il simbolo del rinnovamento del socialismo europeo.
Per la tessera radicale del 1974 si ringrazia Massimo Gusso
Va detto che ufficialmente solo la mozione generale del congresso del 1976 (Napoli) avrebbe sostituito nello statuto il riferimento simbolico alla "testa di donna con berretto frigio" con quello alla "rosa nel pugno". In effetti però dal 1974 il simbolo di provenienza francese era diventato familiare ai radicali d'Italia: già dal mese di settembre dell'anno prima una sua rilettura era presente sulla prima pagina di Liberazione, quasi certamente vergata da Piergiorgio Maoloni, lo stesso che aveva reinterpretato in modo ancora più artistico il tema della rose au poing sulle tessere radicali dal 1974 al 1976; quella stessa versione si era vista nel 1974 nella campagna per gli otto referendum "contro il regime" che il Pr avrebbe voluto presentare. Una rosa nel pugno simile era presente sulla cartolina creata nel 1975 per solidarizzare con Spadaccia (allora segretario) e Faccio, arrestati a gennaio di quell'anno pochi giorni dopo un gruppo di donne in attesa di aborto e coloro che lo avrebbero praticato nell'ambulatorio aperto dal Cisa (una pagina, questa, raccontata nel libro dall'autore con passione e dettaglio); un disegno analogo sarebbe apparso in altri eventi di quell'anno. 
Foto fornita da Samuele Sottoriva
Le poing et la rose 
troneggiavano in gigantografia anche sul fondale del congresso del 1975 celebrato a Firenze, che confermò Spadaccia alla guida del Pr. Quel disegno era più simile che in passato all'originale francese, al punto tale che qualche socialista presente (visto che in quei giorni si discuteva appunto dell'orizzonte di un "grande partito socialista laico e libertario della sinistra italiana") ne restò colpito e ne informò un giurista vicino al Parti socialiste francese, chiedendo a quale titolo i radicali italiani avessero impiegato un segno che dall'altra parte delle Alpi era saldamente nelle mani dei socialisti; il Ps, a sua volta, avrebbe chiesto spiegazioni ai radicali. Questa vicenda, in effetti, non è inclusa nel libro, ma è emersa - al momento in modo parziale - solo due anni fa, grazie alle ricerche di un giovane storico, Samuele Sottoriva: lui presso gli archivi socialisti della Fondation Jean Jaurès a Parigi ha ritrovato alcuni documenti interessanti e ne ha parlato in una conversazione su questo sito. Si conosce da più tempo, invece, la causa intentata alla fine del 1979 al Partito radicale dal disegnatore Marc Bonnet per vedere tutelato il suo diritto d'autore: tra la fine del 1980 e l'inizio del 1981 il tribunale di Roma gli diede ragione e il partito l'anno successivo trovò un accordo con il creatore della rosa nel pugno, pagando 60 milioni di lire il diritto di utilizzare e riprodurre il disegno nella propria attività.
Un disegno che, nel frattempo, aveva ottenuto risultati di rilievo. Il 1975 si era aperto con gli arresti di Spadaccia e Faccio (e, in seguito, di Emma Bonino) legati agli aborti, era proseguito con la riforma ampia del diritto di famiglia, la maggiore età (e il voto) ai diciottenni, l'arresto di Pannella durante la campagna per la depenalizzazione dell'uso delle "droghe leggere" (ottenuta) e la loro legalizzazione, la raccolta delle firme per abrogare col referendum il reato di aborto (riuscita anche grazie al sostegno socialista, anche se l'approvazione della legge n. 194/1978 avrebbe impedito la consultazione), la riforma della Rai, il congresso di novembre cui sarebbe dovuto intervenire Pier Paolo Pasolini e - passaggio fondamentale la storia che si racconta - la nascita di Radio Radicale. Nel 1976, invece, si sarebbe assistito all'esordio elettorale a livello nazionale del Partito radicale, proprio con la rosa nel pugno (prima ancora che il simbolo fosse inserito nello statuto): fallito il progetto politico-elettorale comune con il Psi, si decise di presentare liste autonome, alla Camera tutte guidate da donne (e fu la famosa prima volta in cui i radicali presidiarono con anticipo gli uffici elettorali per poter figurare per primi sulle schede, spesso arrivando allo scontro con il Pci). Com'è noto, furono quattro i seggi conquistati alla Camera dal Pr, che poté così entrare in Parlamento con Adele Faccio, Emma Bonino, Marco Pannella e Mauro Mellini (e altre quattro persone si sarebbero preparate a entrare al loro posto, a metà legislatura); "Io non ero stato eletto - scrive Spadaccia - perché il resto ottenuto nelle circoscrizioni in cui mi ero presentato era stato inferiore a quello della circoscrizione ligure ma, essendo segretario e allora molto esposto nella polemica e nelle cronache politiche, nessuno se ne accorse".
