venerdì 31 agosto 2012

Quando la Cgil presentava il simbolo per le elezioni



Il simbolo depositato dalla Cgil
Susanna Camusso l’ha dichiarato in pubblico l’altro ieri, alla Festa Democratica nazionale di Reggio Emilia, rispondendo a Elia Minari di Prima Pagina Reggio che le chiedeva cosa pensasse dell’eventuale ingresso in politica di Maurizio Landini o di altri esponenti della Fiom: «Non credo che una scelta di questo tipo sia conciliabile con la storia della Cgil».
Da un certo punto di vista, il segretario generale del maggior sindacato italiano ha ragione: in effetti, i sindacalisti che si sono candidati al Parlamento o ad altre cariche (vedi Bruno Trentin e Sergio Cofferati, per restare alla Cgil degli ultimi anni) lo hanno fatto dopo l’addio al sindacato – e, soprattutto, dopo aver concluso i loro mandati di livello nazionale – senza mantenere il “doppio incarico”; eppure, dire che nella storia della Cgil non ci siano mai state ambizioni politiche non pare del tutto corretto.
Scartabellando tra i contrassegni che partiti e gruppi politici hanno l’onere di depositare al Ministero dell’Interno per partecipare alle elezioni politiche ed europee – basta sfogliare i volumi pubblicati dall’Istituto poligrafico e zecca dello Stato in prossimità di ogni appuntamento elettorale – si scopre che già nel 1958 c’è anche il segno distintivo denominato «Confederazione generale italiana del lavoro». Nella circonferenza di 10 centimetri di diametro, infatti, c’è proprio il simbolo usato dalla Cgil negli anni ’50: uno scorcio del globo terrestre focalizzato sull’Europa, inserito in un altro cerchio – dal quale per l’occasione è stata rimossa la dicitura maiuscola «Federazione sindacale mondiale» – con la scritta CGIL racchiusa in un rettangolo; lo stesso emblema è stato presentato e ammesso alle successive 5 elezioni politiche (1963, 1968, 1972, 1976 e 1979) e anche alle europee del 1979, l’ultimo appuntamento elettorale in cui il contrassegno faccia la sua comparsa.
Ora, è vero che il semplice deposito al Ministero del “marchio politico” non implica automaticamente la partecipazione alle elezioni: non risulta che sia mai stata presentata una “lista Cgil” anche solo in una di queste tornate elettorali; è prassi comune che il simbolo possa essere depositato anche solo per evitare usi indebiti da parte di altri soggetti o formazioni politiche. È altrettanto vero, però, che chi deposita un emblema, quasi sempre lo fa per tutelare la propria partecipazione alla competizione elettorale, anche solo eventuale o futura. Si può dunque concedere tutta la buona fede possibile alla Camusso, ma nella sua storia, a quanto pare, un pensierino elettorale anche la Cgil deve averlo fatto...

venerdì 24 agosto 2012

I partiti (e i simboli) senza regole


E se qualcuno, prima o poi, si decidesse a dare regole precise alla materia dei simboli dei partiti? Qualcosa di simile, per capirsi, a quello che la legge già prevede per le elezioni, per cui occorre rispettare per lo meno i divieti di confondibilità e ingannevolezza (anche se poi, puntualmente, si litiga quando è ora di riempirli di contenuto). Già, perché pochi sanno che, al di fuori degli appuntamenti elettorali, il legislatore italiano non ha dettato uno straccio di norma su come devono essere i contrassegni dei partiti, su come nascono e come muoiono, su chi può utilizzarli e come.
Questo rientra in un disegno più generale, per cui sono i partiti per primi a non essere regolati nemmeno per sbaglio nel loro funzionamento: solo di recente ci si era preoccupati di mettere dei paletti almeno su uno dei punti più delicati, il finanziamento (ma non è che si sia risolto granché), ma per tutto il resto l’organizzazione dei partiti somiglia decisamente al Far West.
È vero, l’articolo 49 della Costituzione dice espressamente che i partiti devono «concorrere con metodo democratico a determinare la vita politica nazionale», eppure i partiti si sono sempre accordati tra loro perché questo principio si applicasse solo al confronto tra partiti, non anche alle dinamiche interne di ciascuna formazione politica. In fondo conveniva a tutti che nessuno, a partire dai giudici e da qualche zelante funzionario pubblico, mettesse il naso all’interno dei partiti: non conveniva sicuramente ai comunisti, che applicavano il metodo del “centralismo democratico”, che lasciava ben poco spazio al dissenso o alla libera espressione delle idee (con qualche effetto concreto, si intende); dall’assenza di regole, però, avevano tutto da guadagnare anche i democristiani – come del resto gli esponenti di altri partiti – che riuscivano a controllare il partito attraverso “pacchetti di tessere” comprate con moneta sonante (e intestate anche ai morti), con cui si poteva decidere chi piazzare in lista o chi far diventare segretario. Morale, niente regole, e tutti erano più contenti.

