martedì 19 gennaio 2021

"Interno Montecitorio": passi perduti, persone e pagine "simboliche"

I #drogatidipolitica sono abituati ai Palazzi che parlano, si animano e fanno notizia: la metonimia nel discorso politico ha una storia copiosa, così nelle pagine e nei servizi degli Interni affiorano indiscrezioni dal Quirinale, dichiarazioni da (Palazzo) Chigi, comunicati dalla Consulta, discorsi da Palazzo dei Marescialli, cifre dal Viminale, conteggi febbrili dalle parti di (Palazzo) Madama e via edificando. Ai tempi d'oro parlavano anche le sedi dei partiti, sia pure attraverso i loro più modesti indirizzi: note e "pastoni" erano un susseguirsi di opinioni e pensieri attribuiti a Botteghe Oscure, Piazza del Gesù, Via del Corso, Via della Scrofa; sarebbero poi apparse, ma molto meno, Via dell'Umiltà, Piazza Santi Apostoli, Via Nazionale, Via dei Due Macelli (quanto a Palazzo Grazioli, contava più per il suo principale inquilino che per il suo partito); ora tanti indirizzi tacciono, tranne - spesso suo malgrado - il Nazareno (un po' Palazzo e un po' Largo, ma meno lungo di Sant'Andrea delle Fratte, vero indirizzo della sede della Margherita e poi del Pd).
Tornando ai Palazzi, se il Quirinale, come sede del capo dello Stato, è "il colle più alto"; se per tradizione il potere principale in Italia - quello del Governo - è collocato a Palazzo Chigi; se la storia e il prestigio del Senato sono evocati nominando Palazzo Madama, di certo il compito di rappresentare il Parlamento e in fondo tutta la politica spetta a Palazzo Montecitorio, in cui è ospitata la Camera dei deputati. La storia del luogo in sé, delle persone che l'hanno retto e continuano a farlo vivere (nei loro rispettivi ruoli) e dei fatti di cui è stato teatro meritano l'attenzione che le cronache non hanno il tempo di offrire e sollecitare: si tratta di una messe ricchissima di storie che insieme - tutte, anche la più minuta o laterale - concorrono a creare la Storia dell'istituzione che in Italia più incarna la democrazia, pure nelle sue pagine meno edificanti.
Quella storia è stata ripercorsa ancora di recente da uno dei suoi massimi conoscitori, Mario Pacelli, già funzionario di lungo corso alla Camera, da tempo appassionato di storia italiana e parlamentare, autore di numerosi libri (qui si è già parlato di Ad Hammamet, su Bettino Craxi). Alla fine di ottobre del 2020, infatti, Giappichelli ha pubblicato la quarta edizione rivista e aggiornata di Interno Montecitorio, opera consistente - 400 pagine, 39 euro - che Pacelli ha curato con Giorgio Giovannetti, giornalista parlamentare esperto e saggista (e con cui Pacelli nel 2017 ha curato anche Il colle più alto, dedicato alle varie vite del Quirinale e di chi lo ha popolato). Non c'è ovviamente la pretesa di raccontare tutto sulle vicende del Palazzo legato ai lavori dei deputati, ma nelle tante pagine del volume possono ritrovare una miriade di notizie, dettagli interessanti e spunti di approfondimento tanto le persone semplicemente curiose, quanto coloro che desiderano avere buone nozioni di base di storia dell'istituzione parlamentare in Italia (e per i #drogatidipolitica questo è un must irrinunciabile).

