Ci sono vari modi per raccontare, ripercorrere, ricordare. Ci si può accontentare delle parole, per condividere memorie, riflessioni e testimonianze di un passato più o meno recente; alle parole si possono aggiungere le immagini, che assai più facilmente si prestano a restare impresse nella mente, a essere ricordate. Le si può riunire tutte insieme, in una sorta di variegata galleria della memoria, accompagnate solo da una didascalia per non far prevalere il testo, ma sufficientemente lontane dalle pagine della narrazione per non interferire con i ritmi del racconto e lasciare che sia il lettore a decidere se e quando completare il viaggio illustrandolo. Oppure, ancora, si può decidere di dedicare un'intera pagina a ciascuna immagine, affiancando a essa il minimo di testo necessario a commentarla e a richiamare il contesto in cui questa è nata e si è inverata: qui è la galleria a dettare il passo del racconto, le parole sono scritte in funzione delle immagini, lasciando che il lettore si lasci trasportare più dai soggetti e dai colori che dai dettagli della storia, che - se proprio vorrà - potrà trovare e approfondire altrove.
Ha scelto quest'ultima strada Paolo Garofalo, siciliano, sindaco di Enna dal 2010 al 2015, già collaboratore di varie testate locali e autore di saggi sui diritti umani e sulla comunicazione (politica e non): nel mese di ottobre sono usciti due libri a suo nome - entrambi pubblicati da Officina della Stampa edizioni - che raccontano la storia di due aree politiche attraverso i simboli che le hanno caratterizzate, soprattutto in Italia (non a caso, sono parte della collana I simboli della politica). I due volumi sono usciti contemporaneamente, ma quello che sembra concepito per primo è intitolato Cento anni di socialismo. Dal Partito rivoluzionario di Romagna a Bettino Craxi: un viaggio lungo un secolo nel socialismo italiano e nel primo partito di massa che l'Italia abbia conosciuto, il cui cammino si è di fatto concluso con la vicenda "Mani pulite" (ma soprattutto, sottolinea Garofalo, con "un populismo dilagante in tutto il Paese che passerà poi alla storia più come una caccia alle streghe che come una evoluzione democratica").
In dieci pagine è condensata quella storia, con le sue tappe politiche e i personaggi che le hanno caratterizzate, senza peraltro rinunciare a ripercorrere gli anni precedenti il congresso fondativo genovese del 1892. Un'epoca in cui, tra l'altro, "prima ancora che il simbolo grafico, così come oggi viene interpretato, le diverse culture politiche si aggregavano attorno alle loro riviste e ai colori delle loro bandiere", nonché ai circoli operai e alle associazioni di mutuo soccorso o culturali che in concreto aderivano all'ideale socialista: ciò spiega la notevole varietà territoriale delle insegne, perfino entro la stessa città ("Il Partito Operaio Italiano, ad esempio, aveva una bandiera a strisce bianconera, il Partito Rivoluzionario di Andrea Costa aveva una bandiera verde, le organizzazioni socialiste di origine anarchica avevano una bandiera nera o rossonera"), fino alla maggiore stabilità della bandiera rossa dopo il 1892, unitamente a vari emblemi del pensiero marxista (il garofano rosso dell'Internazionale, il nome "compagno" per riferirsi al militante, la falce e il martello provenienti dalla Rivoluzione d’Ottobre bolscevica) e ad altri segni più risorgimentali (come "il Sol dell’avvenire" e il libro aperto che unisce operai, contadini e intellettuali), non di rado interpretati graficamente in modo diverso sul territorio a seconda delle peculiarità e degli equilibri presenti luogo per luogo.
La clandestinità imposta dall'avvento del fascismo non aiutò certo a rendere omogenea l'iconografia socialista, mentre nel secondo dopoguerra la varietà simbolica si è dispiegata essenzialmente sull'onda di scissioni e tentativi di ricomposizione. Un ruolo rilevante lo giocò anche l'evoluzione tecnologica e delle comunicazioni: "In occasione delle elezioni, i simboli venivano disegnati con struttura grafica minimale, proprio per consentire una facile riproduzione, anche in termini di propaganda", per cui 'falce e martello' dopo la guerra si affermò facilmente anche per la sua facile riproducibilità e le grafiche divennero più omogenee; con il tempo, e con il passaggio alla 'società dell'immagine', "la responsabilità dei simboli passa dai segretari e dirigenti di partito agli illustratori, ai grafici e quindi alle agenzie guidate da spin doctor". Nel frattempo, però, era stato proprio l'arrivo alla segreteria di Bettino Craxi a preparare la trasformazione simbolica più nota del Psi, introducendo il garofano come emblema (con le grafiche di Ettore Vitale e Filippo Panseca, ma il libro giustamente cita vari altri artisti e illustratori che si sono occupati in precedenza dell'immagine socialista), prima ridimensionando falce, martello, libro e sole (1978-1979), per poi toglierli del tutto nel 1987.
