lunedì 30 settembre 2019

Dc e scudo crociato: riassunto (e la mia tesi) una volta per tutte (2)

Dopo la prima puntata, continua qui la spiegazione della mia tesi relativa alla (r)esistenza della Democrazia cristiana e alla titolarità civile ed elettorale dello scudo crociato, unita al riassunto delle vicende che hanno prodotto la complicatissima situazione di oggi. 
Nella prima parte avevo raccontato in cinque punti la vicenda per come si è svolta dal 1994 al 2002: il "peccato originale" (cioè il cambio di nome da Dc a Ppi nel modo sbagliato), la doppia scissione del Ccd e del Cdu (che di fatto menoma due volte nel giro di un anno il corpo del partito che ha cambiato nome), il periodo della "co-gestione obbligatoria" del patrimonio che fu della Dc da parte dei tesorieri di Ppi e Cdu (durato sette anni, ben più di quanto sarebbe stato normale immaginare), una prima sentenza della Cassazione che nel 1998 sosteneva che la Dc non si fosse mai estinta e Ccd e Cdu non ne fossero gli eredi (il che era normale, visto che la Dc aveva semplicemente continuato a esistere e operare come Ppi) e la fine consensuale della co-gestione il 5 luglio 2002 (per cui il Ppi, dopo l'accordo stipulato col Cdu, si sarebbe fatto carico di tutte le questioni riguardanti la Dc da lì in avanti).
Questa seconda puntata racconta i tentativi di rimettere in piedi la Democrazia cristiana e i motivi per cui, prima o dopo, si sono dovuti scontrare con le decisioni dei tribunali o degli uffici elettorali. Quei tentativi, però, erano iniziati ben prima del 2002, dunque per iniziare il racconto occorre fare un passo indietro di qualche anno.


6) Rifare una Dc: Piccoli ci prova (come altri), ma è "troppo nuova"

Il fatto è che, messo da parte il vecchio nome, tanti democratici cristiani non riuscivano a fare pace con l'idea che il partito che li aveva accolti per tanti anni, nelle loro differenze anche marcate, di fatto non ci fosse più. A loro, per riprendere l'esempio visto nella prima parte, non importava che Franco Porta fosse rimasta la stessa persona con lo stesso corpo, anche se tutti lo chiamavano Marco Cerri e aveva cambiato la foto sul documento: loro rivolevano Franco Porta con il suo nome e basta, soprattutto dopo che coloro che avrebbero dovuto rappresentare la tradizione politica cristiana in Italia nel 1995 se le erano date di santa ragione e anche con la carta bollata di mezzo non avevano smesso del tutto. 
La Rinascita Dc di La Russa
Così, dal 1996, qua e là per il paese avevano iniziato a sorgere esperienze che tentavano di far vivere di nuovo la Dc: due, addirittura, portano lo stesso nome di Rinascita della Democrazia cristiana. Il primo a muoversi, il 1° luglio 1996, è l'ex deputato Angelo La Russa, che insieme a vari amici a casa sua decise di "dare vita a un movimento politico per la Rinascita della Democrazia cristiana", con il progetto di "contattare, in Italia e in Sicilia, quanti si propongono di raggiungere lo stesso obiettivo e di compiere tutti gli atti conseguenti, anche con la costituzione di un vero e proprio partito, perché la Dc, ingiustamente estromessa nel 1993 dalla scena politica del paese, possa rinascere". Il partito in Sicilia lo avrebbero fondato sul serio dal notaio il 21 dicembre 1999, ma nel frattempo si era mosso molto altro.
La Rinascita Dc di Carrara
Il 7 agosto 1996, infatti, passato un mese abbondante dal primo incontro a casa di La Russa, a Roma in un altro studio notarile era nata un'altra Rinascita Dc: principale promotore era stato il bergamasco Andreino Carrara. La voglia di veder tornare il vecchio nome, insomma, era forte e si faceva largo un po' ovunque: occorreva mettere insieme le forze e provare a fare qualcosa di più. Se ne fece carico Flaminio Piccoli, già segretario e presidente Dc, in quel momento iscritto al Cdu: tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998 nacque una nuova Democrazia cristiana, nel senso che fu costituita apposta, come soggetto giuridico nuovo, rivendicando una continuità solo ideale e morale con la Dc storica.
Dc-Piccoli
Come faceva Piccoli a utilizzare il vecchio nome e lo scudo crociato tradizionale (era tornato quello col bordo superiore ad arco), visto che il suo era un partito nuovo? Lui era sicuro di poterlo fare e che nessuno avesse diritto di disturbarlo, perché si era ricordato che, in mancanza di un apposito congresso nel 1994, il cambio di nome da Dc a Ppi (o, se si preferisce, da Franco Porta a Marco Cerri) non era valido, perché adottato da organi incompetenti. In effetti il primo a tirare fuori questa storia era stato Publio Fiori nel 1994, quando lui - sospeso dal partito per aver deciso di sostenere Gianfranco Fini - fece ricorso contro gli atti che avevano delineato il nuovo corso della Dc, nuovo nome compreso, per tutelare il partito e il suo futuro. Allora la lite si era conclusa in anticipo, ma questa volta quelle argomentazioni potevano tornare utili: se il nome originale era stato abbandonato, non si doveva disturbare chi voleva recuperarlo.
Il simbolo pronto per il Friuli
L'entusiasmo era molto, la voglia di partecipare pure, ma non si erano fatti i conti con chi si proclamava in piena continuità con la Dc. Nel 1998 il gruppo di Piccoli voleva correre alle regionali in Friuli, ma si vide bocciare il suo simbolo originale e persino quello sostitutivo (che sembrava mettere insieme i dettagli grafici degli emblemi delle due Rinascite Dc del 1996), entrambi ritenuti confondibili con gli scudi di Ppi e Cdu. Se il Tar aveva confermato l'esclusione, il Consiglio di Stato spiazzò tutti riammettendo sulla scheda provvisoriamente la Dc-Piccoli (difesa, tra l'altro, da Roberto Gava, fratello di Antonio). Per qualche manciata di ore si temette seriamente di dover rinviare le elezioni, poi la Dc-Piccoli si disse disponibile a rinunciare al ricorso, purché al suo partito fosse riconosciuta la possibilità di usare indisturbato il suo simbolo.
Né il Ppi né il Cdu - che in quel momento si facevano ancora la guerra per stabilire chi rappresentava correttamente l'ex Dc - furono disposti a concedere qualcosa: continuarono a contestare il simbolo ogni volta e iniziarono una nuova causa. La sentenza di primo grado arrivò nel 2005, cinque anni dopo la morte di Piccoli (che nel frattempo, per operare senza troppe seccature, aveva comunque preferito fondare il Partito democratico cristiano). Per il giudice, la vecchia Dc e il Ppi erano lo stesso soggetto giuridico, che nessuno aveva voluto sciogliere: Piccoli dunque non avrebbe potuto scegliere per sé un nome che identificava un partito ancora esistente (anche se era noto con un'altra etichetta) e non avrebbe potuto usare lo scudo crociato, da anni utilizzato dal Cdu, perché rischiava di confondere gli elettori. 


7) Risvegliare la Dc col suo ultimo amministratore: eppure Duce... 