Palazzi, capitali, aule: luoghi da trovare, creare, adattare 

Resoconto della prima seduta
Se si parla di Palazzi, dal Palazzo occorre partire. Anzi, dai Palazzi
: a dispetto di quanto il titolo suggerisce, Interno Montecitorio non si limita affatto all'edificio che ospita la Camera dei deputati dal 27 novembre 1871 e che solo dal 20 novembre 1918 conta sull'aula attualmente utilizzata, elemento principale di un altro Palazzo costruito aderente alla vecchia Curia innocenziana e perfettamente raccordato a questa. Pacelli infatti inizia il suo percorso - con debito corredo di disegni, stampe e fotografie d'epoca - da Torino, in particolare da Palazzo Carignano, vecchia residenza di famiglia liberata dal nuovo re Carlo Alberto, dove la Camera dei deputati del Regno di Sardegna si riunì dall'8 maggio 1848. I primi componenti - tutti uomini, come il tempo richiedeva - erano stati eletti in collegi uninominali con un sistema a doppio turno; ignoravano però che per la prima seduta ci si sarebbe dovuti riunire in un'aula provvisoria al piano terra, perché l'aula vera non era ancora pronta; in più, "quando si trattò di procedere alla prima votazione, mancavano le urne, di cui nessuno evidentemente aveva previsto la necessità. Si ricorse, così, ad un cappello a cilindro, messo a disposizione da uno dei presenti". In quella seduta, la Camera si diede come regolamento provvisorio quello "per cura dei Ministri del Re compilato", senza valersi dell'autonomia regolamentare che l'avrebbe caratterizzata in seguito; il 16 maggio fu invece eletto per acclamazione il primo presidente, cioè Vincenzo Gioberti, che interpretò il ruolo "non [come] arbitro imparziale, sul modello dello speaker della Camera dei comuni, ma [come] espressione di una maggioranza politica".
Col passaggio dal Regno di Sardegna al Regno d'Italia, nel 1861, il Palazzo rimase lo stesso, almeno fino a quando, nel 1865, la capitale del regno fu trasferita a Firenze e anche la Camera dovette traslocare, per l'esattezza a Palazzo Vecchio. Se Pacelli racconta che lo spostamento della capitale "produsse più danni che benefici", non fu meno laborioso trasferire l'istituzione parlamentare: riprese la ricerca travagliata - tra concorsi banditi e progetti premiati ma non realizzati - di soluzioni per trovare ambienti idonei e adattarli alle esigenze dell'assemblea e dei suoi membri ("specie quando la Camera si riuniva in seduta pubblica, l’aula risultava scarsamente aerata ed il caldo nella stagione estiva si faceva opprimente"). 
Dopo la presa di Roma e la sua elevazione a capitale, il problema di trovare sistemazione alla Camera elettiva si ripresentò e l'istituzione pretese di avere l'ultima parola nella scelta del luogo in cui stabilirsi: all'inizio di gennaio del 1871 ci si accordò per eleggere come nuova sede dell'assemblea dei deputati il Palazzo Montecitorio (anzi, Monte Citorio, come recita ancora la targa della piazza), finito nel 1695 su progetto di Carlo Fontana dopo una storia travagliata - che Pacelli ripercorre in pagine agili e coinvolgenti e che vide il coinvolgimento di Gian Lorenzo Bernini - e destinato a sede della Curia da papa Innocenzo XII. 
Dal Corriere della Sera, 7-8 luglio 1893
La Camera vi si sarebbe trasferita (da sola, rifiutando la convivenza con il ministero dell'interno proposta dal governo) il 27 novembre 1871, dopo che fu realizzata la prima aula provvisoria su progetto di Paolo Comotto, ingegnere che aveva lavorato agli allestimenti di Palazzo Carignano e Palazzo Vecchio: era "un'aula in legno e stucco, quasi una scenografia", realizzata nel cortile interno del Palazzo, non completata all'atto dell'insediamento ma apparsa subito inadeguata, a dispetto dell'enorme somma spesa. "Il legno, gli stucchi e il colore rosso pompeiano con cui era stata dipinta - annota Pacelli - la rendevano scura, anzi cupa, tanto che alcuni giornali la paragonarono a una cripta funeraria. [...] L'impianto di illuminazione non funzionava e l'aula risultava fredda e piena di spifferi", al punto che i deputati furono autorizzati a restarvi con cappello, paletot, pelliccia e sciarpa. Si rimediò al problema del freddo con dei lampadari (che però rischiarono di bruciare le tribune in legno), ma non si poté fare nulla di utile contro i disagi del caldo estivo: fu proprio lì che nacque la "cerimonia del ventaglio", ricevuto per la prima volta nel 1893 in dono dal presidente Giuseppe Zanardelli dopo che questi l'aveva invidiato ai giornalisti parlamentari che ne facevano uso in tribuna per non squagliarsi.
