Dopo la prima puntata, continua qui la spiegazione della mia tesi relativa alla (r)esistenza della Democrazia cristiana e alla titolarità civile ed elettorale dello scudo crociato, unita al riassunto delle vicende che hanno prodotto la complicatissima situazione di oggi.
Nella prima parte avevo raccontato in cinque punti la vicenda per come si è svolta dal 1994 al 2002: il "peccato originale" (cioè il cambio di nome da Dc a Ppi nel modo sbagliato), la doppia scissione del Ccd e del Cdu (che di fatto menoma due volte nel giro di un anno il corpo del partito che ha cambiato nome), il periodo della "co-gestione obbligatoria" del patrimonio che fu della Dc da parte dei tesorieri di Ppi e Cdu (durato sette anni, ben più di quanto sarebbe stato normale immaginare), una prima sentenza della Cassazione che nel 1998 sosteneva che la Dc non si fosse mai estinta e Ccd e Cdu non ne fossero gli eredi (il che era normale, visto che la Dc aveva semplicemente continuato a esistere e operare come Ppi) e la fine consensuale della co-gestione il 5 luglio 2002 (per cui il Ppi, dopo l'accordo stipulato col Cdu, si sarebbe fatto carico di tutte le questioni riguardanti la Dc da lì in avanti).
Questa seconda puntata racconta i tentativi di rimettere in piedi la Democrazia cristiana e i motivi per cui, prima o dopo, si sono dovuti scontrare con le decisioni dei tribunali o degli uffici elettorali. Quei tentativi, però, erano iniziati ben prima del 2002, dunque per iniziare il racconto occorre fare un passo indietro di qualche anno.
Il fatto è che, messo da parte il vecchio nome, tanti democratici cristiani non riuscivano a fare pace con l'idea che il partito che li aveva accolti per tanti anni, nelle loro differenze anche marcate, di fatto non ci fosse più. A loro, per riprendere l'esempio visto nella prima parte, non importava che Franco Porta fosse rimasta la stessa persona con lo stesso corpo, anche se tutti lo chiamavano Marco Cerri e aveva cambiato la foto sul documento: loro rivolevano Franco Porta con il suo nome e basta, soprattutto dopo che coloro che avrebbero dovuto rappresentare la tradizione politica cristiana in Italia nel 1995 se le erano date di santa ragione e anche con la carta bollata di mezzo non avevano smesso del tutto.
Così, dal 1996, qua e là per il paese avevano iniziato a sorgere esperienze che tentavano di far vivere di nuovo la Dc: due, addirittura, portano lo stesso nome di Rinascita della Democrazia cristiana. Il primo a muoversi, il 1° luglio 1996, è l'ex deputato Angelo La Russa, che insieme a vari amici a casa sua decise di "dare vita a un movimento politico per la Rinascita della Democrazia cristiana", con il progetto di "contattare, in Italia e in Sicilia, quanti si propongono di raggiungere lo stesso obiettivo e di compiere tutti gli atti conseguenti, anche con la costituzione di un vero e proprio partito, perché la Dc, ingiustamente estromessa nel 1993 dalla scena politica del paese, possa rinascere". Il partito in Sicilia lo avrebbero fondato sul serio dal notaio il 21 dicembre 1999, ma nel frattempo si era mosso molto altro.
Il 7 agosto 1996, infatti, passato un mese abbondante dal primo incontro a casa di La Russa, a Roma in un altro studio notarile era nata un'altra Rinascita Dc: principale promotore era stato il bergamasco Andreino Carrara. La voglia di veder tornare il vecchio nome, insomma, era forte e si faceva largo un po' ovunque: occorreva mettere insieme le forze e provare a fare qualcosa di più. Se ne fece carico Flaminio Piccoli, già segretario e presidente Dc, in quel momento iscritto al Cdu: tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998 nacque una nuova Democrazia cristiana, nel senso che fu costituita apposta, come soggetto giuridico nuovo, rivendicando una continuità solo ideale e morale con la Dc storica.