Il 2002 - l'anno in cui Ppi e Cdu posero fine alla co-gestione del patrimonio ex Dc - si presentò come un anno di riaggregazioni di matrice centrista nei due poli. Nel centrosinistra si costituì Democrazia è libertà - La Margherita, nata l'anno precedente come cartello elettorale in cui la posizione di "azionista di maggioranza" era del Partito popolare (sarebbero confluiti anche i Democratici e Rinnovamento italiano, mentre andò per la sua strada l'Udeur). Il Ppi, tuttavia, non si sciolse (sarebbe stato un problema, tra crediti da riscuotere, debiti da pagare e contenziosi ancora in piedi): decise solo di sospendere la sua attività politica, continuando a esistere
Il 20 marzo si costituì ufficialmente con atto notarile anche l'Unione dei democratici cristiani e democratici di centro (Udc), formata principalmente da Ccd e Cdu (che avevano già corso insieme alle politiche del 1996 e del 2001) e con l'apporto di Democrazia europea di Sergio D'Antoni: anche in questo caso, i partiti non si sciolsero, ma sospesero la loro attività, avendo ancora molti rapporti giuridici in essere (comprese molte questioni legate al patrimonio ex Dc). Da questo momento, il solo partito a usare lo scudo crociato in Parlamento - tranne una brevissima parentesi di cui si dirà - è l'Udc: fin da quelle prime fasi, infatti, i partiti decisero di unire i loro emblemi, con la vela di De sullo sfondo, quella del Ccd nel mezzo e lo scudo apportato dal Cdu in primo piano. Così Marco Follini (Ccd), Rocco Buttiglione (Cdu) e D'Antoni si erano accordati fin dall'inizio di febbraio.
Nessuno di loro immaginava, probabilmente, che il 20 giugno 2001 un gruppo di iscritti alla Democrazia cristiana nell'ultimo tesseramento valido (quello del 1993) avesse deciso di scrivere ad Alessandro Duce, per brevissimo tempo - dal 21 al 29 gennaio 1994 - segretario amministrativo della Dc, poi tesoriere del Ppi e, dopo il guazzabuglio del 1995, primo tesoriere del Cdu. I mittenti di quella lettera erano convinti, in mancanza di una delibera di scioglimento e apparendo nuovi tutti i partiti che hanno operato dal 1994 in poi (compreso il Ppi che aveva scelto di convocare un'assemblea costituente e avviare un nuovo tesseramento), che la Dc fosse ancora in vita, che chi era socio nel 1993 lo fosse ancora e Duce mantenesse il ruolo di legale rappresentante del partito: in quanto tale avrebbe dovuto convocare un'assemblea degli iscritti per "discutere il destino futuro della Dc" e nel frattempo contrastare la dispersione del patrimonio (materiale e immateriale, segni distintivi compresi) del partito.
Citazione di Duce in Gazzetta Ufficiale
Per Duce queste posizioni sembravano fondate, quindi nelle settimane successive avviò un approfondimento, mentre i dieci iscritti che lo avevano contattato chiesero anche al tribunale di Roma la riattivazione del partito e la tutela del suo patrimonio. A metà dicembre anche Duce si rivolse allo stesso tribunale, citando - oltre che gli originari ricorrenti - i membri del consiglio nazionale Dc eletti nel 1989, e chiedendo al tribunale di Roma di riconoscere che lui stesso, quale ultimo segretario amministrativo, era ancora il legale rappresentante della mai sciolta Dc, al fine di riattivare la macchina del partito storico (con un nuovo tesseramento) e tutelare il patrimonio. Viste le tante persone da citare (comprese quelle nel frattempo passate a miglior vita), Duce ottenne dal presidente del tribunale - e futuro ministro della giustizia - Luigi Scotti di effettuare la notifica per pubblici proclami sulla Gazzetta Ufficiale, con pubblicazione il 4 febbraio 2002. Nel frattempo, il 19 dicembre 2001, annunciò di voler iniziare la ricognizione degli iscritti, prevedendo dunque per il 2002 un nuovo tesseramento.
La notizia di un possibile ritorno della Dc - tra l'altro grazie a chi ne era stato l'ultimo amministratore, oltre che il primo del Ppi e mai lontano dalla gestione di quel patrimonio - era piuttosto seducente e finì su tutti i giornali: tutti, vai a sapere perché, avevano capito che il tribunale avesse già riconosciuto a Duce la titolarità di partito, nome e simbolo (e lui, in effetti, non si impegnò troppo a correggerli). Ce n'era abbastanza, in compenso, per far reagire con durezza Cdu, Udc e Ppi, scatenando una guerra di ricorsi incrociati. 
Duce fece in tempo a essere acclamato segretario politico (oltre che amministrativo) il 16 marzo 2002, ma nel giro di qualche giorno subì una doppia batosta in tribunale: per i giudici, infatti, le delibere che avevano cambiato nome alla Dc erano valide e non c'era modo di immaginare che ci fosse un partito "dormiente" dal 1994, che attendeva qualcuno che lo riattivasse. Se così era, le vicende giuridiche dell'ex Democrazia cristiana riguardavano solo il Ppi e il Cdu e Duce (che non era più tesoriere del Ppi, né iscritto al Cdu) non aveva titolo per intervenire; usando il vecchio nome e lo scudo, anzi, l'ex amministratore aveva violato l'accordo che anche lui aveva sottoscritto, firmando per procura la transazione del 1999. Duce, quindi, non poteva dirsi segretario amministrativo della Dc o utilizzarne le insegne.

8) Continuare l'opera altrui, senza farlo notare (e continuare a litigare)

Sbarrata la strada ad Alessandro Duce, Udc e Ppi non poterono comunque dormire sonni tranquilli: molti di coloro che avevano partecipato a quel tentativo di riattivazione si rifiutarono di gettare la spugna. Qualcuno in effetti si limitò a recuperare progetti momentaneamente messi da parte, per sperare di avere meno scocciature da affrontare: era il caso di Carlo Senaldi, che nel 2000 aveva preso in mano il movimento di Rinascita della Democrazia cristiana dopo la morte di Piccoli, trasformandolo in partito. Invece del simbolo di La Russa, usato in un primo tempo, cambiò la grafica per non avere grane e potersi presentare alle elezioni, trasformando lo scudo crociato in due pennellate "graffiate", quasi grondanti sangue.
Sarà il simbolo della Dc-Sandri
Qualcun altro, invece, pensò di ripartire da dove i giudici avevano ordinato di fermarsi: la Dc continuò il suo percorso sotto la guida del friulano Angelo Sandri (già a fianco di Piccoli, Senaldi e Duce), avendo solo cura di cambiare la forma dello scudo, riprendendo quello arcuato già adottato da Piccoli. Incuranti delle pronunce del tribunale (anzi, ritenendo buono il lavoro fatto sino ad allora), Sandri e un gruppo di altri democristiani proseguono le loro attività - avendo sede proprio a Palazzo Cenci-Bolognetti in piazza del Gesù - e ogni nuova uscita pubblica, specie se ci sono elezioni di mezzo, è un'occasione per avviare contenziosi legali: iniziano qui - precisamente il 5 settembre 2002, con un atto di citazione presentato in nome di Sandri e dell'allora segretario amministrativo Giancarlo Travagin - le cause che sarebbero durate anni, fino alla sentenza della Cassazione a sezioni unite del 2010.
Nel frattempo, peraltro, assieme all'attività si svilupparono anche liti interne: alla fine del 2003, per dire, si celebrò il XIX congresso Dc (seguendo la vecchia numerazione) e venne eletto segretario Giuseppe Pizza, ma giusto un mese prima il suo predecessore Sandri era stato sfiduciato, a suo dire illegittimamente. Dopo il congresso le tensioni furono messe temporaneamente da parte, anche per preparare le elezioni del 2004, amministrative e soprattutto europee (grazie, nell'ultimo caso, all'esenzione dalla raccolta firme concessa dalla "lista civetta" Paese nuovo); per il Viminale, però, nome e scudo crociato non potevano finire sulle schede per non creare confusione con l'Udc. Si trovò una soluzione d'emergenza (uno scudo rosso su bandiera bianca su fondo blu, senza nome) e la lista raccolse solo lo 0,24%, ma davanti a quei numeri, il partito riuscì a spaccarsi in due. La parte fedele a Sandri (eletto segretario dopo la sfiducia post-elettorale a Pizza) e quella fedele a Pizza (che considerò carta straccia la sfiducia), da lì in poi, iniziarono a celebrare congressi autonomi, con la stessa numerazione e riconfermando ciascuna il proprio leader, come se di confusione non ce ne fosse stata abbastanza.