L'ingresso dei radicali alla Camera fu un nuovo inizio da molti punti di vista. Lo fu per la Camera, che vide il suo regolamento - approvato nel 1971 in una logica consociativa - messo continuamente alla prova (anche perché, oltre alle prime iniziative di ostruzionismo in aula, il gruppo che i radicali poterono costituire "in deroga" consentì a Pannella di far mancare costantemente l'unanimità nella decisione sull'ordine dei lavori di Montecitorio); lo fu per Radio Radicale, che divenne un circuito sempre più esteso e iniziò a trasmettere i lavori dell'aula della Camera, garantendo così in modo diretto per la prima volta la pubblicità dei lavori di quell'assemblea. Lo fu soprattutto per il partito, che - non potendo attuare il suo disegno di rifondazione dell'area socialista e laica, per il prevalere della linea autonomista di Bettino Craxi, e nel bel mezzo del governo della "non sfiducia" - si trovò a essere "l'unica visibile e intransigente opposizione" alla politica del "compromesso storico". Colpisce poi molto - fino a risultare affascinante - il riferimento di Spadaccia alla "disorganizzazione scientifica" degli assetti associativi e dell'attività militante del partito: un modo "per allentare le aspettative, che a causa di questo primo successo elettorale si rivolgevano al partito e che con tutta evidenza il partito con la sua debolezza organizzativa non era in grado di soddisfare. E allo stesso tempo coinvolgere e responsabilizzare tutti nello sforzo di concepire e creare la lotta politica e, grazie a essa, rafforzare la presenza e l’iniziativa del partito". 
Furono anni frenetici (con nuove raccolte di firme per i referendum, avviate grazie all'impegno di Adelaide Aglietta e tante altre persone, che si scontrarono coi giudizi della Corte costituzionale e coi tentativi parlamentari di non far svolgere le consultazioni, approvando "leggi solo in parte corrispondenti al contenuto del referendum e alla volontà abrogativa dei loro promotori" o, come extrema ratio, arrivando allo scioglimento anticipato), ma non mancarono momenti tragici, con le violenze del '77 (e le seguenti restrizioni alla libertà di esprimersi e manifestare) e l'uccisione di Giorgiana Masi il 12 maggio di quell'anno, mentre tentava di accedere al concerto-raccolta firme organizzato dal partito in Piazza Navona, in un centro di Roma del tutto militarizzato. 
Spadaccia e Pannella nella Tribuna Referendum 1978
Si tinse ancora più di sangue il 1978 (dai morti di Acca Larentia alla crescita del terrorismo, fino al sequestro e all'assassinio di Aldo Moro, con i radicali contrari tanto alla "fermezza" quanto alla trattativa, preferendo piuttosto la via del dialogo); fu anche l'anno delle dimissioni di Leone per lo scandalo Lockheed, di Adelaide Aglietta (allora segretaria del Pr) che accettò di far parte della giuria popolare del processo al "nucleo storico" delle Brigate rosse, permettendone la celebrazione; prima ancora, fu l'anno dei referendum sopravvissuti al giudizio della Corte e all'attività del Parlamento (legge Reale, finanziamento pubblico ai partiti), quelli in cui Pannella, Bonino, Mellini e Spadaccia si presentarono imbavagliati alla Tribuna Referendum. "Fu una trasmissione surreale - scrive Spadaccia - in cui il silenzio, l'imbavagliamento e i cartelli che esibivamo, comunicavano più di qualsiasi parola. E poiché, sia pure da poco, erano entrati nell’uso comune i telecomandi per passare da una rete all'altra, nell'arco dei venti minuti si accrebbero enormemente la curiosità dei telespettatori e l’auditel complessivo di quella trasmissione muta. Il giorno dopo le foto dei quattro imbavagliati erano su tutti i giornali. E da quel momento si interruppero la disinformazione e il silenzio e cominciò lo scontro politico sui due referendum": prevalsero i No (pur se di poco, per il finanziamento ai partiti), ma le percentuali ottenute da una forza politica che allora aveva ottenuto solo l'1% rappresentarono per Spadaccia "un indiscutibile successo politico".

La creatività complessa e i nuovi orizzonti

Avrebbero continuato a usare lo strumento referendario i radicali, mediando tra le posizioni di Pannella (per lui coi referendum "era [...] andata avanti la rivoluzione dei diritti civili. [...] C'era un solo modo di non abusare dei referendumcome eravamo accusati di fare, ed era di usarli in maniera massiccia") e Aglietta (per lei gli ostacoli istituzionali e le difficoltà politiche si dovevano considerare con attenzione): nel 1981, però l'insuccesso dei quesiti radicali (incluso quello per rendere meno restrittiva la legge sull'aborto, sconfitto come quello abrogativo della legge promosso dal Movimento per la vita) non aiutò l'azione del partito. Intanto si decise di impiegare i primi finanziamenti pubblici ricevuti per ripianare i debiti delle campagne elettorali e per singoli progetti "non a fini di partito" valutati dal gruppo parlamentare (come il sostegno alle vittime del terrorismo e la costruzione di quella che sarebbe diventata l'attuale Radio Radicale con il centro di produzione, per restituire informazione diretta ai cittadini, come "risarcimento indiretto"). 