Come faceva Piccoli a utilizzare il vecchio nome e lo scudo crociato tradizionale (era tornato quello col bordo superiore ad arco), visto che il suo era un partito nuovo? Lui era sicuro di poterlo fare e che nessuno avesse diritto di disturbarlo, perché si era ricordato che, in mancanza di un apposito congresso nel 1994, il cambio di nome da Dc a Ppi (o, se si preferisce, da Franco Porta a Marco Cerri) non era valido, perché adottato da organi incompetenti. In effetti il primo a tirare fuori questa storia era stato Publio Fiori nel 1994, quando lui - sospeso dal partito per aver deciso di sostenere Gianfranco Fini - fece ricorso contro gli atti che avevano delineato il nuovo corso della Dc, nuovo nome compreso, per tutelare il partito e il suo futuro. Allora la lite si era conclusa in anticipo, ma questa volta quelle argomentazioni potevano tornare utili: se il nome originale era stato abbandonato, non si doveva disturbare chi voleva recuperarlo.
L'entusiasmo era molto, la voglia di partecipare pure, ma non si erano fatti i conti con chi si proclamava in piena continuità con la Dc. Nel 1998 il gruppo di Piccoli voleva correre alle regionali in Friuli, ma si vide bocciare il suo simbolo originale e persino quello sostitutivo (che sembrava mettere insieme i dettagli grafici degli emblemi delle due Rinascite Dc del 1996), entrambi ritenuti confondibili con gli scudi di Ppi e Cdu. Se il Tar aveva confermato l'esclusione, il Consiglio di Stato spiazzò tutti riammettendo sulla scheda provvisoriamente la Dc-Piccoli (difesa, tra l'altro, da Roberto Gava, fratello di Antonio). Per qualche manciata di ore si temette seriamente di dover rinviare le elezioni, poi la Dc-Piccoli si disse disponibile a rinunciare al ricorso, purché al suo partito fosse riconosciuta la possibilità di usare indisturbato il suo simbolo.
Né il Ppi né il Cdu - che in quel momento si facevano ancora la guerra per stabilire chi rappresentava correttamente l'ex Dc - furono disposti a concedere qualcosa: continuarono a contestare il simbolo ogni volta e iniziarono una nuova causa. La sentenza di primo grado arrivò nel 2005, cinque anni dopo la morte di Piccoli (che nel frattempo, per operare senza troppe seccature, aveva comunque preferito fondare il Partito democratico cristiano). Per il giudice, la vecchia Dc e il Ppi erano lo stesso soggetto giuridico, che nessuno aveva voluto sciogliere: Piccoli dunque non avrebbe potuto scegliere per sé un nome che identificava un partito ancora esistente (anche se era noto con un'altra etichetta) e non avrebbe potuto usare lo scudo crociato, da anni utilizzato dal Cdu, perché rischiava di confondere gli elettori.
Nella prima parte avevo raccontato in cinque punti la vicenda per come si è svolta dal 1994 al 2002: il "peccato originale" (cioè il cambio di nome da Dc a Ppi nel modo sbagliato), la doppia scissione del Ccd e del Cdu (che di fatto menoma due volte nel giro di un anno il corpo del partito che ha cambiato nome), il periodo della "co-gestione obbligatoria" del patrimonio che fu della Dc da parte dei tesorieri di Ppi e Cdu (durato sette anni, ben più di quanto sarebbe stato normale immaginare), una prima sentenza della Cassazione che nel 1998 sosteneva che la Dc non si fosse mai estinta e Ccd e Cdu non ne fossero gli eredi (il che era normale, visto che la Dc aveva semplicemente continuato a esistere e operare come Ppi) e la fine consensuale della co-gestione il 5 luglio 2002 (per cui il Ppi, dopo l'accordo stipulato col Cdu, si sarebbe fatto carico di tutte le questioni riguardanti la Dc da lì in avanti).
Questa seconda puntata racconta i tentativi di rimettere in piedi la Democrazia cristiana e i motivi per cui, prima o dopo, si sono dovuti scontrare con le decisioni dei tribunali o degli uffici elettorali. Quei tentativi, però, erano iniziati ben prima del 2002, dunque per iniziare il racconto occorre fare un passo indietro di qualche anno.
