sabato 25 marzo 2023

Voto nei comuni piccoli, le Camere ci riprovano (con liti sul ballottaggio)

Le elezioni regionali in Lombardia e Lazio celebrate il 12-13 febbraio, quelle in Friuli Venezia Giulia fissate per il 2-3 aprile e le amministrative che si terranno nelle altre regioni il 14-15 maggio hanno posto parzialmente in ombra - ma nemmeno troppo - il percorso parlamentare di un disegno di legge di una certa rilevanza, volto a intervenire sulle norme che regolano le elezioni amministrative nei comuni fino a 15milabitanti. Chi segue con attenzione questo sito dovrebbe avere una sensazione di déjà vu (e, volendo, di déjà entendu): nella scorsa legislatura si erano infatti già discussi alcuni testi in materia. 
Il disegno di legge in questione riprende il testo che era già stato approvato dal Senato nel 2021 e che si era impantanato alla Camera senza concludere il suo iter parlamentare; la proposta, tuttavia, era finita per qualche manciata di ore nell'occhio del ciclone perché a Palazzo Madama era stato presentato (prima in commissione e poi in aula) un emendamento che puntava a modificare sensibilmente il sistema elettorale dettato per i comuni superiori, assegnando la vittoria già al primo turno alla persona candidata che avesse raggiunto almeno il 40% dei voti validi (estendendo, dunque, il "rito siciliano" a tutta l'Italia a statuto ordinario). Gli emendamenti sono stari ritirati, il progetto di legge è stato approvato a Palazzo Madama così com'era e ora toccherà alla Camera esprimersi, ma è molto probabile che la questione torni in discussione presto: sembra dunque il caso di parlare in modo ampio dei testi e delle proposte in discussione, 

Piccoli comuni, dove eravamo rimasti: quorum di validità...

