D'accordo, per dire che un simbolo cambia ci si riferisce soprattutto alla sua grafica: se un suo elemento compare, sparisce, si sposta, si modifica, difficilmente sfugge all'occhio. Ma se cambia il testo, è possibile che la mutazione passi inosservata? Oggi non è da escludere, persino se la modifica riguarda il nome di un partito: in un'epoca in cui etichette ed emblemi hanno finito per somigliare in tutto e per tutto a dei marchi, tutto sembra piegato alle esigenze di marketing e il senso di questo o di quel cambiamento facilmente sfugge. Nella Prima Repubblica, invece, quando i simboli erano soprattutto segni identitari, non esistevano dettagli trascurabili: bastava cambiare una parola per lanciare un messaggio, chiaro e inequivocabile.
Si prenda, per esempio, un cambiamento che oggi potrebbe davvero risultare irrilevante, se non addirittura impercettibile. Il 4 ottobre 1990, infatti, il segretario del Partito socialista italiano Bettino Craxi propose che, nella corona rossa del suo simbolo, la scritta si modificasse da "Partito socialista" a "Unità socialista". Una parola sola, appunto, che però pesava come un macigno, per tante ragioni. Innanzitutto perché, di fatto, con la sostituzione del riferimento al partito compreso nell'emblema sembrava quasi che a cambiare fosse stato proprio il nome, anche se la sigla Psi era rimasta al suo posto e si era innanzitutto voluto togliere il riferimento visibile al concetto stesso di "partito", già poco gradito agli elettori prima ancora che scoppiasse il bubbone di "Mani pulite". Anche l'acronimo del Psi, peraltro, era parso "a rischio", perché in quel momento si era puntato su una trasformazione in senso federale del partito, per cui nella parte bassa del simbolo al posto della sigla avrebbe potuto trovare posto il riferimento alla singola regione (così almeno scriveva il 5 ottobre Sandra Bonsanti sulla Repubblica).
Dietro quella scelta, però, c'era ben altro e il messaggio era rivolto ben al di fuori del partito socialista. Testimonianze di quel passaggio si ritrovano, tra l'altro, nel libro Il crollo. Il PSI nella crisi della Prima Repubblica, pubblicato da Marsilio nel 2012 - in occasione dei 120 anni di storia del socialismo in Italia - e curato da Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta. Il volume, decisamente ponderoso - ha oltre 1000 pagine - se nella seconda parte raccoglie vari saggi di studiosi (storici, internazionalisti, economisti) sul ruolo del Psi nella crisi della Prima Repubblica, nella lunga parte iniziale ospita un gran numero di interviste a testimoni dell'epoca craxiana e, soprattutto, della sua fine. Proprio dalle parole dei personaggi intervistati (e dalle frequenti domande degli intervistatori, Livio Karrer, Alessandro Marucci e Luigi Scoppola Iacopini) emerge, tra l'altro, anche la portata dell'inserimento dell'unità socialista nell'emblema del partito.
La testimonianza più importante, forse, è quella resa da Ugo Intini, che - sempre per la stampa dell'epoca - fu il primo ad annunciare il cambiamento simbolico, in qualità di portavoce di Bettino Craxi. "Lui - spiega - ha messo sotto il simbolo del nostro partito 'Unità socialista', come per dire: 'Qui dovete venire'". Ad andare verso il Psi, ovviamente, dovevano essere innanzitutto dirigenti e militanti di un partito che si chiamava ancora comunista, stava per trasformarsi in Partito democratico della sinistra (ma la quercia sarebbe stata mostrata solo il 9 ottobre 1990, dunque dopo l'annuncio craxiano) ed era in profondo travaglio. Non si era ancora deciso esattamente "il nome della Cosa" e già Via del Corso, con mossa fulminea, piantava una bandierina per farsi notare da Botteghe Oscure e, magari, convincere parte della base a cambiare indirizzo.
Lo stesso Intini, peraltro, nel libro spiega di non aver "mai creduto troppo al lancio della proposta dell’unità socialista con gli ex comunisti": gli era parsa una "forzatura poco realistica", ritenendo che il mutando Pci fosse "distantissimo da una revisione vera". L'ex direttore dell'Avanti! ritiene che Craxi "abbia sempre avuto in mente l’alternativa di sinistra e lo schema Mitterrand", con la creazione di un sistema bipolare in cui il leader della sinistra, per avere più possibilità di vittoria, doveva essere "quello che sta più verso il centro", cioè lui. Un disegno che dopo il crollo del muro di Berlino sembrava più realizzabile, ma per proporre un'alternativa di sinistra a guida socialista ci sarebbe voluto un Psi forte circa quanto il Pci (mentre era decisamente più debole) e la guerra del Golfo vide il Pds su posizioni ben distanti da quelle dei socialisti (molti si astennero, qualcuno votò contro l'invio dei militari in Iraq) e anche da quelle di molti altri paesi europei, anche a guida di sinistra: all'inizio degli anni '90 non si poté arrivare a nessuna unità, poi arrivò Tangentopoli e la scena sarebbe stata rivoluzionata. Quella che ad alcuni era parsa una bomba, insomma, si sarebbe rivelata - secondo le parole di Achille Occhetto - soltanto "un petardo".
