sabato 16 dicembre 2017

Dc, ricorso dei vecchi iscritti: "L'Udc restituisca lo scudo crociato"

Non può terminare l'anno senza che la vicenda della Democrazia cristiana e dello scudo crociato conosca una nuova puntata. A scriverla, tuttavia, non è la Dc guidata da Gianni Fontana - che sta ancora valutando l'eventualità di partecipare o meno alle elezioni politiche - bensì due di coloro che, in qualità di soci dell'ultimo tesseramento valido (1993), si ritengono legittimati a far valere i diritti del partito che fu di De Gasperi, nei confronti di chi ne avrebbe usurpato il simbolo.
Nei giorni scorsi, infatti, si sono rivolti di nuovo al tribunale civile di Roma - con un ricorso ex art. 700 c.p.c. - Raffaele Cerenza e Franco De Simoni (che già avevano impugnato gli atti dell'assemblea dell'Ergife del 25 e 26 febbraio 2017 e, assieme ad altri soci del 1993, hanno intrapreso un percorso per la riattivazione della Dc che non coincide perfettamente con quello di Fontana e soci), questa volta per chiedere un provvedimento d'urgenza nei confronti dell'Udc guidata da Lorenzo Cesa, che da anni si fregia dell'antico scudo, per poterlo utilizzare di nuovo senza molestie. 
Per prima cosa, i ricorrenti ricordano i passaggi che, a loro dire, li legittimerebbero nelle loro richieste: il riferimento, in particolare, è alla sentenza 1305/2009 della Corte d'appello di Roma, confermata dalla sentenza n. 25999/2010 delle sezioni unite della Cassazione, che ha accertato l'inesistenza degli atti con cui la Democrazia cristiana è stata trasformata nel Ppi nel 1994 (per la mancanza di un congresso), per cui la Dc "non è da considerare né estinta né trasformata né sciolta"; a tutt'oggi, l'unico organo operativo sarebbe "la base associativa, composta dagli iscritti dell'anno 1993" (anche se, in effetti, le sentenze citate non lo dicono espressamente) e, in mancanza degli organi di vertice, toccherebbe ai singoli iscritti "tutti congiuntamente ed anche disgiuntamente" tutelare gli interessi del partito. 
Per Cerenza e De Simoni, stando così le cose, "tutti gli atti dispositivi esplicati nel corso del tempo in danno della Dc e posti in essere da soggetti non legittimati sono nulli ed illegittimi" e, tra l'altro, il patrimonio, il nome e il simbolo democristiani non potrebbero essere attribuiti a nessuno dei partiti che, nel tempo, si sono proclamati eredi (giuridici o anche solo politici) della Dc. Varrebbe per il Ppi (che avrebbe cambiato nome in modo illegittimo), per i dissidenti del Ccd (che ottennero parte del patrimonio ex Dc), per il Cdu di Rocco Buttiglione (che, dopo la lotta intestina del 1995 e gli "accordi di Cannes", ottenne di mantenere lo scudo crociato) e per il Ppi-gonfalone passato da Gerardo Bianco a Franco Marini a Pierluigi Castagnetti (che mantenne il nome e la continuità giuridica), nonché per l'Udc, cui dal 2002 il Cdu ha apportato lo scudo. Scudo che invece, per i ricorrenti, dovrebbe essere restituito al partito che lo aveva usato per decenni e non è mai stato sciolto.
Cerenza e De Simoni, nel ricorso, spiegano di essere mossi "tanto da un impulso etico per la tutela della Democrazia Cristiana e per il ripristino dell’attività politica del partito, quanto dalla volontà di esercitare diritti di rango finanche costituzionale, essendo il patrimonio dell’associazione formato da beni materiali e immateriali": l'idea, infatti, è che restituire il simbolo alla Dc sia necessario affinché questa possa di nuovo liberamente "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale", come recita l'art. 49 Cost. con riguardo ai partiti. E il solo modo per riottenere il simbolo (parte del patrimonio) è che all'Udc non sia più concesso di utilizzarlo, anche se quel partito è in Parlamento (italiano ed europeo) da più di un decennio: ciò sarebbe avvenuto "in spregio ed in violazione dei diritti inalienabili" della Dc, né l'Udc può esserne erede, essendo la Dc ancora in vita giuridicamente.
L'uso esclusivo del simbolo, in particolare, sarebbe essenziale per partecipare alle elezioni e anche per questo Cerenza e De Simoni hanno scelto di agire in via d'urgenza: la vicinanza del voto politico e amministrativo impone di chiedere (sperando di ottenere) tutela in fretta, prima che l'uso altrui del nome e del simbolo crei ulteriori danni politici, giuridici ed economici alla Dc. I ricorrenti, dunque, hanno chiesto al tribunale di inibire all'Udc l'uso del simbolo dello scudo crociato (e la sua rimozione "da ogni luogo e supporto, fisico e telematico" a partire dalle prossime elezioni).
L'obiettivo di Raffaele Cerenza (che era riuscito a ottenere dai giudici la dichiarazione di nullità del percorso che aveva portato una prima volta Fontana, nel 2012 alla guida della ridestata Dc) e di Franco De Simoni non sarà semplice da ottenere: finora le cause perse dall'Udc sono state pochissime e il percorso di riattivazione della Democrazia cristiana non ha ancora acquisito una stabilità tale - sul piano politico e giuridico - da poter convincere ogni giudice che chi oggi vuole difendere la Dc agisce certamente in nome e per conto dello stesso partito che nel 1994 sarebbe finito in letargo (ammesso e non concesso che questa teoria sia corretta: di essa, in questo sito, si è dubitato più volte). Ogni tentativo, in ogni caso, può contribuire a una maggiore chiarezza sul piano giuridico e, in quel senso, è benvenuto: aspettiamo, allora, il finale di questa nuova puntata della "saga dello scudo crociato", certi già che non sarà l'ultima.

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