6) Rifare una Dc: Piccoli ci prova (come altri), ma è "troppo nuova"
La Rinascita Dc di La Russa |
La Rinascita Dc di Carrara |
Dc-Piccoli |
Il simbolo pronto per il Friuli |
Né il Ppi né il Cdu - che in quel momento si facevano ancora la guerra per stabilire chi rappresentava correttamente l'ex Dc - furono disposti a concedere qualcosa: continuarono a contestare il simbolo ogni volta e iniziarono una nuova causa. La sentenza di primo grado arrivò nel 2005, cinque anni dopo la morte di Piccoli (che nel frattempo, per operare senza troppe seccature, aveva comunque preferito fondare il Partito democratico cristiano). Per il giudice, la vecchia Dc e il Ppi erano lo stesso soggetto giuridico, che nessuno aveva voluto sciogliere: Piccoli dunque non avrebbe potuto scegliere per sé un nome che identificava un partito ancora esistente (anche se era noto con un'altra etichetta) e non avrebbe potuto usare lo scudo crociato, da anni utilizzato dal Cdu, perché rischiava di confondere gli elettori.
7) Risvegliare la Dc col suo ultimo amministratore: eppure Duce...
Il 2002 - l'anno in cui Ppi e Cdu posero fine alla co-gestione del patrimonio ex Dc - si presentò come un anno di riaggregazioni di matrice centrista nei due poli. Nel centrosinistra si costituì Democrazia è libertà - La Margherita, nata l'anno precedente come cartello elettorale in cui la posizione di "azionista di maggioranza" era del Partito popolare (sarebbero confluiti anche i Democratici e Rinnovamento italiano, mentre andò per la sua strada l'Udeur). Il Ppi, tuttavia, non si sciolse (sarebbe stato un problema, tra crediti da riscuotere, debiti da pagare e contenziosi ancora in piedi): decise solo di sospendere la sua attività politica, continuando a esistere.Il 20 marzo si costituì ufficialmente con atto notarile anche l'Unione dei democratici cristiani e democratici di centro (Udc), formata principalmente da Ccd e Cdu (che avevano già corso insieme alle politiche del 1996 e del 2001) e con l'apporto di Democrazia europea di Sergio D'Antoni: anche in questo caso, i partiti non si sciolsero, ma sospesero la loro attività, avendo ancora molti rapporti giuridici in essere (comprese molte questioni legate al patrimonio ex Dc). Da questo momento, il solo partito a usare lo scudo crociato in Parlamento - tranne una brevissima parentesi di cui si dirà - è l'Udc: fin da quelle prime fasi, infatti, i partiti decisero di unire i loro emblemi, con la vela di De sullo sfondo, quella del Ccd nel mezzo e lo scudo apportato dal Cdu in primo piano. Così Marco Follini (Ccd), Rocco Buttiglione (Cdu) e D'Antoni si erano accordati fin dall'inizio di febbraio.
Nessuno di loro immaginava, probabilmente, che il 20 giugno 2001 un gruppo di iscritti alla Democrazia cristiana nell'ultimo tesseramento valido (quello del 1993) avesse deciso di scrivere ad Alessandro Duce, per brevissimo tempo - dal 21 al 29 gennaio 1994 - segretario amministrativo della Dc, poi tesoriere del Ppi e, dopo il guazzabuglio del 1995, primo tesoriere del Cdu. I mittenti di quella lettera erano convinti, in mancanza di una delibera di scioglimento e apparendo nuovi tutti i partiti che hanno operato dal 1994 in poi (compreso il Ppi che aveva scelto di convocare un'assemblea costituente e avviare un nuovo tesseramento), che la Dc fosse ancora in vita, che chi era socio nel 1993 lo fosse ancora e Duce mantenesse il ruolo di legale rappresentante del partito: in quanto tale avrebbe dovuto convocare un'assemblea degli iscritti per "discutere il destino futuro della Dc" e nel frattempo contrastare la dispersione del patrimonio (materiale e immateriale, segni distintivi compresi) del partito.
