mercoledì 28 febbraio 2018

Lombardia, simboli e curiosità sulla scheda

Mancano ormai pochi giorni al voto, oltre che per le elezioni politiche, anche per le elezioni regionali di Lombardia e Lazio. Come è stato fatto in passato (e si farà ancora) per le elezioni comunali, ci si limita ad analizzare i simboli così come gli elettori li troveranno sul manifesto delle candidature e sulle loro schede, senza dare attenzione alla fase di deposito: non si dà dunque conto di eventuali contrassegni che non potranno essere scelti in cabina elettorale perché le loro liste non sono state ammesse a partecipare al voto. Partiamo dalla Lombardia, dando i simboli e le coalizioni nell'ordine sorteggiato per la circoscrizione di Milano.


Dario Violi

1) MoVimento 5 Stelle

Ad aprire il manifesto e le schede elettorali delle prossime regionali lombarde è il simbolo del MoVimento 5 Stelle, che schiera alla guida della regione Dario Voli. Nessuna novità, tecnicamente, nel simbolo, sia perché la grafica generale non cambia, sia perché nel contrassegno il sito riportato, "ilblogdellestelle.it", è quello scelto alla vigilia delle elezioni politiche e svelato in occasione del deposito al Ministero dell'interno. Il simbolo, ovviamente, corre in perfetta solitudine, come è sempre stato in ogni tipo di elezione, politica, regionale o comunale che fosse; in ogni caso, era e resta perfettamente riconoscibile da chiunque, senza bisogno di correre con altri soggetti.


Onorio Rosati

2) Liberi e Uguali

Al MoVimento 5 Stelle segue l'emblema di un'altra corsa solitaria, quella di Onorio Rosati che è sostenuto soltanto da Liberi e Uguali. Nella struttura il simbolo del cartello elettorale che a livello nazionale è guidato da Pietro Grasso è identico all'emblema depositato alle politiche; cambia soltanto la parte inferiore, che al riferimento al presidente del Senato uscente sostituisce la dicitura "In Lombardia". Anche a uno sguardo non troppo attento, tuttavia, appare come la parola "in" sia quasi illeggibile; in più, se probabilmente è stata centrata avendo come riferimento la sottolineatura di "Uguali", nella composizione generale sembra del tutto fuori asse. Non si poteva proprio evitare?

Giorgio Gori

3) Insieme x Gori

Il terzo candidato in ordine di sorteggio è Giorgio Gori, dunque dalla posizione numero 3 dei contrassegni si dipana la sua coalizione, composta da ben sette liste, ben di più delle quattro del centrosinistra nazionale. Il sorteggio ha stabilito che per prima comparisse su schede e manifesti Insieme, che anche in Lombardia raccoglie i simboli del Psi, dei Verdi e di Area civica (e le foglie dell'Ulivo); la struttura è identica a quella del simbolo presentato a livello nazionale, ma per l'occasione è stata aggiunta la dicitura "x Gori", con il pallino della "i" colorato di rosso in uniformità allo stile dell'emblema. Tutto sommato non ci sta malissimo, ma quella "x" che significa "per" francamente stona un po'.

4) Gori presidente

La legge elettorale lombarda, come si sa, non prevede il "listino" del candidato presidente, ma di certo non impedisce di presentare una lista che sia sua diretta espressione. Così, seconda della sua coalizione, compare la formazione Gori presidente, che come emblema sceglie un profilo stilizzato e stondato della Lombardia, azzurro scuro, su fondo color carta da zucchero: su tutto campeggia il cognome del candidato presidente in bianco e la dicitura "presidente" in arancione. Non si può certo dire che il simbolo comunichi qualcosa di particolare, ma in effetti non ne ha bisogno: l'abbinamento di nome e grafica in fondo racchiude tutte le informazioni di cui chi guarda il simbolo ha bisogno. 

5) Lombardia progressista - Sinistra per Gori

Terza lista all'interno della coalizione che sostiene Gori è Lombardia progressista - Sinistra per Gori, che non fa riferimento ad alcuna lista nazionale esistente, ma è ugualmente facile da identificare, soprattutto grazie al colore. Al di là del bianco, infatti, spicca l'altro colore, ossia l'arancione, legato dal 2011 all'esperienza da sindaco di Giuliano Pisapia (e anche alla lista Sinistra per Milano che finì per sostenere Sala); in più c'è l'aggettivo "progressista", lo stesso del Campo che Pisapia avrebbe voluto creare a livello nazionale. Curioso che ci siano tre (vere) foglioline nel simbolo, quasi a fare concorrenza a quelle di LeU, e che questo sia l'unico altro emblema a schierare la parola "sinistra", oltre a quello della Sinistra per la Lombardia di cui si dirà poi.

6) +Europa

Al quarto posto nella coalizione di centrosinistra è stato sorteggiato il simbolo di +Europa, che non desta nessuna sorpresa sul piano grafico. Si tratta infatti esattamente del simbolo che si era pensato in origine di presentare alle elezioni politiche. Unica differenza, infatti, è l'assenza della "pulce" di Centro democratico, che però in Lombardia (e, come si vedrà, anche in Lazio) non sarebbe servita a nulla: a livello nazionale ha consentito di presentare liste senza firme, mentre in Lombardia questo non era possibile, visto che +Europa non poteva contare su un gruppo in consiglio regionale. Il simbolo in questione è anche l'unico a non contenere alcun riferimento a Gori.

7) Obiettivo Lombardia per le autonomie

Sorteggiata per quinta nella coalizione, la lista in questione intende presentarsi come progetto civico, anzi, come "un modo diverso di fare politica" per "riportare al centro la comunità e il senso di appartenenza", "la ricerca per migliorare la nostra grande Regione" (come si legge nel loro sito). Obiettivo Lombardia per le autonomie (che nell'ultima parte ricorda tanto la vecchia Dca di Rotondi, ma non c'entra nulla) è nata soprattutto dal consigliere uscente Corrado Tomasi e dal parlamentare (ex Scelta civica) Gianfranco Librandi, appoggia con chiarezza il candidato Gori (il nome è molto evidente) e adotta una sorta di tricolore con il profilo verde della regione e un elemento rosso con i rilievi lombardi. A conti fatti, però, il simbolo sembra ammassare fin troppo materiale.

8) Civica popolare per Gori

Il penultimo posto nella coalizione a sostegno di Giorgio Gori spetta a Civica popolare, dunque alla lista che a livello nazionale è guidata da Beatrice Lorenzin. La struttura dell'emblema è identica a quella del contrassegno depositato per le elezioni politiche, a partire dal fiore "petaloso" (e de-Conadizzato) e dai cinque microsimboli disposto in fila, giusto per far capire chi partecipa a quest'avventura politica. In questo caso, peraltro, il nome di Lorenzin è stato sacrificato, sostituito dall'espressione "per Gori", con il cognome del candidato alla presidenza scritto con la stessa font usata dalla sua lista personale. Ed è singolare che, tra le poche liste a farlo, ci sia anche quella più moderata del gruppo.

9) Partito democratico

Se, tutto sommato, la sorpresa apportata dal simbolo precedente è stata molto contenuta, non si può certo dire che il contrassegno che chiude la coalizione a sostegno dell'attuale sindaco di Bergamo presenti elementi originali. Il simbolo del Partito democratico, infatti, è il solito, soltanto leggermente ridotto di dimensioni per fare spazio - nella parte inferiore - a un segmento verde che contiene, in bianco, la dicitura "Gori presidente", sempre con la font notata prima. Una soluzione grafica, quella del segmento, forse meno elegante rispetto a una fascia verde su cui scrivere il nome, ma certamente più funzionale per dare peso visivo al cognome del candidato (in più era la stessa utilizzata nel 2013 per Umberto Ambrosoli).