martedì 21 agosto 2012

Guardo l’Api che (non) volano nel ciel…


Qualcuno l’aveva ammesso, in modo nemmeno troppo velato: «Il simbolo tricolore? Terribile». Così diceva Patrizio Bertelli, amministratore delegato del gruppo Prada, pochi minuti dopo aver fatto il suo intervento alla prima convention di Alleanza per l’Italia, il soggetto politico fondato da Francesco Rutelli e Bruno Tabacci, transfughi rispettivamente da Pd e Udc (esattamente Rosa per l’Italia).
L’emblema era stato battezzato l’11 novembre, ma giusto un mese dopo c’era già chi detestava quel segno geometrico e piuttosto inespressivo: «una x rossa e verde su campo bianco», lo definiva il Corriere, anche se quella X – che nel logo voleva dire proprio «per», manco fosse una stenografia o un sms – sembrava piuttosto un “maggiore” verde leggermente sovrapposto a un “minore” rosso, quasi a dire che virare troppo verso il rosso fa male (soprattutto per un ex verde come Rutelli).
Tempo una decina di giorni e il contrassegno si rivoluziona, anche se lo fa con un gioco di parole fin quasi banale. La sigla del partito è Api? E allora perché non piazzare nell’emblema due belle apucce, dal corpo tricolore, a svolazzare in un cielo azzurrino sopra un fiorellino, magari d’arancio, appena posato su un tocchino di verde? Detto, fatto. Dalla segreteria del partito si affrettano a spiegare che le api sono «simbolo dell’Italia operosa, ma anche insetti col pungiglione».
A dire il vero, l’idea sapeva piuttosto di riciclo: nel 1999 Domenico Comino, Vito Gnutti e altri espulsi dalla Lega avevano fondato gli Autonomisti per l’Europa e, guarda caso, si erano fatti simboleggiare da un’ape, meno schematica e più naïve, quasi disneyana; per Rutelli e compagni c’è la scusa del fiore, ma a quasi tutti sembra proprio questa la parte più importante del contrassegno. Sarà pure un fiore d’arancio, con pochi petali ampi, ma quella corolla bianca e il centro giallo rimandano decisamente alla margherita e un po’ di malizia viene spontanea: non solo il presidente del partito è l’ex “margheritino” Rutelli, ma il coordinatore è Lorenzo Dellai, che aveva fondato la lista «Civica per il governo del Trentino» nel 1998, piazzando proprio quel fiore nel simbolo e facendo addirittura da modello per il precedente partito rutelliano.
I grafici dell’Api, peraltro, non hanno fatto proprio nulla per fugare questi sospetti: prima le api si sono annerite, depositando il tricolore a lato del fiore e volando in un cielo dall’azzurro più intenso, poi se ne sono andate del tutto. Finché, più o meno un anno dopo la nascita del partito, Rutelli cala l’asso dalla manica: a identificare la formazione bastano una gigantografia della sigla (piuttosto stiracchiata, non proprio elegante), il nome del partito e, sopra a tutto, quel fiore appena ridisegnato e decisamente cresciuto: completano il quadro il fondo blu uniforme e un elementino tricolore (che non manca mai, a quanto pare) a separare fiore e scritte. E le api? Volate via: forse, in fondo, non c’era nulla da pungere.

giovedì 16 agosto 2012

Contro il manganello delle tasse. Oggi come allora

Le tasse non piacciono a nessuno, è noto e non c’è bisogno di un’indagine per averne conferma. C’è chi si limita a pensarlo, c’è chi non lo tiene per sé e lo grida come e dove può. Qualcuno, mentre era al governo, ha più volte giustificato l’evasione fiscale (senza domandarsi con quali soldi avrebbe fatto fronte alle spese dello Stato), era nelle cose che qualcun altro prima o poi pensasse di costruirvi intorno un movimento.
Da pochi giorni quell’idea si è fatta partito, grazie a Leonardo Facco, giornalista, scrittore ed editore. A dire il vero, statuto e atto costitutivo non ci sono ancora, dunque il partito, inteso come associazione vera e propria, per il momento non esiste, ma è questione di settimane. Il nome, però, è già lì: «Forza evasori». Chiaro, inequivocabile, indisponibile a letture accomodanti. Accanto al nome, cinque articolate idee di programma che compongono – sono parole dell’ideatore – un «passaporto per la salvezza». Si snocciolano in fretta, volendo: «Del fisco me ne infischio», «Dieta paleolitica per lo Stato», «Il futuro è mio e lo decido io», «Abbasso la squola», «Libertà di pensiero e di confessione».