Citazione di Duce in Gazzetta Ufficiale |
La notizia di un possibile ritorno della Dc - tra l'altro grazie a chi ne era stato l'ultimo amministratore, oltre che il primo del Ppi e mai lontano dalla gestione di quel patrimonio - era piuttosto seducente e finì su tutti i giornali: tutti, vai a sapere perché, avevano capito che il tribunale avesse già riconosciuto a Duce la titolarità di partito, nome e simbolo (e lui, in effetti, non si impegnò troppo a correggerli). Ce n'era abbastanza, in compenso, per far reagire con durezza Cdu, Udc e Ppi, scatenando una guerra di ricorsi incrociati.
Duce fece in tempo a essere acclamato segretario politico (oltre che amministrativo) il 16 marzo 2002, ma nel giro di qualche giorno subì una doppia batosta in tribunale: per i giudici, infatti, le delibere che avevano cambiato nome alla Dc erano valide e non c'era modo di immaginare che ci fosse un partito "dormiente" dal 1994, che attendeva qualcuno che lo riattivasse. Se così era, le vicende giuridiche dell'ex Democrazia cristiana riguardavano solo il Ppi e il Cdu e Duce (che non era più tesoriere del Ppi, né iscritto al Cdu) non aveva titolo per intervenire; usando il vecchio nome e lo scudo, anzi, l'ex amministratore aveva violato l'accordo che anche lui aveva sottoscritto, firmando per procura la transazione del 1999. Duce, quindi, non poteva dirsi segretario amministrativo della Dc o utilizzarne le insegne.
8) Continuare l'opera altrui, senza farlo notare (e continuare a litigare)
Sbarrata la strada ad Alessandro Duce, Udc e Ppi non poterono comunque dormire sonni tranquilli: molti di coloro che avevano partecipato a quel tentativo di riattivazione si rifiutarono di gettare la spugna. Qualcuno in effetti si limitò a recuperare progetti momentaneamente messi da parte, per sperare di avere meno scocciature da affrontare: era il caso di Carlo Senaldi, che nel 2000 aveva preso in mano il movimento di Rinascita della Democrazia cristiana dopo la morte di Piccoli, trasformandolo in partito. Invece del simbolo di La Russa, usato in un primo tempo, cambiò la grafica per non avere grane e potersi presentare alle elezioni, trasformando lo scudo crociato in due pennellate "graffiate", quasi grondanti sangue.
Qualcun altro, invece, pensò di ripartire da dove i giudici avevano ordinato di fermarsi: la Dc continuò il suo percorso sotto la guida del friulano Angelo Sandri (già a fianco di Piccoli, Senaldi e Duce), avendo solo cura di cambiare la forma dello scudo, riprendendo quello arcuato già adottato da Piccoli. Incuranti delle pronunce del tribunale (anzi, ritenendo buono il lavoro fatto sino ad allora), Sandri e un gruppo di altri democristiani proseguono le loro attività - avendo sede proprio a Palazzo Cenci-Bolognetti in piazza del Gesù - e ogni nuova uscita pubblica, specie se ci sono elezioni di mezzo, è un'occasione per avviare contenziosi legali: iniziano qui - precisamente il 5 settembre 2002, con un atto di citazione presentato in nome di Sandri e dell'allora segretario amministrativo Giancarlo Travagin - le cause che sarebbero durate anni, fino alla sentenza della Cassazione a sezioni unite del 2010.
Nel frattempo, peraltro, assieme all'attività si svilupparono anche liti interne: alla fine del 2003, per dire, si celebrò il XIX congresso Dc (seguendo la vecchia numerazione) e venne eletto segretario Giuseppe Pizza, ma giusto un mese prima il suo predecessore Sandri era stato sfiduciato, a suo dire illegittimamente. Dopo il congresso le tensioni furono messe temporaneamente da parte, anche per preparare le elezioni del 2004, amministrative e soprattutto europee (grazie, nell'ultimo caso, all'esenzione dalla raccolta firme concessa dalla "lista civetta" Paese nuovo); per il Viminale, però, nome e scudo crociato non potevano finire sulle schede per non creare confusione con l'Udc. Si trovò una soluzione d'emergenza (uno scudo rosso su bandiera bianca su fondo blu, senza nome) e la lista raccolse solo lo 0,24%, ma davanti a quei numeri, il partito riuscì a spaccarsi in due. La parte fedele a Sandri (eletto segretario dopo la sfiducia post-elettorale a Pizza) e quella fedele a Pizza (che considerò carta straccia la sfiducia), da lì in poi, iniziarono a celebrare congressi autonomi, con la stessa numerazione e riconfermando ciascuna il proprio leader, come se di confusione non ce ne fosse stata abbastanza.
