giovedì 16 agosto 2018

Il Partito fascista repubblicano: una storia da conoscere meglio

In questo sito ci si è sempre occupati del presente o di un passato non troppo remoto, al di là di alcune storie archiviate da tempo che meritavano di essere raccontate; ci si è comunque limitati alla storia della Repubblica (Prima, Seconda o seguenti, non importa), per non allargare troppo il campo di indagine e mantenere anche, sul piano dei simboli, un minimo di omogeneità grafica (a partire dalla forma circolare che ha caratterizzato quasi tutta la storia repubblicana) e normativa. Ciò non significa, però, che temi che esulano da questo periodo di interesse non siano degni di approfondimento: è il caso, ad esempio, del Partito fascista repubblicano, relativo dunque alla Repubblica sociale italiana.
Di quella formazione politica si è occupato relativamente di recente Roberto D'Angeli, studioso di storia contemporanea e tra i collaboratori storici di questo sito. Nel 2016 Castelvecchi ha pubblicato la sua Storia del Partito fascista repubblicano, in cui sono ripercorsi poco meno di due anni di vicende politico-partitiche nel contesto della Repubblica di Salò e relative a un soggetto politico  nato soprattutto per volontà e opera di Alessandro Pavolini, prima ancora che di Benito Mussolini: anzi, quando il partito nacque, l'ex Duce era ancora prigioniero sul Gran Sasso.

Il volume ha colmato di fatto una lacuna nella letteratura, visto che gli studi in precedenza si erano concentrati su altre istituzioni della Repubblica di Salò; ciò è stato possibile nonostante alcune oggettive criticità nelle ricerche, che però l'autore ha condotto in modo rigoroso e il più possibile completo. La maggiore difficoltà incontrata è consistita nella distruzione di gran parte degli archivi centrali e federali dell'epoca, ordinata dai vertici del partito stesso: D'Angeli ha confrontato le carte a qualunque titolo rimaste (quelle sul Pfr e su Pavolini, nonché quelle - non bruciate - sulla federazione del partito di Milano all'Archivio centrale dello Stato; i documenti relativi alla federazione di Pesaro, sequestrate dai partigiani di Crema e ora depositate presso l'Istituto di Storia contemporanea di Pesaro e Urbino), integrate con pubblicazioni dell'epoca, memorie delle persone che avevano fatto parte della struttura del partito (soprattutto Pino Romualdi, che visse tutta l'esperienza del Pfr, e Vincenzo Costa) e con opere che hanno trattato la Repubblica sociale in modo più ampio (scritte, tra gli altri, da Renzo De Felice e William Deakin).