Ventaglio a parte, le scomodità e i disagi erano ben altri e col tempo peggiorarono, anche sul piano della stabilità della struttura (che venne demolita nel 1899, dovendosi utilizzare l'anno dopo un'altra aula provvisoria, sempre in legno e stucco e ugualmente scomoda, in uso fino al 1918), per cui si vagliarono e si scartarono varie ipotesi, inclusa quella di concentrare in via Nazionale i due rami del Parlamento. Alla fine si scelse di realizzare un'altra aula in muratura dietro Montecitorio: nel mese di giugno del 1902 si diede l'incarico diretto all'architetto Ernesto Basile (molto noto e, per giunta, legato all'obbedienza massonica del Grande Oriente d'Italia). Il progetto arrivò a febbraio del 1903, fu approvato l'anno dopo, ma fu completato solo nel 1927, nove anni dopo l'inaugurazione dell'aula (e con una spesa imprecisata, ma di certo superiore a 45 milioni di lire): ne risultò un edificio in stile liberty, con grande cura per i dettagli e la scelta dei materiali e predisponendo anche canalizzazioni per riscaldare o raffreddare l'aula (ma in seguito sarebbero serviti anche per "far passare i cavi dei microfoni utilizzati per registrare le conversazioni che si svolgevano nel palazzo"). 
L'aula era ed è tuttora separata dal cortile d'onore (di nuovo libero) da un salone rettangolare lungo 56 metri e largo 11, noto come "Salone dei passi perduti" o "Transatlantico" (a motivo del "soffitto di legno intarsiato, realizzato sullo stile e con i lampadari usati all’epoca nei saloni da ballo dei transatlantici"); a una delle due estremità fu ricavata la buvette, "un caffè, analogo a tanti altri di quel tempo, con quattro tavolini in ferro con il piano di marmo bianco ed un lungo bancone dello stesso stile". Un luogo a suo modo mitico, "perfetto per sancire l’inizio di una amicizia o la fine di un’alleanza" secondo Giulio Andreotti, ma anche un luogo potenzialmente rischioso: nel 2002 la Corte costituzionale avrebbe stabilito (con la sentenza n. 509) che un'affermazione diffamatoria verso un deputato, pronunciata lì ma a voce abbastanza alta da essere avvertita anche in Transatlantico dai giornalisti, non poteva ritenersi funzionale all'attività parlamentare e, come tale, non era coperta dall'insindacabilità (ne avrebbe fatto le spese Fabio Mussi, nel processo per diffamazione intentato da Cesare Previti quattro anni prima).
Fatta l'aula, non cessarono le necessità di spazio: soprattutto con l'avvento della Repubblica -anche la Costituente tenne lì le sue sedute - e il progressivo incremento dei deputati (fino alla revisione costituzionale del 1963 che ne fissò il numero in 630), nonché con la creazione delle Commissioni permanenti e l'ampliamento della burocrazia parlamentare, la Camera ebbe bisogno di espandersi rispetto a Montecitorio. Nel volume di Pacelli, in particolare, si dà conto dell'acquisizione dei locali in via Uffici del Vicario (tuttora destinati ai gruppi), del restauro dell'ex monastero delle Oblate benedettine in vicolo Valdina (ora occupato essenzialmente da uffici di parlamentari) e, soprattutto, del travaglio legato alla sede della Biblioteca della Camera, originariamente destinata a un palazzo da costruire in via della Missione ma poi collocata nell'ex insula domenicana di via del Seminario (vicina al Pantheon, là dove stava il ministero delle poste), luogo condiviso con le commissioni bicamerali, d'inchiesta e l'archivio storico della Camera. In passato erano stati occupati anche altri palazzi, che però sono stati via via dismessi, nel tentativo di fare economia; dopo il taglio dei parlamentari, si starà larghi persino in aula e col Parlamento in seduta comune non si farà a cazzotti.