9) Usare il nome (senza simbolo), senza troppi problemi 

Mentre alcuni se le davano di santa ragione contendendosi nome e soprattutto il simbolo, qualcuno si accontentava di ottenere il nome da chi avrebbe potuto concederlo. Il 25 ottobre 2004, infatti, Gianfranco Rotondi decise di costituire un nuovo partito denominato Democrazia cristiana, rivendicando una continuità solo ideale con la vecchia Dc. Il 21 dicembre 2004, in compenso, Rotondi ottiene l'autorizzazione a usare il nome "Democrazia cristiana" dai legali rappresentanti del Ppi - ex Dc (che dal 2002 aveva sospeso le proprie attività), vale a dire il tesoriere Luigi Gilli e il segretario generale Nicodemo Oliverio
Poche settimane dopo, Rotondi avrebbe concorso alle regionali del 2005 con il simbolo della "sua" Democrazia cristiana (con doppia bandiera e privo di scudo); tempo qualche mese e il partito cambiò nome in Democrazia cristiana per le autonomie, in vista di un "matrimonio" con il Movimento per le autonomie di Raffaele Lombardo che si sarebbe dovuto celebrare in vista delle elezioni politiche del 2006, ma in realtà non si concretizzò mai. Il nome tuttavia rimase e con quello Rotondi avrebbe partecipato alle elezioni del 2006 in cartello con il Nuovo Psi, per poi concorrere alla lista del Popolo della libertà nel 2008 (venendo eletto in entrambi i casi); nel frattempo, peraltro, Rotondi mantenne il suo ruolo di tesoriere del sospeso Cdu e, come tale, continuò a partecipare alle cause che non sembravano avere fine.


10) Una sentenza contro l'altra (e ognuno legge quello che vuole)

Dc-Pizza
Lo sdoppiamento delle Dc avvenuto nel 2004, infatti, aveva aumentato in modo incredibile il tasso di litigiosità in una vicenda già di per sé complessa e delicata. A maggior ragione, da qui in avanti non basta parlare di Democrazia cristiana, ma occorre sempre precisare di quale Dc si stia trattando, specificando il nome di chi ricopre il ruolo di segretario politico. Un minimo di soccorso, se non altro, veniva dalle grafiche adottate, visto che le due Dc, in contrapposizione tra loro, dovevano comunque potersi distinguere: la Dc-Sandri mantenne lo scudo arcuato su fondo bianco, mentre la Dc-Pizza adottò lo scudo rettilineo (simile a quello dell'Udc) su fondo blu; quelle grafiche, peraltro, venivano puntualmente ritoccate - poco, molto o moltissimo - ogni volta che le commissioni elettorali ritenevano quegli emblemi confondibili con quelle dell'Udc.
Al di là degli scontri elettorali (che a livello nazionale avevano sempre visto prevalere l'Udc, mentre a livello locale le decisioni erano state più varie), contavano soprattutto le liti davanti ai giudici e nel 2006 arrivarono due sentenze di segno quasi opposto a pochi mesi di distanza, entrambe emesse dal Tribunale di Roma, sia pure da giudici diversi (i cui cognomi verranno richiamati per distinguere le pronunce). Tra aprile e maggio, in particolare, la cosiddetta "sentenza Rizzo" decise una causa intentata nel 2003 dall'Udc contro la Dc (allora rappresentata da Sandri, ma guidata da Pizza al momento della pronuncia), per accertare che l'uso del simbolo fatto dalla Dc era illegittimo, inibirlo da quel momento in poi e vedersi riconosciuti i danni. Per la giudice non contavano le lamentele di Pizza sul cambio di nome effettuato illegittimamente nel 1994: visto che quelle delibere non erano state annullate o sospese, erano valide e l'Udc usava legittimamente lo scudo crociato ricevuto dal Cdu; la Dc, invece, non era parte di quel contratto e non poteva contestarlo, in più il suo emblema rischiava seriamente di creare confusione con quello dell'Udc (diverso, ma con lo scudo crociato comunque in primo piano, vero elemento identificativo del simbolo). Per questo, la "sentenza Rizzo" impose alla Dc di non usare più quell'emblema (e di pagare i danni).
L'Udc non ebbe quasi il tempo di gioire del risultato ottenuto che il 25 settembre 2006 fu depositata la "sentenza Manzo", resa a seguito della citazione che la Dc nel 2002 aveva diretto contro il Cdu perché questo smettesse di ostacolare la Dc nell'uso del nome e del simbolo. Questa volta il giudice riconobbe che non si era mai celebrato un congresso per cambiare nome alla Democrazia cristiana e, sulla base di questo, sostenne che il Ppi non era affatto la Dc ma un diverso (e nuovo) partito, e non avrebbe potuto disporre del patrimonio diccì, nome e scudo crociato compresi: ogni accordo stipulato tra Ppi e Cdu, dunque, non avrebbe vincolato chi non lo aveva sottoscritto, come la Dc-Pizza. Questo - si faccia attenzione - voleva solo dire che il Cdu, in quanto non "proprietario", non poteva impedire a Pizza di usare lo scudo, non significava affatto che che la Dc-Pizza fosse la "vecchia" Dc o che, comunque, lo scudo fosse nell'esclusiva titolarità di Pizza; in tanti però credettero che lo scudo avesse davvero cambiato padrone (e Pizza certamente non fece nulla per far cambiare loro idea). 
La sentenza - che aveva negato che Sandri potesse rappresentare correttamente la Dc, perché nel frattempo non era più lui il segretario e allora nessuno aveva contestato gli atti del congresso che aveva eletto Pizza - fu sufficiente a dare allo stesso Pizza grande visibilità, facendosi riconfermare al successivo congresso al quale partecipò anche Romano Prodi (con somma rabbia di Casini, che sullo scudo crociato non aveva certo voglia di scherzare). Tempo una manciata di mesi e l'idillio col centrosinistra finì, per cui in vista delle elezioni politiche del 2008 la Dc-Pizza si schierò col centrodestra, a fianco del Pdl. Come di consueto, il Viminale e l'Ufficio elettorale nazionale bocciarono il contrassegno per la confondibilità col simbolo dell'Udc, il Tar del Lazio fece altrettanto; pochi giorni dopo, però, il Consiglio di Stato - con una decisione stringatissima ed enigmatica - riammise provvisoriamente la Dc e le elezioni, come dieci anni prima in Friuli, rimasero per qualche giorno "appese a uno scudo". Pizza, infatti, chiese un rinvio del voto per avere 30 giorni per la sua campagna elettorale, ma ciò avrebbe creato vari problemi (giuridici e non solo); Pizza alla fine, anche su consiglio di Silvio Berlusconi, rinunciò a partecipare al voto (come Piccoli nel 1998) e, dopo la vittoria del centrodestra, in una manciata di giorni si ritrovò sottosegretario del nuovo governo Berlusconi.

