giovedì 21 gennaio 2021

1921, la scissione comunista: il congresso socialista parola per parola

Quando fu convocato a Livorno (al teatro Carlo Goldoni), per i giorni che andavano dal 15 al 21 gennaio 1921, il XVII congresso del Partito socialista italiano, anche nel nostro paese lo scontro tra riformisti e rivoluzionari nell'alveo socialista era in pieno svolgimento. Alla fine di quell'assise congressuale, non c'era più solo il partito socialista: continuava a esistere il Psi, ma già dalla mattina del 21 gennaio si erano compiuti i primi atti per creare il Partito comunista d'Italia. L'assemblea di fondazione del Pcd'I si tenne presso il teatro San Marco, a poco più di un chilometro di distanza (un quarto d'ora a piedi) e certamente quello fu un passaggio fondamentale della storia politica italiana; troppo spesso, però, si rischia di dimenticare il passaggio precedente, cioè proprio il congresso livornese. Lì, in quella settimana, si sono confrontate e scontrate le tesi che, inaugurata l'epoca dei partiti di massa, hanno dato luogo alla prima scissione partitica italiana di portata così ampia, destinata a produrre i propri effetti anche a distanza di un secolo.
Oggi è di nuovo possibile ripercorrere passo a passo e - letteralmente - parola per parola quei giorni di interventi, discussioni, interruzioni e scontri grazie al volume 1921. Resoconto di una scissione, curato da Pierluigi Regoli (già responsabile nazionale dei giovani della Federazione Laburista ed ora militante nel Pd Roma, in precedenza curatore della riedizione di Fuga in quattro tempi di Carlo Rosselli). Il libro (387 pagine, distribuito su Amazon e prodotto in autopubblicazione, per rendere disponibile a un pubblico più ampio una fonte storica di sicuro rilievo) raccoglie gran parte dei materiali - quelli strettamente relativi all'assise congressuale - contenuti nel Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano: un'opera monumentale pubblicata dalle Edizioni Avanti nel 1962 (e ristampata l'anno successivo), dunque a oltre quarant'anni di distanza da uno degli eventi più importanti della storia partitica italiana. Il valore di quel documento è dato, oltre che dal tema, dalla sua forma: trattandosi di un resoconto stenografico, esso "non solo presenta tutti gli interventi, compresi i saluti delle delegazioni straniere - così annota il curatore nella sua premessa - ma anche le interruzioni, i battibecchi, le scazzottate e le risse sedate a stento. Leggendolo, quello che colpisce oltre alle parole sono i suoni, fedelmente trascritti in corsivo, che sembrano voler uscire fuori dalla carta". Contano i dicta, ma anche i facta. Contano cioè ovviamente le parole pronunciate, ma anche la "fisionomia", ciò che accade nel teatro e viene ridotto e costretto tra parentesi, eppure esiste e ha riflessi su ciò che viene detto.
Rendendo di nuovo disponibile il racconto di quel congresso "parola per parola, rumore per rumore" (come sottolinea Regoli), ciascuno può farsi l'idea di come si sia svolto il congresso, senza mediazioni rispetto ai contenuti. "I documenti originali - scrive nel suo testo introduttivo Nicola Zingaretti - sono la colonna portante di ogni memoria storica perché, come in questo caso, ci restituiscono nudi e diretti, gli estremi di un dibattito allo stesso tempo appassionato e lacerante". Non si offrono chiavi di lettura o "lenti" che possano deformare o predeterminare l'interpretazione: chi scorre il volume ha tra le mani il documento, che mette per iscritto ciò che chi era presente ha potuto ascoltare e cerca di rendere ciò che si poteva vedere. Pagina dopo pagina ci si addentra in un evento (e in un documento) "storicamente così importante e politicamente così drammatico", come nota Valdo Spini nel suo intervento. L'aggettivo "drammatico" non è fuori luogo: etimologicamente la parola richiama i concetti di "azione" e "rappresentazione", adatte a un evento di grande portata, per di più svoltosi in un teatro; si avverte però anche il dolore dello strappo, della separazione tra due parti di qualcosa che era unito. La scissione ha fatto nascere una storia nuova (quella del Partito comunista d'Italia, poi Pci) e ha dato nuovo senso a una storia che c'era già (quella socialista). In questo senso appaiono più chiare le parole di Spini, che definiscono la scissione e la nascita del Pci "una sorta di parto, doloroso come tutti i parti, ma un dolore necessario". Anche se proprio la scissione e la successiva prevalenza organizzativa del Pci sulle compagini socialiste, sempre per Spini, rappresentano "la radice storica delle debolezze della sinistra di oggi" e la ragione principale dell'assenza di un governo a maggioranza socialista nell'Italia repubblicana.