Le origini e l'evoluzione

Alessandro Pavolini
Il 14 settembre 1943 Mussolini - liberato due giorni prima - incontrò Hitler a Rastenburg e si sentì dire che avrebbe dovuto riprendere il potere per costruire un nuovo Stato fascista; il giorno dopo lo stesso Mussolini emanò cinque ordini del giorno con i quali, tra l'altro, nominò Pavolini (che entrò di diritto nel nuovo governo) "segretario provvisorio del Partito nazionale fascista, il quale assume d'ora innanzi la dizione di 'Partito repubblicano fascista'", partito che doveva essere immediatamente ricostituito. Fin dal 9 settembre (e ancor di più nei giorni immediatamente successivi), all'indomani dell'annuncio dell'armistizio, il Partito era però già stato riattivato in molte città del Nord (a partire da Trieste) e in alcune del Centro; alla fine di settembre, come segnala l'autore, "la ripresa dell’attività fascista nel territorio compreso tra Napoli e Bolzano può dirsi compiuta".
L'immagine di questo soggetto politico appare diversa rispetto a quella del precedente Partito nazionale fascista: contava la periferia assai più del centro (la ricostruzione era partita dai gruppi locali e si voleva evitare di ripartire con una struttura burocratizzata). Protagonisti della ricostituzione, più che gli ex gerarchi (che spesso temevano di subire conseguenze negative e il cui ruolo non era granché riconosciuto dai nuovi attivisti), erano "gli squadristi della vecchia guardia, l’ala più intransigente ed estremista", in più c'era l'espresso diktat di Pavolini di reclutare i nuovi iscritti "prevalentemente tra gli operai, i contadini, i piccoli impiegati e i professionisti, tenendo rigorosamente lontani i plutocrati, gli arricchiti, tutti coloro che con la sola presenza nei ranghi potrebbero creare localmente una falsa impressione di riviviscenze reazionarie, agrarie, capitaliste, mentre il Partito vuole avere e avrà un netto e radicale contenuto sociale" (come dimostrato anche dalla dedica di 10 dei 18 punti del Manifesto di Verona proprio a questioni sociali). Nel libro si citano come fascisti repubblicani pure i giovani "cresciuti all’ombra del Fascio littorio, spesso consapevoli che la partita è ormai persa, che scelgono il Pfr […] come gesto di coerenza politica e ideale, di sfida contro la rassegnazione passiva all’inevitabile, di battaglia estrema in difesa del proprio onore, per cancellare con le armi l’accusa di tradimento mossa dai tedeschi".
Il Partito fascista repubblicano, dunque, presentava elementi di novità rispetto al Pnf, ma appariva ugualmente nuovo a chi vedeva il nuovo corso come "un Fascismo che saprà realizzare quella rivoluzione che il regime non ha potuto o voluto attuare e che porterà all’adesione piena delle masse". Il nuovo soggetto politico, nelle intenzioni di Pavolini, avrebbe dovuto essere "partito di lavoratori, partito proletario, animatore di un nuovo ciclo sociale, senza più remore plutocratiche" e senza compromessi con i Savoia di turno. 
Nuova era anche l'organizzazione interna, con l'archiviazione del sistema gerarchico e la preferenza per dirigenti eletti dalle assemblee locali (sostituiti da un commissario solo ove la situazione locale lo richiedeva, anche se i capi delle province - figure che sostituivano i prefetti, ma dotate anche di poteri politici - erano comunque nominati dal ministero dell'interno, di concerto con il ministro segretario del partito), oltre che - in una prima fase - con uno spazio maggiore al diritto di critica, pur senza far venir meno un atteggiamento generalmente ritenuto estremista (che, per esempio, spense le velleità conciliatorie di "pacificazione nazionale" on gli antifascisti che da alcune parti si erano fatte strada). 
Il Pfr restò una realtà provvisoria fino al 23 gennaio 1944, quando fu riconosciuto attraverso un decreto legislativo di Mussolini (con cui fu assegnata la personalità giuridica); seguì la nomina del direttorio nazionale. Lo scorrere del tempo, peraltro, aveva mutato almeno in parte l'organizzazione del partito, anche grazie alla convocazione del primo e unico congresso (ma Mussolini volle chiamarlo "assemblea nazionale") che nel frattempo si era svolto a novembre del 1943 a Verona: lì Pavolini precisò che per far coincidere la carica di capo delle forze fasciste in una provincia e quella di capo dell'amministrazione provinciale, occorre dare a quella figura "carattere continuativo" e che in nessuno stato essa era elettiva, trattandosi della rappresentanza del governo. 
Lo stesso Mussolini, peraltro, in più di un'occasione tentò di limitare il potere del partito, cercando di riequilibrare la situazione tenendo conto anche di altre istanze, a partire da quelle del governo che non gradiva ingerenze partitiche (così come il Pfr reagì fin dall'inizio a quelle che qualificava come interferenze governative e amministrative) e, soprattutto, ritenendo il partito - come scrive D'Angeli - "troppo irrequieto ed esigente, a parole e nei fatti". Il Duce arrivò persino a pensare che - così scrisse Renzo De Felice - "per la Rsi il nemico più pericoloso era costituito dal Partito", pur avendo assolutamente bisogno di questo per governare; anche per questo, a gennaio del 1944 arrivò a pensare di sostituire alla segreteria Pavolini con il militare Fulvio Balisti per dare al partito una linea diversa (ma la mossa non piacque ai tedeschi, che temevano un disimpegno di Mussolini, quindi tutto rientrò). 
Lo stesso decreto legislativo n. 38/1944 che, sempre a gennaio, attribuì la personalità giuridica al Pfr, ne limitò però le attribuzioni: al partito fu sottratto, sulla carta, il controllo totalitario sulle strutture dello Stato (e la successiva scelta di militarizzare il partito, concentrando tutte le energie della Repubblica sociale italiana nel combattimento, avrebbe ulteriormente cambiato le cose). Nonostante questo, almeno di fatto, la Repubblica sociale italiana continuò a operare secondo un programma che, secondo la ricercatrice Dianella Gagliani (citata da D'Angeli) "di fatto - più che programma di Partito - era un programma dello Stato, a riprova della commistione tra l’ordine istituzionale della Repubblica sociale e l’ordine politico del Partito fascista: fu il Pfr a definire il funzionamento costituzionale della Rsi e a dettarne la struttura economico-sociale, oltreché a decretare il proprio carattere di Partito unico".