Pannella e Sciascia
Iniziò alla fine del 1978 la campagna "contro lo sterminio per fame nel mondo" (che avrebbe portato nel 1980 ad abbrunare la rosa nel pugno, nel 1981 al "manifesto dei Nobel" scritto da Pannella): solo nel 1985 avrebbe trovato uno sbocco in Parlamento, con l'intervento straordinario della "legge Piccoli" (che pure era meno di quanto il Pr aveva chiesto per anni). Nel 1979 il partito aprì le proprie liste a figure non legate al partito, per (r)accogliere "
altre energie ed esperienze politiche e culturali che avevamo visto convergere sulle nostre posizioni o su posizioni affini alle nostre" (Lotta continua, esponenti del Pci, del Psi e altri soggetti laici): tra loro, anche Leonardo Sciascia, eletto grazie al 3,4% ottenuto alla Camera (con la compagine parlamentare passata da 4 a 20 eletti; alle prime elezioni europee, il Pr ottenne tre deputati con il 3,7%). Non mancarono pagine buie nei primi anni '80, tra il rinvigorirsi del terrorismo, la riduzione concreta delle garanzie costituzionali (con i radicali impegnati a giocare un ruolo sempre all'insegna del dialogo, praticato con insistenza e intransigenza: le pagine dedicate al punto sono molto intense) e lo scandalo P2, nonché momenti duri per il partito (la battuta d'arresto referendaria e la scissione del 1982-83 del Movimento federativo radicale di Geppi Rippa).
In quelle situazioni difficili, emerse più di un caso in cui il Partito radicale trovò o provò almeno a cercare "una soluzione 
apparentemente complicata ma in realtà articolata e creativa", come la definisce Spadaccia nel volume (un altro modo di vedere la "fantasia come necessità" di cui parlava Marco Pannella): non tutte le soluzioni sono state comprensibili, non tutte sono state efficaci, ma meritano di essere ricordate. Vale per l'atteggiamento alle elezioni anticipate del 1983, con l'invito all'astensione come prima scelta, indicando come alternativa al non voto le liste radicali (nelle quali fu candidato ed eletto Toni Negri, del quale poco dopo fu autorizzato l'arresto, ma lui era fuggito in Francia e ottenne il rigetto totale dell'estradizione, anche se Spadaccia ricorda il tradimento degli accordi stretti con i radicali), il sostegno al taglio della scala mobile proposto dal governo Craxi (e contro il referendum comunista in materia), la candidatura e l'elezione di Enzo Tortora al Parlamento europeo nel 1984 dopo il suo arresto e il suo linciaggio mediatico, gli sforzi citati per portare il Parlamento ad approvare l'intervento straordinario contro la fame e il sottosviluppo, le prime campagne referendarie "per una giustizia giusta", Radio Radicale tra "Radio parolaccia" e i primi riconoscimenti di "servizio pubblico", l'accoglienza dei militanti di Prima Linea, la fondazione della Lega per l'uninominale (che poi avrebbe portato ai referendum elettorali del 1991 e del 1993, anche se con una regia diversa da quella radicale), le campagne "o lo scegli o lo sciogli", la candidatura contemporanea di Anna Elena Staller, Bruno Zevi e Domenico Modugno nel 1987. 
Dopo il primo congresso italiano del Prntt (maggio '89)
L'azione più rilevante, in questo senso, è tuttora rappresentata dalla trasformazione del Partito radicale in un soggetto transnazionale, che non avrebbe più partecipato alle elezioni "in quanto tale e con il proprio simbolo". Il passaggio, deciso a Bologna all'inizio del 1988, fu coraggioso e non certo facile (non a caso incontrò non poche resistenze e molte difficoltà concrete, economiche e non solo): da lì in avanti fu ancora più evidente sia la concezione della partecipazione elettorale come mezzo per le battaglie da condurre (mai come fine e solo in presenza di condizioni che permettessero di affrontare la competizione), sia il non attaccamento a strutture, nomi e simboli per realizzare quegli stessi fini. Quest'ultimo punto fermo si è tradotto sia in scelte piuccheplurali (come la "diaspora" in quattro diverse liste alle elezioni europee nel 1989), sia nell'incessante processo di trasformazione dei simboli e di "biodegradabilità" degli stessi che ha riguardato soprattutto il soggetto giuridico con cui si è continuato a presentare le candidature, vale a dire la Lista Marco Pannella. La scelta transnazionale (che dal 2007, sarebbe stata definita anche come nonviolenta e transpartitica) era stata nel frattempo marcata - all'inizio di luglio del 1988 - da un cambio di simbolo, che merita di essere ricordata attraverso le parole dello stesso Spadaccia:
Qualcosa di più di un dubbio ebbe invece il nostro presidente del partito, Bruno Zevi, che fu messo in crisi dalla nostra decisione di porre al centro del nuovo simbolo l’immagine del Mahatma Gandhi, che avrebbe dovuto sostituire la rosa nel pugno come emblema della nostra scelta nonviolenta. La spiegazione di Zevi fu che la sua cultura ebraica lo induceva a rifiutare ogni forma di utilizzo della figura umana non solo nella simbologia religiosa ma anche in quella degli Stati e dei movimenti politici: un rifiuto tanto netto e radicale da spingerlo a rassegnare le dimissioni da presidente del partito. Non saprei dire quanto dietro questa motivazione abbia influito in lui, così legato a Israele, la preoccupazione che la nostra scelta nonviolenta potesse entrare in conflitto con la dura necessità di quel Paese di difendere con la forza delle armi non solo la propria indipendenza ma la propria stessa esistenza. E tuttavia non ho dubbi sulla sua adesione ai principali obiettivi della nostra scelta transnazionale, dei quali era parte essenziale la nostra amicizia nei confronti del popolo ebraico, quello dello Stato di Israele non meno di quello della Diaspora. Proprio per questo, dopo un dibattito abbastanza appassionato sulla questione, fu lo stesso Zevi a trovare la soluzione, grazie anche all’intervento professionale di un noto grafico suo amico che disegnò un simbolo nel quale il volto del Mahatma era la risultante indiretta delle parole "Partito Radicale" ripetute e tradotte in diverse lingue, anche in arabo ed ebraico. [...] proprio in quegli anni era uscito nelle sale di tutto il mondo il film dell’inglese Richard Attenborough, dedicato alla vita di Gandhi, interpretato dall'attore Ben Kingsley. Era stato un veicolo potente di diffusione della conoscenza dei metodi della nonviolenza. Nessun altro simbolo, per spiegare la nostra scelta, avrebbe potuto gareggiare con l'immagine dell'uomo che la nonviolenza aveva teorizzato e praticato con tanta efficacia.