Angela De Rosa

10) CasaPound Italia

Esaurita la coalizione che appoggia la candidatura di Gori, il sorteggio ha collocato in decima posizione la lista di CasaPound Italia, che candida alla presidenza Angela De Rosa. Il simbolo, presente per la prima volta alle elezioni regionali lombarde, è esattamente lo stesso depositato ormai dal 2013 in occasione delle elezioni di livello nazionale e utilizzato in ogni altra consultazione elettorale, anche locale. La tartaruga con il carapace a otto lati emerge da manifesti e schede e si prepara a intercettare parte dei voti dei delusi da altre forze politiche e dell'area che un tempo si sarebbe definita di destra. Si vedrà il risultato di questo debutto a livello regionale.

Giulio Arrighini

11) Grande Nord

La sorte, dopo CasaPound, ha collocato un'altra lista singola, che davvero non poteva mancare in Lombardia: si tratta di Grande Nord, il progetto politico voluto e plasmato dall'ex leghista Roberto Bernardelli e che candida al Pirellone Giulio Arrighini, già al fianco di Bernardelli quando questi fondò la Lega Padana (i colori sono esattamente gli stessi), in seguito alla guida dell'Unione padana (simbolo, come il precedente, caratterizzato dalla croce - rossa su bianco - di san Giorgio su fondo blu) e poi ancora tra i fondatori di Indipendenza Lombarda. E non può non colpire come questo sia l'unico simbolo di queste elezioni a contenere la parola "Nord", per giunta in grande evidenza: basterà ad assicurarsi i voti di chi vuole attenzione per il settentrione d'Italia (Lombardia compresa, ovviamente)?

Massimo Roberto Gatti

12) Sinistra per la Lombardia

In Lombardia il simbolo di Potere al popolo! non si vede e non si vedrà sulle schede (su quelle delle regionali, ovviamente ci sarà su quelle delle elezioni politiche). Al suo posto, la sinistra radicale ha scelto di denominarsi Sinistra per la Lombardia, candidando alla presidenza l'ex consigliere provinciale di Rifondazione comunista Massimo Roberto Gatti e scegliendo come simbolo il nome stesso della lista sormontato da una grande stella a cinque punte rossa, come rosso è la circonferenza "pennellata" che racchiude tutto (scelta grafica che ricorda molto il simbolo Prima il Nord! presentato da Diego Volpe Pasini, che però era incentrato sul verde). Questo, ovviamente, è l'unico altro emblema che contiene la parola "sinistra" in questo turno elettorale: in Lombardia, evidentemente, non è tabù. 

Attilio Fontana

13) Forza Italia

Ultimo tra i candidati alla presidenza della Regione Lombardia è Attilio Fontana (solo omonimo del cantante che militò nei Ragazzi Italiani). Primo simbolo sorteggiato della coalizione - anch'essa, come quella di Gori, composta da sette liste - è quello di Forza Italia. L'emblema, in realtà, riserva ben poche sorprese: dopo il nuovo ingrandimento - rispetto allo stile del 2014 - del cognome di Berlusconi, che ricalca a colori invertiti la grafica del 2006, la bandierina tricolore resta nella parte alta del cerchio, leggermente debordante, mentre l'indicazione del candidato presidente si sposta nuovamente in basso. In fondo si tratta di un emblema pulito e relativamente equilibrato.

14) Partito pensionati

In questo caso non c'è proprio alcuna sorpresa. Il simbolo è proprio quello del Partito pensionati che siamo abituati a vedere sulle schede ormai da trent'anni, con la parola "Pensionati" in blu su fondo bianchissimo; la collocazione, nel centrodestra, è la stessa da tantissimo tempo. Anche la candidata come capolista (a Milano), Elisabetta Fatuzzo - figlia di Carlo, fondatore e leader nazionale del partito - è una sorta di certezza, essendo consigliera regionale uscente alla sua quarta consiliatura (ma in lista a Milano ci sono anche l'ex deputato Lino Miserotti e l'ex consigliera regionale piemontese Sara Franchino). Le elezioni porteranno di nuovo il partito sui banchi dell'assemblea regionale?

15) Fratelli d'Italia

Nessuna sorpresa anche per il simbolo presentato dalla lista di Fratelli d'Italia, che a Milano in testa presenta l'ex parlamentare e vicesindaco Riccardo De Corato (ma subito dopo di lui c'è Maria Teresa Baldini, che nel 2016 alle amministrative milanesi aveva promosso la lista Fuxia People). Il contrassegno prescelto è esattamente lo stesso depositato in vista delle elezioni politiche, con l'emblema di Fdi inserito in un altro cerchio con struttura simile e con il nome molto evidente di Giorgia Meloni. Rispetto all'emblema del 2013, sono sparite le corde e soprattutto è tornata la fiamma tricolore che ricorda il passato: servirà a fare maggior presa sugli elettori?

16) Noi con l'Italia - Udc

Nessuna personalizzazione nemmeno per il contrassegno utilizzato dalla lista Noi con l'Italia - Udc, che in Lombardia ha come esponente di punta l'ex ministro Maurizio Lupi. Il simbolo, infatti, anche in questo caso è identico a quello definito pochi giorni prima del voto politico: esso unisce al nome del progetto politico promosso da Lupi, Raffaele Fitto, Flavio Tosi e altri (con pacchetto grafico di blu di fondo e arcobalenino tricolore pennellato) lo scudo crociato in primo piano, sopra le vele presenti ormai da anni sul simbolo del'Udc (e al massimo un po' scolorite, per non rubare troppo la scena allo scudo). Tra i più interessati al risultato finale della coalizione e al suo interno c'è sicuramente anche il gruppo che si riconosce in questo emblema.

17) Parisi per Fontana - Energie per la Lombardia

Per l'occasione, a qualcuno dev'essere venuta voglia di ribaltare uno dei simboli ultimi nati, così sulla scheda arriva l'emblema di Energie per l'Italia, fondato dall'ex candidato sindaco di Milano Stefano Parisi. Ci arriva però come Energie PER la Lombardia, riducendo di molto la dimensione delle lampadine e portando in alto il segmento circolare che contiene la dicitura "Parisi con Fontana": il cognome del candidato alla presidenza è ben visibile, ma anche quello di Parisi non scherza ed emerge bene, color carta da zucchero su fondo bianco. La vigilia del deposito della candidature era stata decisamente tumultuosa, ma alla fine il rapporto con il centrodestra non è stato in discussione.

18) Lega 

Non poteva ovviamente mancare il simbolo leghista per eccellenza, Alberto da Giussano, che campeggia tuttora all'interno del contrassegno della Lega, ormai non più Nord: il nome residuo, in ogni caso, se possibile è ancora più evidente nella parte superiore del cerchio, così come ha grande visibilità il cognome di Matteo Salvini riportato in un giallo che spicca. Non può sfuggire la peculiarità "nazionale" del contrassegno, che contiene un riferimento verbale alla Lombardia e - soprattutto - la "pulce" della Lega lombarda, presente come sempre in queste terre con l'immagine del guerriero al centro del profilo della Lombardia. Toccherà agli elettori interpellati dimostrare quanto fosse importante o poco rilevante parlare di Nord in Lombardia.