Il Pfr alla luce di Mortati

E' interessante ripercorrere le parole della relazione di Alessandro Pavolini al congresso del Pfr, citate da Roberto D'Angeli nella parte del primo capitolo dedicata alla funzione del partito: "Il Partito, in quanto tale, noi lo vogliamo unicamente e solamente politico: è un’assemblea di uomini, che parlano, che esprimono le proprie idee, di uomini i quali, per il resto della loro vita, esercitano nelle loro sfere di azione e osservazione il controllo politico, che fanno da animatori in senso politico". A ciò si può affiancare, volendo, il contenuto dell'articolo 5 del Manifesto di Verona scritto da Mussolini: "L’organizzazione a cui compete l’educazione del popolo ai problemi politici è unica. Nel Partito, ordine di combattenti e di credenti, deve realizzarsi un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell’Idea rivoluzionaria". 
Costantino Mortati
Per uno studioso di diritto dei partiti, viene assolutamente naturale leggere queste affermazioni alla luce di altre riflessioni, pubblicate solo pochi anni prima (per l'esattezza nel 1940), da Costantino Mortati, probabilmente il più importante studioso italiano di diritto costituzionale del '900. Il suo saggio più importante, La costituzione in senso materiale, si era preoccupato di prestare attenzione, oltre che al quadro istituzionale che discende dal testo della legge fondamentale, anche e soprattutto dal modo concreto in cui sono intesi e regolati i rapporti sociali e, dunque, dalla conformazione reale e "vivente" dei rapporti di potere all'interno di una comunità.
Tra gli elementi organizzativi necessari necessari per "ordinare" la comunità, così che possa farsi Stato, Mortati individuava con certezza il partito: lo studioso poneva proprio la nascita di una forza politica - intesa come il prodursi di "una specificazione nella posizione dei consociati, in base alla quale alcuni riescono a esercitare un potere sugli altri in modo da ottenere obbedienza - all'origine della formazione degli altri elementi necessari per poter parlare di Stato. Per Mortati i partiti erano "associazioni che, assumendo come propria una concezione generale, comprensiva della vita dello Stato in tutti i suoi aspetti, tendono a tradurla nell'azione concreta statale": nell'Europa del '900, di fronte alle masse, i partiti erano "costretti ad assumere un'organizzazione che [...] ponga come elemento predominante un'idea politica generale [...] capace non solo di tenere unito il gruppo che l'assume e di differenziarlo dagli altri, ma soprattutto di costituire il centro di attrazione per l'acquisto di nuovi aderenti e per la conquista del potere dello Stato". Se si poneva come "necessario" per far assumere all'istituzione originaria una forma politica, per Mortati il partito non poteva "che essere unico" e porsi come "elemento strumentale" dello Stato moderno, necessario perché questo potesse realizzare i suoi fini.
Le riflessioni di Mortati erano figlie del loro tempo, riferendosi al regime fascista e al suo partito unico, il Pnf; la bontà di quel pensiero ne avrebbe consentito l'applicazione anche allo stato democratico della Repubblica, pur coi necessari adattamenti alla nuova condizione di multipartitismo. Facendo un passo indietro, però, è facile vedere che le parole del costituzionalista si adattavano bene anche al Partito fascista repubblicano: quando Pavolini diceva degli uomini del Partito che "esercitano nelle loro sfere di azione e osservazione il controllo politico, che fanno da animatori in senso politico", si rivedeva l'idea mortatiana del partito che si propone di tradurre in azione concreta (anche mediante il controllo di ciascuno nelle proprie sfere di azione) la loro concezione dello Stato; quando Mussolini rivendicava l'unicità dell'organizzazione cui spettava "l’educazione del popolo ai problemi politici", si ritrovava il Mortati che vedeva il partito (unico) come "centro di attrazione per l'acquisto di nuovi aderenti" e per il mantenimento, più che la conquista, del potere dello Stato. Una conferma, una volta di più, della validità del ragionamento di Costantino Mortati, ma anche la dimostrazione che il ruolo del Pfr era stato pensato in modo tutt'altro che superficiale e improvvisato. Anche se, come ricorda D'Angeli nel libro, non si arrivò mai alla redazione dello statuto del Partito fascista repubblicano (la riunione che avrebbe dovuto discuterne non si tenne mai). 