Gli ultimi trent'anni

Nel frattempo, con la fine degli anni '80 e la caduta del muro di Berlino, molte cose intorno mutarono. La trasformazione del Pci in Pds fece nutrire speranze ai radicali per un cammino verso la democrazia dell'alternanza (cui guardava la neonata Associazione radicale per la costituente democratica, fondata anche da Spadaccia), ma subentrò la delusione per la scelta di non affrontare la "questione liberale", lasciando poco o nessuno spazio nel nuovo partito (anzi, nei nuovi partiti, considerando pure Ds e Pd) a chi veniva da culture radicali, socialiste, liberali e repubblicane. I referendum elettorali del 1991 e del 1993 (insieme a quelli "antipartitocratici" del 1993) segnalarono la volontà di cambiamento del corpo elettorale; in compenso, Spadaccia dal 1991 volle allontanarsi dalla politica attiva. Come giornalista assistette allo "sdoppiamento" dell'area referendaria e radicale alle elezioni del 1992, tra la Lista Referendum e la Lista Pannella (per Spadaccia Pannella aveva "
tentato di inserire il progetto di trasformazione del partito in un più largo processo di riforma della politica e degli schieramenti politici", ma si era rassegnato alla lista col suo nome "come una necessità, ma anche come una contraddizione e una debolezza politica", dopo "l'insuccesso" nei rapporti con i partiti laici e il Psi, poi con i dirigenti del Pci). 
Vennero poi "Mani pulite", l'elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale (patrocinata da Pannella), gli attentati mafiosi del 1992-93, le navigazioni difficili dei governi Amato e Ciampi, la scrittura delle leggi elettorali (amministrative e politiche), i primi voti nei comuni col sistema maggioritario, la preferenza del Pds per la "via giudiziaria al socialismo", la trasformazione tardiva della Dc e l'inizio dell'evoluzione del Msi, fino alla convention organizzata da Pannella alla fine del 1993, "Per il Partito democratico", per Spadaccia "l'ultimo tentativo di confronto a distanza con il gruppo dirigente del Pds: un confronto in cui la speranza di un possibile incontro e di una possibile convergenza - testimoniata nei due anni precedenti dalla partecipazione ad alcuni dibattiti sulla costituente democratica e da iniziative comuni in alcune elezioni amministrative - si stava rapidamente mutando nel rischio di una divaricazione e di uno scontro".
L'avvento sulla scena politica italiana di Silvio Berlusconi
non poteva finire in secondo piano nella ricostruzione di questi anni. Mentre i radicali erano rimasti esclusi dai Progressisti (tra le cui file era schierata la Rete), oltre a presentare la Lista Pannella nella quota proporzionale alla Camera conclusero un accordo con Forza Italia per vedere candidate (e spesso elette) alcune persone nei collegi uninominali del Polo delle libertà (ma Pannella invitò a votare al Centro per il Patto per l'Italia Ppi-Segni e al Sud per i Progressisti). Merita di essere riportato per intero questo passaggio di analisi di Spadaccia, per cercare di capire meglio il rapporto Pannella-Berlusconi, di non immediata comprensione: 
È del tutto evidente la ragione che spinse Berlusconi a candidare in sette collegi uninominali del nord altrettanti radicali. Il leader di Forza Italia doveva riempire un vuoto politico e mirava, con la nuova legge elettorale, a ottenere una maggioranza che gli consentisse di governare. I radicali, proprio per la loro polemica ormai di lungo periodo contro la partitocrazia, non solo potevano concorrere a soddisfare queste sue ambizioni ma potevano legittimarne in notevole misura la pretesa di accreditarsi come una "alternativa liberale" al sistema (che i radicali chiamavano "regime"). Più complessa era necessariamente la posizione di Pannella e dei radicali se si pensa, soprattutto, a ciò che con la loro opposizione e le loro iniziative avevano rappresentato nella vita politica italiana. [...] La risposta più immediata e più ovvia è che la elezione di alcuni di loro nei collegi uninominali non li avrebbe esclusi dalla nuova fase della politica italiana che sembrava inaugurare, per la prima volta dal dopoguerra, un sistema di alternanza al governo del Paese. Quella meno immediata è che, fallito il tentativo di perseguire l’alternativa nel dialogo con il Partito Democratico della Sinistra di Occhetto e D’Alema, Pannella volesse mettere alla prova i propositi e perfino le contraddizioni liberali del nuovo composito schieramento di centrodestra e del suo leader. E se avesse raggiunto il 4%, con un piccolo ma ragguardevole gruppo di parlamentari, che si sarebbero aggiunti agli eletti nei collegi uninominali, avrebbe avuto un rapporto di forza da far valere e un ruolo da giocare dal lato opposto dello schieramento politico rispetto a quello in cui si collocavano Occhetto e la sua "gioiosa macchina da guerra".
