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sabato 10 gennaio 2015

Franco Greco, il primo che ci mise la faccia

Ormai, nell'epoca della comunicazione visiva e dei selfie, non fa quasi più effetto sentir dire da qualcuno "Ci metto la faccia": può anche essere un'intenzione genuina, gli si può pure credere, ma nessuno ci farà troppo caso. All'inizio, invece, qualche impressione la faceva eccome, anche e soprattutto in politica.
Con il senno del poi, l'idea che qualcuno possa fare del proprio volto un emblema politico può persino far sorridere; se si arrossisce, casomai, è solo per colpa della grafica, che oggi appare del tutto improbabile (e poco gradita all'occhio). Chissà però cos'avranno pensato gli occhi che, nel 1994, hanno visto spuntare per la prima volta sulle schede la Lista Franco Greco, con tanto di faccione (si fa per dire, in due centimetri di diametro) del candidato propugnato.
L'avevano visto in pochi, essenzialmente nel collegio di Siracusa, ma in quella terra quel volto in politica era ben noto. Perché Francesco Greco, detto Franco, classe 1942, avvocato per professione conclamata, a Palazzo Madama c'era stato la bellezza di undici anni. Eletto per la prima volta nel 1983, era entrato con il Partito socialista italiano di Craxi; due anni dopo, eccolo fare il suo ingresso nel gruppo del Pci, arrivando addirittura - nel periodo 1987-1992 - a essere membro dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa. Nella nuova legislatura fu parte del gruppo del Pds, ma negli ultimi tre mesi passò al gruppo misto. 
Qualcosa doveva essersi incrinato tra l'avvocato - che, nella foto della "Navicella", aveva barba e chioma fluenti - e la Quercia; sta di fatto che al Senato, a Siracusa, i Progressisti candidarono un suo cognonimo, Paolo Greco. Non aveva fatto i conti con Franco, che - appunto - ci mise la faccia e con quella candidò tale Elio Tocco, che comunque raccolse quasi 8200 voti e, con il suo 6,78%, prese quasi cinque punti in più del Psi che correva con il simbolo (graficamente brutto) della rosa.
Il contrassegno cenne depositato altre due volte al Viminale: stesso fondo verde-azzurro (cambiava solo la posizione e il corpo della scritta) e stessa foto in bianco e nero con terrificante giacca pied de poule e camicia aperta sul collo (mutava solo lo "zoom" sul volto). Alle elezioni politiche l'emblema non sopravvisse alla fine dei collegi uninominali (pur presentandosi almeno una volta alle provinciali di Siracusa nel 2003); in compenso fu il primo - almeno nella storia degli emblemi a colori - a scegliere di mettere la propria foto sul contrassegno, arrivando addirittura prima di Mirella Cece, che avrebbe atteso le elezioni europee di quello stesso 1994 per presentare il suo "Sacro Romano Impero Cattolico" (non ancora liberale), mentre alle politiche aveva presentato "solo" il suo Movimento europeo liberal-cristiano "Giustizia e libertà".
Parlando di giustizia (e senza voler fare torto a Mirella), tuttavia, bisognerebbe dire che nel 1992 - il primo anno di elezioni a colori - in realtà qualcuno la sua faccia l'aveva già messa, in qualche modo. Perché - benché l'immagine fosse concepita più come un'opera d'arte che come una foto - era pur sempre il viso di Moana Pozzi quello che appariva nel cuore del Partito dell'Amore messo in campo da Mauro Biuzzi. Dopo di lei (e dopo Franco Greco e la Cece) altri visi sarebbero piombati sull'agone politico, spesso altrettanto sorridenti, ma certamente con meno glam rispetto alla potenza dell'Icona Pozzi.

domenica 9 dicembre 2012

Quel "simbolico" re del porno

Di sito in sito rimbalza la notizia della scomparsa del re italiano del porno: sì, certo, ma anche un significativo “padrino” di simboli politici. Già, perché Riccardo Schicchi, nato guardone (a scuola, a dar ragione a Wikipedia) e cresciuto fotografo, è passato alla cronaca – dire “alla storia” pare un po’ esagerato – per la sua lunga attività nell’ambiente dell’erotismo e della pornografia, ma negli anni il suo nome è affiorato più di una volta nelle note politiche, soprattutto a ridosso delle elezioni.
Se la solita Wikipedia parla di «un primo tentativo di ingresso in politica con la Lista del Sole negli anni ’70» (lista che, se mai è esistita, non era certo di livello nazionale o non doveva avere alcuna fama), nel decennio successivo è certo l’avvicinamento di Schicchi al Partito radicale, lo stesso che nel 1987 portò a Montecitorio la sua prima creatura hardcore, «Staller Ilona detta Cicciolina».
Tempo qualche anno e nel 1991 il titolare di Diva Futura scelse di mettersi in proprio, dando vita al «Partito dell’amore» con tale Mauro Biuzzi, che della nuova formazione politica aveva anche elaborato il simbolo. Doveva essere proprio «icona Staller», l’immagine di Cicciolina elaborata dallo stesso Biuzzi, a tenere a battesimo il partito, non fosse stato per una simpatica diffida della stessa Ilona Staller (allora signora Koons) che in quattro e quattr’otto imponeva di cambiare logo, e pure in fretta. Ci voleva altro per affossare il Partito dell’amore, pronto a concorrere alle elezioni politiche del 1992: al posto del viso della Staller, arrivò quello della seconda creatura più nota di patron Schicchi (seconda solo in ordine di tempo), Moana Pozzi. Il sorriso smagliante di Moana, con tanto di croce sulla fronte, arrivò anche alle Tribune televisive e si conquistò vari articoli: il simbolo fu stampato sulle schede elettorali solo in Lazio, prese lo 0,06%, ma l’attrice ebbe più preferenze di Bossi e Rutelli. L’anno dopo Moana si candidò al Campidoglio sempre per il Partito dell’amore – che, sia ben chiaro, esiste ancora anche se non fa più attività politica, basta fare un giretto su www.partitodellamore.it – ma Schicchi non era già più segretario. 
Ricomparve nel 2001, come capolista (sempre alle elezioni comunali di Roma) della formazione politica «Forza Roma»: la lista proponeva come sindaco tale Dario Di Francesco, in abbinata alla speculare «Avanti Lazio» guidata da un altro carneade, Massimiliano Toti (che però per il Corriere diventò Totti, quasi un abominio calcistico). Quando la commissione elettorale romana bocciò le due liste per guai con firme, scoppiò il putiferio: assedio ai locali, pornostar pitturate come le rispettive squadre e appelli al Capo dello Stato; alla fine Di Francesco fu riammesso, mentre di «Forza Roma» le statistiche non testimoniano tracce. Quei simboli, peraltro, sono rispuntati più di una volta nelle elezioni successive, tanto da ispirare forse sia «Forza Toro» (simbolo visto al fianco della «Lista dei grilli parlanti» di Renzo Rabellino), sia «Forza Juve» (simbolo presentato alle elezioni comunali di Torino del 2011 da Marco Di Nunzio, lo stesso della «Lista Bunga Bunga», e ricusato per problemi di sottoscrizioni). Chissà se Roma e Lazio occhieggeranno ancora al Viminale, ora che patron Schicchi non c’è più…