Tra le pagine 

Non siamo quasi più abituati alla parola "partito" e al concetto stesso; eppure queste pagine ricche di parole, storie personali e collettive, idee e convinzioni sanno dare il senso di un partito come "parte" organizzata, solida e allo stesso tempo in grado di abbandonarsi alle tensioni e anche di spaccarsi, proprio perché è "drammaticamente" viva. Dall'inizio c'è la consapevolezza che la storia - non si sapeva ancora in quale forma - sarebbe passata da Livorno: "È stato scritto che il presente Congresso sarà detto storico per le conseguenze gravi che usciranno dalle sue decisioni - disse il presidente provvisorio Giovanni Bacci all'apertura dell'assise -. C'é, infatti, in quest'ora qualche cosa di solenne, perché nell’animo di ciascuno di noi già sentiamo enorme la responsabilità del voto che stiamo per dare. È appunto la solennità del momento che inspira alle nostre discussioni la reciproca tolleranza delle opposte dimostrazioni e affermazioni, la serenità dei discorsi nella estrema e pur necessaria vivacità dei dibattiti. Questo Partito, cosciente e organico anche nella varietà delle sue manifestazioni vitali, glorioso per i suoi atteggiamenti morali, per il suo coraggio civile, il coraggio più difficile contro i pregiudizi di ogni specie, dal patriottico al giuridico, all’economico, al religioso [...] può guardare al suo passato con un intimo e profondo senso di soddisfazione e di legittimo orgoglio. (Applausi). Potranno dividerci le tendenze; le valutazioni delle situazioni politiche e sociali del momento, potranno trovarci discordi; ma questa gloria del Partito socialista italiano fu e resterà patrimonio comune (applausi)". La decisione era davvero grave: si trattava di decidere se espellere la componente riformista dal partito, come chiedeva la Terza Internazionale, oppure continuare sulla strada battuta sino ad allora. 
Chi cerca un punto di svolta tra gli interventi, spesso lo trova nel discorso di Filippo Turati, il primo pronunciato nel pomeriggio del 19 gennaio. Rivendicò per i riformisti il "diritto di cittadinanza nel socialismo, che è il comunismo, che non è per noi il socialismo comunista e il comunismo socialista, perché in queste denominazioni artificiose, ibride, evidentemente l’aggettivo scredita il sostantivo, e il sostantivo rinnega l’aggettivo"; confermò che il fine del socialismo anche per loro era "la conquista del potere da parte del proletariato costituito in Partito indipendente di classe", ma il punto di distanza rispetto ai comunisti "puri" era su come arrivarci. "La violenza, [...] che alcuni accettano in toto e vogliono organizzare e preparare [...], che altri accettano a mezzo, guadagnando tutte le conseguenze dannose e nessun utile che la violenza potrebbe per avventura, nella mente di quegli altri, contenere in sé, noi, come programma, la rifiutiamo. La dittatura del proletariato, per noi, o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non senso, perché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana". Pure la "persecuzione dell'eresia", la "costrizione del pensiero all'interno del partito" era una forma di violenza da rinnegare. Occorreva invece puntare sull'azione, "che non è l’illusione, che non è il miracolo, la rivoluzione in un giorno o in un anno, ma è la abilitazione progressiva, faticosa, misera, per successive graduali conquiste, obiettive e soggettive, nelle cose e nelle teste, della maturità proletaria a subentrare nella gestione sociale: sindacati, cooperative, potere comunale, parlamentare, cultura, tutta la gamma, questo è il socialismo che diviene! E non diviene per altre vie: ogni scorciatoia non fa che allungare la strada; la via lunga è la sola breve". Quella linea, candidata all'espulsione dal partito, finì per convincere la maggioranza dei delegati.