Sarà il simbolo della Dc-Sandri |
Nel frattempo, peraltro, assieme all'attività si svilupparono anche liti interne: alla fine del 2003, per dire, si celebrò il XIX congresso Dc (seguendo la vecchia numerazione) e venne eletto segretario Giuseppe Pizza, ma giusto un mese prima il suo predecessore Sandri era stato sfiduciato, a suo dire illegittimamente. Dopo il congresso le tensioni furono messe temporaneamente da parte, anche per preparare le elezioni del 2004, amministrative e soprattutto europee (grazie, nell'ultimo caso, all'esenzione dalla raccolta firme concessa dalla "lista civetta" Paese nuovo); per il Viminale, però, nome e scudo crociato non potevano finire sulle schede per non creare confusione con l'Udc. Si trovò una soluzione d'emergenza (uno scudo rosso su bandiera bianca su fondo blu, senza nome) e la lista raccolse solo lo 0,24%, ma davanti a quei numeri, il partito riuscì a spaccarsi in due. La parte fedele a Sandri (eletto segretario dopo la sfiducia post-elettorale a Pizza) e quella fedele a Pizza (che considerò carta straccia la sfiducia), da lì in poi, iniziarono a celebrare congressi autonomi, con la stessa numerazione e riconfermando ciascuna il proprio leader, come se di confusione non ce ne fosse stata abbastanza.
9) Usare il nome (senza simbolo), senza troppi problemi
Mentre alcuni se le davano di santa ragione contendendosi nome e soprattutto il simbolo, qualcuno si accontentava di ottenere il nome da chi avrebbe potuto concederlo. Il 25 ottobre 2004, infatti, Gianfranco Rotondi decise di costituire un nuovo partito denominato Democrazia cristiana, rivendicando una continuità solo ideale con la vecchia Dc. Il 21 dicembre 2004, in compenso, Rotondi ottiene l'autorizzazione a usare il nome "Democrazia cristiana" dai legali rappresentanti del Ppi - ex Dc (che dal 2002 aveva sospeso le proprie attività), vale a dire il tesoriere Luigi Gilli e il segretario generale Nicodemo Oliverio.Poche settimane dopo, Rotondi avrebbe concorso alle regionali del 2005 con il simbolo della "sua" Democrazia cristiana (con doppia bandiera e privo di scudo); tempo qualche mese e il partito cambiò nome in Democrazia cristiana per le autonomie, in vista di un "matrimonio" con il Movimento per le autonomie di Raffaele Lombardo che si sarebbe dovuto celebrare in vista delle elezioni politiche del 2006, ma in realtà non si concretizzò mai. Il nome tuttavia rimase e con quello Rotondi avrebbe partecipato alle elezioni del 2006 in cartello con il Nuovo Psi, per poi concorrere alla lista del Popolo della libertà nel 2008 (venendo eletto in entrambi i casi); nel frattempo, peraltro, Rotondi mantenne il suo ruolo di tesoriere del sospeso Cdu e, come tale, continuò a partecipare alle cause che non sembravano avere fine.