La storia considerata si ferma volutamente alle dimissioni di Craxi e al suo ultimo simbolo, quello con il garofano di Panseca e la dicitura "Unità socialista", inserita con una mossa craxiana fulminea per sottolineare che l'approdo a sinistra avrebbe dovuto essere quello; gli emblemi successivi, in particolare quelli della "diaspora socialista", saranno frutto di una futura, autonoma pubblicazione. Quelli adottati prima, invece, sono proposti a tutta pagina, con a fianco una paginetta di "cenni storici" e una minima descrizione dell'emblema. Oltre alla stella con Garibaldi del Fronte democratico popolare ci sono, ovviamente, anche i simboli di chi ha lasciato il partito (quelli del Psli, del Psdi, del Psiup degli anni '60-'70), dei tentativi di riunificazione coi socialdemocratici (tra il 1966 e il 1968) e anche di partiti che comunque erano sorti in quell'area (dal Partito d'azione al Movimento politico dei lavoratori, fino al Partito radicale con la rosa nel pugno, adottata dai socialisti francesi e poi europei ma con una storia diversa per la sola Italia).
Oltre che con tre utili pagine di "cronologia visiva", contenenti schemi per meglio chiarire la successione e le interazioni tra le varie realtà politiche considerate, il libro si completa con la prefazione di Stefania Craxi. Al di là del giudizio politico e personale che si può avere su di lei, in alcune pagine lei - che presiede la Fondazione Craxi - riesce a toccare alcuni punti fondamentali sull'uso e sul valore dei simboli in politica (elemento irrinunciabile per comprendere eventi, evoluzioni e dispute), fino all'auspicio che torni "una stagione in cui i 'simboli', la comunicazione, tornino ad essere un mezzo e non un fine", per riconoscersi e identificarsi. Per questo, il testo merita di essere integralmente riportato:
Un simbolo non è mai una mera rappresentazione grafica. È molto di più. È un concentrato intriso di più elementi, spesso di valori e visioni che costituiscono e rappresentano un’identità. Attraverso stili, colori, forme e figure evocative si raccontano idee e suggestioni, passioni e lotte, inizi e svolte. Un simbolo racconta una direzione, un destino. Comprende e non esclude, poiché è sintesi di sfaccettature e sa racchiudere al suo interno anche evocazioni diverse che si accettano e non si respingono. È un segno di riconoscimento, contiene linguaggi, forme espressive e richiama gestualità tipiche, evoca periodici storici ed ammicca al domani.
La storia del genere umano è caratterizzata dai simboli. Dalle civiltà primordiali alle religioni, dalle grandi casate ai grandi movimenti politici e sindacali, uomini e donne si sono raccontanti e rappresentanti, uti singuli o uti socii, con effigi caratterizzanti che, come un moderno orologio, hanno scandito con puntualità il trascorrere del tempo. Non è un caso che chiunque sarebbe in grado di associare ad una comunità o ad un periodo storico un elemento grafico in grado di ricordarlo e evocarlo molto più che con le parole.
Così è stato, e così non poteva non essere, per quella "storia di civiltà" che è il socialismo italiano. Una storia che racchiude al proprio interno, come spesso accade, diverse sensibilità e tendenze e che sin dalla sua nascita nel 1892, a Genova, ha raccontato le sue battaglie e le tante lotte per la libertà, il progresso e i diritti, attraverso la sua bandiera. Ogni stagione, ogni rupture, ogni travaglio ideale e intellettuale, ha avuto nel simbolo un punto di ricaduta obbligato.
Tra scissioni, unificazioni, fuoriuscite e esperimenti che hanno accompagnato il più antico e glorioso partito italiano – e che non sono cessate neanche dopo la sua tragica fine - la simbologia del vasto mondo socialista è stata parte di un fermento, di una inquietudine e di una irrequietezza che ha al contempo rappresentato la sua forza e la sua debolezza e che comunque, al di là dei giudizi, ne costituisce una cifra caratterizzante.