19) Fontana presidente

Chiude la coalizione di centrodestra ed è anche l'ultimo simbolo a essere sorteggiato sulla scheda quello della lista Fontana presidente, che dunque esprime un gruppo di candidati che più si riconosce nella persona che punta a ottenere la carica detenuta finora da Roberto Maroni. Il simbolo con la croce di san Giorgio tracciata a pastello a cera, a dire il vero, è tutt'altro che nuovo: era stato Roberto Calderoli a svelarlo per la prima volta, depositandolo in vista delle elezioni politiche del 2013 (salvo poi ritirarlo) con il cognome di Maroni, stessa versione che si ritrovò sulle schede regionali lombarde dello stesso anno. Ora che Maroni non si è ricandidato, al posto del suo nome c'è quello di Fontana, ma il concetto non cambia.

domenica 25 febbraio 2018

Ancora sullo scudo crociato: il giudice boccia l'inibitoria all'Udc

Era davvero impossibile arrivare alle elezioni senza che ci si dovesse occupare di nuovo di una questione legata all'uso dello scudo crociato: risale al 21 febbraio, infatti, l'ordinanza della diciottesima sezione del tribunale di Roma, con cui è stato deciso il ricorso ex art. 700 c.p.c. presentato a metà dicembre da Raffaele Cerenza e Franco De Simoni, in qualità di iscritti del 1993 alla Democrazia cristiana, per tutelare i suoi segni distintivi. Il giudice ha respinto - in sede cautelare - la loro richiesta di impedire all'Udc guidata da Lorenzo Cesa l'uso del simbolo storico della Dc.
La richiesta di Cerenza e De Simoni era stata sostenuta anche da vari soggetti intervenuti, alcuni a titolo di semplici iscritti del 1993 (Giuseppe e Santo Nicolò), altri ritenendo di agire quali legali rappresentanti della Dc, magari a seguito di percorsi differenti: erano infatti intervenuti Angelo Sandri (e il suo segretario amministrativo) Gianfranco Melillo, nonché Gianni Fontana (che chiedeva di integrare il contraddittorio all'associazione Democrazia cristiana, ossia dell'assemblea dei soci di cui si qualifica presidente).
A dispetto del sostegno ai ricorrenti, tuttavia, per il giudice Riccardo Rosetti - che, peraltro, si era già occupato almeno una volta di questioni Dc all'inizio del 2013, quando aveva respinto un altro ricorso ex art. 700 c.p.c., presentato sempre contro l'Udc da Francesco Mortellaro, coordinatore del Comitato di coordinamento associativo politico della Dc, altro dei tentativi di rimettere in pista il partito - Cerenza e De Simoni non hanno provato di "agire in nome e per conto della Democrazia cristiana e di rappresentarla secondo le regole dettate dal Codice civile e dallo Statuto". Per il giudice, in realtà, conta soprattutto quest'ultimo e la sua disposizione in base alla quale la Dc è rappresentata solo dal segretario amministrativo (art. 127): né Cerenza né De Simoni, in questo senso, risultano rivestire quella carica, né alcuno degli altri soggetti che hanno chiesto di intervenire. 
Quanto alla Dc-Sandri, già la corte d'appello di Roma nel 2009 e la Cassazione l'anno dopo avevano escluso che potesse ritenersi continuatrice della Dc storica (in più gli stessi Sandri e Melillo avrebbero fatto riferimento a "un processo congressuale" ancora in corso che "non ha trovato esito", quindi non sarebbero state adempiute le prescrizioni statutarie nel senso richiesto dal tribunale); sulla Dc-Fontana, invece, il giudice cita una sentenza dello stesso ufficio giudiziario del 2016 (ma probabilmente si sbaglia, dimenticando che questa riguardava il tentativo di riattivare la Dc iniziato nel 2012, dunque con tutt'altro presupposto giuridico).
Il magistrato nega poi che vi siano rischi legati all'attesa nel provvedere: al momento della decisione, infatti, il Viminale aveva già chiesto di sostituire lo scudo crociato interno al simbolo della Democrazia cristiana proprio per confondibilità con il simbolo dell'Udc (che a questo giro partecipa a Noi con l'Italia) e l'Ufficio elettorale centrale nazionale ha respinto l'opposizione della Dc-Fontana (anche perché nel frattempo era stato presentato un emblema sostitutivo). Bastano queste due decisioni al giudice per sostenere che nessuna decisione cautelare del giudice potrebbe far ottenere quanto chiesto ai ricorrenti: sarebbe necessario superare una decisione degli uffici elettorali, il che evidentemente non è concesso a un giudice civile. 
Su tutte queste premesse, quasi non stupisce sapere che l'esito di quel ricorso sia stato negativo (con anche il lato, ancor più sgradevole, della condanna alle spese). C'è però da giurare che l'azione di Cerenza e De Simoni continuerà anche in altre sedi - comprese quelle dello stesso tribunale di Roma, per l'impugnazione del risultato dell'assemblea del 26 febbraio 2017 dell'Ergife - sempre per cercare di rimettere la Dc in condizione di operare. Una soluzione, ne sono convinti, prima o poi la troveranno.

giovedì 22 febbraio 2018

Perché "Berlusconi presidente" non è illegittimo (e non si riesce a togliere)

Mancano dieci giorni giusti alle elezioni, le candidature ormai sono definite (al di là di bocciature in extremis a sorpresa, come quelle del Partito comunista in Piemonte per problemi di firme certificati in seconda battuta), ma per qualcuno c'è almeno un elemento di incertezza, se non addirittura di potenziale turbamento delle elezioni: quella scritta "Berlusconi presidente" che, per più di qualcuno, non dovrebbe stare nel simbolo di Forza Italia, perché l'ex Cavaliere non potrebbe in nessun caso diventare Presidente del Consiglio, essendo incandidabile fino al 2019. La questione, in effetti, è oggetto di polemiche da mesi: di certo quell'indicazione sul contrassegno può essere considerata fuorviante, ma dire che è illegittima non si può e agire con successo per cercare di toglierla è di fatto impossibile.

Un "presidente" non illegittimo

Già il 18 ottobre scorso, intervistato da Liana Milella per Repubblica.it, il costituzionalista Gaetano Azzariti aveva riconosciuto che Berlusconi in nessun caso dopo le elezioni avrebbe potuto ricoprire alcun incarico di governo né essere candidato (operando ancora l'incandidabilità a norma della "legge Severino"), aveva ammesso che in un certo senso l'indicazione "Berlusconi presidente" rischiava di "trarre in errore l’elettore" (facendogli credere di votare per Berlusconi e di spingerlo verso la Presidenza del Consiglio, cosa che non potrebbe avvenire), ma la legge elettorale vieta(va) solo "la confusione che può essere prodotta dalla contestuale presentazione di due simboli di partito identici tra di loro", così come non sembra che la "legge Severino" vieti riferimenti "non veritieri" all'interno dei contrassegni. La questione probabilmente è un po' più complicata di così, ma coglie nel segno buona parte del problema. 
Di certo, nei giorni del deposito degli emblemi per le elezioni politiche al Viminale, i funzionari del ministero hanno analizzato anche la questione della legittimità dell'indicazione "Berlusconi presidente". Lo avevano fatto anche, tra l'altro, nel 2001, quando questa era apparsa per la prima volta all'interno del contrassegno della Casa delle libertà, quando ancora vigeva il sistema elettorale delineato dalla "legge Mattarella". Allora non era prevista la figura del "capo della forza politica" e qualcuno tra gli esperti dubitava persino che fosse corretta un'indicazione simile, molto più circostanziata rispetto alla sola indicazione del nome del leader nel simbolo (era accaduto con la Lista Pannella, col Patto Segni, coi Popolari per Prodi...), perché si temeva che questo potesse in qualche modo menomare la prerogativa del Presidente della Repubblica in materia di nomina del Presidente del Consiglio; in quell'occasione, comunque, si ritenne che "Berlusconi presidente" fosse solo un'indicazione in più per l'elettore e il ministero non obiettò nulla (e men che meno lo fece negli anni a venire, per il simbolo di Fi o del Pdl, quando indicare il capo della forza politica era diventato un obbligo per i singoli soggetti in campo).
Tornando al 2018, si diceva come certamente il Viminale si sia occupato anche della dicitura oggetto di polemiche in questi giorni, se non altro perché gli stessi giornalisti, nei giorni del deposito, avevano cercato di informarsi sulla questione. Qualche funzionario, interrogato sul punto e in forma rigorosamente anonima, aveva qualificato l'uso dell'espressione come "ingannevole ma regolare" (ne aveva scritto, per esempio, Claudia Fusani per Tiscali). Alla base di questa valutazione c'è certamente il ragionamento proposto già a ottobre da Azzariti, ma anche il fatto che in realtà l'indicazione non può dirsi del tutto falsa, perché in effetti Berlusconi è presidente, anche se "solo" di Forza Italia: la "legge Severino", infatti, pur prevedendo l'incandidabilità non impedisce certo a Silvio Berlusconi di ricoprire la posizione di vertice di un'associazione non riconosciuta di diritto privato quale è un partito politico. Anche solo per questo, dunque, l'indicazione testuale non può essere considerata illegittima.