Le persone giuste per la "cultura del Parlamento"

Fermarsi al Palazzo, tuttavia, non è né possibile né opportuno. Il contenitore è maestoso e affascinante, ma il contenuto è essenziale: Pacelli lo descrive come "un mare frequentato da ogni genere di specie, dove l'esperienza è un elemento essenziale per nuotare, sopravvivere e cercare di realizzare il bene comune". Fin dall'inizio, hanno popolato la Camera varie nature di persone, che naturalmente sono cambiate nel corso del tempo. Ci si riferisce agli eletti (e, solo dal 1946, alle elette), ma anche a chi non metteva piede in aula, come giornalisti e rappresentanti di interessi (lobbisti, se proprio ci tenete a chiamarli così): a loro e a tante altre figure sono dedicate varie schede interessanti e curiose all'interno del testo. Soprattutto, però, occorre ricordare che l'intera macchina di ogni istituzione e in particolare della Camera ("clinica della Costituzione", secondo un'intensa espressione coniata da Silvano Tosi, primo titolare della cattedra di Diritto parlamentare) non potrebbe funzionare senza personale adeguatamente formato e competente, dalle poche figure di vertice a quelle di base.
Leggendo il volume di Pacelli appare ben chiaro che ripercorrere la storia della Camera significa anche (se non soprattutto) passare in rassegna la storia della sua amministrazione, delle persone che l'hanno guidata e delle scelte da loro fatte perché la "cultura del Parlamento" (vale a dire "l'insieme di norme, regole, prassi, comportamenti, stili e tradizioni che costituiscono la bussola con cui orientarsi nella più importante istituzione rappresentativa") sia rispettata, valorizzata e diffusa nel modo più efficace possibile. Si sono succedute scelte visibili o poco palpabili, svolte decise o riforme non compiute, scelte sagge e decisioni meno commendevoli; in qualche caso è facile ricostruire l'accaduto, in altri frangenti si può procedere solo per indizi e per ipotesi. In ogni caso, Palazzo Montecitorio in un secolo e mezzo di vita parlamentare ha visto esperienze di ogni tipo, che meritano di essere sfogliate.
Per chi appartiene alla categoria dei #drogatidipolitica è profondamente ingiusto e ingeneroso qualificare i tanti dipendenti del Parlamento ("dipendenti di Stato", non "dello Stato", come insisteva Vittorio Emanuele Orlando) come una pletorica e pesante voce di spesa. Basti pensare che, senza gli stenografi - una figura che non esiste più, ma che ha avuto un ruolo fondamentale - e chi si è occupat* e si occupa dei resoconti delle sedute di assemblea e commissioni, oggi non avremmo alcuna memoria dell'attività della Camera (e senza chi lavora al servizio informatico non sarebbe accessibile da ogni computer di casa una marea di informazioni e documenti, anche relativi alle ultime sedute); senza le molte persone addette alla biblioteca - aperta al pubblico dal 1988 - nessuno avrebbe accesso a una delle collezioni di volumi e altro materiale di studio più rilevanti per chi si occupa di diritto, politica e altre materie (e qualcosa di simile può dirsi per l'archivio). Soprattutto, senza i funzionari che si occupano dell'assemblea, delle commissioni, dei servizi studi e bilancio (senza dimenticare gli altri), il lavoro di qualunque deputata o deputato, di qualsiasi gruppo parlamentare sarebbe, se non impossibile, decisamente peggiore.