I simboli sono stati quindi vessilli da contendere e da strappare all'avversario di turno, bandiere da impugnare nei momenti di lotta - nel partito e nel Paese - utili a rivendicare la continuità, la fedeltà, l’interpretazione “pura” e “autentica” di un’ideale. Il drappo rosso, il libro aperto, il sol dell’avvenir, le tre frecce, la falce e martello, sono gli elementi peculiari che combinati tra loro, fino al garofano rosso del “nuovo corso”, rappresentano e simboleggiano la cultura socialista ed i suoi tumultuosi travagli, sintomo di vitalità e di un ideale che, nelle migliori espressioni, non volle mai essere dogma.
Se scorgiamo lo sguardo in un passato poi non così tanto lontano e se pensiamo alla cultura del “marchio d’impresa” di cui la tutta la politica odierna è ormai intrisa, comprendiamo i tormenti e la profondità che sottintendeva ad ogni cambio e modifica del simbolo. Non erano semplici restyling ma cambi di prospettiva, passi in avanti (o indietro) nell'elaborazione culturale e nella proposta politica.
Ammainare i "simboli" non era pertanto cosa né facile, né da compiere a cuor leggero. I socialisti, ad esempio, ne pagarono il prezzo subito dopo il ventennio fascista. Messe da parte le effigi che per mezzo secolo avevano rappresentato la già travagliata storia della sinistra italiana, Pci, Psi e Ps’Az si ritrovarono, nell'elezioni del ’48, sotto uno sfondo bianco che evocava la pace e la stella verde del lavoro e su cui campeggiava l’effige di Garibaldi con il basco rosso. Ma le elezioni registrano un sonoro flop per il Fronte Popolare e, soprattutto, ribaltarono per tutti gli anni avvenire i rapporti di forza tra i due principali partiti della sinistra italiana.
Da lì, in un cammino tortuoso e accidentato, recuperati i vessilli della tradizione, i simboli delle diverse esperienze socialiste – ivi compresa la nascita della socialdemocrazia saragattiana - riprenderanno gli elementi peculiari dei primi decenni del secolo. È con l’avvento di Craxi, con la sua volontà di ricollegare il terreno culturale e ideale del socialismo italiano alla tradizione del riformismo liberale e libertario, che abbiamo un radicale cambio politico e, conseguenzialmente, del simbolo.
Il nuovo leader del Psi, visionario quanto desideroso di offrire al paese un socialismo moderno e adatto alle sfide del tempo, non era certo un uomo senza radici. Era un socialista libertario e garibaldino, un riformista diamantino che, infatti, intese attingere a piene mani alla miglior cultura del socialismo italiano e recuperare la stagione turatiana d’inizio Novecento, allontanandosi tanto dal radicalismo comunista di matrice sovietica quanto dagli estremismi del terrorismo rosso che, tra falci e martello e stelle a cinque punte, avevano condotto il Paese, tra complicità e debolezze di certa intellighenzia e certa sinistra, in una stagione buia.
Erano gli anni di piombo. Gli anni, come titola un fortunato lavoro di Giampiero Mughini, della "peggiore gioventù". Ed è, infatti, proprio durante i giorni del rapimento Moro che il Congresso socialista di Torino, compie, in coerenza con il percorso politico intrapreso, la svolta: anno in soffitta falce e martello sostituite da un garofano rosso che, in poco tempo, sarà per tutti il garofano socialista, e, non senza connotati dispregiativi, il garofano craxiano.
Fu definito un simbolo gentile. Esso rimandava all’idea di impegno politico che trascendeva da ogni estremismo e che intendeva saltare a piè pari con la stagione ‘rivoluzionaria’ e restituire ai socialisti l’orgoglio della propria identità e quell'autonomia, anche visiva, dal PCI e dalla dottrina della “Chiesa” comunista.
Fu, come ricorda anche l'Almanacco socialista di quella stagione, "un'azione di risemantizzazione di quei simboli già presenti nella tradizione iconografica socialista" che, in maniera suggestiva, evocavano le origini e al contempo segnavano un nuovo inizio. Ma, soprattutto, il garofano, già utilizzato nel '74 nelle grafiche di propaganda per il Primo Maggio, era un chiaro riferimento alla "rivoluzione portoghese".
Non era un caso né una mera scelta propagandistica. Infatti, il Psi, e in particolare un giovane Craxi, contribuirono concretamente, con appoggi politici e finanziari, alla lotta al regime autoritario di António Salazar e al ripristino della democrazia in Portogallo dopo due anni di transizione tormentati da aspre lotte politiche.
