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martedì 8 aprile 2025

Decreto elezioni 2025: le novità (anche sui simboli) e le polemiche

AGGIORNAMENTO DEL 9 APRILE - Ieri sera i quattro capigruppo di maggioranza al Senato hanno presentato un disegno di legge (a prima firma di Lucio Malan, dunque Fratelli d'Italia figura come primo proponente, come nell'emendamento) intitolato Modifica agli articoli 72 e 73 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, in materia di elezione al primo turno del sindaco nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti (il testo, nelle more dell'assegnazione alla commissione competente, non è ancora disponibile, ma quasi certamente sarà identico a quello dell'emendamento). Contestualmente, gli stessi capigruppo hanno emesso un comunicato in cui hanno annunciato il ritiro dell'emendamento discusso, confermando però la ferma intenzione di raggiungere il risultato facendo approvare il nuovo disegno di legge (disgiungendo dunque l'elezione del sindaco al primo turno con il 40% per i comuni superiori dal ritorno all'elezione diretta degli organi provinciali, com'era stato invece nei ddl Romeo e Ronzulli).
"Il centrodestra su questa scelta è unito e determinato - si legge nel comunicato -. Abbiamo posto il problema in varie sedi. Ci è indifferente lo strumento con cui raggiungere questo traguardo e siamo ben consapevoli che questa scelta non può riguardare il turno elettorale, peraltro non molto esteso, del 25 maggio prossimo. [...] Al ballottaggio partecipa un numero limitato di elettori e spesso chi vince prende meno voti del candidato che si classifica secondo al primo turno. C'è, quindi, un problema di legittimazione democratica e di partecipazione. Proprio per evitare polemiche ed essendo lontano il successivo turno elettorale amministrativo daremo priorità ai disegni di legge che abbiamo già depositato con le firme di tutto il centrodestra e per i quali solleciteremo una rapidissima approvazione [...] perché l'obiettivo che perseguiamo è giusto, ampiamente condiviso, coerente con le norme già in vigore in Friuli Venezia Giulia, in Sicilia, in Toscana e con quanto dissero nel passato esponenti del Pd in Parlamento. Andiamo avanti auspicando un confronto, ma non accettando veti". Per correttezza occorre dire che il riferimento alla Toscana non è del tutto centrato, visto che la legge cui si fa riferimento riguarda le elezioni regionali, per le quali è previsto sì un ballottaggio qualora nessun candidato alla presidenza della giunta regionale arrivi al 40%, ma si tratta di un unicum, perché nelle altre regioni - guardando a quelle a statuto ordinario - semplicemente chi ottiene più voti vince, senza alcuna soglia minima e senza la previsione di un secondo turno.
Anche la terza sortita sulla "norma antiballottaggi", dunque, è finita con un ritiro e l'annuncio di un nuovo percorso parlamentare "normale". Un percorso che meriterà di essere seguito, al pari degli altri; è legittimo sollecitare una rapidissima approvazione, ma viene da chiedersi come mai non sia avvenuto lo stesso con altre norme in ambito elettorale locale che stanno egualmente a cuore almeno a un partito della maggioranza (in particolare, quelle per i piccoli comuni contenute nel ddl Pirovano-Augussori, fermo da un anno nel guado tra le commissioni e l'aula della Camera).
 
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A quanto pare, anche in politica, non c'è due senza tre. Anche se, in questo caso, sarebbe stato forse meglio di no. Anche se, a onor del vero, i proponenti nella loro intenzione stanno semplicemente cercando di mantenere quello che avevano promesso circa un anno fa. Ci si riferisce, in particolare, al nuovo tentativo di introdurre una "norma antiballottaggi" relativa ai comuni sopra i 15mila abitanti (per cui la vittoria al primo turno scatterebbe con il superamento della soglia del 40%, come in Sicilia), grazie a un emendamento al disegno di legge di conversione del "decreto elezioni 2025" (decreto-legge n. 27/2025), presentato nei giorni scorsi al Senato e il cui esame continuerà a partire da stasera in commissione Affari costituzionali.
Per chi segue questo sito decreti-legge simili non sono certo una novità: per quanto risultino per lo meno inopportuni interventi sulle norme elettorali nei pressi della data del voto, almeno dal 2020 si è di fatto instaurata una prassi, in base alla quale in prossimità delle elezioni amministrative (e non solo, a volte) si sceglie di dettare norme organizzative o relative al procedimento elettorale, non di rado pensate e valide una tantum. È già accaduto, tuttavia, che si tentasse di cogliere l'occasione per introdurre norme certo non connotate da alcun grado di necessità, urgenza e straordinarietà: lo scorso anno, durante la conversione del "decreto elezioni 2024", la sortita è riuscita in buona parte per la strozzatura delle esenzioni dalla raccolta firme per le elezioni europee, mentre non è riuscita per la "norma antiballottaggi".
Tanto il decreto quanto gli emendamenti al disegno di legge di conversione contengono vari punti che meritano di essere approfonditi, tra l'altro anche in materia di deposito di contrassegni elettorali (anche se, per il momento, solo in prospettiva). Vale dunque la pena passare in rassegna il testo del provvediumento d'urgenza, così come delle proposte di modifica che sono state presentate e di cui - peraltro - non si è ancora valutata l'ammissibilità da parte del presidente della Commissione, Alberto Balboni (Fdi).
 

Il decreto-legge 

Il voto in due giorni, aperto anche ai "fuori sede"

Il testo del decreto-legge 19 marzo 2025, n. 27 ("Disposizioni urgenti per le consultazioni elettorali e referendarie dell'anno 2025"), interviene dall'inizio con alcune misure anti-astensionismo, a partire dall'estensione del voto alla giornata del lunedì (dalle ore 7 alle ore 15, oltre che dalle 7 alle 23 di domenica), così com'è avvenuto nel 2020 e nel 2021 (soprattutto per evitare criticità legate alla pandemia), nonché nel 2023 e nel 2024 (secondo quanto suggerito nel "Libro bianco sull'astensionismo", per dare più tempo alle elettrici e agli elettori per recarsi ai seggi): l'art. 1 precisa che il voto su un giorno e mezzo riguarderà "le consultazioni elettorali e referendarie relative all’anno 2025", dunque tutte quelle previste in quest'anno (salvo quelle già indette, ma com'è noto in Friuli-Venezia Giulia le consultazioni sono comunque previste per il 13 e il 14 aprile sulla base di fonti locali). Questo tempo di voto più lungo porta, per le votazioni diverse dai referendum, all'aumento dei compensi per i membri dell'ufficio elettorale di sezione pari al 15% (a meno che non ci siano altre votazioni in contemporanea, per cui le regole saranno diverse).
Va sempre nella direzione di ridurre il rischio di astensionismo, oltre che di contenere le spese, la previsione di un unico rito "per gli adempimenti comuni e per il funzionamento degli uffici elettorali di sezione" qualora uno dei due turni di votazione per le elezioni amministrative - anche fissate con provvedimento regionale - coincida con la data dei 5 referendum abrogativi, in calendario per l'8 e il 9 giugno prossimi: in particolare, si dovrebbero applicare le disposizioni dettate per i referendum, mentre per la composizione dei seggi (in particolare per il numero di scrutatori) si guarda alle norme sulle elezioni amministrative. Sembra opportuno segnalare, in ogni caso, che un decreto del ministro dell'interno del 24 marzo scorso ha fissato per le elezioni amministrative il 25 e il 26 maggio per il primo turno e l'8 e il 9 giugno per l'eventuale ballottaggio: questo significa che l'eventuale election day e la convivenza con i referendum riguarderà solo i comuni interessati dal ballottaggio (si prende dunque atto di un nuovo, ennesimo caso di voluta non combinazione tra referendum e primo turno delle elezioni amministrative, che non crea alcun "effetto trascinamento" sull'affluenza alle urne per i quesiti referendari e di certo non facilita il raggiungimento del quorum); discorso diverso vale - ad esempio - per le amministrative in Sardegna, il cui primo turno è stato fissato a livello regionale proprio per l'8 e il 9 giugno. In caso di abbinamento, saranno scrutinate - nel pomeriggio del 9 giugno - prima le schede del referendum, poi le altre schede.
Il "decreto elezioni 2025" rinnova poi l'esperimento del "voto fuori sede" tentato lo scorso anno per le elezioni europee, pur applicandolo solo ai referendum (evidentemente perché la scheda è uguale in tutto il territorio nazionale e non sorgono problemi di bollettini da spostare da una parte all'altra dell'Italia) e solo per quest'anno (dunque una tantum e non in modo strutturale). La norma - prevista all'art. 2 - apre la possibilità del voto in una sezione di una provincia diversa da quella di residenza e iscrizione (mentre nel 2024 si richiedeva una diversa regione) non solo per chi è domiciliato altrove per almeno tre mesi per ragioni di studio, ma anche - ed è una novità - per motivi di lavoro o cure mediche, purché la richiesta sia effettuata al comune di domicilio temporaneo almeno 35 giorni prima dell'8 giugno (la si può revocare per i 10 giorni successivi). Coloro che hanno vista accolta la propria domanda votano in seggi speciali (ove il comune di temporaneo domicilio, presumibilmente grande, abbia almeno 800 richieste) o in un seggio ordinario definito dal comune stesso, nelle stesse forme previste per gli altri elettori: s'intende salvaguardare così i principi di personalità e di segretezza del voto ex art. 48, comma 2 Cost. Spetta al sindaco la nomina del presidente di seggio (preferibilmente, ma non per forza, tra le persone iscritte all'albo degli idonei tenuto dalla Corte d'appello) e degli altri membri dell'ufficio elettorale di sezione, anche tra coloro che hanno chiesto di votare fuori sede. Nemmeno in questo caso è prevista la possibilità del voto elettronico (presidiato o meno), pure auspicata da più parti. 