Di questo è cresciuta la consapevolezza con l'andare del tempo e nelle pagine del libro di Mario Pacelli - che della storia dell'amministrazione della Camera è stato per vari anni anche testimone diretto -  questo si avverte. Particolare attenzione è dedicata alle figure che via via hanno ricoperto il ruolo di vertice di quella struttura, cioè la segreteria generale: si è trattato sin dall'inizio di una posizione di potere e, anche per questo, estremamente delicata, come da sempre sono stati delicati i rapporti con la persona che in quel momento ricopre l'ufficio di Presidente della Camera (e, in modo più esteso, con l'Ufficio di Presidenza, che rappresenta l'organo collegiale di direzione politico-amministrativa della Camera e di cui fanno parte vicepresidenti, questori e segretari d'aula).
Scorrendo i nomi che si sono avvicendati al vertice dell'amministrazione dalle origini fino alla segretaria attualmente in carica (dal 2015), Lucia Pagano, si trovano figure entrate nella storia. nel volume di Pacelli si cita spesso Camillo Montalcini, segretario dal 1907 al 1927: uomo dalla formazione costituzionalistica, in piena età giolittiana improntò l'amministrazione della Camera all'imparzialità perché potesse essere garante per chiunque le si rivolgesse, a prescindere dalla parte politica (e a partire dal 1920, con il riconoscimento dei gruppi parlamentari, i partiti entrarono ufficialmente a Montecitorio); il fascismo tentò di sfruttare quel canone della neutralità politica per smantellare la struttura amministrativa creata da Montalcini (portando questi, che fascista non era, a lasciare l'incarico dopo un'indagine sulla massoneria, di cui probabilmente egli faceva parte), ma passata l'epoca fascista - comunque analizzata nel libro - e proclamata la Repubblica l'amministrazione tornò ad assumere i caratteri impressi dallo stesso Montalcini, incluso il ruolo preminente del segretario generale.
Dopo le prime riforme in epoca repubblicana (tra il 1948 e il 1953), un altro snodo fondamentale si ebbe - metabolizzato tra l'altro l'ingresso delle telecamere in Parlamento nel 1955 - a partire da 1964, quando arrivò al vertice dell'amministrazione della Camera Francesco Cosentino: figlio dell'ex segretario generale Ubaldo, entrato alla Camera nel 1947 per concorso, è stato noto per anni anche al di fuori degli ambienti parlamentari - sia pure con il solo cognome - per avere curato uno dei più noti commenti alla Costituzione (con tanto di riferimenti ai lavori preparatori dell'Assemblea costituente, ai quali aveva personalmente assistito assieme agli altri curatori, Vittorio Falzone e Filippo Palermo, peraltro nominati rispettivamente estensore del processo verbale e vicesegretario generale un mese dopo la nomina di Cosentino da parte dell'Ufficio di Presidenza di Montecitorio). Il nuovo segretario generale, nei suoi dodici anni di permanenza alla guida dell'amministrazione, strinse relazioni con molte figure politiche, concepì una Camera più efficiente, in cui tanto la maggioranza quanto l'opposizione dovevano avere precisi ruoli, delimitati e corroborati da diritti e obblighi; si sarebbe per questo dovuta accentuare la neutralità dei dipendenti (in grado di collaborare da "tecnici esperti" con chiunque e da interpretare e applicare in modo imparziale il regolamento) e sarebbe stata necessaria un'attenzione spiccata per la documentazione parlamentare come ingrediente essenziale per un'assemblea moderna e realmente consapevole. Queste linee guida informarono la riforma iniziata appunto nel 1964 e proseguita per alcuni anni; non si trattò di innovazioni soltanto rose e fiori e non tutto andò per il meglio, ma nessuno dubita del valore di "pietra miliare" di quel passaggio. 