giovedì 9 agosto 2012

«Siamo gente comune». Garantisce Rosi Mauro


A spulciare senza nemmeno troppa fatica gli elenchi dei membri del Senato, lei risulta ancora vicepresidente. Sono passati tre mesi e mezzo dallo “scandalo Belsito”, che ha travolto lei e squassato la dirigenza della Lega Nord, e Rosa Angela (“Rosi”) Mauro è quasi tornata nel dimenticatoio per coloro che non si appassionano alle cronache giudiziarie. Con lei, anche la sua creatura politica nuova nuova, che pure a palazzo Madama può contare su ben due esponenti (lei e Lorenzo Bodega, uscito dal gruppo leghista dopo aver votato contro l’espulsione della Mauro).
La formazione, battezzata quasi un mese fa, si chiama «Siamo gente comune – Movimento territoriale» e porta per la prima volta un girasole in Parlamento; tutt’al più la seconda, a voler considerare come primo episodio la presenza dei socialisti dello Sdi e dei Verdi nella XIV legislatura, che avevano formato la lista del Girasole (ma quei parlamentari avevano ottenuto il seggio quasi sempre grazie ai collegi della quota maggioritaria, dunque, a rigore, non con la lista di cui si diceva).
Questa volta il fiore spunta nella parte bassa del nuovo emblema, su fondo blu, nella mezzaluna descritta dalle due parti della denominazione riportate, manco a dirlo, in giallo. «È un fiore molto comune – spiegano al nuovo movimento – che segue sempre il sole: rappresenta l’immagine del popolo, guidato dal buonsenso e dai valori ben radicati»: a rappresentare il popolo, in teoria, nove sagome di persone, più o meno allineate nella parte superiore del contrassegno e del tutto anonime nel loro azzurrino sfumato. Per carità, se sono allineate significa che nessuna è più in vista delle altre e nessuno fa la prima donna, eppure l’impressione complessiva del simbolo è vagamente triste: quelle persone saranno pure «gente comune» (anche se, a pensare allo stipendio da parlamentare, non ci si crede molto), ma l’idea che siano anonime e inespressive come quei gruppi di figure francamente avvilisce un po’. Meglio, molto meglio osservare un campo di girasoli e godersi lo spettacolo di quei colori accesi: va bene anche un quadro di Van Gogh, ovviamente.

giovedì 2 agosto 2012

La Dc torna in Parlamento... e nessuno ce lo dice

La Dc del 1992 ... e del 2012 forse

Non se n’è accorto quasi nessuno, persino i due maggiori quotidiani italiani non sembrano aver dedicato una sola riga all’evento, ma lo scorso 17 maggio è accaduta un fatto di portata quasi storica: in Parlamento è tornata la Dc. 
Certo, è tornata ben lontana dai numeri del 1948 (305 deputati e 148 senatori) o anche solo del 1992, le ultime cui lo scudo crociato “storico” abbia partecipato (quell’anno conquistò 206 seggi alla Camera e 107 al Senato): attualmente può contare soltanto su un deputato, che ovviamente non può fare gruppo a sé. Soprattutto – e qui le cose si fanno maledettamente difficili, anche per chi è abituato a seguire le cronache politiche – non ha nulla a che vedere con l’Udc di Casini (ovviamente), ma nemmeno con la Democrazia cristiana (poi precisata come “per le autonomie”) di Gianfranco Rotondi. È forse la Dc di Giuseppe Pizza, finita qualche volta agli onori delle cronache? Nient’affatto. Allora magari è la Dc di Angelo Sandri (sempre più difficile, visto che la conoscono davvero in pochi)? Men che meno.
Allora, di quale Democrazia cristiana stiamo parlando? A sentire i protagonisti della storia, proprio della “vera” Dc, quella originale. Oddio, nemmeno questa sarebbe una novità (l’avevano proclamato, per dire, anche Sandri e Pizza e poi ancora Sandri per le loro formazioni), ma il segretario politico della formazione Gianni Fontana e gli altri iscritti al partito ne sono pienamente convinti. Per loro, all’inizio del 1994, quando ha mosso i suoi primi passi il Partito popolare italiano di Martinazzoli, nessuno ha sciolto la Democrazia cristiana e questa avrebbe continuato a esistere, sia pure “in sonno”, dormiente”, finché qualcuno non l’ha “risvegliata”. A chi l’arduo compito? Ma a Fontana & co., ovviamente, i quali hanno chiesto invano di convocare il consiglio nazionale della “vecchia” Dc all’allora presidente, Rosa Russo Jervolino e, non avendo ricevuto uno straccio di risposta, hanno provveduto ad autoconvocarlo attraverso l’annuncio firmato da un “campione di democristianità”, Clelio Darida, consigliere anziano di quell’organo non più riunitosi dal 1994.