Un "Presidente" inamovibile

Anche a voler insistere sulla natura ingannevole dell'espressione (perché in effetti è difficile trovare chi interpreti il "presidente" come riferito all'attuale posizione in Forza Italia e non all'auspicata poltrona di Palazzo Chigi), tuttavia, quasi ogni velleità di azione si scontrerebbe contro questioni formali, più esattamente di rito, di procedimento. Il primo ordine di problemi è legato al momento in cui ci si trova: la fase del deposito dei contrassegni, infatti, si è ormai chiusa davvero da molti giorni e non ci sarebbe più alcuno spazio per ottenere la ricusazione dell'emblema "incriminato" (magari facendolo sostituire con un altro o proprio estromettendolo dalla competizione). 
Il Viminale sul contrassegno non ha eccepito nulla, così come nessuno degli altri depositanti ha avuto rimostranze da fare sul simbolo in questione all'Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte di cassazione: tra l'altro, sarebbe stato difficile dire quale tra i loro diretti interessi sarebbe stato leso dal simbolo (tutt'al più, forse, si sarebbero potuti lamentare i titolari dei simboli dei partiti in coalizione con Forza Italia, rivendicando l'interesse a non essere associati a un emblema potenzialmente decettivo, ma lo scenario è davvero improbabile, fantapolitico, e non sarebbe stato scontato un esito positivo dell'opposizione perché un vero interesse meritevole di tutela non sembra ritrovarsi qui). Ai semplici cittadini elettori, d'altra parte, la legge non consente di rivolgersi all'Ufficio elettorale centrale nazionale per far valere vizi relativi ai contrassegni, dunque in quella sede non si sarebbe potuto fare nulla.
Una volta che i magistrati di Cassazione hanno deciso sulle opposizioni in materia di contrassegni, il procedimento elettorale preparatorio passa alla sua fase successiva (quella relativa alle liste) e non è più possibile tornare indietro, per l'esigenza di fissare in modo certo la platea dei (potenziali) concorrenti, titolati a presentare candidature: nessuno, dunque, potrà più interpellare l'Ufficio elettorale centrale nazionale su questioni relative ai simboli ammessi. A questo punto, a qualcuno potrebbe sorgere l'idea di rivolgersi d'urgenza a giudici veri e propri, attraverso un ricorso ex articolo 700 del codice di procedura civile, chiedendo magari la sospensione della partecipazione alle elezioni della stessa Forza Italia: se a livello logico la soluzione proposta non sarebbe del tutto priva di senso, sul piano giuridico sarebbe destinata a un insuccesso assicurato e rovinoso. 
Il problema, di nuovo, è procedurale: nel 2008 le sezioni unite civili della Corte di cassazione - sentenza n. 9151 - hanno detto chiaramente che le questioni legate al procedimento elettorale preparatorio, anche quelle sull'ammissibilità dei contrassegni, non rientrano nella giurisdizione dei giudici ordinari (civili), né di quelli amministrativi, ma il giudizio spetta solo alle Camere e alle loro Giunte delle elezioni, alle quali è affidata la verifica dei poteri sui loro membri ex art. 66 Cost. 
Questa è la posizione di tutti i giudici civili interpellati, nella fase precedente le elezioni politiche, su questioni relative a simboli e candidature, nonché di quasi tutti i giudici amministrativi (rare voci contrarie, come quella del Consiglio di Stato che nel 2008 aveva riammesso in sede cautelare la Dc-Pizza a concorrere alle elezioni, sono state chiaramente spente dalla citata sentenza di Cassazione). Le Giunte delle Camere, è vero, una specie di gioco a scaricabarile, avevano negato che toccasse a loro pronunciarsi sulle lamentele relative a simboli e liste, ma la sentenza n. 259/2009 della Corte costituzionale ha detto con chiarezza che non c'è alcun vuoto di tutela, ma semplicemente un contrasto sull'interpretazione delle disposizioni.
Non potendosi rivolgere all'Ufficio elettorale centrale nazionale (perché ai comuni cittadini non è dato di interpellarlo e il tempo in ogni caso è scaduto), né ai giudici ordinari o amministrativi (perché sugli atti propedeutici al procedimento elettorale, a norme invariate, non spetta a loro pronunciarsi), quali possibilità resterebbero ai cittadini elettori? Ce ne sarebbero un paio, tutte piuttosto astratte, da giocarsi solo pensando al "dopo-elezioni". Occorrerebbe, infatti, che un certo numero di cittadini elettori, ai seggi, rifiutassero o restituissero le schede, facendo verbalizzare sommariamente che il loro gesto è dovuto alla presenza sulle schede stesse del simbolo di Forza Italia, considerato ingannevole per la dicitura "Berlusconi presidente", lasciando che poi siano le Camere e le loro Giunte a decidere in materia: a norma dell'art. 87 del d.lgs. n. 361/1957 (cioè il testo unico per l'elezione della Camera), spetta alla Camera stessa (e, simmetricamente, al Senato) giudicare "sulle contestazioni, le proteste e, in generale, su tutti i reclami presentati agli Uffici delle singole sezioni elettorali o all'Ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente". 
E' appena il caso di dire che da quest'iniziativa non ci si potrebbe aspettare proprio nulla di concreto. Innanzitutto, nei futuri organi deputati alla verifica dei poteri (le Giunte), siederanno certamente esponenti di Forza Italia, che avranno tutto l'interesse a evitare ogni decisione che possa nuocere loro. Al di là di questo, già in passato - negli innumerevoli tentativi di portare la legge elettorale politica davanti alla Corte costituzionale - le Giunte hanno ritenuto di potersi pronunciare solo sui voti effettivamente espressi, non anche sulle ragioni alla base del rifiuto di esprimere un voto, irrilevanti ai fini della verifica dei risultati; non bastasse questo, un eventuale accoglimento di reclami presentati dagli elettori non potrebbe che provocare come conseguenza la ripetizione delle elezioni (vista la presenza del simbolo forzista in tutta l'Italia e il presumibile risultato determinante ai fini della composizione del Parlamento) e ben difficilmente i parlamentari vorrebbero segare il ramo su cui si sono da poco seduti. Chiaramente una simile decisione, agli occhi dell'opinione pubblica, apparirebbe ingiusta e autoconservativa, ma prospettare scenari diversi sarebbe, di nuovo, fantapolitico.
L'altra soluzione, non meno problematica, si colloca nel filone dei tentativi di colpire eventuali aspetti di incostituzionalità della legge elettorale (e che sono stati in qualche modo avallati dalla Consulta con le sentenze nn. 1/2014 e 35/2017): dei cittadini elettori, in particolare, potrebbero rivolgersi ai giudici civili, intraprendendo un'azione di accertamento del diritto dell'elettore "di esercitare il proprio diritto di voto libero", garantito in particolare dall'art. 1 e soprattutto dall'art. 48, comma 2 Cost, e dall'art. 3 del Protocollo 1 Cedu, diritto che sarebbe stato leso dall'art. 14 del testo unico per l'elezione della Camera, "nella parte in cui non prevede" che eventuali indicazioni testuali contenute all'interno del contrassegno non devono risultare ingannevoli o decettive, anche al di là delle ipotesi di confondibilità tra emblemi. Si tratterebbe, dunque, di un'azione dichiarativa volta, in via mediata, a ottenere un pronunciamento della Corte sulla legittimità costituzionale della disposizione indicata, auspicando in particolare una sentenza di accoglimento, additiva.
Chi pensasse di avere la strada spianata proprio per le due sentenze della Consulta citate prima (e non volesse tenere conto dei molti dubbi che sono stati espressi in dottrina sull'ammissibilità delle questioni di costituzionalità alla base di quelle decisioni), dovrebbe ricordarsi che in questo caso al giudice civile si chiederebbe di pronunciarsi su una disposizione che riguarda il procedimento elettorale preparatorio e non la formula elettorale: questo potrebbe bastare ad alcuni tribunali per negare la propria giurisdizione in materia, anche se i cittadini elettori si rivolgessero loro al di fuori di un procedimento elettorale, dunque tecnicamente al di fuori di situazioni che potrebbero farsi rientrare nella "verifica dei poteri".  A sollevare la questione, in chiave del tutto teorica, potrebbero invece essere le Giunte delle elezioni, se decidessero di occuparsi delle lamentele ipotizzate prima e se si ritenessero giudici a quibus, in grado di sottoporre questioni alla Corte costituzionale (e, naturalmente, solo a patto che - come nel caso della sentenza n. 1/2014 - un'eventuale pronuncia additiva della Consulta spieghi i suoi effetti a partire dalla legislatura successiva, senza pregiudicare l'attività e la legittimità del Parlamento eletto con quelle norme): come si vede, però, i "se" sono un po' troppi.
Se così è, occorre rassegnarsi del tutto a quel "Berlusconi presidente": resterà sul simbolo di Forza Italia, sui manifesti e sulle schede (presumibilmente già stampate, tra l'altro). Chi ritiene che quell'espressione sia ingannevole o truffaldina, potrà dimostrarlo in un solo modo: mettendo la sua croce altrove (o, al limite, non mettendola proprio).