11) La parola "fine", che però nessuno capisce

Al di là di quel singolare episodio, era evidente che due sentenze di primo grado di segno quasi opposto non avrebbero potuto convivere a lungo: visto che tanto la "sentenza Rizzo" quanto la "sentenza Manzo" erano state impugnate dalle parti risultate soccombenti, le due cause furono riunite nel secondo grado davanti alla Corte d'appello di Roma. La decisione fu depositata il 23 marzo 2009 e, nel suo riformare in parte entrambe le sentenze del 2006, non risultò indolore per nessuno.
I giudici, infatti, confermarono - come nella "sentenza Manzo" - che il cambio di nome del partito doveva avvenire secondo le procedure previste per le modifiche dello statuto (con una delibera del congresso nazionale), mentre la modifica era stata decisa da organi incompetenti e i loro atti - aggiungevano - erano così viziati da essere addirittura "inesistenti", dunque si potevano invalidare in qualunque momento: su questa base, gli accordi di Cannes tra Ppi e Cdu non potevano trasferire alcun diritto sul simbolo, dunque il Cdu e l'Udc non potevano vantare alcun diritto di esclusiva sullo scudo crociato
Se questa parte di sentenza poteva essere favorevole alla Dc-Pizza, la Corte d'appello precisò che quel partito, per poter impedire ad altri l’uso del nome e del simbolo contesi, avrebbe dovuto dimostrare di essere proprio la Dc "storica" che ha continuato a operare anche dopo il 1994-1995. Un'impresa, questa, impossibile, perché di fatto - riprendendo in parte la "sentenza Rizzo" - la Dc-Pizza era un soggetto nuovo e non si identificava nemmeno con alcuna delle "Democrazie cristiane" che dopo il 1994 si erano succedute (anche se, come visto, la Dc-Duce era una sorta di antecedente logico e organizzativo di quella guidata prima da Sandri, poi da Pizza). Ciò fu sufficiente a dire che la Dc-Pizza non aveva alcun titolo per rivendicare la titolarità esclusiva del nome e del simbolo. In pratica, nessuno dei litiganti (Cdu, Udc, Dc-Pizza) poteva vietare ad altri l'impiego del nome o del simbolo, trattandosi di partiti (e di soggetti giuridici) nuovi e diversi rispetto alla Dc, ma di fatto ciascuno di loro poteva usare quelle insegne indisturbato dagli altri litiganti.  
Era inevitabile che questa decisione scontentasse un po' tutti, quindi era scontato che la vicenda sarebbe finita in Cassazione; visto il contenzioso di lunga data, se ne occuparono addirittura le sezioni unite civili, nel tentativo di sciogliere anche gli ultimi dubbi. La sentenza fu pubblicata il 23 dicembre 2010 e i giudici confermarono per intero la decisione della Corte d'appello di Roma dell'anno precedente. I ricorsi del Cdu, dell'Udc, della Dc-Pizza e della Dc-Sandri furono dichiarati inammissibili, anche se solo per questioni "tecniche": una norma vigente in quel periodo chiedeva una particolare tecnica di redazione dei vari motivi di ricorso e non era stata rispettata.
L'unico ricorso a essere esaminato nel merito fu quello del Ppi: già, perché l'associazione politica Partito popolare italiano aveva già cercato di intervenire nel processo d'appello, lamentando il fatto che la "sentenza Manzo" avesse sostanzialmente invalidato una sua delibera (quella del cambio di nome da Dc a Ppi) senza che quel soggetto fosse parte del processo, per cui chiedeva di potersi difendere, ma l'intervento non era stato ammesso perché per il collegio la causa riguardava solo il diritto all'uso di nome e simbolo tra Dc-Pizza e Cdu; visto che però la sentenza della Corte d'appello parlava addirittura di delibera "inesistente", il Ppi trovò naturale impugnare la decisione anche davanti alla Cassazione. Le sezioni unite, tuttavia, respinsero il ricorso: i giudici sostennero che, proprio perché il Ppi non aveva partecipato ai giudizi di primo e secondo grado, la dichiarazione di inesistenza era servita solo per decidere la controversia tra Dc-Pizza e Cdu, ma gli atti "incriminati" restavano validi per il Ppi che aveva assunto la delibera ma non aveva partecipato al processo
Con la sentenza di Cassazione, dunque, si scrisse la parola FINE su questo filone giudiziario, anche se a molti era rimasto l'amaro in bocca. Valeva per il Cdu e l'Udc, che avrebbero voluto veder riconosciuto l'uso pienamente legittimo ed esclusivo dello scudo crociato; valeva anche per la Dc-Pizza, per la quale la sentenza "diceva e non diceva" e non la metteva al riparo da attacchi nel modo in cui avrebbe sperato (e ovviamente valeva per la Dc-Sandri, che nel frattempo aveva continuato la sua attività, rivendicando sempre la correttezza del suo percorso). L'unico soggetto abbastanza soddisfatto, in fondo, poteva essere il Partito popolare italiano: se la delibera del cambio di nome continuava a essere valida nonostante la dichiarazione di inesistenza, voleva semplicemente dire che il Ppi (o ciò che ne rimaneva dopo la sospensione dell'attività politica) era sempre la Dc, anche se fino a quel momento non era stato attaccato il suo diritto a chiamarsi Ppi. Per riprendere l'esempio dell'inizio: di fatto la sentenza aveva detto che il cambio di nome da Franco Porta a Marco Cerri era stato fatto male, ma quell'anomalia era saltata fuori in una disputa cui Porta-Cerri non aveva partecipato, quindi per il momento Cerri manteneva legittimamente il suo nuovo nome, anche se il corpo (pur menomato) era lo stesso di Porta; se qualcuno avesse posto il problema del nome direttamente a Cerri, la questione sarebbe stata riaffrontata, ma solo in quel momento. 
Tutto chiaro? Non per tutti, a quanto pare, perché per chi voleva a tutti i costi che la Dc tornasse viva e vegeta era impossibile prendere in considerazione l'ipotesi che la Dc esistesse ancora, sì, ma coincidesse con un soggetto - il Ppi - che aveva fatto di tutto per abbandonare il vecchio nome. Così è capitato che più di qualcuno volesse vedere nella sentenza della Corte d'appello - se non addirittura in quella della Cassazione, il che era impossibile, visto che non si era occupata minimamente di questioni di merito - la dichiarazione in base alla quale la Dc non era mai stata sciolta (vero, ma nessuno aveva mai dichiarato di volerla sciogliere, volendo solo cambiarne il nome) ed era rimasta "dormiente" fin dalle prime settimane del 1994: probabilmente la deduzione veniva dal fatto che, a dispetto dell'inesistenza della delibera sul cambio di nome, il Ppi aveva continuato ad agire per anni con il nuovo nome, dunque era come se di fatto fosse stato costituito un nuovo soggetto giuridico distinto dalla Dc, che attendeva solo qualcuno che la svegliasse. La tesi, pur seducente, aveva qualche falla giuridica importante; eppure proprio quella tesi, corroborata dalla tenacia di non pochi "democristiani irriducibili", ha fatto sì che la sentenza della Cassazione, che avrebbe dovuto sancire la fine delle liti (o almeno di una loro porzione rilevante), diventasse l'inizio di altre storie incredibili, spesso finite nuovamente in carta bollata. Ma queste meritano di essere raccontate a parte...


(2 - continua)

domenica 29 settembre 2019

Della Vedova: "+Europa viva e vegeta, anche senza Tabacci". E il futuro?