Anche quando non si sapeva ancora come sarebbe finita la conta, era però apparso chiaro che il partito non sarebbe rimasto unito. Lo dimostrò l'intervento, poco dopo quello di Turati, di Nicola Bombacci, deputato del Regno e già segretario del partito dall'11 ottobre 1919 al 25 febbraio 1920. Stando alle sue parole, la separazione della strada dei riformisti da quella degli altri era inevitabile: "a vicenda - disse - sappiamo tutti il perché noi siamo chiamati a dividerci dall’altra parte del Partito, ed anche coloro che ci stimano sanno che è in noi altrettanto forte che in loro il dolore che sentiamo nel compiere questo dovere. Tanto per coloro che se ne vanno come per coloro che restano". Restava però convinto Bombacci che il paradigma dell'azione graduale non fosse realistico, essendoci invece "ad intermittenza [...] dei periodi rivoluzionari vulcanici che, come il terremoto, portano alla necessità di una tattica nel campo dell'azione che non è identica alla continuità evolutiva della storia". Invocò la disciplina internazionale - quella dunque del Comintern che chiedeva l'estromissione dei riformisti - e la personale coerenza di chi stava per fare una scelta diversa, volendo portare la rivoluzione a livello internazionale: "Noi siamo e saremo minoranza, usciamo oggi dal Partito, ma non usciamo dal socialismo. Se il socialismo è comunismo, come diceva Filippo Turati, noi da oggi entriamo nella realtà comunista. Noi da oggi ci incamminiamo sulla via che ci è tracciata dalla storia, non con dei discorsi grandi o piccoli, ma coi fatti, che non si cancellano né col discorso di Turati né di nessun altro. Noi andiamo avanti, dietro la luce, sia pure piena di terrore, sia pure piena di dolori, della rivoluzione russa. È il pensiero di Marx che inizia la sua realtà, è il comunismo che esce dagli scaffali dell’accademia e comincia a realizzarsi, è il proletariato che inizia la sua vita nuova!".
Scorrendo le pagine del libro, si nota che nei resoconti congressuali di fatto non appaiono le donne: come approfondisce nel suo saggio iniziale Graziella Falconi (che si premura di ricostruire in chiave più ampia la questione femminile nel movimento operaio, socialista e comunista), nessuna donna intervenne nell'assise, eppure c'erano e ci sarebbero state anche tra le fondatrici del Partito comunista d'Italia e nei suoi primi passi (pur se non nei primi organi eletti dopo la fondazione e pur non avendo mai all'interno del Pci il ruolo e il rilievo che avrebbero meritato). 
Completano il volume due testi extracongressuali, scelti da Andrea Catena e inseriti come a voler completare le riflessioni politiche su quello snodo storico, ricorrendo anche allo sguardo di chi comunista non era. Ciò vale in particolare per alcune pagine scritte da Piero Gobetti, liberale ma attento osservatore di ciò che si muoveva in altre aree di pensiero: nell'estratto dall'articolo Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale (pubblicato il 26 marzo 1922 sulla Rivoluzione liberale) emerge il ritratto di una realtà - considerata da Gobetti come nucleo del Partito comunista - che "si presenta con un'organicità di pensiero e una serietà di intenzioni che suscitano meraviglia e interesse anche in un avversario". Un movimento che aveva apportato una concezione realmente rivoluzionaria e i cui aderenti "avevano superato la fraseologia demagogica e si proponevano problemi concreti" soprattutto attraverso l'esperienza dei Consigli di fabbrica. Scelte coerenti, che non avrebbero potuto restare a lungo nell'alveo del Partito socialista per come questo era diventato nel corso del tempo. 
L'altro scritto è proprio del protagonista di quella realtà torinese, Antonio Gramsci (tratto dall'Ordine nuovo del 15 marzo 1924): nel testo riportato nel libro intendeva caratterizzare il Pci come il partito dell'ottimismo sulla possibilità della rivoluzione, da praticare in ogni circostanza, a differenza del pessimismo gli ex compagni di viaggio socialisti e perfino alcuni gruppi comunisti. "Che differenza esisterebbe - scrisse - tra noi e il Partito socialista [...] se anche noi sapessimo lavorare e fossimo attivamente ottimisti solo nei periodi di vacche grasse, quando la situazione è propizia, quando le masse lavoratrici si muovono spontaneamente per impulso irresistibile e i partiti proletari possono accomodarsi nella brillante posizione della mosca cocchiera? Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, se anche noi, [...] avendo sia pure un maggior senso di responsabilità e dimostrando di averlo con la preoccupazione fattiva di apprestare forze organizzative e materiali idonee per parare ogni evenienza, ci abbandonassimo al fatalismo, ci cullassimo nella dolce illusione che gli avvenimenti non possono che svolgersi secondo una determinata linea di sviluppo, quella da noi prevista, nella quale troveranno infallibilmente il sistema di dighe e canali da noi predisposto, incanalandosi e prendendo forma e potenza storica in esso?" 