Dopo la sostanziale vittoria del centrodestra, Pannella propose a Berlusconi, Umberto Bossi e Gianfranco Fini un patto che prevedesse la realizzazione del federalismo, il passaggio a una repubblica presidenziale, con un sistema elettorale anglosassone (quindi maggioritario a tendenza bipartitica). L'accordo si trovò, anche se non ebbe alcun seguito; in più Pannella non divenne ministro degli esteri come avrebbe sperato e, quando gli fu proposto uno dei due posti da commissario europeo, lo dirottò su Emma Bonino (che la spuntò su Giorgio Napolitano, proposto da Giuliano Ferrara); da quell'esperienza Bonino acquisì grande visibilità e peso a livello nazionale e internazionale (anche se all'inizio aveva ricevuto deleghe poco influenti, ma riuscì a ottenere più spazi e più rilievo, investendo l'Unione europea "di una politica dei diritti umani", un esito allora del tutto inedito). Per Spadaccia, però, "[n]onostante i leader del centrodestra [...] fossero i meno condizionati dalla prassi partitocratica e dalla cultura proporzionalistica che ne era alla base, tuttavia anch’essi erano partecipi della profonda indifferenza che fino ad allora aveva sempre caratterizzato la classe politica nei confronti della governabilità del sistema e della necessità di profonde riforme istituzionali e costituzionali, soprattutto per quanto riguarda l’assetto ordinamentale della Repubblica"; a ciò si aggiungeva "l'assoluta assenza in Berlusconi di qualsiasi cultura politica e istituzionale". Questo avrebbe messo in crisi il rapporto di Pannella con il centrodestra (saltato del tutto dopo il voto del 1996: Pannella prima si vide negare un numero di collegi uninominali equivalente a quello dei post-Dc, poi non ottenne neanche il sostegno economico promesso in cambio del sostegno al centrodestra nel maggioritario).
Lo sguardo di Spadaccia è attento anche ai tentativi di "riempire il vuoto che si era creato fra il Partito radicale transnazionale e la Lista Pannella": prima, tra il 1994 e il 1996, venne il Movimento dei Club Pannella - Riformatori (guidato soprattutto da Benedetto Della Vedova e Vittorio Pezzuto), promotore dei nuovi referendum che si sarebbero votati nel 1995 (ma la Corte costituzionale ne avrebbe ammessi solo tre e altri tre appoggiati anche dalla Lega Nord - accanto a quelli promossi da altre forze politiche - e l'esito non fu comunque del tutto favorevole ai promotori). Se erano già nate realtà associative radicali legate a battaglie tematiche (a partire da Nessuno tocchi Caino e Non c'è pace senza giustizia, fondate da Sergio D'Elia e Mariateresa Di Lascia la prima, da Emma Bonino la seconda, fondamentali per l'ottenimento della moratoria della pena di morte e dell'istituzione della Corte penale internazionale permanente per i crimini contro l'umanità, il tutto mentre il Pr dal 1995 era diventato Organizzazione non governativa con stato consultivo generale di prima categoria presso l'Ecosoc dell'Onu), la mancanza di eletti nel 1996 e il mancato raggiungimento del quorum della nuova "lenzuolata" referendaria (sforbiciata dalla Corte costituzionale) votata nel 1997 richiesero una maggiore attenzione alla realtà italiana. 
Il successo della campagna "Emma for President" del 1999 - che non condusse Bonino al Quirinale ma portò la Lista Pannella, ribattezzata Lista Emma Bonino, a superare l'8% alle elezioni europee - mostrò che c'era il potenziale per ripartire, raccogliendo un consenso rilevante tra gli elettori. Il mancato raggiungimento del quorum nei referendum del 1999 e del 2000, tuttavia, fecero capire che ci voleva qualcosa di più di quell'esperienza senza partito in Italia; di più, nel 2001, la Lista Bonino tornò sotto il 4% e, senza far parte di alcuno dei due schieramenti principali (dai quali ottenere qualche candidatura certa nei collegi uninominali), lasciò i radicali di nuovo privi di rappresentanza parlamentare.