Il duro giudizio di Bruno Tabacci su +Europa dopo il voto contrario alla fiducia di Emma Bonino al nuovo governo Conte ("Un suicidio incomprensibile, Emma ha voluto distruggere +Europa e io tolgo il simbolo di Centro democratico") era inevitabilmente destinato a produrre reazioni, soprattutto da parte di chi guida politicamente quel partito. In questi giorni, dunque, i media non hanno mancato di chiedere e ospitare la posizione del segretario Benedetto Della Vedova (che, come si è ricordato, era stato eletto al congresso di fine gennaio grazie al sostegno determinante della lista Stiamo uniti in Europa con Tabacci capolista): nelle sue parole c'è un'idea ben diversa circa il destino del suo partito, così come traspare un giudizio non proprio accomodante nei confronti dell'uscita di Bruno Tabacci. 
"Non mi aspettavo - ha dichiarato Della Vedova in un'intervista a Pietro Mecarozzi di Linkiesta - questi toni sguaiati e il linguaggio velenoso e allusivo. Con delle ricostruzioni grottesche rispetto alle ragioni di +Europa e di Emma Bonino di stare all'opposizione. Decisione che per altro è stata presa democraticamente all'interno degli organi di partito, con quattro direzioni nel solo mese di agosto, e con un epilogo netto: hanno detto no alla proposta di stare all'opposizione dieci membri, di cui nove sono eletti al congresso con Tabacci, e hanno detto sì diciannove persone, con quattro astenuti. La decisione è limpida e condivisa all'interno di +Europa, si vede quindi che Tabacci semplicemente non voleva stare più nel partito".
Della Vedova non fa nulla per nascondere l'irritazione per i toni usati da Tabacci, che nell'intervista al Corriere aveva detto di non voler credere "alle malelingue che dicono che Emma si è voluta mettere all'opposizione solo perché Conte le ha rifiutato un posto da ministro", precisando che con lui Bonino non ne aveva parlato (intanto però lo aveva detto): "Bastava solo dire la verità, senza schizzare di fango il partito", ha chiosato il segretario, che ha poi aggiunto "Non c’è una ragione se non quella di voler far passare il messaggio 'o fate come dico io o me ne vado'. Un po' come i bambini che dal campo si portano via la palla, dopodiché però se ne prende una nuova e si continua a giocare". Il riferimento alla palla portata via sembra almeno in parte rinviare alla questione del simbolo di Centro democratico, che Tabacci ha deciso di riprendersi slegandolo da +Europa, dopo averlo concesso alla vigilia delle elezioni politiche per permettere a +E di evitare la raccolta firme, dando luogo a una delle "coppie" più curiose della politica italiana recente.
Ora quella coppia sembra essere arrivata al capolinea, anche se Della Vedova si è premurato di precisare che, a differenza di quanto ha sostenuto Tabacci, "il partito è vivo e vegeto: se il Pd sopravvive all'uscita di Renzi, +Europa sopravviverà all'uscita di Tabacci. Mantenendo la sua posizione netta, quella europeista e liberaldemocratica, nei confronti di un governo che avrebbe potuto essere di discontinuità e di novità, ma che invece ha preferito la continuità". Una nuova vita del partito che passa attraverso un'opposizione liberaldemocratica, responsabile e costruttiva (anche per non lasciare il ruolo di opposizione "ai soli nazionalisti"), ma anche attraverso un'iniziativa realizzata con Siamo Europei di Carlo Calenda (Un'alternativa c'è, prevista per l'11 ottobre a Napoli).
Le parole di Della Vedova sono un elemento di cui certamente si deve tenere conto, per cui è probabile che +Europa continui il suo cammino senza più i simbolo di Centro democratico (che del resto è sparito dall'emblema subito dopo il voto politico del 2018), ma non può sfuggire un particolare non trascurabile: se è vero che la direzione ha votato in netta maggioranza contro la fiducia al governo, è altrettanto vero che tre eletti su quattro di +Europa hanno sostenuto l'esecutivo, a dispetto del voto della direzione. Lo ha fatto Tabacci, ma lo hanno fatto anche i due esponenti riconducibili a Radicali italiani, cioè l'ex segretario Riccardo Magi e Alessandro Fusacchia. Non risulta ovviamente che questi vogliano lasciare +Europa, ma qualche riflessione sul rispetto di quel deliberato della direzione sembra necessaria. Di più, come già anticipato, se Tabacci sceglierà, oltre che di togliere il nome e il simbolo di Centro democratico dalla compagine parlamentare di +E (alla Camera), anche di abbandonare la componente, la stessa componente del gruppo misto sarà destinata immediatamente a sciogliersi, perché scesa sotto il numero minimo di tre deputati. A meno che, ovviamente, qualche eletto a Montecitorio, magari già all'opposizione di questo governo, non scelga tempestivamente di aderire a essa per farla sopravvivere (e, possibilmente, anche di iscriversi a +Europa). 

sabato 28 settembre 2019

E se il 12 ottobre si tenessero due assemblee della Democrazia cristiana?

Il 12 ottobre, lo si è già detto, dovrebbe essere il giorno in cui i soci della Democrazia cristiana del 1993 cercheranno per l'ennesima volta di risvegliare il partito con un'assemblea costituente, autoconvocata dal presidente dell'associazione che raccoglie gli iscritti di allora (Raffaele Cerenza) in nome e per conto dell'intera platea dei soci, poiché - secondo chi ha studiato questa soluzione - l'assemblea degli iscritti sarebbe l'unico organo rimasto della Dc, dopo il lungo sonno iniziato con il passaggio di nome a Partito popolare italiano nel 1994, fatto senza la convocazione di un congresso.
Vi raccontiamo ancora questa storia sempre uguale e sempre diversa - verrebbe da dire ricalcando e parafrasando l'incipit del film Il compagno Don Camillo - perché sempre diversi ma sempre uguali, almeno nello scopo (e, non di rado, nelle persone coinvolte), sono i tentativi di far tornare sulla scena politica la Democrazia cristiana, tentando di seguire una strada che appaia la più legittima possibile. Ed è proprio in questa ricerca che si finisce per avere puntualmente idee diverse e spesso anche per scontrarsi, armati di scudo crociato, con una foga e una tenacia che a quella di Don Camillo non ha nulla da invidiare. In tutto questo, può persino capitare che la Dc riunisca due assemblee diverse, potenzialmente simili negli scopi e nella composizione, nello stesso giorno e addirittura quasi alla stessa ora, ma ovviamente in luoghi diversi.
Già, perché il 12 ottobre, a quanto si apprende, oltre alla riunione degli iscritti del 1993 (auto)convocata da Cerenza per le 9 e 30 presso la sala di Via Quattro Cantoni 53, è in via di convocazione (o è già stata convocata, non è ancora chiaro) per le 10 dello stesso giorno in via XX settembre 68/B, presso la sala dell'Istituto Volpicelli, l'assemblea degli associati alla Dc che figuravano nell'elenco degli iscritti depositato a suo tempo presso il tribunale di Roma (e sulla base del quale alla fine del 2016 era stata disposta dal giudice Guido Romano l'assemblea della Dc del 26 febbraio 2017), dunque l'assemblea della Dc che si riteneva essere stata riattivata per mezzo del tribunale di Roma. Due assemblee della Dc, dunque, a mezz'ora e a due, tre chilometri di distanza (a seconda che ci si sposti a piedi o in auto): se della prima si è già abbondantemente parlato, è il caso di dire qualcosa di più sulla seconda (visto che inizia più tardi).
Quest'assemblea è stata materialmente convocata da Nino Luciani, già ordinario di scienza delle finanze a Bologna e a Roma, ma soprattutto primo firmatario - a maggio del 2016 - della richiesta al tribunale di Roma di disporre la convocazione dell'assemblea dei soci Dc su richiesta di circa 200 iscritti. Proprio Luciani era stato incaricato dal giudice Romano di convocare materialmente l'assemblea e di presiederla (inizialmente, finché non fu sostituito da Renato Grassi): dalla citata riunione del 26 febbraio 2017 Gianni Fontana uscì eletto come presidente dell'associazione, rimasto alla guida fino al XIX congresso (riprendendo la vecchia numerazione) svoltosi il 14 ottobre 2018, con l'elezione alla segreteria di Renato Grassi.
Il fatto è che nelle settimane successive da più parti l'esito di quel congresso è stato contestato da un paio di fronti: da una parte Raffaele Cerenza (assieme al suo vice Franco De Simoni) aveva contestato la legittimità della convocazione e dello svolgimento del congresso, avendo già impugnato gli atti del 2017 che lo precedevano e avendo riscontrato nuove anomalie nei passaggi preparatori all'assise; altre irregolarità sarebbero state lamentate da altri aderenti alla Dc - in particolare alcuni membri dell'ufficio di presidenza del congresso, Raffaele Lisi ed Emilio Cugliari - tanto gravi da rendere potenzialmente nullo il congresso stesso (perché sarebbe mancata la consegna del verbale della commissione di verifica dei poteri dell'assise, che avrebbe dovuto verificare la legittimità della platea congressuale); a ciò è comunque seguito un contenzioso interno, con la sospensione di Lisi e Cugliari dal partito.
In questa situazione decisamente intricata, Fontana aveva maturato la decisione di dimettersi dalla carica di presidente del consiglio nazionale Dc, ottenuta dopo il XIX congresso del 14 ottobre 2018; dal 22 giugno risulta suo successore il trentino Renzo Gubert. Il fatto è che in seguito, precisamente il 15 luglio 2019, lo stesso Fontana ha delegato a Nino Luciani la convocazione dell'assemblea dei soci "come già fosti incaricato dal giudice Guido Romano in data 13 dicembre 2016", ritenendo che fosse una soluzione più sicura e inclusiva rispetto alla riconvocazione della platea congressuale del 2018. Luciani dunque (che precisa di essere stato "incaricato ad attuare la convocazione di Fontana, non a convocare" l'organo) ha predisposto la lettera di convocazione per l'invito personale ai soci - seguendo le prescrizioni emerse in precedenti pronunce dei giudici - indicando come ordine del giorno per la (sua) assemblea del 12 ottobre 2019: 1) comunicazioni del presidente; 2) determinazioni in ordine alle elezioni degli organi statutari, in particolare in ordine al congresso nazionale; 3) deleghe operative.
Ora, sembra chiaro che Fontana abbia delegato Luciani a convocare l'assemblea della Dc riattivata nel 2017 in base al codice civile sul presupposto che non riconosce alcuna validità agli atti congressuali del 2018. Egli quindi avrebbe agito non nella qualità di presidente del consiglio nazionale Dc (carica che non rivestiva più da alcuni giorni e comunque successiva al congresso contestato), ma di presidente dell'associazione Dc eletto nel 2017 e tuttora in carica: questo, ovviamente, se si prende per buona la nullità o inesistenza del congresso del 2018, anche se - è il caso di ricordarlo - nessun giudice si è ancora pronunciato sul punto.
Naturalmente la situazione non poteva essere tranquilla, per cui appena Luciani ha avuto notizia dell'iniziativa di Cerenza e De Simoni, ha sostenuto l'illegittimità di un'autoconvocazione dell'assemblea costituente, ritenendo che lo statuto obbligasse prima a chiedere la convocazione a un organo superiore (circostanza contestata da Cerenza e dagli altri, convinti che non vi sia alcun organo cui rivolgersi) e che peraltro l'assemblea si sarebbe dovuta convocare con avviso personale a ciascun componente, non mediante annuncio pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Per non disperdere le forze, ha suggerito un'assemblea unica (si suppone che intenda far convergere tutti i soci sulla convocazione inviata da lui). Il tutto, peraltro, mentre il dirigente organizzativo della Dc guidata da Grassi, Antonio Fago, sconfessa l'iniziativa di Luciani, ritenendo che dopo aver deliberato la convocazione del congresso del 2018, la stessa assemblea dei soci avrebbe esaurito il suo mandato e notando che i partecipanti alla riunione del 12 ottobre convocata da Luciani (e all'altra?) decadranno da soci della Dc di Grassi, per il loro contrasto alle decisioni degli organi "regolarmente eletti". Si prevedono nuove scaramucce da ogni parte, tanto per cambiare...