lunedì 19 febbraio 2018

"State sereni", antologia di un lustro di tradimenti politici, anche simbolici

A scorrere la lista infinita dei candidati alle prossime elezioni, non troverete il suo nome da nessuna parte: non in una listina bloccata di qualche partito (men che meno del suo, che non si vedrà proprio a queste elezioni), nemmeno nel più sperduto e perdente collegio uninominale di tutto il paese. Nessuna traccia, ai blocchi di partenza della XVIII legislatura, di Mario Mauro, che pure per il suo sito - oltre che presidente dei suoi Popolari per l'Italia - risulta ancora ministro della difesa: quella poltrona ministeriale, se di certo fu l'apice della carriera del politico di San Giovanni Rotondo, di fatto ne rappresentò anche l'inconsapevole inizio della fine. 
La mancata ricandidatura di Mauro ne è il suggello, ma da sola non dà conto del percorso del senatore uscente e non rientrante, partito dalla corte berlusconiana e concluso quasi al punto di partenza (che nel frattempo non era più il Pdl, ma la ridestata Forza Italia) e passato attraverso l'adesione convinta all'agenda di Mario Monti e la successiva fondazione di un partito mai davvero decollato e che aveva iniziato presto a perdere pezzi per strada: a voler essere tecnici (in omaggio all'ex commissario europeo) si è trattato di scissioni, ma chi vive visceralmente la politica parlerebbe di un doppio tradimento, prima di Berlusconi (solo in parte compensato dal "ritorno a casa", peraltro senza prospettiva di seggi) e poi di Monti. 
Il caso dell'ex ministro della difesa, tuttavia, è stato tutto meno che isolato. Per avere una buona guida alla "Repubblica fondata sul tradimento", la cui forma politica privilegiata è il trasformismo, si può sfogliare State sereni (Iuppiter edizioni, 157 pagine, 14 euro), il libro appena pubblicato da Carlantonio Solimene, redattore politico del Tempo e appassionato osservatore anche di personaggi ed episodi che solo sbrigativamente - e da chi non appartiene alla schiera dei #drogatidipolitica - possono essere definiti "minori". Se il titolo infatti allude all'ormai memorabile hashtag renziano #Enricostaisereno (che precedette di pochi giorni la mozione dello stesso Renzi, approvata in direzione Pd, che chiedeva un nuovo governo per il paese accompagnando alla porta Enrico Letta: ma guai a parlare di fregatura al segretario dem, per lui non ci fu nulla di tutto questo), la frase è volta al plurale perché nel libro si preferisce puntare lo sguardo su altre storie di voltafaccia di cui la XVII legislatura della Repubblica italiana è stata ricca - 566 cambi di casacca operati da 347 parlamentari, alcuni dei quali dunque hanno migrato più di una volta - quasi a involontaria consacrazione dell'immortale massima "questi so’ tutti malviventi, questi pensano solo ai cazzi loro" pronunciata a dicembre del 2011, nel mandato parlamentare precedente, da Antonio Razzi (che, dopo aver lasciato l'Italia dei valori, non ha mai-proprio-mai tradito Silvio Berlusconi) e significativamente citata da Solimene all'inizio della sua premessa.
Si diceva di Mario Mauro, che apre il libro e per l'autore, alle trattative propedeutiche al governo Letta, "entrò da mediatore e ne uscì ministro": Mauro era stato tre volte eurodeputato nell'orbita berlusconiana (due per Forza Italia, una per il Pdl), forte anche dell'appoggio di Comunione e liberazione, utile pure per diventare senatore nel 2013 con la lista Con Monti per l'Italia. Mauro aveva iniziato ad appoggiare Monti alla fine del 2011; un anno dopo era ufficialmente passato con lui, fu tra i pochi eletti della nuova compagine e ottenne il ruolo di "saggio" per le riforme e il dicastero della difesa del governo Letta, cui fu fedele molto più che al progetto montiano. Al punto da uscire da Scelta civica e fondare i suoi Popolari per l'Italia, sfoderando un concerto tricolore di frecce, senza preoccuparsi del precedente grafico poco felice di Fare per Fermare il declino.
Quel simbolo, presentato l'8 febbraio 2014, nelle consultazioni successive si vide ben poco sulle schede elettorali e, soprattutto, non apparve proprio nelle bacheche del Viminale preparatorie alle elezioni europee. La soglia del 4% era un ostacolo arduo per tutti, Mauro compreso, così lui aveva cercato un accordo con l'Udc di Lorenzo Cesa e il 19 marzo era stato persino presentato un simbolo composito, in cui le frecce dei Popolari per l'Italia erano un po' sacrificate ma c'erano; evidentemente, però, l'asticella del 4% restava troppo lontana sia per quel cartello, sia per gli alfaniani del Nuovo centrodestra: il 5 aprile, il giorno prima del deposito dei simboli al Viminale, fu presentato il nuovo emblema composito di Ncd e Udc, graficamente orribile, ma soprattutto senza la minima traccia visiva del partito guidato da Mauro, la cui presenza parlamentare si sarebbe rarefatta sempre di più, fino al passaggio all'opposizione a giugno del 2015, preludio a un lento e silenzioso ritorno verso Forza Italia, senza riflettori e, soprattutto, senza proposte di seggi.
Quella di Mauro non è l'unica storia di tradimenti politici ad avere anche un lato simbolico. Inevitabile pensare al capitolo "Una mamma per nemica", dedicato alla tragicommedia delle candidature di centrodestra per il comune di Roma nel 2016, dominato - qui emerge l'esperienza maturata da Solimene nei vari anni in cui ha seguito per Il Tempo ogni movimento o fibrillazione della destra, romana e nazionale - dalla dialettica conflittuale tra Andrea Augello e Fabio Rampelli, cresciuti tra Msi e An ma attestatisi su posizioni ben distinte. Quando, dalla centrifuga dei nomi, è spuntato quello di Francesco Storace, questi ha dovuto scontare i no di Rampelli e della presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni: gli stessi, guarda caso, che all'assemblea dei soci della Fondazione Alleanza nazionale della fine del 2013 erano riusciti a far assegnare a Fdi l'uso temporaneo del simbolo di An, anche solo per evitare che ne fruissero Storace e alcuni altri; sempre Rampelli e Meloni, a ottobre del 2015, sono riusciti a rendere quasi indefinita la durata della concessione dell'emblema di An, respingendo il tentativo di Gianni Alemanno (da sempre vicino a Storace) di far finanziare dalla fondazione la nascita di un nuovo grande partito di destra. Fallito questo disegno, anche gli spazi per Storace si erano ristretti molto: delle due liste immaginate in un primo tempo, il fondatore della Destra ne presenterà una sola, ma in appoggio ad Alfio Marchini, non di Meloni che intanto aveva accettato la "corsa al Campidoglio" a dispetto della gravidanza (e per scoraggiare pure la candidatura a sindaco dello stesso Storace). 
Volendo, passa attraverso un simbolo - il faro della fondazione Ricostruiamo il paese - anche la storia di Flavio Tosi, che nel 2012 aveva creato un "modello Verona" (un po' politico, molto civico, assai personale) e in quello stesso anno - da segretario della Liga Veneta - aveva fatto eleggere segretario federale della Lega Nord Roberto Maroni, lavorando col segretario della Lega Lombarda Matteo Salvini: con lui, anzi, aveva stretto un accordo (sotto gli auspici dello stesso Maroni), in base al quale Salvini avrebbe corso per la segreteria federale, mentre il sindaco di Verona avrebbe avuto - così scrive Solimene - "la ribalta nazionale", magari la corsa per Palazzo Chigi. Dopo che però alle europee 2014 Salvini aveva preso più voti di Tosi e la Lega si era dimostrata assai più in salute di prima, il sindaco scaligero ha forzato la mano sulle regionali venete del 2015: prima ha provato a decidere per intero i candidati a sostegno della riconferma di Luca Zaia, poi - dopo l'ultimatum con cui Salvini intimava gli iscritti alla fondazione tosiana di scegliere tra quella "casa" e il Carroccio - si è candidato anche alla guida del Veneto, finendo però quarto e obbligato ad abbandonare la casa leghista. A quel punto, il faro di Ricostruiamo il paese è diventato il simbolo di Fare!, inutilmente schierato a favore del "sì" alla riforma costituzionale (su posizioni opposte rispetto alla Lega); la sua luce, poi, è uscita offuscata dalle nuove elezioni amministrative veronesi, segnate dalla sconfitta della compagna di Tosi (impossibilitato al terzo mandato), Patrizia Bisinella. Alle politiche del 2018, il simbolo di Fare non è nemmeno stato presentato, stemperato nel blu del cartello Noi con l'Italia - Udc.