"La nostra insegna, la Falce ed il Martello"

Chi volesse approfondire il contenuto del volume potrebbe trovare spunti interessanti nella prima presentazione che ne è stata fatta sulla Rete il 14 gennaio, organizzata dalla Fondazione Circolo Rosselli e dalla Fondazione Gramsci Emilia-Romagna (il filmato verrà riportato alla fine dell'articolo). Qui si preferisce dare conto dell'unico riferimento esplicito al simbolo del partito socialista che emerge dal resoconto stenografico del congresso: l'intervento che qui interessa venne fatto da Pietro Abbo, contadino e sindacalista. Nato a 
Lucinasco in provincia di Imperia, Abbo fu deputato del Regno d'Italia per i socialisti dal 1° dicembre 1919 al 25 gennaio 1924; dopo essersi impegnato nella Resistenza, ha continuato la sua militanza politica, ma questa volta proprio nel Partito comunista italiano. 
Elezioni del 1921, simboli dei socialisti e dei comunisti
Abbo, che partecipava al congresso come delegato, parlò nella sessione pomeridiana del 18 gennaio, quando formalmente la scissione non si era ancora compiuta ma ormai era davvero alle porte, questione appunto di un paio di giorni. Il deputato non sembrava volere alcuna scissione: teneva a qualificarsi semplicemente come "socialista" e avrebbe sperato che tutti, socialisti e comunisti, restassero sotto la stessa bandiera. Proprio come tutti i delegati erano passati sotto quel simbolo con falce e martello collocato all'ingresso della platea, negli occhi di ciascun oratore al congresso: quel simbolo dei Soviet che era stato scelto l'11 ottobre 1919 e per quanto se ne sa sarebbe stato proposto dal neosegretario Bombacci. Paradossalmente, alle elezioni politiche tenutesi il 15 maggio 1921 (dunque quattro mesi dopo il congresso), tanto i socialisti quanto i comunisti avrebbero mantenuto la falce e il martello, ma l'immagine con il sole nascente sul fondo e una corona di spighe di grano sarebbe rimasta al Pcd'I (sempre su impulso di Bombacci, che peraltro dopo aver fondato il partito comunista dagli anni '30 si sarebbe avvicinato sempre di più al fascismo, fino alla fucilazione a Dongo il 28 aprile 1945), mentre i socialisti sotto gli arnesi avrebbero collocato un libro aperto e sfogliato. La parola dunque ad Abbo, anche se solo per alcuni stralci del suo intervento.

Sono venuto al Partito venti anni fa, bambino, e leggevo limitatamente, come potevo, nelle ore di riposo, dopo terminata la giornata lavorativa, ed al modesto lume di una candela; leggevo il «Manifesto dei comunisti», leggevo gli opuscoli che i nostri compagni ci davano a pascolo, il pane del pensiero. Ebbene io avevo sempre creduto, sinceramente, che «socialismo» volesse dire «socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, abolizione di tutte le classi per una classe sola, sovrana, padrona di tutte le ricchezze che la madre natura ha messo a disposizione di tutto l'uman genere, senza privilegi né politici né economici. Ebbene, compagni, cosa è oggi il comunismo? Ha esso qualche cosa di diverso o vuole raggiungere invece lo stesso fine; non ha esso la stessa aspirazione, cioè la «socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio»? Cioè la terra ai contadini perché la lavorino per conto dell’umanità? Cioè le ferrovie ai ferrovieri perché le gestiscano per conto della collettività? [...] Compagni, [...] se noi pensiamo che quella che deve essere la nostra forza maggiore nella battaglia di domani, se noi, ripeto, ci richiamiamo un po' alle condizioni ambientali, intellettuali del proletariato agreste, io vi dico che esso nulla capirà delle nostre discussioni e delle nostre definizioni. Ed io mi domando compagni che invece di fare così tanta teoria, che si perde inutilmente e può servire solo agli studiosi, perché non pensiamo che il nostro verbalismo potrebbe essere molto meglio utilizzato nella Sardegna e nella Sicilia, nella Bassa Italia... (Applausi, approvazioni). [...] Non è però così facile andare in mezzo ai contadini ad insegnare le teorie nostre, compagni! Teniamo sempre presente che non è il solo proletariato industriale che bisogna organizzare, ma bisogna organizzare il proletariato agreste, perché non dimenticate che quando la borghesia si è accorta che il proletariato industriale non accettava più le menzogne della stampa borghese e venduta, essa ha fatto nascere il Partito popolare. (Approvazioni). 