venerdì 27 settembre 2019

Tabacci: "+Europa è finita, tolgo il simbolo di Centro democratico". E ora?

Non concede spesso interviste Bruno Tabacci, ma quando lo fa gli effetti possono essere interessanti. Oggi, per esempio, il Corriere della Sera pubblica una conversazione del deputato con Paola Di Caro, nella quale contemporaneamente certifica e determina la fine di +Europa. La certifica perché, secondo Tabacci, la decisione di Emma Bonino di porsi all'opposizione del secondo governo Conte ha spaccato la rappresentanza parlamentare di +Europa e lo stesso partito; la determina - almeno politicamente - perché Tabacci in qualche modo si sfila, annunciando che toglierà a +Europa il suo simbolo. Quello di Centro democratico, ovviamente.
L'intera questione merita un po' di attenzione. Tabacci nell'intervista sostiene che la scelta di Bonino di negare la fiducia all'esecutivo in Senato è stata "un incomprensibile suicidio", mentre gli eletti di +Europa alla Camera (Alessandro Fusacchia, Riccardo Magi e lo stesso Tabacci) avevano optato per il sostegno al governo. Per lui ci sarebbe "solo da festeggiare perché Salvini si è messo fuori gioco e l'Italia ritorna in Europa da protagonista", invece andare all'opposizione "dove ci sono solo i nemici dichiarati dell'Europa" di fatto segna la fine del progetto di +E, anche perché gli elettori sarebbero disorientati e delusi da questa spaccatura.
Il fatto è che il 2 settembre, una settimana prima del voto di fiducia al nuovo governo Conte, la direzione di +Europa aveva deliberato di porsi all'opposizione dell'esecutivo, pur pienamente legittimo, "con uno spirito di critica chiara e costruttiva e di leale collaborazione sulle misure di riforma economica, civile, politica e istituzionale" ritenute condivisibili e utili, visto che non c'era stata la discontinuità richiesta dal partito nelle dichiarazioni di Conte e delle forze politiche della nuova maggioranza. Il tutto pur sottolineando che nella stessa direzione di +Europa c'era e c'è "una pluralità di posizioni e di sensibilità", che però non ha impedito di produrre una posizione ufficiale del partito. Evidentemente quella pluralità di posizioni si è riflettuta nelle scelte della rappresentanza parlamentare di +Europa: Tabacci prende atto che per i tre quarti (tre eletti su quattro) si è votato a favore della fiducia, col solo dissenso di Bonino; si deve registrare anche, tuttavia, che quella maggioranza ha votato in difformità rispetto alle decisioni del vertice del partito.
Che +Europa sia in seria difficoltà è vero, dunque, ma non solo per la decisione di Emma Bonino. Le prime frizioni, del resto, erano iniziate dopo il congresso fondativo del partito, alla vigilia del quale Marco Cappato di Radicali italiani sembrava favorito per la guida di +E, mentre alla fine era prevalso Benedetto Della Vedova con il sostegno determinante di Bruno Tabacci. Anche dopo il buon risultato delle europee - con il 3,09% ottenuto anche grazie al sostegno di Italia in comune e Psi, benché insufficiente a superare la soglia di sbarramento - non è andato tutto per il meglio: qualcuno ha sentito il bisogno di ricordare in piena estate che "Radicali italiani è un soggetto autonomo e non è federato a +Europa", il che è vero ma è altrettanto vero che, sempre in base all'atto costitutivo, Radicali italiani, assieme a Forza Europa, a Centro democratico e, come singolo, a Gianfranco Spadaccia, risulta come soggetto fondatore di +Europa (e anche se poi con il congresso il partito vive naturalmente di vita propria, ciò che si decide all'inizio non è privo di valore) Quell'affermazione apparsa su Facebook era segno, dunque, che la situazione non era buona, già prima del voto in Parlamento.
Oggi, a tutto questo, si aggiungono le affermazioni di Tabacci che non sembrano solo una presa d'atto della fine di +E: "Ho creduto talmente tanto in quel progetto da esserne il padre, come Emma ne è stata la madre. Ho messo a disposizione di +Europa il nostro simbolo per consentire alla lista di esistere, perché per loro raccogliere le firme per presentarsi alle elezioni del 2018 e con la legge attuale sarebbe stato impossibile. Ora quel simbolo lo tolgo". Una decisione irrevocabile, come spiegato a Di Caro, perché il nome e il logo di Centro democratico non siano accostati a un partito che pur chiamandosi +Europa si mette all'opposizione insieme a nemici dichiarati dell'Europa, quando sarebbe servita la "disponibilità a stare davvero insieme e ibridarsi".
Al di là dell'effetto politico delle parole appena lette, quali potrebbero essere le conseguenze giuridiche della decisione di Tabacci in merito al simbolo? +Europa, è vero, ha potuto partecipare alle elezioni senza raccogliere firme solo grazie alla "pulce" di Centro democratico; una volta che il partito è entrato in Parlamento, tuttavia, quel simbolo non serve quasi più e il suo ritiro non pregiudica certo gli effetti dell'ultimo voto politico. Alle elezioni politiche del 2018, infatti, ha espressamente partecipato la "Associazione +Europa", di cui era legale rappresentante Silvja Manzi (ora lo è Valerio Federico, in quanto tesoriere) e il cui contrassegno appartiene all'associazione stessa (fatta eccezione per la pulce di Cd, di cui è titolare quel partito). Nell'emblema che ha corso alle europee - grazie all'esenzione maturata "in proprio" - +Europa aveva tolto sia il riferimento a Emma Bonino (per la sua indisponibilità a mantenerlo) sia la miniatura tabacciana; l'etichetta di Bonino al Senato è "+Europa con Emma Bonino", mentre solo alla Camera il nome della componente è "+Europa - Centro democratico", proprio per la presenza di Tabacci.
Al momento, l'unico effetto che potrebbe avere la decisione sul simbolo di Centro democratico sarebbe la sparizione del nome dalla componente del gruppo misto di Montecitorio; dal momento che però alle elezioni ha partecipato ufficialmente +Europa, nulla cambierebbe e la componente rimarrebbe correttamente in piedi. Tabacci potrebbe rimanervi, anche se dovesse abbandonare il partito. Il discorso cambierebbe - e non poco - se Tabacci, ritirando il simbolo, volesse lasciare anche il gruppo di +Europa (per approdare in un altro gruppo o anche semplicemente restare nel misto, diventando evidentemente ancora di più l'eroe dei fan della pagina Facebook +Tabacci): perché una componente del misto possa (r)esistere, infatti, occorrono almeno tre deputati. A quel punto, la componente di +Europa dovrebbe sciogliersi - con la perdita dei noti benefici in termini di visibilità, tempo di aula, risorse - oppure sperare che almeno un altro deputato entri a farne parte. Se si sciogliesse, ovviamente, i #drogatidipolitica attenderebbero con ansia nuove, imprevedibili evoluzioni.