Simboli a parte, tra chi ha lasciato la corte di Berlusconi Solimene pesca le storie di Sandro Bondi e Paolo Bonaiutidue alter ego del Capo finiti in disgrazia. Il primo, dalla "materia così versatile" da "restare al fianco del Cavaliere sopportandone e supportandone i continui cambi d’umore e di linea", è decaduto dopo il 23 aprile 2014 (dopo aver scritto sulla Stampa che Berlusconi, per il bene del centrodestra, avrebbe dovuto sostenere il rinnovamento di Renzi) per poi finire nell'anonimato (un po' per scelta sua, molto per scelta degli ex compagni di Forza Italia, lasciata a marzo del 2015) con la compagna Manuela Repetti, titolari di un nome - Insieme per l'Italia - privo di partito e di simbolo (al punto che questo sito ha voluto dargliene uno, a loro insaputa); il secondo, dopo diciott'anni passati a fianco dell'ex Cavaliere (soprattutto come consigliere e portavoce), ha abbandonato Forza Italia - direzione Alfano - nell'aprile del 2014 dopo un anno di progressivo isolamento, iniziato dopo il disaccordo sulla linea aggressiva contro il capo dello Stato "nella speranza di allentare la tenaglia giudiziaria che si stava stringendo intorno al Cavaliere". Ma quando a luglio del 2017 Bonaiuti ha compiuto 77 anni, la telefonata di Silvio è arrivata: per qualcuno era l'anticamera del ritorno in Forza Italia, ma di più non si sa. 
Non è però necessario cambiare casacca per finire sul taccuino degli #statesereni: il libro estrae dal buio recente le vicende della dem Alessandra Moretti. Lei, miracolata bersaniana della prim'ora (fino al suo "no" pubblico a Marini al Quirinale, che pure era stato proposto da Bersani, e al suo sostegno fallimentare a Cuperlo nella lotta per la segreteria Pd vinta da Renzi), atterrò su un seggio a Strasburgo nel 2014 grazie a una valanga di preferenze, ma uscì con le ossa rotte dalle elezioni regionali in Veneto l'anno dopo (con la campagna elettorale iniziata nel peggiore dei modi per l'immagine, con il manifesto dello "stile Ladylike" che aveva fatto infuriare pure varie donne dem, non solo l'austera Rosy Bindi) per poi finire sempre più in ombra, anche per essere stata a un matrimonio in India quando avrebbe dovuto essere in consiglio regionale. 
Altri invece "tradiscono" proprio perché mantengono la stessa bandiera, invece che seguire una persona molto vicina che fonda un nuovo partito: rientra tra questi Francesco Paolo Sisto, eletto deputato per il Pdl grazie a Raffaele Fitto, ma rimasto in Forza Italia anche dopo la nascita dei Conservatori e riformisti (poi Direzione Italia), interrompendo un rapporto consolidato con l'ex presidente della Puglia e mancando per soli 60 voti l'elezione a giudice costituzionale in quota Fi.
Non manca un riferimento ai fuoriusciti dal MoVimento 5 Stelle, non pochi ma nemmeno troppi (40 su 162), rispetto alle quote dei cambiacasacca di altre forze politiche e rispetta a quanto si prospettava in un primo tempo. Si va così dal primo parlamentare espulso per presenzialismo televisivo (Marino Mastrangeli, "al 313° posto su 315 senatori" quanto a produttività per Openpolis e mai primo firmatario di un disegno di legge) alla deputata uscita da un gruppo diventato per lei troppo violento verbalmente (Gessica Rostellato, che nei suoi primi giorni da deputata non aveva stretto la mano a Rosy Bindi e nel 2015, dopo aver fondato il gruppo dissidente di Alternativa libera, era finita proprio nel gruppo dem), passando per chi ha contestato la restituzione di parte dello stipendio parlamentare e per chi, come Walter Rizzetto, finisce nel gruppo di Fratelli d'Italia dopo aver auspicato a lungo - e in dissenso rispetto ai vertici e alla base stellata - un dialogo M5S-Pd. Per non parlare dell'affaire informatico, mai del tutto chiarito (si rinvia al libro per capirne di più), che sarebbe stato alla base dell'espulsione del deputato toscano Massimo Artini.
Un capitolo, poi, è dedicato al destino della riforma costituzionale, caduta sotto i colpi del referendum del 4 dicembre 2016, ma prima ancora per "la metamorfosi di decine di sinceri riformisti in accaniti difensori della Costituzione più bella del mondo". La riforma, infatti, è stata abbandonata prima da Forza Italia (l'aveva votata al primo passaggio parlamentare, ma ha cambiato idea dopo l'elezione di Mattarella al Quirinale senza che fosse concordata), poi dalla minoranza bersaniana dem (che fece campagna per il "no", pur avendo votato quasi per intero a favore). 
Ce n'è soprattutto per due persone: Renato Schifani, ex Pdl migrato tra gli alfaniani, tra le cui file ha votato la riforma ("per disciplina di partito", assicura), poi divenuto coordinatore del "no" dopo il suo ritorno a Forza Italia; e per Gaetano Quagliariello (già radicale, in seguito molto più simile a un teo-con), che per Solimene rappresentava "lo zenit e il nadir della riforma costituzionale, il principio e la fine, l’autore e l’oppositore", essendo stato prima demiurgo del nuovo testo come "saggio" e ministro ad hoc del governo Letta, poi - complice anche il suo mancato ritorno nella compagine di governo con Renzi? - strenuo contestatore delle modifiche proposte, dal nuovo "palco" di Idea.
Ce n'è anche per Michele Emiliano, per mesi tra i più strenui oppositori di Matteo Renzi all'interno del Pd e poi improvvisamente - alla vigilia della scissione dei futuri componenti di Articolo 1 - Mdp - sfilatosi dal progetto di "Cosa rossa": per Solimene è fortissimo il sospetto che non volesse trovarsi a disagio in una compagine molto a sinistra (lui che di sinistra non era mai stato), per di più come una sorta di "prestanome" di Massimo D'Alema, dopo aver stipulato con lui un "matrimonio di convenienza" che lo avrebbe aiutato a diventare sindaco di Bari, salvo poi entrare in rotta di collisione con lui già dalle regionali 2005 vinte da Nichi Vendola. Era stato decisamente migliore il rapporto con Renzi, incrinato però nel 2014 dalla mancata nomina a ministro e dal non inserimento come capolista alle europee; dopo la vittoria facile alle regionali del 2015 in Puglia, il rapporto sembrava definitivamente guastato a causa del gasdotto Tap, che Emiliano non voleva far arrivare nel leccese (ma il governo sì), e soprattutto dei referendum sulle trivelle (che ha visto una sorta di corpo a corpo Renzi-Emiliano) e sulla riforma costituzionale, che ha riunito il presidente della Puglia e D'Alema sullo stesso fronte. Tutti si aspettavano che guidasse la scissione assieme a Roberto Speranza e al collega presidente toscano Enrico Rossi, ma il passo indietro in extremis ha spiazzato molti; la battaglia (fallimentare) del congresso Pd, stravinto da Renzi e con Emiliano al 10%, avrebbe ridimensionato di molto le ambizioni dell'ex magistrato.
Nel volume c'è persino un cammeo di chi è stato considerato "traditore" probabilmente senza essere davvero nato politicamente: è il caso dei fratelli Andrea e Luca Zappacosta, i "falchetti" sostenuti e benedetti da Daniela Garnero, nota Santanchè dalla fine del 2013, quando il Pdl stava per essere archiviato definitivamente e Berlusconi si doleva di avere troppo delegato ad altri la gestione del partito. La loro creatura, l'associazione Azzurra libertà varata nella primavera del 2014, è arrivata però presto allo scontro con l'organizzazione giovanile "ufficiale" (prima del Pdl e poi di Forza Italia) guidata da Annagrazia Calabria, che invitava alla gavetta i "falchetti", senza che questi volessero saperne; tutto sarebbe naufragato un anno dopo, con parole al veleno nei confronti dello stesso Berlusconi e della sua compagna, Francesca Pascale.
Se, alla fine del libro (ben scritto, mai pedante e con attenzione), lo stomaco non si è ancora guastato per l'atmosfera da "fratelli coltelli" ed è rimasta la voglia di approfondire, si può affrontare l'ultimo capitolo di "Istruzioni per il futuro", con cui si cerca di capire come dare una regolata ai fenomeni trasformistici che rischiano di prodursi anche nella prossima legislatura (soprattutto se una maggioranza chiara non uscirà dalle urne). Attraverso l'opinione autorevole di tre costituzionalisti (Stefano Ceccanti, Alfonso Celotto e Salvatore Curreri) si analizza soprattutto il nuovo regolamento del Senato, che non impedisce ovviamente agli eletti di abbandonare il proprio gruppo - sarebbe contrario all'articolo 67 della Costituzione, che vieta il vincolo di mandato imperativo - ma non consente la creazione di gruppi diversi da quelli formatisi in seguito alle elezioni, dunque con specifico riferimento a un simbolo nella consultazione: chi lascerà la propria casa di elezione, insomma, potrà andare solo in un gruppo già esistente o (alla peggio) nel gruppo misto e, in ogni caso, perderà le eventuali cariche interne già detenute in base all'appartenenza al gruppo precedente (vicepresidente dell'aula, segretario, questore...). E' ancora presto per dire se le nuove regole - non valide per la Camera - funzioneranno e, soprattutto, se saranno applicate in modo rigido o qualcuno ne suggerirà un ammorbidimento "costituzionalmente orientato"; di sicuro, del problema dei cambi di casacca (e della tutela dei dissidenti, che non è giusto ritrarre automaticamente come novelli Giuda) si parlerà ampiamente nella legislatura in preparazione, #statesereni.