10) Una sentenza contro l'altra (e ognuno legge quello che vuole)
Dc-Pizza |
Al di là degli scontri elettorali (che a livello nazionale avevano sempre visto prevalere l'Udc, mentre a livello locale le decisioni erano state più varie), contavano soprattutto le liti davanti ai giudici e nel 2006 arrivarono due sentenze di segno quasi opposto a pochi mesi di distanza, entrambe emesse dal Tribunale di Roma, sia pure da giudici diversi (i cui cognomi verranno richiamati per distinguere le pronunce). Tra aprile e maggio, in particolare, la cosiddetta "sentenza Rizzo" decise una causa intentata nel 2003 dall'Udc contro la Dc (allora rappresentata da Sandri, ma guidata da Pizza al momento della pronuncia), per accertare che l'uso del simbolo fatto dalla Dc era illegittimo, inibirlo da quel momento in poi e vedersi riconosciuti i danni. Per la giudice non contavano le lamentele di Pizza sul cambio di nome effettuato illegittimamente nel 1994: visto che quelle delibere non erano state annullate o sospese, erano valide e l'Udc usava legittimamente lo scudo crociato ricevuto dal Cdu; la Dc, invece, non era parte di quel contratto e non poteva contestarlo, in più il suo emblema rischiava seriamente di creare confusione con quello dell'Udc (diverso, ma con lo scudo crociato comunque in primo piano, vero elemento identificativo del simbolo). Per questo, la "sentenza Rizzo" impose alla Dc di non usare più quell'emblema (e di pagare i danni).
L'Udc non ebbe quasi il tempo di gioire del risultato ottenuto che il 25 settembre 2006 fu depositata la "sentenza Manzo", resa a seguito della citazione che la Dc nel 2002 aveva diretto contro il Cdu perché questo smettesse di ostacolare la Dc nell'uso del nome e del simbolo. Questa volta il giudice riconobbe che non si era mai celebrato un congresso per cambiare nome alla Democrazia cristiana e, sulla base di questo, sostenne che il Ppi non era affatto la Dc ma un diverso (e nuovo) partito, e non avrebbe potuto disporre del patrimonio diccì, nome e scudo crociato compresi: ogni accordo stipulato tra Ppi e Cdu, dunque, non avrebbe vincolato chi non lo aveva sottoscritto, come la Dc-Pizza. Questo - si faccia attenzione - voleva solo dire che il Cdu, in quanto non "proprietario", non poteva impedire a Pizza di usare lo scudo, non significava affatto che che la Dc-Pizza fosse la "vecchia" Dc o che, comunque, lo scudo fosse nell'esclusiva titolarità di Pizza; in tanti però credettero che lo scudo avesse davvero cambiato padrone (e Pizza certamente non fece nulla per far cambiare loro idea).
La sentenza - che aveva negato che Sandri potesse rappresentare correttamente la Dc, perché nel frattempo non era più lui il segretario e allora nessuno aveva contestato gli atti del congresso che aveva eletto Pizza - fu sufficiente a dare allo stesso Pizza grande visibilità, facendosi riconfermare al successivo congresso al quale partecipò anche Romano Prodi (con somma rabbia di Casini, che sullo scudo crociato non aveva certo voglia di scherzare). Tempo una manciata di mesi e l'idillio col centrosinistra finì, per cui in vista delle elezioni politiche del 2008 la Dc-Pizza si schierò col centrodestra, a fianco del Pdl. Come di consueto, il Viminale e l'Ufficio elettorale nazionale bocciarono il contrassegno per la confondibilità col simbolo dell'Udc, il Tar del Lazio fece altrettanto; pochi giorni dopo, però, il Consiglio di Stato - con una decisione stringatissima ed enigmatica - riammise provvisoriamente la Dc e le elezioni, come dieci anni prima in Friuli, rimasero per qualche giorno "appese a uno scudo". Pizza, infatti, chiese un rinvio del voto per avere 30 giorni per la sua campagna elettorale, ma ciò avrebbe creato vari problemi (giuridici e non solo); Pizza alla fine, anche su consiglio di Silvio Berlusconi, rinunciò a partecipare al voto (come Piccoli nel 1998) e, dopo la vittoria del centrodestra, in una manciata di giorni si ritrovò sottosegretario del nuovo governo Berlusconi.
11) La parola "fine", che però nessuno capisce
Al di là di quel singolare episodio, era evidente che due sentenze di primo grado di segno quasi opposto non avrebbero potuto convivere a lungo: visto che tanto la "sentenza Rizzo" quanto la "sentenza Manzo" erano state impugnate dalle parti risultate soccombenti, le due cause furono riunite nel secondo grado davanti alla Corte d'appello di Roma. La decisione fu depositata il 23 marzo 2009 e, nel suo riformare in parte entrambe le sentenze del 2006, non risultò indolore per nessuno.