Occorre innanzitutto fare un passo indietro e capire di quale progetto di legge si stia parlando. Ci si riferisce, in particolare, al disegno di legge n. 379, rubricato "Modifiche al testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, al testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, e alla legge 25 marzo 1993, n. 81, concernenti il computo dei votanti per la validità delle elezioni comunali e il numero delle sottoscrizioni per la presentazione dei candidati alle medesime elezioni" e presentato il 28 novembre 2022 da 22 tra senatrici e senatori della Lega per Salvini premier: prima firmataria risulta essere Daisy Pirovano.
Il fatto che la proposta risulti "monocolore", tuttavia, non deve trarre in inganno. Il testo del ddl, infatti, è esattamente identico a quello che l'aula di Palazzo Madama aveva approvato il 26 maggio del 2021, con un voto pressoché unanime: questo sito se n'era occupato a fondo, sia all'indomani dell'esame al Senato, sia nei primi mesi in cui il testo era rimasto impantanato alla Camera, completando il passaggio in commissione ma di fatto senza arrivare all'esame dell'aula di Montecitorio. Pure in quell'occasione il proponente, Luigi Augussori, era leghista, ma tutti i membri della commissione Affari costituzionali furono adeguatamente sensibilizzati sui problemi elettorali legati ai piccoli comuni (del resto nella discussione era confluito anche un ddl del Pd) e si era trovato un accordo più che ragionevole. In questa legislatura Augussori non è tornato in Parlamento (peraltro era stato candidato alla Camera), ma considerando che Daisy Pirovano nel 2021 era stata relatrice del testo a Palazzo Madama, sembra naturale che proprio lei - che tra l'altro è tuttora sindaca di Misano di Gera d'Adda - abbia ripresentato il disegno di legge. Proprio l'approvazione da parte del Senato nella legislatura precedente, tra l'altro, ha consentito di invocare l'art. 81 del regolamento senatoriale: il 23 febbraio, infatti, l'aula di Palazzo Madama ha votato a favore della dichiarazione d'urgenza per quel ddl, aprendo la strada alla procedura abbreviata, conclusasi in effetti il 1° marzo. Va segnalato che la procedura d'urgenza ha avuto anche l'appoggio del MoVimento 5 Stelle e del Partito democratico: non a caso per il Pd è intervenuto in commissione e in aula Dario Parrini, che nella scorsa legislatura era stato presidente della commissione Affari costituzionali e da quella posizione aveva accompagnato l'iter del disegno di legge (e, tra l'altro, aveva accettato insieme ad Augussori di rispondere per I simboli della discordia ad alcune domande, per commentare le norme che si volevano introdurre: chi scrive è grato a entrambi).   
In questa legislatura come nella precedente, l'attenzione si è concentrata soprattutto sul destino delle elezioni amministrative nei comuni fino a 15mila abitanti in base all'affluenza e alla composizione del corpo elettorale. In particolare, l'idea era di rendere stabili le misure eccezionali introdotte nel 2021 e nel 2022 con i rispettivi "decreti elezioni", prevedendo che qualora alle elezioni in un comune "inferiore" concorra una sola lista (perché ne è stata presentata e ammessa una sola o perché solo una di quelle presentate è stata ritenuta ammissibile), i suoi candidati siano tutti eletti in consiglio comunale purché i votanti siano pari almeno al 40% degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune; il calcolo, peraltro, va fatto togliendo dal corpo elettorale da considerare gli elettori iscritti all'Anagrafe degli italiani residenti all'estero che non hanno votato in quell'occasione. Entrambe le misure prendono atto di alcuni fenomeni che affliggono da tempo i comuni più piccoli (e anche alcuni medio-piccoli). 
In quei luoghi, innanzitutto, oltre a un astensionismo crescente - che, com'è noto, colpisce tutta l'Italia - si registra una sempre minore disponibilità di persone a candidarsi e ad assumere responsabilità amministrative: sempre più di frequente, dunque, si creano le condizioni per avere competizioni con una sola lista, nelle quali il rischio che l'affluenza restasse anche di poco sotto il 50% renderebbe più che probabile - con le norme "ordinarie", al di là delle eccezioni degli ultimi due anni - il commissariamento dei comuni stessi. Quel rischio sarebbe ancor più a portata di mano nei comuni piccoli che hanno tra i loro cittadini un alto numero di persone che risiedono all'estero e ben difficilmente tornerebbero nel luogo di residenza per votare: non a caso, il ddl Augussori originario si era occupato innanzitutto della situazione degli iscritti Aire, ovviamente conservando loro il diritto di voto, ma ritenendo ragionevole non considerarli nel corpo elettorale "concreto" ai fini della determinazione del quorum.
Per le elezioni del 2023 queste norme varranno in forza di un nuovo intervento una tantum, inserito questa volta nel "decreto milleproroghe" (d.l. n. 198/2022, come convertito e modificato dalla legge n. 14/2023), precisamente all'art. 2, comma 7-ter. Per il futuro, tuttavia, sarebbe davvero importante che la norma venisse modificata una volta per tutte, tenendo conto delle situazioni concrete che si affrontano nei comuni, soprattutto quelli piccoli o medio-piccoli. Ne è sembrata consapevole - anche per la sua contemporanea vita da sindaca - Daisy Pirovano, che all'aula del Senato ha proposto uno spunto di riflessione: "interroghiamoci se noi, come classe politica, abbiamo qualche responsabilità in più rispetto ai nostri amministratori locali, che lavorano in condizioni veramente critiche e con sempre più difficoltà. Mi riferisco a responsabilità per il fatto che i cittadini si stiano allontanando sempre di più dalla politica anche sui territori. Sempre meno cittadini, infatti, si rendono disponibili a ricoprire il ruolo di sindaco; se così non fosse, il provvedimento cui facciamo riferimento non sarebbe necessario, perché vorrebbe dire che non c'è una lista unica che si candida alle elezioni comunali. È diventato necessario e urgente, infatti, risolvere i problemi degli enti locali e noi non siamo ancora riusciti a farlo in tutti gli aspetti della problematica".
 

... e ritorno delle firme "sotto i mille"