Tra assistenza e antisemitismo

Nella consapevolezza che, come ha scritto nella sua introduzione Giuseppe Parlato, "la Repubblica sociale non fu solo Stato, anzi lo Stato [...] spesso fu posto in posizione di sudditanza dal Partito fascista repubblicano, la realtà forse più importante e significativa della Rsi", il libro dipinge uno scenario caratterizzato dalla "presenza di numerosi centri di potere, emanazioni di personaggi e interessi influenti, spesso in contrasto e in concorrenza tra di loro", anzi, addirittura evoca l'immagine forte di "una babele politico-amministrativa - scrive sempre Parlato - con innumerevoli linguaggi, uniformi e burocrazie".
Tutto ciò è visibile nel corso del libro, che dedica i capitoli successivi al primo ad approfondimenti ampi e ricchi di testimonianze da varie fonti. L'autore tratta innanzitutto degli sforzi del Partito fascista repubblicano per "andare verso il popolo", soprattutto con gli sforzi profusi - ma spesso non percepiti dalla popolazione - nel prestare assistenza al popolo italiano e, in particolare, alle categorie di persone più colpite in quel periodo (riferendosi ad esempio "ai profughi, agli sfollati, ai sinistrati e agli internati"): si iniziò creando l'Ente nazionale di assistenza fascista, legato a doppio filo al Pfr (che non si voleva appesantire troppo, anche se altri avrebbero preferito che il partito si occupasse direttamente dell'assistenza), per poi affidare la cura delle Forze armate all'Opera nazionale dopolavoro e distaccare maggiormente l'attività degli enti da quella del partito (fino al distacco quasi completo, dopo la militarizzazione del partito nel giugno 1944, con l'assistenza affidata ai comuni e a vari enti, compresi i Gruppi fascisti femminili). 
Il terzo capitolo è invece dedicato all'antisemitismo del Partito fascista repubblicano, un sentimento dichiarato (e condensato nell'inequivocabile articolo 7 del Manifesto di Verona: "Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica") che si tradusse in una vera e propria guerra contro gli ebrei - in un'escalation che D'Angeli testimonia molto bene con grande quantità di documenti. Ciò dimostra quanto - a differenza di quanto desunto da De Felice dalla mancanza di discussione da parte dell'assemblea di Verona - con tutta probabilità le dure affermazioni antisemitiche fossero pienamente condivise dalla base fascista repubblicana; alle parole seguirono i fatti, con la disposizione di internare gli ebrei in campi di concentramento provinciale, sequestrando loro i beni, e i conseguenti arresti (effettuati dalla polizia, ma con l'azione attiva del partito). 
Sulla propaganda antisemita si diffonde l'intero quarto capitolo, che si apre con la stretta alla libertà di stampa - di partito e non - nella Rsi impressa alla fine del 1943 (anche se la censura preventiva sarà ufficialmente reintrodotta solo il 31 maggio 1944), per poi riportare vari esempi di quella propaganda (non gradita, al pari della radicalizzazione nella persecuzione degli ebrei, dalla maggioranza della Chiesa cattolica, che divenne essa stessa bersaglio delle critiche della stampa); da ricordare come la diffamazione colpì anche la massoneria, messa spesso in collegamento con l'ebraismo.
La Storia del Partito fascista repubblicano si occupa poi della militarizzazione del partito a metà del 1944 (e dei suoi precedenti, con la nascita delle squadre e della polizia federale, in una situazione tutt'altro che ordinata dal punto di vista della divisione dei compiti, fino alla nascita della Guardia nazionale repubblicana, e di malcontento interno al partito mai davvero sopito), con la nascita delle Brigate nere (la cui costituzione è narrata nei dettagli). L'ultimo capitolo è dedicato infine alla c.d. "ultima resistenza", con gli ultimi mesi di vita della Repubblica sociale italiana improntati - secondo Mussolini a tre parole d'ordine: "Italia, Repubblica, Socializzazione" (e "fascismo" non c'era), il tentativo di gettare un ponte verso l'antifascismo (o, comunque, finalizzato alla riconciliazione) con la costituzione del Raggruppamento nazionale repubblicano socialista - mai particolarmente amato dai fedelissimi del Pfr - e la nomina dei due vicesegretari del partito, tra i quali Pino Romualdi, fino alla seconda e ultima riunione del direttorio nazionale del partito, il 3 aprile 1945 (in cui si discusse anche della possibilità per il Duce e le forze della Rsi di ritirarsi in Valtellina in caso di ripiegamento disordinato su pressione di alleati e partigiani, progetto poi naufragato).