Il garofano voluto da Craxi diventa così un simbolo di libertà, pace e democrazia in tutto il mondo e segna anche l’inizio di una stagione di protagonismo internazionale dei socialisti e dell’Italia. Da Est a Ovest, passando dal Sudamerica al Mediterraneo, il "garofano rosso" diventa in tutto il mondo il riferimento per quanti soffrono per la privazione dei diritti e che lottano contro la violenza e l’arbitrio dei regimi autoritari; tanto contro la destra reazionaria e golpista che contro il totalitarismo comunista. Sarà il simbolo della speranza, degli oppressi e dei dimenticati, il faro cui guarderà l’opposizione al franchismo, i democratici cileni, i perseguitati dai colonnelli greci, il dissenso in URSS e nei paesi della "cortina", Lech Walesa e Solidarność in Polonia, Andrei Sakharov e la sua famiglia in Russia e molti altri ancora.
Le insegne del garofano schiuderanno le porte del Parlamento europeo a Jiri Pelikan, eroe della rivolta di Budapest e, in Italia, diventerà l’emblema delle riforme e della governabilità, dell’innovazione e di un Paese che, negli anni ’80, vuole tornare a vivere e vuole competere e affermarsi sullo scenario globale. È così che un simbolo si fa politica, si identifica con i suoi uomini migliori, con la sua capacità di essere esso stesso messaggero, verso il futuro e verso gli altri, di una storia.
Fu lo stesso Craxi del resto, in una serie di fortunati spot del 1987 con Gianni Minoli, che sembrano non risentire dei lustri trascorsi, a riempire di contenuti e di messaggi il simbolo socialista. Lo definisce "un grande e antico simbolo del mondo del lavoro, il suo messaggio è fede nel progresso e speranza nell'avvenire", oppure, "simbolo di progresso, di uguaglianza e di civiltà". Con tutta evidenza, nulla a che fare con un marchio di detersivi o con un grande slogan pubblicitario ad effetto che caratterizzerà la politica e la società negli anni avvenire e nei nostri giorni.
Il lavoro di Paolo Garofalo è quindi un lavoro prezioso. Esercita la memoria, aiuta alla riflessione sull'oggi e sul domani. Non è, pur essendolo, un mero racconto storiografico e una puntuale ricerca d'archivio. Tra simboli sconosciuti e noti, tra quelli dimenticati ed ancora rimpianti e agognati, si nasconde l’anima della comunità socialista, la comunità a cui, nonostante tutte le traversie degli ultimi due decenni, in molti sentono ancora oggi di appartenere.
In queste pagine c'è il racconto di una storia orgogliosa che ha reso, pur con tutti i suoi errori, libera, democratica, più giusta e più moderna l’Italia e dato voce a milioni di cittadini e di militanti che, con quei“simboli” in pugno, hanno lottato per vedere riconosciuti i propri diritti e per consegnare ai figli un futuro migliore dei padri.
Nella mia esperienza di questi anni, nel corso della mia ormai ventennale attività dedita a scrivere e far scrivere parole di giustizia e verità sui socialisti e su Craxi, posso testimoniare come e quanto i simboli e, per ragioni politiche e di prossimità e il simbolo del "garofano rosso", sia ancora oggi straordinariamente vivo. Non c’è persona, socialista e non, che non si rechi sulla tomba di Craxi, ad Hammamet, con un garofano in mano. Non c’è iniziativa in cui partecipi, in qualsivoglia parte d'Italia e fuori, in cui manchi un mazzo di garofani, in cui non si presenti un compagno con il fiore all'occhiello, una spilletta d'annata, un improbabile gadget, o più semplicemente una bandiera con il "vecchio" simbolo. Penso sia un segno distintivo, un modo di riconoscersi tra simili.
Una comunità, specie se distrutta e dispersa, ancor più se vittima di un'ingiustizia, ha bisogno di riconoscersi ed i suoi membri, hanno bisogno di sentirsi ancora parte di un qualcosa che li rendeva protagonisti. È a loro, oltre alla grande platea di giovani che non hanno conosciuto una politica bella e dannata, fatta di battaglie ideali e da un impegno totalizzante, che questo libro restituisce un briciolo di speranza, affinché possa fiorire una stagione in cui i "simboli", la comunicazione, tornino ad essere un mezzo e non un fine.