Oltre alla norma che dovrebbe mitigare il quorum di validità delle elezioni nei comuni inferiori (e prevenire un discreto numero di commissariamenti per affluenza inevitabilmente molto bassa), il disegno di legge intende modificare un dettaglio specifico delle norme relative alle elezioni amministrative nei microcomuni, in particolari quelli fino a mille abitanti. Come sa molto bene chi segue con attenzione questo sito, in particolare la rubrica "Sotto i mille" curata da Massimo Bosso, a partire dal 1993 in quei comuni le liste si presentano senza necessità di essere sottoscritte dal corpo elettorale. Lo si fece allora per non ingessare la competizione in comunità piccolissime (e per evitare al loro interno situazioni sgradevoli); di certo non si immaginava che la possibilità di presentare liste senza firme avrebbe attirato in comuni piccolissimi e ignoti ai più prima forze politiche in cerca di radicamento, poi gruppi di candidati del tutto estranei a quei paesini e, non di rado, con interessi ben diversi dal concorrere per sperare di amministrare i comuni.
La discussione avviata nella scorsa legislatura aveva individuato come soluzione a questo problema (emerso nella sua gravità dopo i casi limite emersi negli ultimi anni, in particolare quello di Carbone nel 2020) la richiesta di un numero minimo e contenuto di firme pure in quei comuni: non meno di 15 e non oltre 30 nei comuni con popolazione 751 e 1000 abitanti; non meno di 10 e non più di 20 nei comuni con popolazione tra 501 e 750 abitanti; non meno di 5 e da non più di 10 sottoscrizioni, infine, nei comuni con popolazione fino a 500 abitanti. Pur trattandosi di un numero oggettivamente limitato di sottoscrizioni (al fine di evitare un aggravio eccessivo del procedimento preparatorio e di scongiurare ulteriori rischi di presentazioni di un'unica lista), la necessità di raccoglierle in loco (e la difficoltà di farlo su un numero così ridotto di abitanti) dovrebbe essere sufficiente a scoraggiare l'azione di chi, completamente estraneo al paese, volesse presentare comunque una lista di extra muros.
Questo fenomeno, come si sa, riguarda solo i comuni piccolissimi, presenti in tutte le regioni ma concentrati soprattutto in alcune di esse, così come il fenomeno si presenta in particolare in alcune zone d'Italia (tra l'altro con accenti diversi a seconda del territorio, non sempre compresi da chiunque). Ciò spiega, probabilmente, perché anche in quest'occasione nel dibattito pubblico questo punto sia stato considerato con meno attenzione rispetto alle istanze relative al quorum di validità delle elezioni. La questione, tuttavia, ha una sua rilevanza e, a differenza delle misure per salvare la validità delle elezioni in presenza di una sola lista, non è stata anticipata - correttamente - da nessun altro intervento normativo, dunque occorre necessariamente l'approvazione del disegno di legge anche alla Camera perché le norme possano entrare in vigore. Essendo assai improbabile che a Montecitorio il procedimento si chiuda nei prossimi giorni, ciò significa che le elezioni "sotto i mille" che si svolgeranno il 14-15 maggio 2023 potrebbero essere le ultime senza la raccolta firme, di fatto chiudendo un trentennio che ha portato un gran numero di casi di studio interessanti per i #drogatidipolitica (soprattutto in Piemonte, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata), ma anche significative storture che è giusto che trovino una fine.

Vincere al primo turno con il 40%? E con quanti simboli?

