E se qualcuno, prima o poi, si
decidesse a dare regole precise alla materia dei simboli dei partiti? Qualcosa
di simile, per capirsi, a quello che la legge già prevede per le elezioni, per
cui occorre rispettare per lo meno i divieti di confondibilità e ingannevolezza
(anche se poi, puntualmente, si litiga quando è ora di riempirli di contenuto).
Già, perché pochi sanno che, al di fuori degli appuntamenti elettorali, il
legislatore italiano non ha dettato uno straccio di norma su come devono essere
i contrassegni dei partiti, su come nascono e come muoiono, su chi può
utilizzarli e come.
Questo rientra in un disegno più
generale, per cui sono i partiti per primi a non essere regolati nemmeno per
sbaglio nel loro funzionamento: solo di recente ci si era preoccupati di
mettere dei paletti almeno su uno dei punti più delicati, il finanziamento (ma
non è che si sia risolto granché), ma per tutto il resto l’organizzazione dei
partiti somiglia decisamente al Far West.
È vero, l’articolo 49 della
Costituzione dice espressamente che i partiti devono «concorrere con metodo democratico
a determinare la vita politica nazionale», eppure i partiti si sono sempre
accordati tra loro perché questo principio si applicasse solo al confronto tra
partiti, non anche alle dinamiche interne di ciascuna formazione politica. In
fondo conveniva a tutti che nessuno, a partire dai giudici e da qualche zelante
funzionario pubblico, mettesse il naso all’interno dei partiti: non conveniva
sicuramente ai comunisti, che applicavano il metodo del “centralismo
democratico”, che lasciava ben poco spazio al dissenso o alla libera
espressione delle idee (con qualche effetto concreto, si intende); dall’assenza
di regole, però, avevano tutto da guadagnare anche i democristiani – come del
resto gli esponenti di altri partiti – che riuscivano a controllare il partito attraverso
“pacchetti di tessere” comprate con moneta sonante (e intestate anche ai morti),
con cui si poteva decidere chi piazzare in lista o chi far diventare
segretario. Morale, niente regole, e tutti erano più contenti.
C’è chi, a dire il vero, per anni
ha continuato a presentare proposte di legge per tentare di porre almeno
qualche norma, soprattutto a tutela dei diritti degli iscritti e della
democraticità della selezione dei candidati, nella convinzione che così non si
potesse andare avanti (e non solo perché i costituzionalisti gridavano allo
scandalo, dicendo che quel pezzetto di Costituzione rimaneva inattuato). Eppure
puntualmente quei progetti normativi non venivano discussi o interrompevano
quasi subito il loro cammino parlamentare, affondando in qualche secca o
incappando nella fine della legislatura.
Ci è voluto giusto il “caso Lusi”,
per far risvegliare di botto un gran numero di parlamentari, che si sono messi
al lavoro (o hanno messo sotto i loro uffici legali) per produrre nuove
proposte per la regolazione dei partiti politici: da febbraio a oggi se ne
contano almeno undici e qualcuna si preoccupa anche di normare la materia dei
simboli. Anche il sottoscritto si è messo in gioco, scrivendo una proposta di
legge, presentata alla Camera dal deputato Pd Sandro Gozi: l’intero art. 4 del testo
è dedicato ai segni distintivi dei partiti, dunque al nome e al contrassegno
(per leggerla, basta andare nella sezione Pubblicazioni
e interventi “simbolici”).
L’intenzione è buona, peccato che
– a quanto pare – finisca in nulla. Per bene che vada, la legislatura finirà
nel giro di pochi mesi: il tempo per approvare questa proposta, come del resto
altre che nel frattempo sono state presentate, ci sarebbe, ma non sembra
esserci un vero interesse da parte dei parlamentari a tradurre in legge
qualcuna di queste regole. Qualcuno dice che queste cose, al pari della legge
elettorale, non interessano a nessuno. Non è così e, in fondo, non vorremmo per
forza pensare male o in negativo: per una volta, ci piacerebbe essere smentiti
o, per lo meno, sorpresi.
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