Gli investimenti tecnologici e la "rivoluzione simbolica" annunciata

Ciò non significa che nel "decreto elezioni 2025" non ci siano disposizioni relative al miglioramento delle procedure elettorali sul piano informatico: si occupa di ciò l'art. 3, che mette a disposizione 800mila euro per il 2025, il 2026 e il 2027 (per un totale di 2,4 milioni di euro) per il "potenziamento delle prestazioni dei servizi erogati dal Sistema Informativo Elettorale (SIEL) del Ministero dell'interno e del relativo innalzamento dei livelli di resilienza da intromissioni malevole esterne" e precede l'istituzione di una posizione dirigenziale ad hoc. Per capire meglio cosa si intenda, occorre fare riferimento alla relazione al disegno di legge, predisposta dal governo: lì si legge che gli stanziamenti previsti consentiranno "di assicurare una continuità operativa del Sistema informativo elettorale", ma serviranno anche "ad acquisire server dedicati alla procedura elettorale, a realizzare un sistema alternativo e parallelo, rispetto all’attuale situazione, di trasmissione dei dati elettorali dalla periferia al centro" (cioè dalle prefetture e dai comuni al Viminale) con la "creazione di hub territoriali di raccolta e conservazione dei dati che possano soccorrere il sistema centrale in caso di blocchi, anomalie e malfunzionamenti". Di certo questi progetti d'innovazione vanno visti con favore, soprattutto perché dimostrano che il governo per primo non crede - a differenza di troppe persone - che i servizi elettorali del Ministero dell'interno siano di relativa importanza, magari limitata alle occasioni di voto di livello nazionale. 
Tra i progetti allo studio, però, ce n'è uno che in questo sito non può proprio essere trascurato né sottovalutato: sempre nella relazione si legge che "Si intende, inoltre, realizzare un applicativo che possa consentire la digitalizzazione del procedimento di deposito dei contrassegni presso il Ministero dell'interno in occasione delle elezioni politiche ed europee". Questo potrebbe tradursi tanto in una procedura mista (prevedendo il deposito digitale dei contrassegni in aggiunta o alternativa a quello tradizionale, magari anche solo per l'eventuale sostituzione del fregio o per l'integrazione dei documenti), quanto in una procedura solo digitale: in un'ipotesi o nell'altra, si prospetta una profonda rivoluzione delle scene di deposito dei simboli che, dal 1946 in avanti, hanno caratterizzato al Viminale il primo passaggio visibile del procedimento elettorale preparatorio
Niente più fila o, per lo meno, ridotta a chi ha scarsa dimestichezza con le tecnologie o a chi tiene alla tradizione? Una bacheca - solo digitale o anche fisica? - che si riempie di simboli non portati fisicamente nelle stanze ministeriali? Le domande, al momento, non possono avere una risposta, ma occorre ammettere che il deposito dei contrassegni potrebbe essere nel giro di qualche anno un rito democratico e mediatico destinato al tramonto (del resto gli investimenti fino al 2027 sembrano voler preparare la "rivoluzione simbolica" proprio in vista delle prossime elezioni politiche, ove si tenessero a scadenza naturale). Ovviamente chi - come chi scrive e, si immagina, chi frequenta queste pagine - è affezionato a quelle scene dentro e fuori dal Viminale non può che accogliere quest'annuncio con un po' di dispiacere, per un momento imperdibile della "macchina elettorale" che si prepara a venire meno; è però giusto comprendere anche le ragioni e le esigenze di chi fa proposte diverse, per cui si cercheranno occasioni per approfondire.

Firme digitali per le liste solo per gli impedimenti fisici

Si può fare rientrare nell'evoluzione digitale anche l'art. 4 del decreto-legge, con cui il governo ha scelto di recepire in forma più ampia - ma nemmeno troppo - il contenuto della sentenza n. 3/2025 della Corte costituzionale, con cui le norme che regolano le elezioni regionali (in particolare la legge n. 108/1968) "nella parte in cui non prevedono per l'elettore, che non sia in grado di apporre una firma autografa per certificata impossibilità derivante da un grave impedimento fisico o perché si trova nelle condizioni per esercitare il voto domiciliare, la possibilità di sottoscrivere un documento informatico con firma elettronica qualificata, cui è associato un riferimento temporale validamente opponibile ai terzi". La sentenza, originata da un procedimento legale iniziato con ricorso da Carlo Gentili (col sostegno del gruppo politico Referendum e Democrazia) con riferimento all'impossibilità di sottoscrivere una lista per le elezioni regionali del Lazio nel 2023 per chi non era in grado di provvedere con firma autografa, regolarmente autenticata. La situazione era creata dalla totale e nota assenza di disposizioni che consentissero di firmare digitalmente una lista di candidati, per qualunque tipo di elezione a qualunque elettore: ciò - che ha portato alla ricusazione delle liste di Referendum e Democrazia alle elezioni politiche del 2022 - è stato frutto anche della bocciatura in commissione Affari costituzionali della Camera di un emendamento a prima firma di Riccardo Magi con cui alla fine del 2021 si era proposto di ammettere la sottoscrizione delle candidature per le elezioni politiche in forma digitale. Ora si precisa che la sottoscrizione può avvenire "con le modalità previste dall'articolo 20, comma 1-bis, del codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82" se l'elettore non può "apporre una firma autografa, per certificata impossibilità derivante da un grave impedimento fisico" (il che vale, secondo l'art. 55, comma 2 del testo unico per l'elezione della Camera, per le persone cieche, amputate delle mani, affette da paralisi o altro impedimento di analoga gravità) oppure è nelle condizioni per esercitare il voto domiciliare: quel documento  (cioè il file Pdf con la lista dei candidati firmata digitalmente dall'elettore con impedimento fisico) "è consegnato su supporto digitale agli uffici preposti alla ricezione delle candidature corredato da certificazione medica attestante il grave impedimento fisico o la condizione per esercitare il voto domiciliare".
Il governo - certamente anche sulla base di un confronto con il personale del Ministero dell'interno - ha riconosciuto che quella decisione della Corte, pur riferita alle elezioni regionali, "non può che ricadere anche al di fuori di tale specifico ambito", visto che "ogni aggravio procedimentale irragionevole e non proporzionato configura una discriminazione a danno dei soggetti più deboli in qualsivoglia consultazione elettorale", violando il principio personalista (art. 2 Cost.) e quello di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.), nonché i diritti politici delle persone vulnerabili (artt. 48 e 49 Cost.)". Si tratta senza dubbio di una considerazione apprezzabile, così come è positivo che la norma valga già ora per tutte le elezioni in modo stabile; una riflessione, però, è d'obbligo. Se per il giudice delle leggi non è più ammissibile che "l'ordinamento frapponga ostacoli procedimentali (nella specie, l’obbligo di dichiarazione in forma verbale, alla presenza di due testimoni, innanzi ad un
notaio o al segretario comunale o ad altro impiegato all'uopo delegato dal Sindaco) a coloro che non siano in grado di sottoscrivere per fisico impedimento una lista di candidati alle elezioni" (così si legge nella relazione), una volta aperta la via alla sottoscrizione digitale, è ancora ammissibile che sia ancora escluso dalla firma digitale - e sia costretto a firmare i moduli cartacei nel suo collegio - il cittadino elettore temporaneamente domiciliato lontano dal suo luogo di residenza (e che ora, sia pure in virtù di norme una tantum, potrebbe essere in grado di votare)? È di nuovo la relazione a precisare che continua a valere il "principio generale di esclusione delle norme del codice dell'amministrazione digitale alle consultazioni elettorali": la materia elettorale è certamente delicata e "speciale" rispetto alle altre che si fanno rientrare nella categoria "amministrazione digitale", ma sembra piuttosto anacronistico non pensare a un uso più ampio della tecnologia per sottoscrivere le liste. È comunque probabile che intanto si sia fatto un primo passo, per lasciare - in un momento successivo - la materia dell'estensione della sottoscrizione digitale delle candidature al dibattito parlamentare. Della proposta di legge presentata da Riccardo Magi all'inizio della legislatura, nel frattempo, non è ancora iniziato l'esame...