Nel 1971 - giusto cinquant'anni fa - si ebbe l'adozione dei nuovi regolamenti parlamentari di Camera e Senato, gli stessi che - pur modificati, anche in modo sensibile - continuano a essere vigenti oggi, nella struttura e nell'impostazione: nell'ottica di "disgelo costituzionale" ormai in atto da tempo, si volle "porre il Parlamento al centro del Paese, quale sintesi dei centri di energia della Nazione, come affermò Aldo Bozzi, e ricercare una compartecipazione delle opposizioni nelle decisioni" (anche se l'idea di Cosentino, lo si è visto, era un po' diversa). Protagonisti delle Camere divennero, una volta per tutte, i gruppi parlamentari, "strutture portanti e, in un certo senso, egemoniche delle Assemblee", sempre secondo Silvano Tosi; i presidenti delle Camere divennero più garanti che soggetti di parte, mentre la programmazione dei lavori passò alla Conferenza dei capigruppo, in cui tutte le articolazioni maggiori erano rappresentate. Francesco Cosentino dovette uscire di scena nel 1976, in modo anche piuttosto burrascoso, per una vicenda collaterale allo scandalo Lockheed e forse per altre ragioni che sarebbero emerse anni dopo (si rimanda al volume per fatti, ipotesi, indizi e dubbi); di quel periodo resta soprattutto una dichiarazione rilasciata a una commissione d'inchiesta parlamentare dallo stesso Cosentino - e riportata da Pacelli - circa il compito del segretario generale della Camera: questi doveva essere "il custode del tèmenos, il recinto sacro del tempio greco, quello in cui solo i sacerdoti potevano entrare".
Anche in seguito, in ogni caso, non mancarono nomi destinati a essere ricordati, come quelli di Antonio Maccanico (entrato per concorso insieme a Francesco Cosentino e suo successore nel 1976, sia pure per soli due anni, cioè fino a quando fu chiamato alla segreteria generale del Quirinale da Sandro Pertini, primo presidente della Camera con cui aveva collaborato) e di Ugo Zampetti (rimasto al vertice dell'amministrazione della Camera dal 1999 alla fine del 2014, per poi passare dopo la pensione alla segreteria generale del Quirinale con Sergio Mattarella). Il libro di Pacelli e Giovannetti dà conto anche di momenti assai meno luminosi conosciuti dall'amministrazione camerale: questi sono stati legati soprattutto a dissidi con chi occupava la Presidenza (accadde prima con il rapporto complesso tra Nilde Iotti e Vincenzo Longi, arrivato alla rottura nel 1988, poi con il "braccio di ferro" tra Luciano Violante e Mauro Zampini, durato fino al 1999) oppure a situazioni anomale e di difficile gestione (ci si riferisce in particolare alla segreteria "bicefala" durata dal 1989 al 1994, con Donato Marra come segretario generale preposto ai servizi assemblea, commissioni e studi e Silvio Traversa quale segretario generale aggiunto preposto all'organizzazione amministrativa e al personale).

Pagine "simboliche" di varia natura

Da Google Maps Satellite
Interno Montecitorio
racconta tutto questo, ma non fa mancare a chi legge una messe incalcolabile di informazioni e di dettagli, magari sfuggiti anche a chi ha una pur minima conoscenza della storia del Parlamento. Nel volume, per esempio, si ricorda come in un primo tempo l'architetto Ernesto Basile, dopo aver realizzato l'aula, fece sostituire la salita verso l'ingresso principale di Piazza di Monte Citorio con una piccola scalinata; nel 1998 però il comune di Roma, sulla base di un progetto "approvato dalla commissione artistica della Camera ed elaborato da Franco Zagari" ripristinò la salitella, "realizzando però una sorta di piazzola davanti al portone", con "una striscia di marmo chiaro dalla base dell’obelisco [quello fatto innalzare lì da Pio VI) al portone principale di palazzo Montecitorio, con i segni zodiacali e l’indicazione dei punti in cui, da marzo ad ottobre, un raggio di sole passando attraverso la camera cava posta sulla cima, interseca l’ombra dell’obelisco a mezzogiorno 'vero' (cioè astronomico)". 