Nel libro anche altri dirigenti socialisti commentano quel passaggio: per Valdo Spini "la stessa dizione 'Unità socialista' che è apposta nel simbolo del Psi è chiaramente ostile a un'eventuale convergenza" tra socialisti e comunisti; l'ex dirigente Uil Giorgio Benvenuto ricorda "le forti preoccupazioni di molti compagni" quando Craxi propose l'unità socialista, un voto unanime della direzione nazionale ma anche un atteggiamento inerte nel partito su quel tema ("Non ci fu negli organismi dirigenti, tranne alcune eccezioni, nessun desiderio di approfondimento, nessun confronto, nessuna dialettica"). L'ex leader della sinistra socialista Claudio Signorile imputa a Craxi l'errore di non aver sfilato il Psi dal governo, dando il segno che non voleva cambiare davvero: "tu non puoi fare l'Unità socialista e stare a governare con i democristiani e i ministri socialisti".
Quanto all'ex vice di Craxi, Giulio Di Donato, vedeva l'unità socialista come "una prospettiva", considerando che per lui "falce e martello non aveva più alcun senso". La stessa cosa che Craxi aveva pensato fin dalla fine degli anni '70: come riconosce nella propria intervista l'ex sindaco di Milano Carlo Tognoli, "il timbro craxiano fu la proposta di mettere il garofano, proprio a Torino, nel simbolo del partito. Era un richiamo alla tradizione socialista pre 1917, prima della Rivoluzione sovietica, ed era il collegamento con quel Partito socialista, che aveva una forte anima riformista, cui si dovevano la creazione delle cooperative, la nascita del sindacato e dell'Avanti!, la formazione di una classe di amministratori locali di grande valore e le prime riforme a vantaggio dei lavoratori".
Al congresso di Torino del 1978 a Torino Craxi non era riuscito a far sparire del tutto falce e martello, al punto tale che Ettore Vitale, viste le proteste dei delegati, dovette poi ritoccare il simbolo dando maggior evidenza agli antichi segni rivoluzionari, a danno del fiore. Nel 1987, invece, i tempi erano apparsi maturi per togliere di mezzo gli arnesi e, tre mesi prima delle elezioni, Filippo Panseca mostrò a tutti da Rimini, all'ombra del tempio da lui creato come scenografia per il congresso del partito, il nuovo simbolo socialista, con il fiore dal gambo lungo e senza altri elementi grafici. "Onorevole, ma perché ha scelto solo il garofano come simbolo per il suo partito?", chiese a Craxi Giovanni Minoli in uno degli spot della famosa campagna - "Cresce l'Italia" - che precedette le elezioni di quell'anno: "Il garofano - rispose - è un grande e antico simbolo del mondo del lavoro italiano e internazionale. Il suo significato, il suo messaggio è fede nel progresso, fede nella libertà e speranza nell'avvenire: forse è bene che se lo mettano in tanti!", chiosava, sorridendo a modo suo. Un sorriso simile a quello sfoderato - sempre con garofano in mano - nel 1989 accanto a Claudio Martelli, Giuliano Amato e Gianni De Michelis davanti all'avveniristica e teleschermica piramide pensata sempre da Panseca per il nuovo congresso del Psi a Milano, nell'area Ansaldo: la stessa immagine che figura sulla copertina del volume curato da Acquaviva e Covatta e che non lasciava presagire che, tempo meno di tre anni, sarebbe finito tutto, garofano compreso. Altro che unità socialista...
Si prenda, per esempio, un cambiamento che oggi potrebbe davvero risultare irrilevante, se non addirittura impercettibile. Il 4 ottobre 1990, infatti, il segretario del Partito socialista italiano Bettino Craxi propose che, nella corona rossa del suo simbolo, la scritta si modificasse da "Partito socialista" a "Unità socialista". Una parola sola, appunto, che però pesava come un macigno, per tante ragioni. Innanzitutto perché, di fatto, con la sostituzione del riferimento al partito compreso nell'emblema sembrava quasi che a cambiare fosse stato proprio il nome, anche se la sigla Psi era rimasta al suo posto e si era innanzitutto voluto togliere il riferimento visibile al concetto stesso di "partito", già poco gradito agli elettori prima ancora che scoppiasse il bubbone di "Mani pulite". Anche l'acronimo del Psi, peraltro, era parso "a rischio", perché in quel momento si era puntato su una trasformazione in senso federale del partito, per cui nella parte bassa del simbolo al posto della sigla avrebbe potuto trovare posto il riferimento alla singola regione (così almeno scriveva il 5 ottobre Sandra Bonsanti sulla Repubblica).