mercoledì 25 settembre 2019

Civiltà italiana, sovranismo e radici italiane per "tornare al futuro"

"Sovranismo" è un neologismo, una parola piuttosto recente: lo Zingarelli, uno dei vocabolari più noti, ne data la prima occorrenza al 1999. Perché il concetto e il termine si diffondessero nella sfera pubblica italiana, c'è voluto molto più tempo: negli ultimi anni le cose ovviamente sono cambiate, anche se finora era stato utilizzato soprattutto il sostantivo "sovranità": vale per Sovranità (associazione-lista legata a CasaPound fondata nel 2015) e per il Movimento nazionale per la sovranità (fondato da Storace e Alemanno nel 2017); nel frattempo però nel 2016 era nato il Fronte sovranista italiano e alle ultime elezioni europee Fratelli d'Italia ha inserito la parola "sovranisti" nel suo contrassegno. Si tratta di un'area in deciso movimento: non stupisce dunque che lo scorso 19 dicembre sia stata data la notizia della costituzione di un nuovo soggetto politico ("un movimento, più che un partito vecchio stile", si leggeva nel comunicato di lancio) di "sovranisti italiani" (così si legge nella parte inferiore del simbolo), il cui nome ufficiale però è Civiltà italiana, ritenuto dai fondatori "una forte, impellente necessità per un paese, l'Italia, che sta ormai smarrendo l'orientamento in un mondo volto al declino".
La sua portavoce, Candida Pittoritto (già legata al Msi a guida Cannizzaro e proprio al Movimento nazionale per la sovranità), alla fine dello scorso anno aveva qualificato il suo movimento come "alternativa ideologica, politica, sociale e culturale, a tanti altri partiti e movimenti sia di sinistra come di destra", rivendicando all'epoca oltre.15mila iscritti "tra liberi professionisti, imprenditori, operatori del 'sociale' e appartenenti in genere alla cosiddetta società civile che, stanchi di una politica obsoleta e ipocritamente stantia, cercano un 'ritorno al futuro' senza dimenticare le nostre radici, tradizioni, identità e cultura". La forma tradizionale del partito era rifiutata, essendole preferita quella della rete tra associazioni e altre realtà impegnate in ambito sociale e culturale. Sì, perché "la Cultura, parte integrante della nostra civiltà italiana in oltre tre millenni di Storia patria - si leggeva ancora nel comunicato - sarà uno dei capisaldi del Movimento, insieme a una attenzione al buon vivere dei cittadini italiani, alla difesa delle nostre tradizioni anche religiose, all'ambiente e alla Bellezza, in ossequio all'identità di un intero popolo oggi a rischio di sostituzione etnica".
In questi mesi il soggetto politico ha cercato di consolidarsi, come "confederazione di soggetti e coesione solidale di singoli", guardando peraltro "con simpatia all'attuale operato di Matteo Salvini e di altre forze della destra e del centrodestra": da questa posizione ha sostenuto quest'estate la necessità di tornare immediatamente al voto, con l'idea di concorrere al rafforzamento del centrodestra. "Vogliamo correre - spiegava Pittoritto - con tutte quelle forze d'area conservatrice e liberale che hanno a cuore le sorti del nostro Paese. Siamo favorevoli a una larga coalizione con Fratelli d’Italia, Forza Italia e altri movimenti liberali e ovviamente anche con la Lega di Salvini", qualora avesse deciso di non presentarsi da sola. Ciò con la convinzione che un contributo interessante possa essere apportato proprio da Civiltà Italiana, "che si rifà con forza a due principi fondamentali, l’Identità italiana e la Sovranità italiana ed è legata a quella sovranità italiana agente su sé stessa, a quella Civiltà italiana scolpita sul frontone del palazzo dell’Eur, figlia dell’immenso patrimonio latino, della cultura del Medioevo e dell’arte del Rinascimento, lungo i secoli ineguagliata sino ai nostri giorni".
Proprio a quel patrimonio culturale, tra l'altro, Civiltà italiana si è rivolta per scegliere il proprio simbolo: si tratta di una riproduzione del San Michele Arcangelo di Guido Reni (conservato nella chiesa di Santa Maria della Concezione a Roma), "per significare in maniera evidente a chiunque il proprio legame indissolubile con la grande Cultura, l’Arte, la Fede e la Vita di questo straordinario, unico, irripetibile Paese che è l'Italia". Una riproduzione in bianco e nero, più fine che guerriera, quasi seduta - anche se la posizione è un'altra - sul confine tricolore che taglia in due il simbolo (piccolo suggerimento: in caso di elezioni forse è meglio descrivere l'immagine come "figura alata", per evitare che qualcuno la consideri un soggetto religioso...).