Paolo, la cui passione ed il cui coinvolgimento traspaiono da queste pagine, è la testimonianza viva che certi "simboli" e certe storie non sono la rappresentazione passeggera di un effimero presente e che qualcosa, seppur in profondità e in condizioni ostili, continua lentamente a germogliare. La memoria è la miglior premessa per il futuro. Ci aiuta a preservare sogni e speranze. Può ricostruire ciò che gli uomini hanno distrutto ma non possono cancellare.
In fondo, anche i garofani nascono dal letame.
Lo stesso impianto adottato per ripercorrere la storia del socialismo si ritrova nell'altro volume di Garofalo da poco pubblicato, ossia Il Partito comunista italiano, da Livorno alla Bolognina: i settant'anni considerati nel libro vengono coperti in un centinaio di pagine, una dozzina delle quali servono, anche qui, per ripercorrere le tappe principali della storia del comunismo in Italia, per poi passare in rassegna i passaggi simbolici di quella stessa avventura politica. Non c'è da stupirsi nel rendersi conto che la simbologia, alle origini, "coincideva ovviamente con quella socialista e con quella sovietica", almeno per quanto riguardava le bandiere rosse, falce e martello, il sole nascente, le fiaccole e le spighe di grano; se non appartenne certamente alla storia comunista il berretto frigio, sarebbe presto stata aggiunta - come elemento stabile e duraturo - la stella a 5 punte, assai più sovietica che socialista quanto alle sue origini. Proprio la bandiera rossa - indiscutibilmente per tutti, anche sulle schede che erano in bianco e nero - con falce martello e stella si consolidò dopo la guerra.
Certo, con la nuova Italia arrivarono presto anche le scissioni e un numero pressoché infinito di variazioni grafiche sul tema degli "arnesi", a dispetto di una sostanziale stabilità del simbolo del Pci nel corso degli anni, almeno dalle elezioni del 1953. Il tutto fino alla "svolta della Bolognina" e al travagliato percorso che avrebbe portato al cambiamento di nome in Partito democratico della sinistra e all'adozione del simbolo creato da Bruno Magno, quello con il vecchio emblema alla base dell'albero della sinistra, poi identificato in una quercia.
Nel corso del libro compaiono simboli nazionali (alcuni dei quali poco rivisti, per esempio quello adottato dal Partito comunista internazionalista) e locali, di breve durata e più stabili (anche se si è scelto di non proporre certi emblemi dell'estrema sinistra, da Democrazia proletaria a quelli col pugno di Lotta continua o della Nuova sinistra unita. Di certo la storia di falce e martello è proseguita ben oltre la Bolognina e il passaggio al Pds, nelle storie di Rifondazione comunista e di tutti i partiti venuti in seguito; anche in questo caso, però, è probabile che quegli emblemi finiscano oggetto di nuove puntate della ricerca, sempre con le immagini a dettare i tempi della narrazione.
A firmare la prefazione, in questo caso, è Fausto Raciti, ultimo segretario nazionale della Sinistra Giovanile e primo dei Giovani Democratici, attualmente deputato del Partito democratico. Si tratta di un testo più breve rispetto a quello di Stefania Craxi, ma riesce comunque a dare conto delle ragioni che hanno portato alla scelta dei simboli della sinistra italiana, inquadrando tra l'altro l'uso degli emblemi di partito come "elemento di contestazione del sistema politico" liberale, con l'intento di coinvolgere la massa degli italiani esclusa in tutto in parte da quello stesso sistema; la sostanziale fine dei simboli, invece, è arrivata in corrispondenza soprattutto di "un ritorno alla cultura del maggioritario e del valore della singola personalità, che ha sostituito ai simboli le persone, impedendo di fatto qualsiasi sviluppo di identità politica che non coincidesse con le personalità medesime". Anche qui, dunque, vale la pena dare voce a Raciti, con l'auspicio che le ricerche di Garofalo possano proseguire, riguardando altri tempi e altri filoni politici, sfogliando la storia simbolo dopo simbolo.
La sinistra si è caratterizzata per il tentativo di fare del popolo, via via riconosciuto nel Terzo stato prima nel Quarto dopo, il protagonista consapevole della grande storia. Dal Manifesto dei comunisti del 1848 in poi, questo proposito è stato sempre più chiaro ed esplicito, così tanto, da spingere alcune delle organizzazioni del movimento operaio a respingere ogni identificazione, compresa quella di "sinistra" nata con la Rivoluzione francese in contrapposizione alla destra reazionaria e monarchica e alla "palude" di centro in seno all'Assemblea costituente, che non fosse con gli interessi di classe.