[...] I compagni sono impazienti di sapere per quale frazione io parlo. Siete impazienti di questo? Sono socialista e mi basta. (Applausi, rumori, urla, fischi. Il baccano dura qualche minuto, sedato a stento dalla presidenza e dalle guardie rosse). Per me non vi sono frazioni. Per me sono tutti compagni e socialisti. Per me sono tutti rivoluzionari. (Applausi, interruzioni). Perché quando cosi non fosse siamo noi che dobbiamo giudicare. Siamo noi che dobbiamo cacciare chi non sente la dignità di sé stesso, chi non sente più coscientemente di dovere dividere l’idea e la responsabilità. Ah! no, io non sono per il Partito grosso che tutti accetta, che tutti iscrive, io sono per la milizia sincera, cosciente, volenterosa che nessun mezzo ripudia pure di conquistare il fine. E ripeto quello che poc'anzi dicevo. Non applaudite, non esaltate gli Uomini: essi nulla contano. Per l'ultimo gregario come per il grande maestro vale il detto «chi l’ha rotta la paga», «chi non è più con noi è contro di noi». (Approvazioni)
La disciplina è la più grande arma, l’arma per spezzare il dominio della borghesia. [...] Io ricordo quante volte fu sulle labbra nostre un verso di quell’inno scritto da Filippo Turati: «Un esercito diviso la vittoria non corrà». Ma diviso non si intende solo negli uomini, diviso nella coscienza, nella volontà. È una volontà che ci deve animare e una è la disciplina, per tutti, dal più grande al più piccolo, al più modesto. [...] E quando voi comunisti dite a noi socialisti che non possiamo essere con voi perché abbiamo nel nostro seno una frazione di uomini che ne hanno commesse di tutti i colori, francamente, permettetemi di dire che io non so atteggiarmi a giudice di quanti delitti abbiano commesso, ma io vi dico che se questi uomini che voi volete chiamar imputati, si sono resi colpevoli di lesa disciplina, ricordatevi che la misura deve essere unica per tutte le frazioni e per tutti gli uomini, ricordatevi che sulla stessa bilancia deve essere pesato l'uomo che parla francese e l’uomo che parla italiano, quello che parla il tedesco e quello che parla l'inglese. (Approvazioni). Per noi che siamo internazionalisti non vi sono lingue, per noi c’è l’umanità dolorante che vuole essere redenta e agli uomini diciamo: Non ci importa della tua patria, sii un buon soldato dell'Internazionale, accettane i postulati e la disciplina. (Approvazioni)
VOCE: Oh! oh! (Rumori). 