La nascita di Radicali italiani
, "movimento liberale, liberista, libertario", costituito soprattutto su insistenza di Daniele Capezzone - primo segretario - per cercare di riportare i radicali in Parlamento, segnò in qualche modo un nuovo inizio, con una nuova dirigenza che unì figure nuove (inclusi Luca Coscioni e Marco Cappato, che però era già presente da qualche anno) a chi aveva iniziato la militanza radicale nei decenni precedenti (da Rita Bernardini a Maurizio Turco, cofondatori della Lista Pannella). Crebbe la "galassia radicale" (di cui fece parte anche l'Associazione Luca Coscioni), ma nel 2003 le dimissioni dalla guida del Prt di Olivier Dupuis costituirono per Spadaccia "un momento di crisi della possibilità stessa di consolidamento del partito transnazionale", nel 2004 gli europarlamentari eletti dalla Lista Bonino furono solo due e l'anno dopo il pesante mancato raggiungimento del quorum dei quesiti di abrogazione parziale della legge n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita fu un colpo durissimo per radicali e laici.
Un segno rilevante di discontinuità si ebbe, paradossalmente (ma non troppo) dopo quella battaglia referendaria perduta: l'avvicinamento, sulla base della laicità e dell'anticlericalismo, tra Radicali italiani e Socialisti democratici italiani favorì la nascita della Rosa nel Pugno (ma provocò anche la scissione dei Riformatori liberali, più vicini al centrodestra). Il simbolo di Marc Bonnet rimise dunque insieme socialisti (che lo avevano usato in tanti altri paesi) e radicali (che in Italia lo avevano usato dal 1976 al 1987 e anche in seguito, rimpicciolito o citato solo in parte). La nuova vita dell'antico segno tuttavia fu complicata fin dall'inizio dall'avvento della nuova legge elettorale ("legge Calderoli"): prima per una norma che, tra le forze politiche di rilievo, costringeva solo la Rosa nel Pugno a raccogliere le firme, poi per la soglia di sbarramento del 3% al Senato che la escluse dal riparto dei seggi, negando l'accesso a Palazzo Madama a Pannella e Bernardini (la lista presentò invano ricorso, ritenendo di avere diritto ai seggi). Quell'esperienza comunque consentì al centrosinistra di vincere le elezioni e a Emma Bonino di diventare ministra delle politiche comunitarie del governo Prodi-bis: fu comunque un risultato, ma la battaglia successiva per l'amnistia dovette convertirsi in un "indultino" e il dibattito sul fine-vita sollevato da una lettera profonda di Piergiorgio Welby (che alla fine del 2006 ottenne di essere sedato, nel silenzio della legge e tra gli strepiti di chi lo riteneva illecito) non produsse alcuna norma in quella legislatura. In compenso, col passare dei mesi, i rapporti tra socialisti e radicali si logorarono e, all'atto delle elezioni anticipate del 2008, le strade si erano già separate (anche perché Daniele Capezzone nel frattempo aveva da tempo agito per avvicinarsi a Forza Italia e al nascente Popolo della libertà).
Gli ultimi 15 anni della storia sono noti. Il Partito democratico, formalmente aperto a chi veniva da culture liberaldemocratiche e laiche, in realtà si è dimostrato un sostanziale accostamento degli apparati ex Ds e Margherita: la candidatura di Pannella alle primarie per la guida del Pd fu respinta, a dispetto del lungo impegno per la nascita di un "partito democratico" (e i radicali non avevano partecipato alla fondazione del Pd perché mai erano stati invitati). A Radicali italiani non fu nemmeno concesso l'accordo di coalizione con il Pd, ma solo la presenza di alcune candidature nelle liste dem; la soluzione non era certo ideale (e Spadaccia spiega di essersi opposto, anche per l'esclusione dalle candidature di Pannella, D'Elia e Silvio Viale, pretesa dal Pd), ma di fatto portò all'elezione di nove parlamentari radicali (mentre l'inserimento dello sbarramento al 4% avrebbe lasciato fuori la Lista Bonino-Pannella dal Parlamento europeo nel 2009). 
Da quella posizione i radicali fecero le loro battaglie contro il tentativo di regolare il fine vita in senso severo, precludendo in ogni caso ogni atto qualificabile come "suicidio assistito" o "omicidio del consenziente", in reazione soprattutto al caso di Eluana Englaro (e ci si permette di pensare che l'atteggiamento 
intransigente di persone elette dal passato radicale, come Gaetano Quagliariello ed Eugenia Roccella, abbia rappresentato una ferita dolorosa per una figura con la storia di Spadaccia). Emma Bonino fu candidata per il centrosinistra alla guida della regione Lazio nel 2010 (Spadaccia si impegnò nello stilare il programma), si batté ma perse di misura (e probabilmente il Pd non si impegnò quanto avrebbe potuto e quanto aveva fatto in passato).