martedì 24 settembre 2019

Comunità, sindaci al centro per una rete popolare di amministratori

Da qualche manciata di ore in rete è apparso un emblema che, almeno ai veri appassionati di politica, suggerisce qualcosa a prima vista, pur nel suo essere scarno e semplice. In effetti, chi ha seguito le vicende in seno alle proiezioni politiche dell'associazionismo e degli amministratori locali di area popolare non può dire di trovarsi davanti a qualcosa di nuovo guardando il simbolo di Comunità - Sindaci al centro, che da ieri ha una sua pagina Facebook.
In effetti il cerchio bianco tangente interno a uno rosso e un piccolo tricolore sfumato richiamano alla mente il logo di Rete Bianca, il movimento cattolico popolare che riunisce politici, amministratori ed esponenti dell'associazionismo che si riconoscono nella stessa area culturale e ideale. Si tratta quindi dell'evoluzione della Rete Bianca? Non esattamente, anche se ovviamente la parentela c'è. 
"Rete Bianca ha deciso di dar vita ad una Associazione nazionale dei Sindaci e degli amministratori locali" aveva scritto sul Domani d'Italia all'inizio di agosto Giorgio Merlo, giornalista, ex parlamentare, attualmente sindaco di Pragelato e tra le figure di riferimento in quest'area. L'associazione, che in quella fase era stata chiamata "Rete comune", era stata pensata come "strumento politico che punta a coinvolgere una rete di sindaci, assessori e di consiglieri comunali che restano il nerbo centrale della democrazia italiana", con la convinzione che "solo partendo dal basso, cioè dai comuni, è possibile anche rilanciare la democrazia partecipativa, la democrazia solidale e la democrazia istituzionale". Questo dovrebbe servire anche a ridare centralità alle autonomie locali "che erano e restano il passaggio passaggio decisivo per ridare qualità alla democrazia e senso alle stesse istituzioni democratiche" (oltre che per ricordare degnamente il pensiero di don Luigi Sturzo).
Merlo, che di Comunità è il coordinatore, desidera che questa realtà diventi "un momento di confronto e di aggregazione del vasto mondo popolare, cattolico democratico e cattolico popolare – con altre esperienze ideali e culturali – che è fortemente presente nelle amministrazioni locali italiane. Soprattutto nei piccoli e nei medi comuni dove il dibattito è meno politicizzato ma più radicato sui bisogni e sulle istanze che provengono dai cittadini". 
Comunità è nata alla vigilia del congresso piemontese, e poi nazionale, dell'Anci e Merlo non nasconde che tra gli obiettivi della nuova associazione c'è anche far uscire "l'organizzazione dei comuni italiani da una liturgia stanca e del tutto burocratica. E pertanto inutile. A cominciare dal Piemonte". Ciò partendo da "un impegno diretto del Sindaco di Torino, a prescindere da chi ricopre pro tempore quell'incarico" per l'importanza della città "e per ridare prestigio ed autorevolezza alla stessa organizzazione", ma anche dal "rilancio concreto e dal coinvolgimento diretto dei piccoli comuni", in nome di uno spirito di solidarietà poco burocratico e molto concreto.
Al di là della - pur importante - azione nell'ambito dell'Anci, non è da escludere che l'associazione-movimento possa avere un peso e una visibilità maggiore: "Ad oggi contiamo già un centinaio di sindaci e moltissimi assessori e consiglieri comunali – scriveva Merlo in agosto –. La strada è gusta. Tocca a noi radicarla e tracciarla in vista dei prossimi appuntamenti politici". Non dice elettorali, in effetti, ma l'eventualità non è nemmeno esclusa...

lunedì 23 settembre 2019

Umbria, una firma per le Buone maniere

Il post che segue è dichiaratamente anomalo, ma in fondo nemmeno troppo. La data per le elezioni regionali in Umbria è stata fissata per il 27 ottobre 2019: il che significa che le liste corredate da tutti i documenti richiesti dalla legge (compresi i contrassegni) dovranno essere consegnate all'Ufficio unico circoscrizionale presso il Tribunale di Perugia tra le ore 8 del 27 settembre e le ore 12 del 28 settembre. Ciascuna lista dovrebbe depositare tra 500 e 1000 firme autenticate a proprio sostegno; ma dal momento che le elezioni si svolgono in anticipo di oltre 120 giorni rispetto alla scadenza naturale della consiliatura, la legge regionale prescrive che il loro numero sia ridotto della metà, dunque il range di sottoscrittori va dai 250 ai 500. 
Ora, l'Umbria è una regione particolare, almeno dal punto di vista delle elezioni regionali. Si tratta infatti di uno dei pochissimi casi in cui non sono previste esenzioni per i partiti rappresentati in Parlamento o in consiglio regionale: in qualunque forma e con qualunque simbolo ci si presenti, le firme vanno raccolte, da parte di tutti, anche delle forze politiche maggiori (Lega, Pd, M5S, Fratelli d'Italia, Forza Italia). Non stupisce, dunque, che queste elezioni possano essere più "competitive" nella fase che precede le stesse candidature (almeno 300 firme, per sicurezza, è meglio raccoglierle): si parla già delle candidature dell'ex avversario di Catiuscia Marini, Claudio Ricci (stavolta tornato al sostegno civico), di Rossano Rubicondi per il Partito comunista e di Emiliano Camuzzi per Potere al popolo! (per Wikipedia sarebbe pronto anche Antonio Pappalardo coi suoi Gilet arancioni).
In queste condizioni, chiedere aiuto a qualcuno per raccogliere le firme non è certo un male e nemmeno un'ammissione di debolezza: si chiede soltanto di avere la possibilità di finire sulla scheda, per potersi presentare agli elettori di un territorio. Uno sforzo che non costa quasi nulla, visto che chi firma a sostegno di una lista non è certo obbligato a votarla poi il giorno delle elezioni. Per tutti questi motivi, personalmente sento di invitare i lettori umbri a firmare perché possa presentarsi la lista del Partito delle Buone maniere, che vorrebbe candidare il suo ispiratore Giuseppe Cirillo alla presidenza. Non si tratta certo dell'ultimo arrivato, nemmeno in politica: nel 2000 con la lista Preservativi gratis si candidò alle provinciali di Caserta e per un centinaio di voti non riuscì a ottenere il seggio; nel 2001 fu candidato dalla Lista Bonino e nel suo collegio prese il 3,13% (più del candidato dell'Italia dei valori); nel 2007 si candidò addirittura a sindaco di Monza e, del tutto fuori dal suo territorio, riuscì a non arrivare ultimo. Con il Partito delle Buone maniere si è candidato in alcuni piccoli comuni negli ultimi due anni, cercando sempre di portare avanti le sue battaglie per l'educazione, in modo inappuntabilmente educato.
La stessa cosa vorrebbe fare in Umbria, magari come test per nuove consultazioni l'anno prossimo. Anche per questo, mentre continua la sua raccolta firme, Cirillo si sarebbe rivolto - così spiega in un volantino in distribuzione in questi giorni - anche ai comitati civici legati al nuovo progetto politico di Matteo Renzi, Italia viva. Perché lo avrebbe fatto? "Buone maniere Caserta - spiega nel volantino - è iscritta ai comitati civici e ha partecipato alla Leopolda dello scorso anno a Firenze". Nello stesso comunicato, tuttavia, si legge che lo stesso Cirillo venerdì avrebbe ricevuto una telefonata da una responsabile dei comitati, la quale avrebbe espresso "il disappunto e la viva opposizione alla candidatura del nostro partito in Umbria".
Cirillo si chiede se l'Umbria sia "già lottizzata"; a questo sito interessa essenzialmente che la competizione sia la più aperta possibile, per tutti. Si è scelto poche settimane fa di lanciare una campagna - #cimettilafirma - in cui si chiede a tutti di raccogliere un numero ragionevole di firme. Chi riesce a farlo in autonomia, si preparerà serenamente alle elezioni; chi non è in grado potrà rinunciare oppure, come è suo diritto fare, potrà chiedere aiuto ad altri per ottenere almeno la possibilità di partecipare e far conoscere le proprie istanze. Ciò che conta è che le firme siano raccolte tutte e in modo legittimo: ce lo si aspetta da tutti, a maggior ragione da un partito intitolato alle "buone maniere". 
Chiedere, se lo si fa nel modo giusto - ma vale quel che si è appena detto sul nome del partito - è sempre lecito e non viola nessuna norma; ciascuno è libero di firmare oppure no, ma l'importante è che la decisione sia frutto di una sua scelta ed è giusto che chi ha bisogno delle firme si faccia conoscere, così che ogni elettore possa decidere se sottoscrivere una lista, un'altra lista o nessuna di quelle che vorrebbero correre. Se qualcuno chiede la firma per la sua lista e la proposta vi incuriosisce, anche se non la votereste il giorno delle elezioni, firmate (purché non sosteniate altre liste); se apprezzate che qualcuno voglia candidarsi in nome delle Buone maniere, firmate per Giuseppe Cirillo.