Gli emendamenti al testo

Dopo aver considerato il contenuto del decreto-legge, vale la pena passare in rassegna gli emendamenti presentati in commissione Affari costituzionali del Senato.
Come sempre, tra le proposte di modifica si trova di tutto: per esempio, due emendamenti Pd, che hanno come primo firmatario il costituzionalista Andrea Giorgis (seguito da Dario Parrini, attento osservatore delle questioni elettorali dal punto di vista politologico), mira a fare svolgere i referendum "in concomitanza con il primo turno delle elezioni amministrative", per aumentare il risparmio e trainare di più la partecipazione ai quesiti referendari (ma, considerato che esiste già un decreto del ministro dell'interno, non sembra facile trovare in aula i numeri per l'approvazione). Un testo affine è stato presentato dal MoVimento 5 Stelle, a prima firma di Alessandra Maiorino, mentre un altro di Alleanza Verdi e Sinistra (il cui primo presentatore è Peppe De Cristofaro, seguito da Ilaria Cucchi) accomunerebbe tutte le elezioni amministrative - anche indette a livello regionale - imponendo la coincidenza col primo turno nella disposizione che stabilisce il rito unico dettato per i referendum.
Altre proposte di modifica intendono innalzare il limite di età per i componenti degli uffici elettorali di sezione da 70 a 75 anni (emendamento proposto da Marco Lisei di Fratelli d'Italia: il testo, che ha buone probabilità di essere approvato, potrebbe servire a fare fronte alla carenza di presidenti di seggio o di scrutatori verificatasi in alcuni comuni nelle ultime consultazioni a seguito dell'invecchiamento degli iscritti e del mancato ricambio), a escludere dall'ufficio di presidente, scrutatore o segretario di seggio "i dipendenti delle aziende esercenti servizi di trasporto pubblico regionale e locale" (proposta leghista, a prima firma di Daisy Pirovano, che ritiene evidentemente quelle figure non terze, specie per le elezioni amministrative) o ad aumentare gli incrementi dei compensi ai componenti dei seggi, invece che del 15% (del 50% per Avs, che individua la fonte delle risorse nel "Fondo per far fronte ad esigenze indifferibili che si manifestano nel corso della gestione" previsto dalla legge di bilancio 2015; del 20% per il M5S, che però non indica la copertura). C'è pure un emendamento volto a spostare le elezioni provinciali (di secondo grado) previste quest'anno - anche se già indette - a dopo le date previste per i ballottaggi (con proroga degli organi in carica) qualora il comune capoluogo sia commissariato e vada al voto sempre quest'anno: la proposta, formulata dai senatori pugliesi di Fdi Ignazio Zullo e Domenica Spinelli, sembrerebbe riguardare, salvo errore, la sola provincia di Taranto, il cui comune capoluogo è retto da una commissaria prefettizia dopo la caduta dell'amministrazione Melucci.
Due emendamenti (uno Pd a prima firma di Cecilia D'Elia, uno Avs a prima firma di De Cristofaro) chiedono di superare la tenuta e l'impiego delle liste elettorali "distinte per uomini e donne" - frutto dell'introduzione nel 1945 della lista elettorale femminile - eliminando le parole che prevedono questo e prevedendo una revisione straordonaria delle liste perché di fatto i due elenchi siano uniti, nonché di smettere di indicare anche il cognome del marito per le elettrici sposate o vedove. Per completezza occorre dire che la stessa proposta è oggetto di un disegno di legge presentato alla Camera a metà giugno dello scorso anno (e non ancora esaminato in commissione) da Forza Italia, il cui primo firmatario è Paolo Emilio Russo: per i proponenti la doppia lista e l'indicazione del cognome maritale non hanno "più ragione di persistere" e superarli serve anche a "semplificare e accelerare le procedure relative alla consegna della scheda elettorale all'elettore o all’elettrice che si rechino al seggio per l'espressione del voto"
Ulteriori emendamenti riguardano la "genuinità" del procedimento elettorale da vari punti di vista. Il M5S, per esempio, ha chiesto che i rappresentanti di lista (o, si deve immaginare visto il tenore della disposizione che forse sarebbe opportuno riformulare, di comitato promotore di referendum) che vogliano votare nel seggio in cui operano sottoscrivano apposita dichiarazione da consegnare al presidente dello stesso seggio e da trasmettere in seguito all'ufficio elettorale del comune nelle cui liste elettorali quelle persone sono iscritte, "al fine di garantire il corretto svolgimento delle operazioni elettorali e l'unicità dell'esercizio del voto": ciò per evitare - come ha spiegato in commissione la senatrice Felicia Gaudiano - che la persona voti nel seggio di esercizio e - magari chiedendo il rilascio di una nuova tessera elettorale dichiarando di avere smarrito quella vecchia - anche in quello di iscrizione. 
Il senatore Lisei di Fdi e il forzista Dario Damiani hanno invece riproposto, con due emendamenti distinti, l'inserimento una tantum della norma "salvaelezioni" per i comuni entro i 15mila abitanti in cui si sia presentata una sola lista: l'emendamento - anche in questo caso con probabilità di essere accolto - riprende la soluzione adottata dal 2021 ogni anno con decreto (o nella legge di conversione del decreto) per evitare la nullità delle elezioni qualora abbia votato almeno il 40% degli aventi diritto, scomputando dal totale gli iscritti all'Anagrafe degli italiani residenti all'estero (Aire) che non abbiano effettivamente votato. Com'è ben noto a coloro che seguono questo sito, la stessa disposizione fa parte di un disegno di legge approvato dal Senato all'inizio di marzo dello scorso anno (proposto dalla leghista Pirovano dopo la proposta nella legislatura preceente da parte del compagno di partito Luigi Augussori) e licenziato dalla commissione Affari costituzionali della Camera il 28 febbraio 2024: quel testo contiene anche una disposizione che ripristina un numero minimo di firme da raccogliere nei comuni più piccoli, per scoraggiare la presentazione di liste esterne. Lo scorso anno si era pensato che l'approvazione da parte di Montecitorio potesse arrivare in tempi rapidi per ottenere l'entrata in vigore prima del turno di elezioni amministrative; di fatto questo non è avvenuto e non si arriverebbe al risultato nemmeno questa volta. Ci sarebbe, in effetti, il tempo di completare l'iter in vista delle amministrative del 2026 - considerando anche che il Ministero dell'interno ha sostanzialmente prospettato il rinnovo in quell'anno delle amministrazioni frutto delle elezioni autunnali del 2020 - ma c'è un'incognita: se finora la norma "salvaelezioni" era stata sempre introdotta con disposizioni valide solo per l'anno in corso (il che avrebbe conservato l'attualità della proposta Pirovano-Augussori senza affossarla), questa volta gli emendamenti Lisei e Damiani - a meno di una riformulazione - introdurrebbero la norma in modo stabile, rendendo a quel punto necessario intervenire sul testo per ora fermo alla Camera e preventivare un ritorno al Senato (peraltro per una norma - quella riferita alle elezioni "sotto i mille" - condivisibile, ma non di sicura e immediata comprensione per parte degli eletti). Difficile dire, dunque, se il percorso del "ddl Pirovano-Augussori" potrà continuare e come.
Quanto al voto dei "fuori sede", c'è chi propone di ridurre il periodo di temporaneo domicilio altrove a due mesi (emendamento di Italia viva, primo firmatario Ivan Scalfarotto), di escludere che presidenti e scrutatori dei seggi speciali per i "fuori sede" siano scelti al di fuori degli elenchi ufficiali (M5S, che non vuole tra l'altro che si attinga ai votanti fuori sede per gli scrutatori), di chiedere al Viminale di monitorare l'applicazione della norma e relazionare alle Camere circa l'impatto sulla partecipazione elettorale e sui costi (Pd, a firma Parrini-Giorgis) o di rendere stabile la possibilità di voto nel luogo di domicilio anche per i referendum costituzionali (M5S, a prima firma di Gisella Naturale).
In materia di digitalizzazione elettorale, si segnalano gli emendamenti del M5S volti a istituire un fondo per sperimentare l'espressione del voto "per il tramite di un certificato elettorale digitale, interoperabile con l'Anagrafe nazionale della popolazione residente (ANPR)" - al fine dunque di superare tanto l'attuale tessera elettorale personale, quanto probabilmente il sistema di voto cartaceo (visto che si chiede di garantire in ogni caso "la personalità, la libertà e la segretezza del voto") - e di sostituire la disposizione che aggiunge per il Viminale un dirigente ad hoc sulla digitalizzazione con la previsione di un incremento per il 2025 di un milione di euro per il Fondo per il voto elettronico (in commissione si è fatto anche riferimento al caso del seggio revocato alla 5 Stelle Elisa Scutellà a motivo del riconteggio e della "rivalutazione" delle schede bianche e nulle del collegio uninominale di Cosenza); sempre il M5S ha chiesto di istituire un Fondo per il voto anticipato e presidiato, "per introdurre in via sperimentale, per le consultazioni elettorali politiche, regionali, amministrative ed europee nonché per i referendum [...] modalità di espressione del voto che ne consentano l'anticipo e il presidio presso sedi, diverse dagli istituti scolastici, appositamente abilitate o autorizzate per il tramite di un certificato elettorale digitale [...] di una apposita applicazione informatica" (senza dunque prevedere spazi per il voto da casa, probabilmente per il timore che questo non garantisca la libertà e segretezza e, forse, nemmeno la personalità del voto). Rientra nella stessa categoria un emendamento di Noi moderati (firmato da Giusy Versace e Mariastella Gelmini) che propone di permettere il voto con "supporti tecnologici pienamente accessibili che garantiscano la segretezza e l'esercizio personale del voto", attivabili a richiesta della persona interessata "entro i 30 giorni antecedenti il giorno della consultazione elettorale" (e fornito dai presidenti di seggio) alle elettrici e agli elettori con disabilità visiva o con un residuo visivo corretto non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi".