domenica 4 febbraio 2018

#RomanzoViminale: dieci simboli mai arrivati in bacheca


I media nei giorni scorsi si sono prodigati in folkloristiche cronache e narrazioni dal Viminale, descrivendo al volo o più nel dettaglio i vari simboli depositati e i loro presentatori. Più di qualcuno, nel tirare le somme, ha riconosciuto un vistoso calo nel numero dei depositanti e delle loro "creature", cercando di interrogarsi sui motivi alla base della "ritirata". Nessuno però ha seriamente dedicato attenzione ai simboli che, per una ragione o per l'altra, quest'anno non si sono visti nelle bacheche del Ministero dell'interno o avrebbero potuto starci benissimo se qualcuno li avesse preparati in tempo. Chi gestisce questo sito e molti dei suoi frequentatori, tuttavia, credono sia giusto rendere loro l'onore delle armi: per questo, ecco qui dieci simboli - con relativi presentatori - che avremmo potuto e voluto vedere nelle bacheche del Viminale, ma almeno sono finiti nella nostra "fantabacheca". Per sorridere un po', per sentirci meno soli come #drogatidipolitica, per sentirci rassicurati da un simbolo strano che si aggiunge o che anche stavolta non manca all'appello. E invece, purtroppo, non c'era.

1) Lista Gabriele Paolini

Di tutti i simboli elencati, questo è il solo che abbia varcato in qualche modo la soglia del Ministero dell'interno. Come si è detto nei giorni scorsi, infatti, tra gli ultimi a presentarsi ai tavoli dl Viminale nella prima giornata di deposito, il 19 gennaio, c'è stato Gabriele Paolini, già noto come inquinatore e decostruttore televisivo (oltre che come "profeta del condom", ma quest'anno tra i depositanti c'era pure Giuseppe Cirillo): con sé, a quanto pare, aveva solo un foglio con il possibile emblema della sua lista, difforme rispetto alle prescrizioni di legge e ministeriali. Nelle bacheche non è mai arrivato, ma sul profilo Facebook di Paolini lo si è visto: si trattava della semplice dicitura "Lista Paolini" scritta a penna, nel tentativo di rendere le lettere più spesse. Al centro, il nome "Felis" con tanto di occhio stilizzato: chi è Felis? Andate sul profilo Fb o sui siti curati da Paolini per scoprirlo...


2) Lista civica nazionale "Io non voto"

Di solito è sempre stato tra i primi a presentarsi in fila davanti al Ministero dell'interno; quest'anno, invece, problemi di salute hanno tenuto lontano da Roma Carlo Gustavo Giuliana, così fotografi e telecamere non hanno potuto immortalare il suo ormai immortale "Io non voto", con tanto di virgolette perché è la citazione di una presa di posizione, di una scelta netta che si fa progetto e nome, appunto, di una "lista civica nazionale". Ci è mancato questa volta il colore pervinca del simbolo, ci è mancato il buonumore pronto a non venir meno e a scattare a dispetto della fredda attesa viminalizia. Si spera che torni presto a mettersi in fila e, magari, riesca anche a presentare le liste, così da concedere a tutti il brivido ossimorico di votare "Io non voto".


3) No Euro - Lista dei grilli parlanti

Altro grande assente, che non può non avere un posto d'onore nella lista delle persone che ci si aspettava di veder arrivare sulla piazza del Viminale per depositare una delle sue creature è Renzo Rabellino. Tra il 1993 e il 2016 ci ha deliziati a livello locale e nazionale con le sue iniziative simboliche audaci (a volte con un vago sentore di zolfo), che hanno fatto sommamente irritare alcuni, mentre hanno dato sempre linfa ai veri #drogatidipolitica. Purtroppo stavolta Renzo non si è visto: è probabile che c'entri la condanna (diventata definitiva ad agosto dopo la sentenza della Cassazione) legata alla raccolta delle firme per le regionali piemontesi del 2010. Noi speriamo di rivederlo presto, magari con Gianluca Noccetti, nel 2014 elemento fondamentale della banda. Vi aspettiamo! 