I giudici, infatti, confermarono - come nella "sentenza Manzo" - che il cambio di nome del partito doveva avvenire secondo le procedure previste per le modifiche dello statuto (con una delibera del congresso nazionale), mentre la modifica era stata decisa da organi incompetenti e i loro atti - aggiungevano - erano così viziati da essere addirittura "inesistenti", dunque si potevano invalidare in qualunque momento: su questa base, gli accordi di Cannes tra Ppi e Cdu non potevano trasferire alcun diritto sul simbolo, dunque il Cdu e l'Udc non potevano vantare alcun diritto di esclusiva sullo scudo crociato.
Se questa parte di sentenza poteva essere favorevole alla Dc-Pizza, la Corte d'appello precisò che quel partito, per poter impedire ad altri l’uso del nome e del simbolo contesi, avrebbe dovuto dimostrare di essere proprio la Dc "storica" che ha continuato a operare anche dopo il 1994-1995. Un'impresa, questa, impossibile, perché di fatto - riprendendo in parte la "sentenza Rizzo" - la Dc-Pizza era un soggetto nuovo e non si identificava nemmeno con alcuna delle "Democrazie cristiane" che dopo il 1994 si erano succedute (anche se, come visto, la Dc-Duce era una sorta di antecedente logico e organizzativo di quella guidata prima da Sandri, poi da Pizza). Ciò fu sufficiente a dire che la Dc-Pizza non aveva alcun titolo per rivendicare la titolarità esclusiva del nome e del simbolo. In pratica, nessuno dei litiganti (Cdu, Udc, Dc-Pizza) poteva vietare ad altri l'impiego del nome o del simbolo, trattandosi di partiti (e di soggetti giuridici) nuovi e diversi rispetto alla Dc, ma di fatto ciascuno di loro poteva usare quelle insegne indisturbato dagli altri litiganti.
I giudici, infatti, confermarono - come nella "sentenza Manzo" - che il cambio di nome del partito doveva avvenire secondo le procedure previste per le modifiche dello statuto (con una delibera del congresso nazionale), mentre la modifica era stata decisa da organi incompetenti e i loro atti - aggiungevano - erano così viziati da essere addirittura "inesistenti", dunque si potevano invalidare in qualunque momento: su questa base, gli accordi di Cannes tra Ppi e Cdu non potevano trasferire alcun diritto sul simbolo, dunque il Cdu e l'Udc non potevano vantare alcun diritto di esclusiva sullo scudo crociato.
Se questa parte di sentenza poteva essere favorevole alla Dc-Pizza, la Corte d'appello precisò che quel partito, per poter impedire ad altri l’uso del nome e del simbolo contesi, avrebbe dovuto dimostrare di essere proprio la Dc "storica" che ha continuato a operare anche dopo il 1994-1995. Un'impresa, questa, impossibile, perché di fatto - riprendendo in parte la "sentenza Rizzo" - la Dc-Pizza era un soggetto nuovo e non si identificava nemmeno con alcuna delle "Democrazie cristiane" che dopo il 1994 si erano succedute (anche se, come visto, la Dc-Duce era una sorta di antecedente logico e organizzativo di quella guidata prima da Sandri, poi da Pizza). Ciò fu sufficiente a dire che la Dc-Pizza non aveva alcun titolo per rivendicare la titolarità esclusiva del nome e del simbolo. In pratica, nessuno dei litiganti (Cdu, Udc, Dc-Pizza) poteva vietare ad altri l'impiego del nome o del simbolo, trattandosi di partiti (e di soggetti giuridici) nuovi e diversi rispetto alla Dc, ma di fatto ciascuno di loro poteva usare quelle insegne indisturbato dagli altri litiganti.