Precisa Pacelli che "non si tratta di una meridiana in senso proprio e non è il ripristino di qualcosa di già esistente: è piuttosto un tentativo di dare un senso compiuto ad una piazza lasciata a metà, dopo l’abbandono dell’originario progetto del Bernini"; lui stesso peraltro nota che "la striscia di marmo chiaro che parte dall’obelisco e che incrocia i sei semicerchi concentrici aventi per centro l'ingresso principale del palazzo sembra formare una enorme menorah, il calendario a sette braccia della tradizione ebraica e massonica. Secondo alcuni, le fiamme del candelabro entrano nel Palazzo con l’auspicio che la luce possa 'illuminare' il tempio della democrazia. Inoltre, in tutta la piazza sono state incastrate tra i sanpietrini numerose stelle, in antimonio come le colonnine e le catenelle e dello stesso colore dei selci della pavimentazione, segnano una linea curva intorno all’edificio". Qui non si aderisce ad alcuna lettura complottista o massonica (data anche, secondo alcuni, dalla natura di simbolo massonico delle stesse stelle), si prende semplicemente atto di questa curiosità: è invece noto che nel non lontano Palazzo Giustiniani - vicino a Palazzo Madama, dove ora si trova l'appartamento di rappresentanza del Presidente del Senato insieme a vari uffici senatoriali - ha avuto sede il Grande Oriente d'Italia sino al 1985 (e ancora nel 2015 il Gran Maestro del Goi rivendicò il diritto a riottenere alcuni locali del palazzo, sottratto in epoca fascista, in base ad accordi intercorsi negli anni '80 con l'allora presidente Spadolini), mentre di vari "abitanti" di Montecitorio (eletti e funzionari) era nota o probabile l'affiliazione a logge massoniche.
Se questa pagina, a suo modo, ha un certo potenziale "simbolico", se ne ritrova altrettanto - ma assai più simile a quello cui lettrici e lettori di questo sito hanno fatto l'abitudine - nelle parti del volume dedicate all'evoluzione delle norme regolamentari e delle prassi. Si è già ricordato il passaggio dell'approvazione dei regolamenti del 1971 come un punto fondamentale della storia del Parlamento della Repubblica; cinque anni dopo, nel 1976, nello stesso spirito che aveva portato a quei regolamenti venne eletto alla presidenza della Camera per la prima volta un esponente del Partito comunista italiano (Pietro Ingrao, prima della lunga presidenza Iotti), ma soprattutto si registrò l'ingresso di un manipolo di quattro persone elette sotto il simbolo del Partito radicale. In quella VII legislatura i primi nomi legati alla rosa nel pugno furono Marco Pannella, Emma Bonino, Adele Faccio e Mauro Mellini: loro - e le persone che subentrarono dopo le dimissioni di questi - fecero l'impossibile per introdurre i loro temi nell'agenda politica. Come scrive lo stesso Pacelli, "per pubblicizzare le loro iniziative e sostenere le loro campagne, i radicali utilizzarono tutti gli strumenti concessi dai regolamenti parlamentari: così l'ostruzionismo si trasformò da arma estrema ed eccezionale (quale era stata fino ad allora), in prassi costante". 