Dietro quella scelta, però, c'era ben altro e il messaggio era rivolto ben al di fuori del partito socialista. Testimonianze di quel passaggio si ritrovano, tra l'altro, nel libro Il crollo. Il PSI nella crisi della Prima Repubblica, pubblicato da Marsilio nel 2012 - in occasione dei 120 anni di storia del socialismo in Italia - e curato da Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta. Il volume, decisamente ponderoso - ha oltre 1000 pagine - se nella seconda parte raccoglie vari saggi di studiosi (storici, internazionalisti, economisti) sul ruolo del Psi nella crisi della Prima Repubblica, nella lunga parte iniziale ospita un gran numero di interviste a testimoni dell'epoca craxiana e, soprattutto, della sua fine. Proprio dalle parole dei personaggi intervistati (e dalle frequenti domande degli intervistatori, Livio Karrer, Alessandro Marucci e Luigi Scoppola Iacopini) emerge, tra l'altro, anche la portata dell'inserimento dell'unità socialista nell'emblema del partito.
La testimonianza più importante, forse, è quella resa da Ugo Intini, che - sempre per la stampa dell'epoca - fu il primo ad annunciare il cambiamento simbolico, in qualità di portavoce di Bettino Craxi. "Lui - spiega - ha messo sotto il simbolo del nostro partito 'Unità socialista', come per dire: 'Qui dovete venire'". Ad andare verso il Psi, ovviamente, dovevano essere innanzitutto dirigenti e militanti di un partito che si chiamava ancora comunista, stava per trasformarsi in Partito democratico della sinistra (ma la quercia sarebbe stata mostrata solo il 9 ottobre 1990, dunque dopo l'annuncio craxiano) ed era in profondo travaglio. Non si era ancora deciso esattamente "il nome della Cosa" e già Via del Corso, con mossa fulminea, piantava una bandierina per farsi notare da Botteghe Oscure e, magari, convincere parte della base a cambiare indirizzo.
Lo stesso Intini, peraltro, nel libro spiega di non aver "mai creduto troppo al lancio della proposta dell’unità socialista con gli ex comunisti": gli era parsa una "forzatura poco realistica", ritenendo che il mutando Pci fosse "distantissimo da una revisione vera". L'ex direttore dell'Avanti! ritiene che Craxi "abbia sempre avuto in mente l’alternativa di sinistra e lo schema Mitterrand", con la creazione di un sistema bipolare in cui il leader della sinistra, per avere più possibilità di vittoria, doveva essere "quello che sta più verso il centro", cioè lui. Un disegno che dopo il crollo del muro di Berlino sembrava più realizzabile, ma per proporre un'alternativa di sinistra a guida socialista ci sarebbe voluto un Psi forte circa quanto il Pci (mentre era decisamente più debole) e la guerra del Golfo vide il Pds su posizioni ben distanti da quelle dei socialisti (molti si astennero, qualcuno votò contro l'invio dei militari in Iraq) e anche da quelle di molti altri paesi europei, anche a guida di sinistra: all'inizio degli anni '90 non si poté arrivare a nessuna unità, poi arrivò Tangentopoli e la scena sarebbe stata rivoluzionata. Quella che ad alcuni era parsa una bomba, insomma, si sarebbe rivelata - secondo le parole di Achille Occhetto - soltanto "un petardo".
Nel libro anche altri dirigenti socialisti commentano quel passaggio: per Valdo Spini "la stessa dizione 'Unità socialista' che è apposta nel simbolo del Psi è chiaramente ostile a un'eventuale convergenza" tra socialisti e comunisti; l'ex dirigente Uil Giorgio Benvenuto ricorda "le forti preoccupazioni di molti compagni" quando Craxi propose l'unità socialista, un voto unanime della direzione nazionale ma anche un atteggiamento inerte nel partito su quel tema ("Non ci fu negli organismi dirigenti, tranne alcune eccezioni, nessun desiderio di approfondimento, nessun confronto, nessuna dialettica"). L'ex leader della sinistra socialista Claudio Signorile imputa a Craxi l'errore di non aver sfilato il Psi dal governo, dando il segno che non voleva cambiare davvero: "tu non puoi fare l'Unità socialista e stare a governare con i democristiani e i ministri socialisti".
Il simbolo al congresso del 1978 |
Tratto dal canale YouTube dell'utente Bluecheer90 |
Nessun commento:
Posta un commento