Altri emendamenti (incluso quello che vuole evitare il ballottaggio)

Altri emendamenti non sembrano avere diretti effetti sulle elezioni di quest'anno. Lo si può dire, per esempio, per l'emendamento di Daniela Ternullo (Forza Italia) che ha chiesto di eliminare l'incompatibilità tra l'incarico di europarlamentare e di assessore regionale, per quello del collega di partito Dario Damiani che vuole mantenere incompatibile con l'ufficio di parlamentare europeo quello di assessore regionale, ma solo "qualora compatibile con la carica di consigliere". Un altro emendamento, condiviso da tutti i gruppi di maggioranza (Lucio Malan - primo firmatario - e Lisei per Fdi; Massimiliano Romeo e Pirovano per la Lega; Maurizio Gasparri, Damiani e Ternullo per Forza Italia; Michaela Biancofiore di Coraggio Italia per il gruppo di Noi moderati), che mira a intervenire sul decreto-legge n. 138/2011, che ridusse parecchie spese anche sul funzionamento degli organi istituzionali, per mantenere "il numero dei consiglieri regionali precedentemente previsto" ove la popolazione regionale "si riduca o aumenti entro il limite del 5 per cento rispetto alle soglie indicate nel primo periodo" e per consentire l'aumento di due assessori per le Regioni "con popolazione fino a un milione di abitanti e [...] fino a due milioni di abitanti" (passando dunque da 4 a 6 per le prime e da 6 a 8 per le seconde).
Da Forza Italia (a firma di Ternullo, Damiani e Claudio Lotito) proviene anche la proposta di sospendere l'efficacia esecutiva di una sentenza su un ricorso in materia di eleggibilità, incompatibilità o decadenza per le elezioni comunali, provinciali e regionali non solo in pendenza d'appello, ma "sino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio". Fratelli d'Italia (tramite i senatori Domenico Matera e Spinelli) mira invece a un intervento sulla "legge Delrio" sull'elezione delle cariche della Provincia, modifica che varrebbe solo per gli organi eletti dopo la conversione del decreto-legge: alla decadenza del presidente per cessazione dalla carica di sindaco (qualità necessaria per la candidatura e l'elezione) si aggiungono le ipotesi di una mozione di sfiducia votata per appello nominale dalla maggioranza assoluta dei componenti del consiglio o dello scioglimento del consiglio provinciale (fattispecie aggiunte seguite al compimento di atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, per gravi motivi di ordine pubblico, per il funzionamento compromesso per impedimento permanente, rimozione, decadenza, dimissioni irrevocabili, decesso del presidente della provincia o bilancio non approvato nei termini); le elezioni del nuovo consiglio e del presidente si svolgerebbero entro 90 giorni dallo scioglimento anticipato.
L'emendamento che ha ottenuto più attenzione, tuttavia, è il numero 4.0.4, che mira ad attribuire la vittoria al primo turno, nei comuni superiori, al candidato sindaco più votato che abbia ottenuto almeno il 40% dei voti (anche qualora due persone superino quella percentuale), dovendosi andare al ballottaggio solo ove nessun aspirante primo cittadino abbia raggiunto il 40%; alla lista o alla coalizione collegata al candidato eletto al primo turno si attribuisce il 60% dei seggi, a meno che un'altra lista o coalizione abbia superato il 50% dei voti validi (in quel caso si riterrebbe troppo irragionevole alterare in quel modo i dati elettorali). Si tratta, come si è anticipato, di una soluzione pressoché identica a quella prevista da una legge regionale in Sicilia. Una soluzione che era stata inserita in due disegni di legge (uno della Lega, uno di Forza Italia, tuttora giacenti in commissione Affari costituzionali) volti a rendere nuovamente a elezione diretta gli organi delle province, di cui per due volte - in commissione e in aula - si era tentato l'inserimento nel "ddl Pirovano-Augussori" a marzo del 2023 e per il quale (come si è anticipato sopra) si era cercata la sortita nell'iter di conversione del "decreto elezioni 2024", salvo poi ritirare l'emendamento e convertirlo in ordine del giorno.
I nomi dei proponenti, soprattutto in questo caso, hanno particolare importanza: per Fdi hanno firmato il capogruppo Lucio Malan e Marco Lisei, uno dei senatori che più sono intervenuti sulle questioni elettorali (lui aveva cofirmato l'emendamento in aula del 2023 ed era sempre suo anche l'emendamento "strozzaesenzioni"); per la Lega le firme sono quelle del capogruppo Massimiliano Romeo (presentatore di uno dei due ddl che contemplavano quella proposta, già nel 2023 aveva segnalato di voler arrivare all'elezione del sindaco con il 40% e lo scorso anno, pur avendo annunciato il ritiro dell'emendamento "incriminato", si era detto indisponibile a farlo di nuovo in seguito) e di Daisy Pirovano (che, dopo aver lamentato il fatto che buona parte del dibattito in aula sul suo ddl relativo ai piccoli comuni fosse stata occupata dalle questioni legate a quelli superiori, ha comunque firmato - con i colleghi di partito Nicoletta Spelgatti e Paolo Tosato - l'emendamento al "decreto elezioni 2024" poi ritirato e trasformato in ordine del giorno); per Forza Italia ha firmato il capogruppo Maurizio Gasparri (che era intervenuto nel 2024 a sostegno dell'emendamento Romeo, ricordando quello precedente forzista del 2023, che allora si era detto contrario "a interventi improvvisi che non siano oggetto di un confronto", ma aveva assicurato che il tema sarebbe tornato "e la modifica sarà approvata" perché a suo dire vincere al ballottaggio con meno voti di quelli del secondo al primo turno a causa degli astenuti era "un'alterazione della democrazia", non meno di quella che si sarebbe prodotta con la vittoria al primo turno col 40% o con il terzo mandato) e Daniela Ternullo (siciliana, che aveva cofirmato - insieme a Ronzulli, Mario Occhiuto e Adriano Paroli - il primo emendamento del 2023, proposto in commissione Affari costituzionali); non è mancato nemmeno il sostegno del gruppo Civici d'Italia - Noi moderati, grazie alla capogruppo Michaela Biancofiore.
Se nel 2023 in aula l'emendamento (in origine di Forza Italia) era stato presentato da Fdi, Lega e Fi, questa volta si registra tra i proponenti la presenza dei quattro capigruppo di maggioranza: non si tratta affatto di un dettaglio, visto che significa che i partiti del centrodestra - spesso in passato vittima del meccanismo del ballottaggi (a partire da uno dei proponenti dell'emendamento del 2023, Paroli, che nel 2013 fu sconfitto al secondo turno a Brescia anche grazie all'alleanza del centrosinistra con la lista dell'attuale sindaca), sebbene poi quel meccanismo abbia a turno penalizzato anche altre parti politiche - questa volta sono realmente intenzionati a portare a casa il risultato. 
I media hanno registrato la reazione dura delle opposizioni (specie della segretaria del Pd Elly Schlein e del senatore Dario Parrini), una valutazione prudente - ma non pregiudizialmente contraria, tutt'altro - sulla proponibilità da parte del presidente di commissione Balboni (che si era riservato il tempo del fine settimana), un invito alla riflessione da parte del presidente del Senato Ignazio La Russa circa "seri rischi" dell'improponibilità dell'emendamento a norma del regolamento senatoriale, e hanno anche ipotizzato che la posizione del presidente del Senato fosse stata frutto di "un confronto riservato tra La Russa e Mattarella, la cui contrarietà all'emendamento era nota" (come ha scritto Marcello Sorgi sulla Stampa sabato). Si ricorda - e lo ricorda anche oggi Paolo Armaroli sulla Ragione - che l'art. 72, comma 4 Cost. esige che "La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera" sia sempre adottata, tra l'altro, per i disegni di legge in materia elettorale (oltre che costituzionale): in teoria, visto il contenuto dell'articolo, significa che non è possibile adottare i procedimenti di esame di commissione "in sede deliberante" o "redigente" (quelli in cui il ruolo dell'assemblea è limitato o addirittura assente). Da più parti si considera però non normale anche la procedura "accelerata" dell'iter di conversione di un decreto-legge, visto che l'art. 15 della legge n. 400/1988 (quella che detta l'ordinamento della Presidenza del Consiglio) non consente al governo di presentare decreti-legge proprio nelle materie ex art. 72, comma 4 Cost.; è pur vero che di decreti-legge in materia elettorale se ne sono visti parecchi, incluso quello attualmente in conversione, ma non si ravviserebbe reale omogeneità rispetto all'oggetto del decreto in esame e, soprattutto, non ci sarebbe la minima traccia di "casi straordinari di necessità e di urgenza". A meno di voler considerare il voto in vari comuni superiori (comunque previsto anche in questa tornata), e allora si dovrebbe ricordare che secondo il Codice di buona condotta elettorale della commissione di Venezia non si modificano le regole del gioco a ridosso delle elezioni.
Tra poche ore si saprà l'esito della valutazione da parte del presidente Balboni e il seguito dell'iter di conversione del "decreto elezioni 2025". Un percorso, in ogni caso, che merita di essere attentamente monitorato, da vari punti di vista.