È così che si è sviluppato il concetto di classe operaia come classe generale che, liberando se stessa, avrebbe liberato il mondo. È così che i comunisti hanno scelto e adottato il proprio simbolo e, più in generale, l’insieme dei propri riferimenti simbolici. Spartaco, Prometeo, il sol dell’avvenire, il berretto frigio, le spighe di grano saranno soppiantati da falce, martello e stella in modo stabile e con poche variazioni all'interno del movimento comunista. Sono da intendersi tra le variazioni le ruote dentate e spighe di grano usate in estremo oriente o in alcune esperienze africane con la stessa funzione simbolica.
La storia dei comunisti e della sinistra nel suo complesso testimonia di una necessità, avvertita con molta forza, di costruire una propria identità riconoscibile, attraverso simboli semplici, dal tratto grafico facilmente riproducibile e al contempo fortemente evocativi. Perché?
C'è innanzitutto un tratto messianico che ha spinto i partiti comunisti a pensarsi come araldi di un mondo prossimo a venire: il messianismo, motore delle fedi religiose monoteiste, si nutre inevitabilmente di simboli, soprattutto quando non trova conferme nella realtà. Il futuro si può solo raffigurare, non si può raccontare.
In secondo luogo c'è una consapevole esigenza di rapporto con le grandi masse che, attraverso il primato del partito politico, dovrebbero costruire il socialismo. Consentire a grandi masse di identificarsi necessita, giocoforza, della capacità evocativa di un simbolo che richiamasse l’inizio di questa storia nuova, fondata sul potere dei soviet dei contadini e degli operai anziché dei parlamenti, e niente meglio del simbolo scelto da Lenin poteva rappresentarlo.
C'è infine il richiamo ad una famiglia internazionale, che superava i confini e le alterne fortune delle rivoluzioni nazionali, utile a dare la dimensione della partecipazione ad un movimento le cui ambizioni erano talmente alte, appunto, da voler mettere fine alla storia, come storia del conflitto tra classi.Non è compito mio ma degli storici, tirare un bilancio di un'esperienza su cui si scrive da più di un secolo; ma un'opera che, come questa, si proponga di raccontare i partiti e i loro travagli attraverso i simboli, cioè il modo in cui i partiti stessi hanno voluto raccontarsi, ci pone almeno una domanda: com'è possibile che i simboli, almeno in Italia, siano sostanzialmente spariti per lasciare spazio alla "messa in grafica" degli acronimi?
A pensarci bene, l'avvento nel nostro paese dei simboli, corrisponde alla crisi dello Stato liberale e alla nascita dei soggetti politici con ambizioni di massa, compreso il fascismo, che è stato uno dei primi movimenti italiani a dotarsi di un apparato simbolico. Sarebbe semplice, ma sbagliato, far corrispondere questa tendenza ed esigenza, alle sole forze con ambizioni totalitarie: testimoniano in questo senso i repubblicani con la loro edera.
Questa tendenza sottolinea invece il tentativo, comune a tutti i soggetti che l’hanno incubata, di coinvolgere in partiti organizzati quella grande massa di italiani, del tutto o parzialmente esclusi da un Italia liberale, in cui le funzioni di rappresentanza politica erano delegate in toto a singoli notabili, eletti su base censuaria, in virtù del proprio cognome. In altre parole l’uso di un simbolismo di partito era di per sé elemento di contestazione del sistema politico. Quando i partiti di massa assumeranno, alla caduta del regime fascista, il pieno controllo della vita democratica in seguito al loro successo elettorale, questa logica sarà consacrata e consolidata, mai smentita, fino alla crisi della prima repubblica.
C'è, nella fine dei simboli, certamente un riflesso della crisi dell’ideologia comunista, col suo portato di contestazione al sistema, che costringeva anche gli avversari ad organizzarsi in maniera speculare. C'è anche l’effetto di un sistema elettorale che ha spinto alla creazione di coalizioni prima del voto: precarie per definizione, incerte e cangianti, non consentono alcuna forma di riconoscibilità né alcuna capacità evocativa. Ma c’è soprattutto in opera, un ritorno alla cultura del maggioritario e del valore della singola personalità, che ha sostituito ai simboli le persone, impedendo di fatto qualsiasi sviluppo di identità politica che non coincidesse con le personalità medesime.
O i notabili o i partiti. È questa la lezione vera di questo volume, che ci illumina sul nostro passato prossimo e mette implicitamente a nudo la fragilità del nostro presente e della nostra democrazia.
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