L'unico ricorso a essere esaminato nel merito fu quello del Ppi: già, perché l'associazione politica Partito popolare italiano aveva già cercato di intervenire nel processo d'appello, lamentando il fatto che la "sentenza Manzo" avesse sostanzialmente invalidato una sua delibera (quella del cambio di nome da Dc a Ppi) senza che quel soggetto fosse parte del processo, per cui chiedeva di potersi difendere, ma l'intervento non era stato ammesso perché per il collegio la causa riguardava solo il diritto all'uso di nome e simbolo tra Dc-Pizza e Cdu; visto che però la sentenza della Corte d'appello parlava addirittura di delibera "inesistente", il Ppi trovò naturale impugnare la decisione anche davanti alla Cassazione. Le sezioni unite, tuttavia, respinsero il ricorso: i giudici sostennero che, proprio perché il Ppi non aveva partecipato ai giudizi di primo e secondo grado, la dichiarazione di inesistenza era servita solo per decidere la controversia tra Dc-Pizza e Cdu, ma gli atti "incriminati" restavano validi per il Ppi che aveva assunto la delibera ma non aveva partecipato al processo.
Con la sentenza di Cassazione, dunque, si scrisse la parola FINE su questo filone giudiziario, anche se a molti era rimasto l'amaro in bocca. Valeva per il Cdu e l'Udc, che avrebbero voluto veder riconosciuto l'uso pienamente legittimo ed esclusivo dello scudo crociato; valeva anche per la Dc-Pizza, per la quale la sentenza "diceva e non diceva" e non la metteva al riparo da attacchi nel modo in cui avrebbe sperato (e ovviamente valeva per la Dc-Sandri, che nel frattempo aveva continuato la sua attività, rivendicando sempre la correttezza del suo percorso). L'unico soggetto abbastanza soddisfatto, in fondo, poteva essere il Partito popolare italiano: se la delibera del cambio di nome continuava a essere valida nonostante la dichiarazione di inesistenza, voleva semplicemente dire che il Ppi (o ciò che ne rimaneva dopo la sospensione dell'attività politica) era sempre la Dc, anche se fino a quel momento non era stato attaccato il suo diritto a chiamarsi Ppi. Per riprendere l'esempio dell'inizio: di fatto la sentenza aveva detto che il cambio di nome da Franco Porta a Marco Cerri era stato fatto male, ma quell'anomalia era saltata fuori in una disputa cui Porta-Cerri non aveva partecipato, quindi per il momento Cerri manteneva legittimamente il suo nuovo nome, anche se il corpo (pur menomato) era lo stesso di Porta; se qualcuno avesse posto il problema del nome direttamente a Cerri, la questione sarebbe stata riaffrontata, ma solo in quel momento.
Tutto chiaro? Non per tutti, a quanto pare, perché per chi voleva a tutti i costi che la Dc tornasse viva e vegeta era impossibile prendere in considerazione l'ipotesi che la Dc esistesse ancora, sì, ma coincidesse con un soggetto - il Ppi - che aveva fatto di tutto per abbandonare il vecchio nome. Così è capitato che più di qualcuno volesse vedere nella sentenza della Corte d'appello - se non addirittura in quella della Cassazione, il che era impossibile, visto che non si era occupata minimamente di questioni di merito - la dichiarazione in base alla quale la Dc non era mai stata sciolta (vero, ma nessuno aveva mai dichiarato di volerla sciogliere, volendo solo cambiarne il nome) ed era rimasta "dormiente" fin dalle prime settimane del 1994: probabilmente la deduzione veniva dal fatto che, a dispetto dell'inesistenza della delibera sul cambio di nome, il Ppi aveva continuato ad agire per anni con il nuovo nome, dunque era come se di fatto fosse stato costituito un nuovo soggetto giuridico distinto dalla Dc, che attendeva solo qualcuno che la svegliasse. La tesi, pur seducente, aveva qualche falla giuridica importante; eppure proprio quella tesi, corroborata dalla tenacia di non pochi "democristiani irriducibili", ha fatto sì che la sentenza della Cassazione, che avrebbe dovuto sancire la fine delle liti (o almeno di una loro porzione rilevante), diventasse l'inizio di altre storie incredibili, spesso finite nuovamente in carta bollata. Ma queste meritano di essere raccontate a parte...
(2 - continua)