Lo strumento per un "nuovo inizio", anche nei simboli

E' significativo notare, come giustamente fa D'Angeli nelle sue conclusioni, che "per ricostruire uno Stato fascista dalle ceneri del 25 luglio 1943 e dall'abulia e il disorientamento seguiti all'armistizio, Mussolini si affida proprio al Partito, primo strumento ad essersi riorganizzato, anche autonomamente, e che viene posto alla base della nascente Repubblica". La funzione strumentale del Pfr, riprendendo la dottrina di Costantino Mortati, emerge con chiarezza, pur nel continuo rapporto conflittuale con lo stesso Duce che, pur sapendo di avere bisogno del partito, cerca a più riprese di limitarlo (anche soffocandone i dissensi all'interno) per non compromettere gli altri obiettivi che ha in animo. Ma "sarà invece proprio a quello spirito di parte e a quell'intransigenza ideale - così si chiude il libro - che si appellerà nei tre momenti più critici dell’ultima avventura del Fascismo: la riorganizzazione, lo sbandamento dell’estate del 1944 e l’agonia della Repubblica".
Fasci italiani di combattimento
(1919; da P. Corbetta, M.S. Piretti,
Atlante storico-elettorale d'Italia
1861-2008
, 2009)
Quello spirito e quell'intransigenza concretizzarono una sorta di "ritorno alle origini" del fascismo, quelle cioè che avevano preceduto l'instaurazione del regime: ciò era stato marcato anche dal punto di vista simbolico. L'assenza di eventi elettorali in quel periodo non consente di parlare ovviamente di contrassegni di partito o di lista nel modo in cui siamo abituati a farlo, ma ciò non toglie che un'iconografia del partito ci fosse. E' la stessa copertina del libro di Roberto D'Angeli a mostrare una tessera del Partito fascista repubblicano dominata dall'immagine di un fascio romano repubblicano (con una legatura "a Z"), da cui promana la luce in un cielo plumbeo. Che si tratti di un fascio repubblicano lo mostra la posizione della scure, piantata al centro delle verghe tenute legate tra loro: la stessa immagine che era stata adottata dalla Repubblica Romana di Mazzini e che, nel 1919, divenne simbolo dei Fasci italiani di combattimento fondati da Mussolini.
Sulle schede elettorali del 1924 era presente, per la Lista nazionale, il solo fascio repubblicano (senza più i legacci liberi nella parte inferiore), ma quando fu instaurato il regime, si consolidò la scelta di adottare come emblema grafico per il Partito nazionale fascista il fascio imperiale, che aveva una forma diversa: in particolare, la scure era fissata al fascio in posizione laterale. Caduto il regime e dopo la decisione di mettere in piedi la Rsi, occorreva segnalare anche sul piano visivo che, più che di continuità con il regime fascista, si trattava di tornare alle origini, con meno burocrazia e meno compromessi: la scelta di tornare al primo fascio, mazziniano, romano repubblicano e prima ancora etrusco, era tutt'altro che motivata da ragioni solo estetiche.
Con la sua ricerca accurata, Roberto D'Angeli permette a chi conosce poco o nulla delle vicende del Partito fascista repubblicano - al di là dei tratti fondamentali della cornice storico-politica in cui esse si collocano - di riempire di contenuti poco noti il periodo che va dall'8 settembre 1943 alla Liberazione, normalmente associato solo alle lotte partigiane, alle rappresaglie e all'avanzata degli alleati. Quelle vicende rappresentano un antecedente di cui tenere conto quando si studia il sistema politico degli inizi della Repubblica italiana: il libro sottolinea come Pino Romualdi, già all'ultima riunione del Direttivo nazionale del Pfr, avesse in animo di creare "un vero e proprio Partito o movimento clandestino fornito di quadri, di potentissimi mezzi finanziari, specificatamente preparato per la lotta politica anche in caso di totale invasione dell’intero territorio nazionale. Una forza che avrebbe potuto permettere al Fascismo di vivere anche dopo e malgrado la sconfitta militare" e non stupisce che proprio Romualdi, con il suo impegno, abbia poi dato un contributo fondamentale a riorganizzare chi era stato (e rimasto) fascista, co-fondando nel 1946 il Movimento sociale italiano. Lì come emblema sarebbe stata adottata la fiamma tricolore, ma questa - ovviamente - è un'altra storia. 

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