martedì 20 agosto 2019

"Avevano la croce nel simbolo": La Russa e la storia che torna

Alle volte basta un flash, una frase, un pezzo di discorso a mettere in moto la macchina del tempo, a domandarsi "ma questo dove l'avevo già sentito?". Allo scopo può servire, in una giornata di tensione politica come questa, anche una scheggia del discorso parlamentare di un carichissimo Ignazio La Russa, intervenuto per conto di Fratelli d'Italia nel dibattito seguito alle comunicazioni all'assemblea del Senato (nel frattempo spopolatasi) del presidente del Consiglio predimissionario Giuseppe Conte.
Nelle parole non tenere dedicate allo stesso Conte ("Caro Presidente, ti sei accorto con molti mesi di ritardo che chi ti stava seduto a fianco era incapace, irresponsabile, vacanziero, irrispettoso del Parlamento, nemico della Costituzione, irriguardoso verso i Ministri, irriguardoso verso il popolo, disertore della verità sul Russiagate, autoritario - non hai detto fascista, te lo sei risparmiato, ma quasi - usurpatore dei simboli religiosi, opportunista elettorale e animato da tornaconto personale. Raramente ho sentito, in un intervento solo, tante accuse a una sola persona, con cui fino al giorno prima hai condiviso il Governo. E allora te ne potevi accorgere, amico mio"), un passaggio del discorso di La Russa ha fatto improvvisamente emergere un riferimento di natura simbolica. E non solo perché dedicato ai simboli religiosi, ma perché questi erano riferiti anche a quelli politici ed elettorali. Lo vediamo di seguito, così come riportato dal resoconto in corso di seduta:
[...] mi ha meravigliato veramente, signor Presidente del Consiglio - chiedo la sua attenzione - la critica ai segni religiosi. Guardi che tra quelli che hanno applaudito quel passaggio, ce n'è qualcuno che è stato eletto con partiti che avevano la croce nel simbolo elettorale. [...]. La croce nel simbolo elettorale! E nessuno si è mai scandalizzato, forse giustamente. Ce n'è qualcuno lì. Allora, non si può portare al collo, ma si può mettere nella scheda elettorale! Siamo al ridicolo e siamo, in una parola sola, alle comiche finali. Mi auguro che siano veramente finali e che torni la voce agli italiani, agli elettori, che sapranno fare giustizia di questa sconcia recita.
La quasi totalità dei commentatori e degli ascoltatori in quella manciata di secondi si sarà concentrata e magari divisa sull'osservazione accusatoria mossa da Ignazio La Russa, magari dividendosi anche tra chi ricordava solo il simbolo di Noi con l'Italia - Udc (con lo scudo crociato) e chi, avendo buona vista, potrebbe aver visto una croce anche nella "pulce" di L'Italia è popolare inserita all'interno del contrassegno di Civica popolare. Chi appartiene alla categoria incurabile dei #drogatidipolitica e, per giunta, è appassionato di resoconti parlamentari, non può tuttavia non farsi richiamare alla mente, come in un flash travolgente, un episodio di 63 anni prima. Precisamente datato 2 marzo 1956. L'aula non era la stessa, perché era il vicino emiciclo di Montecitorio; alla presidenza c'era Giovanni Leone, il governo in carica era guidato da Antonio Segni (al suo primo esecutivo). In quei giorni si stava discutendo l'approvazione della nuova legge elettorale, che serviva ad abbandonare del tutto la "legge truffa". 
Nel corso di quella discussione - che sarebbe terminata con l'approvazione della legge n. 493/1956, poi trasfusa nel d.P.R. n. 361/1957, vale a dire il Testo unico per l'elezione della Camera, il testo che tuttora viene modificato a ogni riforma elettorale - spuntò un emendamento alla norma che regolava il deposito e le condizioni di ammissibilità dei contrassegni elettorali. La proposta di modifica, presentata dal Dc Angelo Raffaele Jervolino (padre di Rosa), puntava a introdurre in coda all'articolo il seguente comma "Non è neppure ammessa, da parte di altri partiti o gruppi politici, la presentazione di contrassegni riproducenti immagini o soggetti religiosi". Fu lo stesso Jervolino a spiegare la sua proposta, pur ritenendola "di una chiarezza solare": "Il mio emendamento mira ad una duplice finalità: a) evitare che si possa fare (mi spiace se dovrò usare la brutta parola) speculazione di soggetti religiosi o di immagini sacre in occasione delle elezioni; b) evitare, nello stesso tempo, che si possa carpire la buona fede dei votanti ai quali si lascia credere che un partito è sotto la guida di un determinato santo, della Vergine o addirittura del crocifisso. Il che, in definitiva, si risolve in una vera profanazione di cose sacre".
Il relatore di maggioranza, Michele Marotta (Dc), nel dichiararsi d'accordo sull'approvazione, suggerì di eliminare dal testo l'inciso "da parte di altri partiti o gruppi politici", precisando che "non esistono attualmente dei partiti che già usano dei simboli religiosi e vogliono mantenerne l’esclusiva". Ma - ecco l'episodio che giustifica il flash e il collegamento - in quel discorso si inserì con sole quattro parole - "Voi avete la croce" - Giorgio Almirante, segretario del Movimento sociale italiano e in quel momento anche relatore di minoranza della riforma elettorale. Non è dato sapere se per Almirante quella croce non dovesse stare proprio nel contrassegno democristiano o se ce l'avesse con una sorta di incoerenza dei diccì (un po' come sembra aver fatto La Russa oggi in aula), che con una mano volevano vietare (altri) simboli religiosi, mentre con l'altra tenevano ben fermo il loro simbolo. Simbolo che però, come volle subito precisare Marotta, "non è la croce, ma è lo scudo crociato. Se per esempio i monarchici si presentassero con il simbolo dello scudo sabaudo, anche essi userebbero la croce, ma non come simbolo religioso".
Per cercare di dare una spiegazione più approfondita, intervenne il presentatore dell'emendamento, da una parte per chiarire che in effetti lo scudo crociato non aveva natura religiosa, ma visto che qualcuno poteva non pensarla così, si metteva comunque un freno a nuovi usi, preservando peraltro l'affidamento degli elettori che fino a quel momento avevano votato l'emblema della Dc. Dall'altra parte, chiarì il senso della sua proposta: "I partiti che esclusivamente nella loro propaganda, ai fini delle elezioni, vogliono presentare contrassegni riproducenti simboli religiosi non possono farlo. Se un qualsiasi partito, come ha fatto la democrazia cristiana, vuole scegliere come simbolo abituale di propaganda un simbolo religioso qualsiasi, lo faccia abitualmente ma non esclusivamente ai fini delle elezioni: questo non deve essere consentito". Cosa che, probabilmente, si riferiva ai non pochi simboli che, alle elezioni per la Costituente e prima delle due elezioni della Repubblica, contenevano croci (senza scudo) o altri simboli chiaramente religiosi.
Alla fine l'emendamento venne approvato e quella disposizione è ancora al suo posto dopo tutti questi anni. Questa è stata applicata, nel corso del tempo, anche con qualche esagerazione: passi per le bocciature del Sacro Cuore o per le croci latine dal chiaro significato religioso; sono molto meno comprensibili le bocciature delle croci greche usate come segni sanitari o quelle di chiese o statue che in realtà sono vissute come monumenti in una realtà territoriale. Nessuno, nel corso del tempo, ha più messo in discussione il simbolo della Democrazia cristiana e di chi ha impiegato in seguito lo scudo crociato (fatta eccezione, ovviamente per le lotte intestine tra chi se lo contendeva); in fondo non lo ha contestato nemmeno Ignazio La Russa ("nessuno si è mai scandalizzato, forse giustamente"), negando solo che la croce potesse avere cittadinanza sulle schede e non al collo o nelle mani dei membri del governo. Del resto, dieci anni fa, quando ci si domandò se tenere i crocifissi alle pareti o levarli in ossequio alla sentenza Lautsi della Corte Edu, fu netto nel dire la sua in diretta televisiva: "Non lo leveremo il crocifisso, possono morire. Il crocifisso resterà in tutte le aule della scuola, in tutte le aule pubbliche". Decisamente, non ha cambiato idea.

mercoledì 7 ottobre 2015

Fondazione An: cosa dice davvero la mozione approvata domenica?