Bonino sarebbe diventata ministra degli esteri del breve governo guidato da Enrico Letta, a dispetto di un risultato decisamente insoddisfacente della Lista Amnistia giustizia libertà: "Mettendo al centro di quella definizione la nostra battaglia più radicale (e quindi necessariamente la più divisiva) - scrive Spadaccia - ottenemmo il doppio risultato di essere scarsamente riconoscibili, riuscendo comunque a coagulare, tra chi era in grado di riconoscerci, il massimo delle avversità e il minimo dei consensi". In quegli stessi anni, purtroppo - tra le rinnovate battaglie per la giustizia giusta, l'amnistia e il "diritto alla conoscenza" - si sono poste le basi per l'estrema difficoltà operativa del Partito radicale nonviolento transnazionale transpartito e per varie tensioni nel mondo radicale, in più casi destinate a produrre fratture, dolorose e talvolta sgradevoli. Non a caso, proprio con la presentazione di Amnistia giustizia libertà finisce - comprensibilmente - la storia raccontata da Spadaccia: scrive infatti che gli anni dal 2014 al 2016 hanno coinciso con "gli ultimi della vita di Marco Pannella: quegli ultimi anni e quelli successivi alla sua morte sono stati anni di divaricazioni, di divisioni e polemiche. Oggi non esiste un unico partito e un’unica galassia radicale ma almeno tre tronconi" (quello legato al Prntt ora guidato da Maurizio Turco, quello legato a Radicali italiani guidati da Massimiliano Iervolino e un terzo legato all'Associazione Luca Coscioni, di cui è segretaria Filomena Gallo).
     

Un "libro del noi" per un partito visionario

Quello firmato da Gianfranco Spadaccia è un volume corposo, impegnativo, non solo (e non tanto) per il numero di pagine, ma perché occorre tenere insieme molte cose, metterle al posto giusto, a volte alternando passi avanti e passi indietro, per non perdere i pezzi. Questo perché Il Partito Radicale è - come l'autore stesso proclama - "una storia di fatti", quelli accaduti intorno e quelli legati alle azioni di una forza politica, mai davvero detentrice del potere, assai raramente titolare di responsabilità, ma a lungo impegnata a "imporre riforme che hanno contribuito a trasformare la cultura di questo Paese" e "a tentare con tenacia, anche quando il successo purtroppo non ci ha arriso o è stato solo parziale e momentaneo, di riformare in senso democratico uno Stato profondamente inquinato dal potere partitocratico e corporativo". Questo grazie a (pochi) iscritti e (molti) simpatizzanti, a doppie tessere, a sforzi creativi tanto arditi quanto non sempre comprensibili, a singole o multiple battaglie tematiche inserite comunque in una "strategia generale di riforma della politica e dello Stato". 
Si tratta di un volume intellettualmente onesto, che non offre retroscena ma ciò che l'autore ha vissuto, concorso a far accadere o - da un certo momento in poi - solo osservato. Soprattutto, quello di Spadaccia è un "libro del noi", vista la frequenza con cui la prima persona plurale ricorre nella "narrazione", ma soprattutto per il modo in cui le vicende sono offerte. Parla un membro di una comunità, sì, ma riesce a dare il senso della comunità che parla, cerca di spiegarsi, anche nella sua complessità. Come più persone hanno già notato, dà l'idea di una storia corale, che però è anche una narrazione corale (a costo di essere a volte a velocità diverse, altre volte semplicemente un po' incasinata). Una storia in cui hanno avuto e hanno parte persone di varia provenienza e di vario approdo, arrivate tardi o prestissimo alla politica, a volte finite in galera (avendo cercato esattamente quell'esito) e altre volte semplicemente sui giornali (o, non di rado, ignorate dai media), ben note ai compagni (a partire dal nome più citato nel libro e che qui non può non figurare, Angiolo Bandinelli) o più simili all'immagine del "radicale ignoto", giunte ai vertici del partito o nelle aule parlamentari oppure stazionanti nelle sedi radicali o nei loro dintorni: non stupisce che il libro dedichi anche qualche pagina agli "esibizionisti degli anni Ottanta", personaggi più o meno improbabili, che nel partito nel corso del tempo avevano trovato un loro spazio.
Spadaccia rigetta per il Partito radicale l'etichetta di "partito carismatico", a proposito della lunga guida di Marco Pannella (che nel libro è certamente presente, senza che il libro sia su di lui): "Marco era indubbiamente una personalità carismatica ma non era un guru; era un leader politico capace di affrontare le imprese più difficili, apparentemente impossibili, dotato di saldi principi e di una visione del futuro in cui il realismo politico e la considerazione dei rapporti di forze si proiettava verso un orizzonte utopico. Ma una organizzazione carismatica presuppone un capo circondato da fedeli e da esecutori. Nel Partito Radicale, invece, il leader politico, che solo raramente ha ricoperto incarichi formali, ha sempre avuto accanto gruppi dirigenti di notevole qualità, con i quali si confrontava in continui incontri di lavoro, riunioni, seminari, in un rapporto caratterizzato dal libertarismo e da una forte dialettica democratica, contrassegnata dal ritmo dei congressi annuali." Anche chi scrive ora condivide piuttosto l'idea e l'immagine di un partito visionario: "questa parola - scrive sempre Spadaccia - contiene in sé, ambiguamente, oltre al riferimento a un pizzico di follia, anche la capacità di saper vedere oltre, di saper guardare al di là degli ostacoli e delle apparenze che la realtà immediata ti pone davanti. Presuppone dunque anche una certa capacità di antivedere, di comprendere con anticipo la direzione di sviluppo dei processi storici".