La pratica divenne più consistente nella successiva legislatura quando il Partito radicale ottenne addirittura diciotto seggi e, grazie alle norme del regolamento di Montecitorio (che consentivano costituire un gruppo autonomo anche con meno di venti eletti, purché questi avessero rappresentato "un partito organizzato nel Paese che abbia presentato, con il medesimo contrassegno, in almeno venti collegi, proprie liste di candidati, le quali abbiano ottenuto almeno un quoziente in un collegio ed una cifra elettorale nazionale di almeno 300 mila voti di lista validi"), i radicali ottennero di costituire un gruppo: questo ampliò gli strumenti ostruzionistici a loro disposizione, sempre in base al regolamento del 1971. Merita di essere riletto, in questo senso, il "dialogo" tra Andrea Manzella e Marco Pannella contenuto nel volume Regolamenti parlamentari e forma di governo: gli ultimi quarant'anni (Giuffrè, 2015, pp. 1-32) curato da Fulco Lanchester, per giustapporre le opinioni di chi aveva concorso alla scrittura di quelle norme e di chi aveva fatto di tutto per metterle sotto stress. Fu peraltro sempre in quella VIII Legislatura - la stessa che vide gli interventi dalla lunghezza record di Roberto Cicciomessere e, ancor più, di Marco Boato - che si approntarono i primi strumenti antiostruzionismo: prima il "lodo Iotti" sull'illustrazione degli emendamenti di opposizione in caso di apposizione della fiducia (1980), poi alcune riforme regolamentari che sarebbero continuate nella legislatura successiva. Pacelli dà ampiamente conto di tutto ciò che si fece per rendere più difficili manovre dilatorie e ostruzionistiche (per cui, in sostanza, l'opposizione avrebbe potuto continuare a fare il suo "lavoro", senza però impedire alla maggioranza di decidere, se ne aveva la forza); sarebbero arrivate più avanti altre riforme di rilievo, a partire dalla drastica limitazione dello scrutinio segreto (X Legislatura) fino agli interventi della XIII Legislatura - sotto la presidenza Violante - per favorire una "democrazia decidente" ma anche per tentare di migliorare la qualità della legislazione.
Tutto questo si trova nel libro di Mario Pacelli e Giorgio Giovannetti: il racconto del cuore della democrazia italiana, ricco di fasi importanti, luminose, buie e anche involontariamente comiche. Come quando, dopo che Luciano Violante ebbe stabilito che il numero legale dovesse calcolarsi su chi era effettivamente presente in aula e non sul numero minore di effettivi partecipanti al voto, "nelle prime sedute in cui fu applicata la nuova interpretazione accadde di tutto: fughe precipitose dall’Aula, deputati che si sedevano nei posti di altri e anche qualcuno che scivolava indecorosamente sotto lo scranno". Si può sorridere, per questa sorta di nascondino fuori tempo massimo, o scuotere la testa pensando che questo in un Parlamento non dovrebbe accadere. Come quando, il 3 giugno 1997 Mara Malavenda, sindacalista Cobas eletta in Rifondazione comunista, protestò in modo plateale per i suoi 1500 emendamenti sul lavoro interinale dichiarati irricevibili continuò a parlare dopo che il presidente Violante le tolse la parola (il tempo a disposizione era finito), disturbando gli altri interventi: per questo ebbe due richiami e rasentò più volte il terzo, ma raggiunse l'apice quando, per farsi sentire dopo la bocciatura di alcuni suoi emendamenti ammessi, "si infilò in bocca un fischietto e iniziò a soffiare. Il presidente Violante, dopo averla richiamata, la espulse. La Malavenda si legò con un foulard al suo banco continuando a fischiare. Intervennero i commessi, con difficolta e dopo qualche minuto riuscirono a tagliare il fazzoletto, mentre il fischio forte e stridente continua a riempire l’Aula. La deputata, presa di peso dai commessi, si fece trascinare nell’emiciclo continuando a fischiare e a gridare. Giunta sulla porta si mise di traverso continuando a fischiare. Tenuta ferma a terra dai commessi - riferì l’Adnkronos - cercò di 'rotolare verso il centro del Transatlantico', naturalmente sempre fischiando. La performance si concluse per la rottura del fischietto". Anche qui si può sorridere o disapprovare quanto è successo. Eppure è successo e, in seguito, è accaduto persino di peggio...

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