Spente le luci in sala, passata la foga del momento e dei titoli di giornale, gli appassionati di politica dovrebbero chiederselo: ma cos'ha deciso davvero domenica l'assemblea della Fondazione Alleanza nazionale? Basta dire che ha vinto Giorgia Meloni, che è stata sconfitta la "mozione dei risentimenti" (come Fabio Rampelli ha battezzato quella dei "quarantenni") assieme a Gianni Alemanno e Gianfranco Fini e che - come ha scritto Il Fatto Quotidiano - "il patrimonio resta blindato"? E, soprattutto, è corretto tutto ciò? Per capirlo è bene confrontare il testo della mozione annunciata da Ignazio La Russa nelle vesti di "pontiere", per cercare di mettere d'accordo tutti, e quello della mozione "Fondazione per l'Italia" approvata dall'assemblea: non disponendo di documenti ufficiali, tocca fare riferimento ai testi pubblicati dal Secolo d'Italia, organo della fondazione stessa.
Scorrendo con attenzione le due versioni, le differenze emergono e pesano. Alcune sono di portata minore, anche se significative, come nel "Considerato che", sull'intervento politico diretto della fondazione (le premesse sulla presenza tangibile ma insoddisfacente di Fratelli d'Italia in Parlamento e sulla necessità di unire la destra sono identiche). Rispetto al "testo La Russa" originale, è sparito l'inciso per cui la trasformazione della fondazione in partito appare giuridicamente impossibile "a prescindere dal giudizio di merito che ciascuno può dare" e, quanto al parere chiesto dalla fondazione ai civilisti Cataudella e Doria, non si ritiene più che abbia sancito "la difficoltà (rectius: l'impossibilità) di avere certezze di liceità" su percorsi alternativi alla trasformazione, ma si parla solo di "impossibilità": queste differenze marcano le distanze dal progetto dei "quarantenni", ma non hanno effetti pratici (anche se, come ho già scritto, la conclusione sul parere non è condivisibile in pieno). 
Diverso è il discorso, invece, per una modifica solo in apparenza più piccola: il primo testo di La Russa metteva in dubbio la liceità tra l'altro del "finanziamento ultra legem di un'associazione finalizzata alla rinascita di un partito), mentre nella mozione approvata le due parole sono sparite. La nuova versione esclude in ogni modo che la Fondazione An possa finanziare un partito in via di (ri)costituzione anche entro i limiti di legge, sbarrando la strada pure per il futuro a simili progetti; un atteggiamento così rigido, però, cozza contro il reale contenuto del parere, non è prescritto dalla legge e, soprattutto, sembra poco coerente con il finale della mozione, di cui si parlerà a tempo debito.
Le differenze maggiori, però, devono ancora venire: le parti successive della mozione sono state private dei punti più significativi di mediazione che aveva introdotto La Russa nel suo testo. Innanzitutto, è stata decisamente annacquata la parte relativa alla "democrazia interna" alla Fondazione Alleanza nazionale: in particolare, il consiglio di amministrazione ha avuto "l'indirizzo di affrontare l'opportunità" di modificare lo statuto per introdurre, tra l'altro, l'elettività dei membri dello stesso cda da parte dell'assemblea e l'incompatibilità tra la carica di consigliere di amministrazione e quelle di parlamentare, consigliere regionale (o comunale/metropolitano di capoluogo di regione). In pratica, a scegliere se sarà opportuno democratizzare la formazione e l'operato del cda - cosa che, attualmente, porrebbe il problema dell'incompatibilità per Alemanno, Gasparri, La Russa, Martinelli, Matteoli e la Meloni - sarà il cda stesso, con un cortocircuito di competenze non indifferente.

domenica 4 ottobre 2015

Fondazione An: Fratelli d'Italia vince (ma non stravince)

Alla fine l'accordo che qualcuno aveva sperato non c'è stato: arrivare alla conta sulle mozioni presentate all'assemblea dei partecipanti di diritto e degli aderenti alla Fondazione Alleanza nazionale è stato inevitabile. Chi vuole a tutti i costi identificare vincitori e vinti, dirà che ha vinto la linea di Fratelli d'Italia e ha perso quella dei "quarantenni" e di chi, come Gianni Alemanno, li aveva sostenuti con maggiore forza. In realtà, a ben guardare, la situazione è un po' più complessa e merita una lettura più attenta.
Il primo numero da analizzare è stato poco considerato dagli interpreti. Al voto di oggi hanno partecipato 490 delegati su quasi 600 aventi diritto, cioè coloro che erano regolarmente iscritti o che hanno pagato le quote dovute anche in extremis; a dicembre del 2013, alla prima assemblea, i votanti erano stati 306, gli aventi diritto 693 (chi aveva impugnato l'esito del voto che aveva concesso il simbolo di An a Fratelli d'Italia ne aveva contati 1206, ma forse molti non avevano regolarizzato l'adesione). La partecipazione è stata più consistente stavolta, anche perché da mesi si preparava l'evento (lo hanno fatto soprattutto i sostenitori della "mozione dei quarantenni") e su certe presenze si è contato; pesa però il calo di aderenti alla fondazione, a quattro anni dall'avvio, come se nell'ultimo biennio circa cento persone si fossero scordate di rinnovare l'iscrizione o si fossero allontanate di proposito. Segno poco incoraggiante, a ben guardare.
Arrivando ai numeri più "caldi", quelli delle mozioni, il testo a prima firma di Ignazio La Russa (Fondazione per l'Italia), volto a riaprire un "congresso costituente" di Fratelli d'Italia che apra a chi si riconosce ancora nei valori di An e a rinnovare la concessione del simbolo, ha ottenuto 266 voti, quando ne bastavano 246; la mozione "dei quarantenni" di voti ne ha ricevuti 222. Di documenti ce n'era un terzo, firmato da Nicola Bono e Vincenzo Zaccheo (gli stessi che già nel 2013 avevano chiesto maggiore democrazia interna per la fondazione), con cui si chiedeva di "congelare" il simbolo "perché non diventi motivo di lotta", come ha spiegato Bono, che peraltro sposava la tesi dei "quarantenni": quella mozione ha ricevuto 212 voti. La mozione con primi firmatari Altero Matteoli e Maurizio Gasparri, invece, è stata ritirata, con lo stesso Gasparri che - pur ribadendo che "non si può fare della fondazione un partito" e che "chi vuole rifare un partito alleato con Monti, lo può fare. Non con i soldi della Fondazione" - ha invitato a votare la mozione La Russa.

sabato 3 ottobre 2015

Fondazione An: la mozione di La Russa pronta a vincere?

Alla fine l'appuntamento di destra per eccellenza è arrivato: oggi, all'hotel Midas di Roma, lo stesso in cui il 16 luglio 1976 Bettino Craxi fu incoronato segretario del Psi (e lo rimase per sedici anni e mezzo), inizia l'assemblea dei partecipanti di diritto e degli aderenti della Fondazione Alleanza nazionale. L'appuntamento da statuto è biennale e, dopo la prima turbolenta assemblea della fine del 2013, da tempo si attendeva la convocazione della seconda puntata: come si legge su questo sito da settimane, l'atmosfera se possibile è ancora più tesa ed "elettrica" rispetto a due anni fa.
Più che sulle attività svolte, ovviamente, il confronto-scontro riguarderà il futuro. Fino a ieri erano almeno due le mozioni presentate su cui l'organo della fondazione si sarebbe dovuto pronunciare (ricordando che il numero legale dei presenti perché l'assemblea si costituisca correttamente è un terzo degli aderenti; per l'approvazione delle mozioni occorrerà, in più, la maggioranza dei presenti). 
La prima, e più chiacchierata, era la cosiddetta "mozione dei quarantenni" (presentata a luglio da sei firmatari), volta a tentare di riunire politicamente la destra attraverso una nuova associazione, avallata dalla Fondazione An, per poi approdare al massimo in un anno a un partito unico che rappresenti davvero la destra italiana e che possa essere sostenuto, tra l'altro, dalle risorse residue di An di cui è titolare la fondazione stessa; il testo, cui hanno aderito tutte le associazioni riunite in ForumDestra (a partire da Prima l'Italia, movimento di Gianni Alemanno e di Francesco Biava, vicepresidente della fondazione), è stato da pochi giorni modificato, inserendo tra l'altro il riferimento al parere dei civilisti Antonino Cataudella e Giovanni Doria sulla fattibilità di un impegno politico diretto della fondazione e la richiesta di "democratizzare" la formazione del consiglio di amministrazione dell'ente (facendone eleggere in particolare l'elezione dei membri da parte della stessa assemblea) .
La seconda mozione, non meno discussa, porta le firme di Altero Matteoli, Maurizio Gasparri, Giuseppe Valentino, Marco Martinelli, Alfredo Mantica e Carmelo Porcu (tutti ex An, molti ora militano in Forza Italia, ma non tutti) ed avversa in pieno qualunque "cambio di destinazione d'uso" della Fondazione Alleanza nazionale rispetto alla sua forma giuridica e alla sua vocazione culturale, come pure l'idea che le sue risorse possano essere utilizzate oltre i limiti di legge per finanziare un partito, anche di nuova costituzione: in caso contrario, si prospetta la possibilità di "un infinito e doloroso contenzioso" che - c'è da giurarci - Gasparri e gli altri, direttamente o indirettamente, sarebbero pronti a iniziare.
Tra le due soluzioni appena viste, tuttavia, è probabile che se ne imponga - anche se, magari, di misura - una terza: si tratta della mozione annunciata da Ignazio La Russa nei giorni scorsi (anche grazie a un'intervista sul Tempo), come sorta di mediazione tra le due ipotesi appena viste e la realtà, che vede Fratelli d'Italia come unico partito di destra con rappresentanza parlamentare e cui l'assemblea della Fondazione An ha già riconosciuto per il 2014 (non senza polemiche) l'uso del simbolo, prorogato dal cda per parte di quest'anno. Il testo della mozione è certamente debitore del deliberato dell'assemblea nazionale di Fdi di domenica scorsa con cui si sono impegnati gli aderenti alla fondazione iscritti al partito a non sostenere progetti che possano apparire come "duplicazioni" del partito di tutta la destra che proprio Fdi sta cercando di incarnare.

sabato 1 novembre 2014

Fratelli d'Italia, la fiamma si spegne?