Le ultime pagine del volume riportano il ricordo del Satyagraha che nel 2009 coinvolse tutta la "galassia radicale", un'azione di lotta collettiva volta a tirare le somme di mezzo secolo di lotte radicali in relazione all’evoluzione della situazione politica italiana. Da quell'esperienza nacque la pubblicazione La peste italiana: Marco Pannella propose il titolo pensando a Camus ("Secondo Pannella, come era accaduto per il fascismo che in Italia si era prodotto con largo anticipo a ridosso della prima guerra mondiale e poi aveva infettato negli anni Trenta gran parte d'Europa, lo stesso fenomeno rischiava di ripetersi con la degenerazione partitocratica italiana a quasi un secolo di distanza"). Si trattava di un giudizio impietoso, con pochi spazi di speranza. Ma qualcosa c'era: "Da 60 anni - aveva scritto all'inizio Pannella - una puntuale e sistematica violazione della Costituzione viene dolosamente consumata contro il Popolo, quel 'demos' che vive deprivato delle condizioni minime di conoscenza e legalità, necessarie per esercitare il potere sovrano in forma legittima. In Italia non c’è democrazia ma partitocrazia, oligarchia, vuoto di potere, arroganza del potere, prepotenza e impotenza. L’ultimo arrivato, Silvio Berlusconi, e i suoi detrattori e accusatori sono in realtà l’espressione (finale?) di una identica vicenda politica. Sono accomunati da un comune destino, per ora illegale e drammatico, domani anche probabilmente violento e tragico. Lo sbocco è quasi obbligato. Il nostro tentativo, la nostra lotta sono tutti racchiusi in quel 'quasi'. La nostra speranza è di rappresentare una speranza: l’alternativa radicale possibile di una democrazia fondata sulla libertà di associazione e di partecipazione, sulla libertà di informazione e conoscenza, sulla libertà delle persone, soprattutto sul rispetto del diritto e della legge come forma suprema di legittimità delle istituzioni".
Per Spadaccia le analisi fatte allora si sono rivelate corrette: sarebbero emerse con nettezza "le responsabilità partitocratiche nel determinare la diffusa illegalità, la permanente instabilità, la paralizzante ingovernabilità, che sono all'origine della crisi degli ultimi anni". Anche le previsioni circa da degenerazione della democrazia e dello stato di diritto si sarebbero avverate, con la vittoria o l'avanzata del populismo e del sovranismo, in Italia come in altri paesi, e del "quasi" vergato da Pannella è rimasto ben poco (anche perché altrove la "democratura" è diventata una realtà senza troppi problemi. A complicare le cose, secondo l'autore, ci sarebbe la constatazione in base alla quale le varie componenti del mondo (ex galassia) radicale avrebbero "abbiano rinunciato definitivamente e forzatamente al compito" di rappresentare quella "alternativa radicale possibile" di cui si è detto, e che comunque non sarebbero più in grado di farlo, oltre che per le loro divisioni, per "la confusione dei linguaggi e la povertà delle idee, che in alcuni si manifesta con una fedeltà solo letterale alle analisi e ai giudizi del passato fino a volte a diventare fideistica, e, in altri, all'opposto, in una pericolosa deriva anarchicheggiante che sostituisce il rigoroso ancoraggio ai principi liberaldemocratici che ha caratterizzato il nostro libertarismo in tutta la storia radicale". 
Fa male leggere l'amarezza di queste righe, nella convinzione che la storia raccontata in circa 700 pagine meriti un finale migliore di questo. Una storia che - lo ha scritto pochi giorni fa il professor Paolo Ridola, commentando il volume - è quella di un'identità "sempre divisa tra il Parlamento e le piazze, ma guidata dall'idea di cogliere le aperture della società nella direzione di un pluralismo dinamico e conflittuale, insofferente verso gli steccati delle divisioni di classe, e soprattutto in 'radicale' contestazione di tutte le stratificazioni confessionali e corporative... e sempre facendo 'politica' senza limitarsi ad agitare bandiere". E di tutto questo, vissuto e agito insieme, ci sarebbe maledettamente bisogno anche oggi. Anche da parte di chi il Partito radicale non lo avrebbe mai votato o non lo voterebbe mai. Anche per questo, il libro di Gianfranco Spadaccia merita di essere letto con attenzione.

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Segnalo volentieri, e non certo per dovere, che tutte le fotografie scelte per illustrare questo articolo - salvo che sia diversamente indicato - provengono dal libro di Andrea Maori Partito Radicale. Immagini per una storia 1955-1990, pubblicato due anni fa e recensito allora dal sottoscritto (in quell'articolo si trova il contatto dell'autore, per chi volesse acquistarne una copia). Ringrazio di cuore Andrea per aver acconsentito all'uso delle immagini anche per parlare di un libro diverso dal suo: entrambi meritano davvero di essere sfogliati, letti e - con riguardo a quello di Maori - guardati con attenzione, impiegando il tempo che occorre. Senza fretta, ma con urgenza, perché la storia non merita di essere messa da parte.
Per il riferimento alla scoperta archivistica di Samuele Sottoriva, si veda anche il suo contributo - dal titolo Il Parti Socialiste e l’Italia. Una panoramica degli Archives socialistes di Parigi (1970-1990) - inserito nel n. 2/2019 della Rivista storica del socialismo (pp. 99-119, spec. 106-108).