MAIEROTTI: Vieni con noi 
ABBO: Quando, compagni, io sento l’invito, anche se viene dal sesso gentile: «Vieni con noi», rispondo: Ah! no, perché quando mi dite di venire con voi, vuol dire che volete dividere il proletariato. (Approvazioni, applausi). [...] Senza tante discussioni, chi ha volontà di operare, di fare lealmente... (Interruzioni, rumori, violento incidente nella sala fra comunisti e socialisti). Ed allora, compagni, se la meta è una sola, una sola deve essere la disciplina... (Nuovo incidente, interruzioni violente da parte dei comunisti). A chi vuole venire, le nostre porte sono aperte. (Bravo!). L’insegna nostra è la Falce ed il Martello. (Rumori, interruzioni dei comunisti). [...] Io ho lo sguardo diretto ad un cartello che giganteggia sopra la porta di entrata. Sovra quel cartello è disegnata la nostra insegna, la Falce ed il Martello: chi è passato là sotto ha accettato quello stemma. (Interruzioni, rumori). Io pensavo dieci anni fa, e lo penso anche adesso, che la via che ci conduce alla comune meta non è la via più facile di questo mondo, ma di ciò non mi sono mai spaventato, come nessuno di voi, perché raggiungeremo ad ogni costo la meta con tutti i mezzi. Ed io pensavo allora e penso oggi che non è tanto difficile la conquista del potere politico quanto è il mantenimento del potere politico ed economico insieme. Occorre quindi che noi prepariamo in antecedenza gli organismi che debbono darci la possibilità di mantenere le posizioni conquistate. (Rumori). Ed appunto per questo, a fianco dell'organismo politico, è necessario vi sia anche l’organismo economico. Un tempo nel nostro Partito fu derisa la cooperazione, un tempo si è dispregiato il movimento cooperativo poiché si diceva che esso era un movimento riformistico. Si è dileggiato, si è insultato, si è deriso perché lo chiamavano il pannicello caldo che allontanava dalla meta rivoluzionaria. Ma mi pare che ora, almeno per quel che si legge, Lenin e la Terza Internazionale hanno avuto parole di elogio per quel movimento cooperativo che si è creato nel Reggiano, ed hanno detto che quell’opera, sia pure riformista, è utile non solo, ma necessaria per avere in mano il mezzo per potere fare la distribuzione all’indomani della conquista del potere politico. (Applausi). [...] E io penso, compagni, che non tutti possiamo essere oratori o scrittori, che nell’umano genere c’è colui che ha attitudine per le matematiche, colui che ha attitudine per la geografia, colui che ha attitudine per la lingua... [...] Se, come dicevo, le attitudini umane sono diverse, anche i bisogni sono diversi. Gl’individui che non parleranno le lingue, che non faranno le conferenze, faranno le cooperative. Nel nostro Partito tutte le attività sono non soltanto utili, ma necessarie. (Bravo!). Ed allora, se tutte le attività sono utili, perché escludere qualcuno, quando questo, modesto o grande che sia, viene e dice che è con noi per la grande rivoluzione sociale e non esclude nessun mezzo e vuole coscientemente con noi arrivare? 
E qui, compagni, non dimenticate la responsabilità che tutti abbiamo in questo storico Congresso. Oh! non è vana accademia questa: non dimenticate che domani, anche quelli che non sanno leggere ma che sanno intuire, potranno ad ognuno di noi fare presenti in tutte le ore le grandi responsabilità che ci siamo assunte coi nostri atti in questo Congresso. (Approvazioni). [...] Ed allora occorre che facciamo un po' di esame di coscienza, non quell'esame di coscienza che fanno le beghine andando a ricevere il premio della loro credenza. Si, siamo credenti anche noi, ma in che cosa, compagni, crediamo? Forse ad una divinità ipotetica? No, crediamo ad una cosa immortale, che ci manca, che avevamo come nostro patrimonio e che la divisione fra le classi ci ha strappato, che l'usurpazione della borghesia ci ha tolto, dando il godimento solo ad una piccolissima classe. [...]. 
Nella storia romana si dice che erano le vestali che avevano il compito di tenere acceso eternamente il fuoco sacro della Dea Vesta.. Ebbene, quel fuoco, se sono scomparse le vestali colla scomparsa della mitologia, quel fuoco arde ancora sull’ara rivoluzionaria, formato dal sacrificio di tutti i nostri morti, dalle ossa dei morti, non solo dei morti in guerra, ma anche di quelli morti nella guerra borghese di tutti i giorni. Quel fuoco che arde sull’ara formata da tutti i nostri morti e da tutte le lacrime e da tutto il sangue, non si estinguerà mai. [...] Accostiamoci a quell’ara perché essa vuole dire la fiamma che arde in noi, che è tutto il nostro patrimonio, che è tutta la nostra vita, che è tutta noi stessi. Portiamo su quella fiamma tutte le nostre passioni, i nostri odii, tutta la nostra libertà, tutta la nostra persona. Ricordiamoci di una cosa: che ritornando dall'ara, noi saremo puri e, socialisti e comunisti, credenti davvero ad una cosa sola: alla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, senza esclusione di mezzi e di colpi, contro la borghesia di tutti i colori, internazionale! Permettete che io chiuda con un augurio: Viva il Comunismo, Viva la Rivoluzione sociale! (Applausi calorosi su tutti i banchi del Congresso).

 

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