"La fiamma è spenta o è accesa?" Quando nel 1971 usciva La canzone del sole, passaggio semiobbligato per tutti i maltrattatori di chitarre alle prime armi, certamente Mogol e Lucio Battisti non avevano in testa lo scenario cui verrebbe voglia di applicare il verso citato in principio (e senza che questo scateni anche solo per un attimo la mente di chi si è affrettato a incasellare Battisti nella casella "di destra"). 
Il 2014 si sta chiudendo e, dunque, sta per scadere l'anno di autorizzazione all'uso del simbolo di Alleanza nazionale di cui "il soggetto politico costituente l'evoluzione di Fratelli d'Italia" ha potuto beneficiare: alla base c'era un'apposita deliberazione dell'assemblea dei partecipanti e degli aderenti della Fondazione An, approvata il 14 dicembre tra accese polemiche politiche, persino sui numeri necessari per arrivare a quella decisione. A calmare le acque non è bastata l'ordinanza (cautelare) che, a fine aprile, ha rigettato per la prima volta le richieste di chi voleva vedere annullate le decisioni di assemblea e consiglio di amministrazione: ora si aspetta una decisione nel merito, ma c'è chi pensa che, con il cambio di anno - e quindi dopo le regionali in Emilia Romagna e Calabria - la fiamma possa sparire dal contrassegno di Fratelli d'Italia.  
In effetti, la deliberazione del cda della fondazione - datata 8 gennaio 2014 - era stata chiara nel dire che "il simbolo e la denominazione di An restano, in ogni caso, di esclusiva pertinenza della Fondazione", contemplando la possibilità di revocare l'uso all'evoluzione di Fratelli d'Italia "ove se ne ravvisi un impiego oltre i limiti di tempo stabiliti nella presente delibera". E' pur vero che nuove riunioni dell'organo esecutivo potrebbero prorogare l'autorizzazione all'uso - lo prevede la stessa delibera - ma in teoria la mozione votata dall'assemblea parlava solo del 2014 (e, da statuto, l'organo è convocato solo ogni due anni, quindi dovrebbe deliberare di nuovo a fine 2015, al più). 
In più, è altrettanto vero che, probabilmente, dalla spendita del vecchio emblema che era stato di Almirante e del suo Msi, gli utenti si attendevano qualcosa di più. Certo, Fdi resta l'unico soggetto più o meno dichiaratamente "di destra" rappresentato in Parlamento (con i seggi ottenuti alla Camera come "migliori perdenti" nella coalizione berlusconiana e, peraltro, quando la fiamma non c'era ancora), ma di sicuro brucia l'approdo solo sfiorato a Bruxelles, con un 3,67% non trascurabile raccolto alle elezioni europee, ma di certo ben al di sotto del potenziale che era attribuito al simbolo della fiamma tricolore. 
Interpellato dal Tempo, il presidente della fondazione Franco Mugnai non si sbilancia troppo, pur senza negare l'esistenza di una "questione fiamma": «Al momento non ci siamo ancora posti il problema, ma di sicuro lo affronteremo a breve». E' vero anche che nel cda ci sono vari esponenti legati a Fratelli d'Italia, per cui ci sarebbe spazio per rinnovare l'autorizzazione, ma non è detto che vada così. 
Per più di qualcuno, il risultato sotto le aspettative di Fdi-An alle europee sarebbe la dimostrazione che probabilmente il fregio non è riuscito a raccogliere le varie anime della destra sparse qua e là. A chiedere lumi a Ignazio La Russa sugli effetti elettorali del simbolo - è sempre Il Tempo a farlo - ci si sente rispondere: «Gli effetti dipendono da tante cose, ma noi non ci siamo mai posti quel problema. La questione riguardava la nostra identità: volevamo far capire all’elettorato che Fratelli d’Italia guarda al futuro ma ha anche radici nel passato. Fosse per me, non rinuncerei al simbolo di An neanche nei prossimi anni». Toccherà anche a lui decidere, come componente del Cda, ma non solo: nell'organo, infatti, oltre a persone chiaramente legate a Fdi (compresa Giorgia Meloni) siedono ex An che hanno proseguito la loro strada in Forza Italia (su tutti Maurizio Gasparri e Altero Matteoli) o altrove. Morale, una nuova discussione sul simbolo non sarà comunque una passeggiata dall'esito scontato.

sabato 14 dicembre 2013

Il simbolo di An ai Fratelli d'Italia. E gli altri?

Alla fine si è andati oltre quello che era prevedibile. Era probabile che la Fondazione Alleanza nazionale non concedesse al Movimento per Alleanza nazionale di Francesco Storace, Adriana Poli Bortone e vari altri la possibilità di usare l'emblema tradizionale di An; la riunione di oggi dell'assemblea della fondazione, tuttavia, ha scelto di concedere l'emblema al partito Fratelli d'Italia, almeno per quanto riguarda le elezioni europee dell'anno prossimo. 
Ad avanzare la richiesta, una "mozione" presentata certamente da Giorgia Meloni e da Ignazio La Russa, ma sostenuta anche da Gianni Alemanno. 
La reazione di Storace, manco a dirlo, è durissima: nell'immediato affida un pensiero a Twitter ("290 voti sono un po' pochini per scippare un simbolo. E non servono nemmeno per andare in Europa. Dall'assemblea di 'An' roba senza vergogna"), poi butta giù qualche riga più ragionata per Il Giornale d'Italia. "Con il voto di nemmeno un terzo dei suoi aderenti - che sono un migliaio e 690 avevano rinnovato l'iscrizione - l'assemblea della fondazione An ha approvato una mozione sul simbolo. Per darlo a chi lo ha sbeffeggiato fino ad ora, al punto di averne chiesto l'utilizzo 'in toto o in parte'. Troppi partitini, avevamo proposto di formare uno solo, la pretesa è stata quella di annetterli ad un unico partitino, come se la nostra storia valesse nemmeno due punti percentuali".
Ora, posto che il simbolo di Fratelli d'Italia (azzurro nella parte superiore, preponderante, bianco in quella inferiore) è già somigliante nella struttura a quello di Alleanza nazionale, non è impossibile che la licenza di uso del contrassegno storico "in toto o in parte" si traduca alla fine nell'inserimento della sola fiamma tricolore del Msi, eventualmente anche sacrificando il nodo tricolore che appartiene pur sempre alla grafica di An (l'idea di una fiamma sotto a tre corde, in fondo, non è delle più felici in un simbolo politico); potrebbe anche darsi che venga inserito il simbolo intero all'interno del simbolo, magari nella parte bianca, anche se l'effetto grafico-cromatico sarebbe piuttosto infelice. Del tutto improbabile, invece, è che si sostituisca il simbolo tout court, o si riposizioni la dicitura "Alleanza nazionale" nella parte azzurra, lasciando inalterato il resto. La Russa, in ogni caso, spiega che "Per decidere su come usare in tutto o in parte il simbolo di Alleanza nazionale insieme a quello di Fratelli d'Italia e all'Officina per l'Italia immaginiamo un percorso di decisione con le primarie".

venerdì 18 gennaio 2013

Fratelli d'Italia. Ma quali?