4) Partito pirata

Dopo l'invasione (o arrembaggio, fate un po' voi) del 2013, quest'anno nemmeno un simbolo si è riferito al fenomeno Pirata. Ma soprattutto quest'anno non si è visto nemmeno Marco Marsili, che nel 2013 aveva portato il "suo" Partito pirata, anche se aveva dovuto modificare il simbolo perché gli era stato chiesto di cambiare nome e togliere la vela nera, ma il jolly roger era rimasto al suo posto. Ci sono mancate le scorribande (ad arrembaggio) notturne e antelucane di Marco, quasi sempre preludio alla presentazione di simboli che hanno messo sotto stress le norme elettorali, per capire fino a che punto si poteva osare: quest'anno la terra portoghese l'ha trattenuto, ma siamo certi che prima o poi tornerà, oh se tornerà... 


5) Partito internettiano

Il primo a mettere la "chiocciolina" del web su un simbolo elettorale? Francesco Miglino, segretario del Partito internettano, apparso per la prima volta nelle bacheche ministeriali nel 2001 (anche se allora il fondo era tutto azzurro e le scritte erano nere). Presente alle politiche del 2013 e alle europee del 2014, pareva che anche quest'anno il titolare del simbolo si presentasse almeno nell'ultimo dei tre giorni dedicati al deposito degli emblemi, ma purtroppo non è arrivato. Peccato, perché nell'anno delle campagne elettorali più social in assoluto, vedere al suo posto l'emblema del primo partito ad aver creduto che "solo tramite internet, il più rivoluzionario strumento di partecipazione diretta, sarà possibile intervenire nelle nuove sfide, contrapporsi da subito ai minacciosi piani di accaparramento delle risorse del pianeta da parte di oscuri centri di potere che, in nome del profitto ed in forza di immense disponibilità finanziarie, pensano di determinare e dominare il destino della società senza che nessuno si opponga" sarebbe stato rassicurante.


6) INRI - Lista Jesus Messi - Movimento Bunga Bunga

Lui in effetti in questi giorni è rimasto in Colombia a preparare altre liste e altre battaglie, per cui al Viminale non lo si è proprio visto. Ma lui, Marco Di Nunzio, il simbolo per correre nella circoscrizione Estero - America meridionale l'aveva già preparato e, al di là di ogni considerazione estetica, era davvero imperdibile. In primo piano c'era una spada (mi raccomando, non una croce), giusto in mezzo alla sigla Inri (che ovviamente significa Indigenti nativi rivoluzionari italiani... cosa pensavate, eh??); subito sotto c'era un riferimento a "Jesus" (vai a capire se si tratta di Gabriel Jesus del Manchester City o di Jorge Jesus allenatore dello Sporting Lisboa) e a Messi, con tanto di stemma del Barcellona; in basso, la pulce dell'immancabile Movimento Bunga Bunga (col simbolo del 2013). Il contrassegno sarebbe stato bocciato di sicuro, ma quante emozioni avrebbe portato... 


7) Sempre in piazza - Il presenzialista dei Tg

Prima o poi avrebbe dovuto pensare seriamente a fare una propria lista: Mauro Fortini in Italia lo conoscono tutti, anche se magari ne ignorano il nome. E' lui il più assiduo presenzialista dei telegiornali, che appare sempre con la sua inseparabile penna arancione, usata per vergare un taccuino mentre il politico di turno dichiara qualcosa, oppure portata alla bocca o alla fronte, mossa con sapiente e ipnotica lentezza, in grado di distrarre il telespettatore. Da qualche giorno Fortini, che dal 1999 ha totalizzato oltre 18mila apparizioni televisive, ha concepito un suo simbolo da presentare alle prossime elezioni: c'è lui, il suo motto "Sempre in piazza" (e lui c'è davvero), il suo biglietto da visita di "presenzialista dei Tg" e, soprattutto, la sua penna arancione, proprio quella. La prossima volta, ne siamo certi, si metterà in fila anche lui.


8) Partì Demücratéc Padan

Anche in questo caso il contrassegno scelto per la bacheca dei non depositati, più che un partito, sta a rappresentare una persona: Massimiliano Loda, detto Max. Il Partì Demücratéc Padan, volendo, è la creatura politica che lo rappresenta di più, anche se negli anni lo si è visto depositare anche altro (compreso il simbolo di Rivoluzione civile senza Ingroia nel 2013 e, prima ancora, Immigrati basta). Quest'anno il Loda da Lodi non si è visto, né lo si sarebbe potuto vedere: da una lettera che lui ad agosto ha inviato a Roberto Bernardelli di Grande Nord (e pubblicata da L'Indipendenza nuova), si apprende che lui si trova in carcere per il cumulo di pene legate ad accuse di firme false. "In uno stato di diritto è indegno che il meccanismo di presentazione alle elezioni comporti rischi per la libertà personale; è ora che la politica affronti il problema", scrive nella sua lettera. Per il momento, nel rispetto di tutti quanti e della legge, i #drogatidipolitica si augurano che Loda possa tornare quanto prima in condizione di politicare: anche la sua assenza si fa sentire.


9) Federazione nazionale dei Verdi-Verdi

A livello locale in Piemonte l'attività è continuata e la pagina Facebook è sempre aggiornata, ma a livello nazionale l'orsetto dei Verdi-Verdi, legati fin dall'inizio a Maurizio Lupi (non quello lombardo, ovviamente), manca davvero da troppo tempo nelle bacheche del Viminale. Non lo si vede, per intendersi, dal 2006, anno in cui comunque la dicitura "Verdi Verdi" fu cassata dall'Ufficio elettorale nazionale e si dovette ricorrere alla dicitura "L'Ambienta-Lista Ecologisti democratici". Da allora, niente più orsetto che sorride e saluta, né sulle schede né nei corridoi del Ministero. Una mancanza cui coloro che seguono con passione le cronache politiche non si sono rassegnati, nemmeno quest'anno.


10) Lista Marco Pannella

Negli ultimi giorni l'ho ricordato spesso: queste elezioni sono le prime a svolgersi senza Marco Pannella. E sarà anche la prima volta che la lista che porta il suo nome, ora guidata da Maurizio Turco, non si presenterà o non contribuirà ad altre liste (come avvenne nel 2006 con la Rosa nel Pugno o nel 2013 con Amnistia giustizia libertà). "La non democraticità delle elezioni - si legge in una nota - ha raggiunto in questa tornata elettorale vette mai raggiunte prima e qualsiasi tentativo di partecipare al gioco elettorale significherebbe legittimarle. Il regime erede della partitocrazia, attraverso la stampa e la tv totalmente asservite alle ragioni del potere, impedisce quotidianamente ai cittadini, di conoscere altro e altri da ciò che, funzionale alla sua stessa conservazione, deve essere conosciuto". 
Sui media non si parla di temi "essenziali quali lo Stato di diritto, la giustizia, l'Europa", cari al Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito, oltre che alla Lista Pannella: Turco e gli altri parlano di censura sempre più violenta nei loro confronti, di una legge elettorale "per la terza volta [...] adottata in prossimità della scadenza elettorale stravolgendo il precedente sistema", rendendo difficile ad alcune forze politiche la partecipazione alle elezioni "mentre si dilata a dismisura, per via interpretativa, la possibilità di presentare liste senza l'onere della raccolta delle firme a qualsiasi microinsediamento istituzionale" (non senza riferimenti poco criptici all'esenzione a favore anche di +Europa). Per questo la Lista Pannella continua la sua opera di denuncia della "sempre più sottile, quasi impalpabile quanto pervasiva, violenza del regime", invita alla "resistenza nonviolenta" e, oltre a non partecipare al voto, non ha presentato nemmeno il simbolo. Almeno nella bacheca dei nostri desiderata, dunque, doveva finirci.