Ha avuto meno risalto rispetto alle vicende legate ai contrassegni "clonati" di Movimento 5 Stelle e Rivoluzione civile (i primi presentatori degli emblemi quasi identici, Massimiliano Foti e Max Loda, hanno rinunciato a modificare il contrassegno, così come a opporsi alla sostituzione richiesta dal Viminale, per cui il loro emblema non potrebbe comunque finire sulle schede elettorali) e a quello di Monti (Samuele Monti, invece, ha scelto di rivolgersi all'Ufficio elettorale centrale nazionale), ma merita un po' di attenzione specifica la questione "Fratelli d'Italia". Fratelli-coltelli, verrebbe da dire, considerando che si tratta di una disfida tutta interna al centrodestra.
Ricapitolando le puntate: il 20 dicembre dell'ormai trascorso 2012 Giorgia Meloni, assieme a Guido Crosetto e Ignazio La Russa, fonda "Fratelli d'Italia - Centrodestra nazionale". Il simbolo, molto ma molto debitore del vecchio emblema di Alleanza nazionale, era stato sfornato qualche settimana prima dal Pdl ed ex An Massimo Corsaro (per i "Circoli del Centrodestra nazionale"), ma all'ultimo minuto la scritta è finita alla base del simbolo, per lasciare il posto più evidente al primo verso del Canto degli Italiani di Mameli. Vari elettori di sinistra non sono contenti (perchè qualcuno dovrebbe mettere le mani su un inno che è anche loro?) ma, nel centrodestra, c'è chi è ancora meno contento.
Si tratta degli aderenti al "Movimento politico Fratelli d'Italia", che ha in Maurizio Cammalleri il suo portavoce. Il movimento in questione è stato fondato nel 2007 a Marsala, ha operato a vario titolo in varie regioni d'Italia e negli anni ha partecipato a elezioni di vario livello, assumendo incarichi istituzionali di vario tipo. Presso l'Ufficio italiano brevetti e marchi è depositato il primo emblema del gruppo politico (che risale già al 2006, anche se il marchio è stato registrato con effetto successivo): all'interno del cerchio campeggia chiaramente l'effigie di Ettore Fieramosca a cavallo (che brandisce una spada con bandierina tricolore), mentre un profilo tricolore dell'Italia fa capolino sullo sfondo.
Il simbolo si è poi leggermente modificato, con una striscia tricolore alla base dell'immagine e la denominazione del partito in alto a destra, più visibile di prima. Poco dopo il contrassegno cambia ancora: alla base, un'ondina tricolore (a bande verticali) e, su fondo blu, il cavaliere appare in tutta la sua figura, tracciata in bianco senza più dettagli e identità.
Saputo che Crosetto e Meloni volevano costituire Fratelli d'Italia, il movimento li ha diffidati perché l'uso del nome cessasse immediatamente e, vedendo che nulla è cambiato, ha scelto di presentare comunque il proprio simbolo alle elezioni. FdI-Meloni è stato depositato per primo, FdI-Cammalleri diverse posizioni dopo: l'esame del Ministero dell'interno, dando quasi certamente atto a Crosetto e Meloni della notorietà conquistata nei giorni precedenti grazie ai media, ha ammesso quel contrassegno, invitando il movimento a cambiare il proprio. A nulla è valso che il movimento Fratelli d'Italia sia stato fondato prima, non è bastato che la grafica dei due emblemi sia del tutto diversa.  
"Nelle pubblicazioni rilasciate dal Ministero degli Interni - mi spiega ora Cammalleri - si legge che l'esame è rigoroso e si deve basare sulla storicità del simbolo, non importa se esso sia stato usato o meno in Parlamento. La notorietà di 'Fratelli d'Italia - Centrodestra nazionale' deriva da quella dei suoi fondatori, ma il loro movimento non ha storicità; noi non abbiamo notorietà, ma la storicità. Abbiamo partecipato ad elezioni comunali e provinciali eleggendo consiglieri, avendo assessorati ecc. In poche parole, abbiamo i requisiti di legge. Può la legge, davanti a queste evidenze, decidere di applicare una sorta di regola del più forte?"
Dire che il Movimento Fratelli d'Italia ha genericamente torto non sembra corretto: per quanto mi riguarda, non ci sarebbe alcun problema a mantenere entrambi gli emblemi, se non altro per rispetto alla storia certamente precedente del movimento e per l'assoluta non confondibilità grafica dei due emblemi. In passato in effetti è stato ammesso che contrassegni graficamente diversi potessero convivere senza troppi problemi. Nel mezzo, tuttavia, si è inasprita la legge: il testo dell'art. 14 comma 3 del testo unico per l'elezione della Camera ora precisa che "Non è ammessa la presentazione di contrassegni identici o confondibili (...) con  quelli riproducenti simboli, elementi e diciture, o solo alcuni di essi, usati tradizionalmente da altri partiti"; se si aggiunge che per il comma 4 (o 3-bis) sono elementi di confondibilità anche "le parole o le effigi costituenti elementi  di  qualificazione  degli orientamenti o finalità politiche connesse al partito o alla forza politica di riferimento anche se in diversa composizione o rappresentazione grafica", il quadro si completa. Lo stesso nome, in sostanza, non garantirebbe comunque la non confondibilità, almeno secondo le nuove regole. 
Se il Movimento Fratelli d'Italia fosse riuscito a presentarsi per primo, probabilmente sarebbe stato possibile un tentativo di convivenza tra omonimi (o, comunque, nessuno avrebbe potuto accusare il movimento di aver depositato il simbolo solo per arrecare disturbo a Meloni & co., proprio in ragione della sua attività); l'ordine che in effetti c'è stato non ha potuto che tutelare il partito di Crosetto. Anche se, per farlo, ha sacrificato un'aspirazione legittima di un gruppo sociale. 

P.S. (19/01/2013) Anche l'Ufficio elettorale centrale nazionale, cui il movimento si era rivolto, ha bocciato il simbolo con Ettore Fieramosca: i due emblemi, pur non simili graficamente, sono confondibili per la parte testuale. Nessun simbolo in più sulla scheda, dunque; non è escluso che Meloni & co. stiano tirando un sospiro di sollievo.

venerdì 21 dicembre 2012

Fratelli d'Italia, La Russa s'è desto...

Alla fine hanno beffato tutti (me compreso, ovviamente). Dall'inizio avevamo notato come quel possibile contrassegno di "Centrodestra nazionale" avrebbe immediatamente rimandato alla simbologia di An, senza nemmeno troppa fantasia, con quel "nazionale" già nel posto in cui era prima e le corde tricolori inserite più per vezzo, che per artificio grafico. Mancava la fiamma, ma la paternità del simbolo era ben chiara.
Invece poche ore fa Ignazio La Russa, Guido Crosetto e Giorgia Meloni hanno tirato fuori qualcosa di diverso, come se ci si aspettasse un fante di picche e ci si trovasse scodellato un re, sia pure dello stesso seme. Nel simbolo del loro nuovo soggetto politico, infatti, sono rimaste le corde ( “Tre corde legate, una verde, una bianca e una rossa, in un nodo che non si può slegare”, ha detto lo stesso Crosetto) e la parte superiore azzurra; anche la dicitura "Centrodestra nazionale" è rimasta, ma è adagiata sottilmente sulla parte inferiore del bordo del contrassegno, nel segmento bianco. Il posto più evidente, nella parte superiore, se l'è conquistato il nuovo nome del soggetto politico, "Fratelli d'Italia", scritto con lo stesso font, su per giù, usato per il Pdl.
Forse qualcuno doveva avere notato che il termine "Nazionale", nella posizione precedente, era a rischio di bocciatura da parte del Ministero dell'Interno e il rischio da correre era decisamente troppo;  forse non si voleva quella somiglianza così forte, visto che Crosetto non veniva certo da An ma non può non colpire il ragionamento possibile di La Russa & co.: non bastava il tricolore, occorreva anche mettere le mani sul primo verso dell'inno nazionale italiano. Il comportamento, in sé, è lecito, non sembra proprio che vi siano ostacoli giuridici: l'opera, in sé, si chiama Canto degli Italiani e, in ogni caso, è caduta in pubblico dominio (difficilmente Goffredo Mameli potrebbe dolersene, se non in un'improbabile seduta spiritica). La scelta, tuttavia, mostra che - forse anche su ispirazione dello stesso Crosetto - la lezione del Cavaliere e del suo staff è stata pienamente assimilata: lui, infatti, nel 1994 ha chiamato il suo movimento "Forza Italia" appropriandosi dell'esultanza calcistica dei tifosi degli azzurri (e non a caso i forzisti si facevano chiamare "azzurri", sebbene non ce ne fosse traccia nel simbolo). La Russa, Meloni e Crosetto fanno qualcosa di molto simile, rivendicando in qualche modo la propria identificazione con uno dei simboli ufficiosi della Repubblica (e, guarda caso, uno degli elementi immancabili delle partite della Nazionale di calcio e non solo).
Un rischio, piccolo o grande che sia, comunque c'è: dopo la fondazione di Forza Italia, chi non era seguace di Berlusconi ebbe vergogna o per lo meno difficoltà a pronunciare di nuovo quelle due parole, anche solo allo stadio o davanti a una partita dei mondiali. E se, a questo punto, si allargasse la schiera di coloro che hanno in antipatia l'inno di Mameli? I Fratelli, in quel caso, potrebbero assottigliarsi molto: praticamente, dei figli unici.

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Appendice del 22 dicembre
A parziale correzione di quanto già scritto, devo dare atto che più probabilmente il contrassegno ufficiale del partito non sia quello mostrato sopra, bensì uno dei due riportati qui a fianco, in particolare il secondo (è quello che effettivamente si vede nelle mani di Crosetto, della Meloni e di La Russa all'atto della presentazione).
Naturalmente, stando così le cose, non si può più dire che il font utilizzato per la dicitura "Fratelli d'Italia" sia affine a quello che è ancora utilizzato dal Pdl. Al contrario, il carattere è relativamente simile a quello usato nel contrassegno di Alleanza nazionale, come la foggia di alcune lettere dimostra agevolmente (sebbene mancasse nell'emblema di An l'ombra nera al di sotto dei caratteri).
Al più, viene spontaneo dire che è entrata pesantemente in gioco la componente del "fai-da-te", nel senso che ogni gruppo locale, in attesa del contrassegno "ufficiale", ha voluto provvedere in modo autonomo e rapido, volendo imitare il simbolo mostrato alla stampa avvicinandosi il più possibile a quell'immagine. Merito (o colpa, a seconda) dell'inventiva dei singoli e di Photoshop.