Proprio oggi, trent'anni fa, veniva approvata definitivamente la legge n. 81/1993, che introdusse il sistema maggioritario in tutte le elezioni amministrative, prevedendo il ballottaggio - oltre che per le province - per i comuni sopra i 15mila abitanti (l'approvazione, tra l'altro, intervenne in tempo utile per evitare che si svolgesse uno dei referendum presentati dal Comitato per la riforma elettorale nel 1991). D'improvviso, tuttavia, nei giorni scorsi si era materializzata per due volte, nel giro di poche ore, la possibilità che quel trentennio si concludesse a breve. 
Dopo che il 28 febbraio la relatrice del disegno di legge - la leghista Nicoletta Spelgatti - aveva ottenuto che il termine per depositare gli emendamenti in commissione Affari costituzionali fosse molto ravvicinato (scadeva alle 18 di quello stesso giorno), le proposte di modifica sono state infatti solo due: una del leghista Paolo Tosato, volta a prevedere per le elezioni nei comuni "inferiori" l'invio di comunicazioni - tramite messaggi sui cellulari, sulla posta elettronica o sull'app IO - per informare "sulla data di svolgimento delle consultazioni e sulla durata delle operazioni di voto" (valutando poi l'estensione alle altre consultazioni elettorali e referendarie); l'altra presentata da Licia Ronzulli, Mario Occhiuto, Adriano Paroli e Daniela Ternullo, tutte e tutti di Forza Italia. Proprio questo è stato il primo "emendamento della discordia", essendo espressamente volto a intervenire sull'elezione del sindaco nei comuni con più di 15mila abitanti (modificando l'articolo 72 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali): l'idea era di prevedere, al posto della vittoria al primo turno per il candidato sindaco che ottenga almeno il 50% dei voti validi, la proclamazione del "candidato che ottiene il maggior numero di voti validi, a condizione che abbia conseguito almeno il 40 per cento dei voti validi. Qualora due candidati abbiano entrambi conseguito un risultato pari o superiore al 40 per cento dei voti validi, è proclamato eletto sindaco il candidato che abbia conseguito il maggior numero di voti validi. In caso di parità di voti, è proclamato eletto sindaco il candidato collegato con la lista o con il gruppo di liste per l'elezione del consiglio comunale che ha conseguito la maggiore cifra elettorale complessiva. A parità di cifra elettorale, è proclamato eletto sindaco il candidato più anziano di età". Si tratta del medesimo testo dell'art. 3, comma 4 della legge regionale siciliana 15 settembre 1997, n. 35, così come modificata dalla legge regionale n. 17/2016, che ha appunto introdotto la possibilità di evitare il ballottaggio qualora almeno un aspirante sindaco abbia ottenuto il 40% dei voti; non a caso, tra l'altro, una delle proponenti - Daniela Ternullo - è siciliana.
In commissione, a quel punto, il clima si è decisamente arroventato, in un modo che probabilmente non traspare del tutto dal resoconto sommario. Se l'emendamento Tosato è stato ritirato dopo che la sottosegretaria all'interno Wanda Ferro (Fdi) ha fatto notare che "sarebbe impossibile organizzare in breve tempo, e senza ulteriori oneri per il bilancio statale, il sistema di messaggistica per le informazioni sulle operazioni di voto" (in compenso il senatore leghista ha rielaborato il testo trasformandolo in un ordine del giorno presentato in assemblea e poi accolto dal governo), le vere tensioni si sono registrate sull'emendamento forzista. Molto duro è stato il commento di Dario Parrini (Pd): a suo dire, infatti, l'emendamento avrebbe inciso "in modo significativo sul sistema di elezione dei sindaci, modificando surrettiziamente un disegno di legge di portata circoscritta, su cui è stata deliberata la procedura d'urgenza anche con il contributo dell'opposizione". Come dire: non solo questo intervento non c'entra nulla con il testo del disegno di legge (al punto che non dovrebbe essere ammesso), ma Pd e M5S non accetteranno mai che una modifica così rilevante abbia di fatto una "corsia preferenziale" grazie alla procedura d'urgenza che quelle stesse opposizioni hanno appoggiato, evidentemente solo con riguardo al tema originario del disegno di legge. 
Sembra poi opportuno non trascurare un passaggio dell'intervento della sottosegretaria Ferro: lei infatti, pur rimettendosi alle scelte della commissione, riteneva necessario "un ulteriore approfondimento, in quanto la norma potrebbe risultare in contrasto con la disposizione del testo unico sugli enti locali sull'attribuzione del premio di maggioranza". Il riferimento è all'art. 73, comma 10 del Tuel, per cui in caso di sindaco eletto al primo turno, "alla lista o al gruppo di liste a lui collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, ma abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei voti validi, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate abbia superato il 50 per cento dei voti validi": è probabile che Ferro, verosimilmente su indicazione del Viminale, abbia segnalato il fatto che un candidato sindaco può ben ottenere un consenso maggiore della sua coalizione, per cui se un aspirante sindaco ottenesse il 40,5% dei voti ma la sua coalizione ottenesse meno del 40% il premio non scatterebbe. Da una parte questo sarebbe ragionevole, per non distorcere eccessivamente l'esito del voto con l'attribuzione del premio; dall'altra, sarebbe inevitabile il livello assai minore di stabilità della nuova amministrazione comunale in quelle condizioni. L'osservazione offerta da Ferro, poi, deriva forse anche dal fatto che la legge elettorale siciliana per le elezioni comunali prevede comunque l'assegnazione del 60% dei seggi alla lista/coalizione legata al nuovo sindaco, senza richiedere che - in caso di vittoria al primo turno - la lista o la coalizione abbiano ottenuto almeno il 40% dei voti (nemmeno in Sicilia, invece, il premio scatta se un'altra lista o coalizione ha ottenuto almeno il 50% dei voti).  
Si è registrato l'intervento del presidente della I commissione, Alberto Balboni (Fdi), il quale sosteneva che l'emendamento forzista fosse proponibile "in base a valutazioni strettamente giuridiche, in quanto il disegno di legge apporta modifiche anche all'articolo 3 della legge n. 81 del 1993, con riferimento al numero di sottoscrizioni per la presentazione delle liste nelle elezioni di tutti i Comuni e non solo di quelli di piccole dimensioni" e interviene, con l'art. 1, sul testo unico sugli enti locali. Se quest'ultima affermazione è vera (ma la rubrica del disegno di legge era ben delimitata e non pare del tutto ragionevole considerarla superabile con un semplice emendamento, tra l'altro in un procedimento accelerato), appare del tutto fuori luogo il primo argomento speso dal presidente: è vero che l'art. 2 sostituisce l'intera disposizione che stabilisce le varie "forchette" di firme richieste a seconda della popolazione dei comuni, ma basta confrontare il testo vigente dell'art. 3, comma 1 della legge n. 81/1993 e il testo proposto dal ddl Pirovano per rendersi conto che, al di là dell'aggiunta delle firme nei comuni fino a mille abitanti, le altre "forchette" sono assolutamente identiche.
La senatrice Ternullo ha comunque scelto di ritirare l'emendamento, pur condividendo - com'era inevitabile attendersi - le tesi di Balboni sulla sua proponibilità e facendo notare che la norma proposta è già applicata ai comuni "superiori" della Sicilia (anche se, come si è già detto, la lista/coalizione legata al nuovo sindaco otterrebbe comunque il 60% dei seggi, pur avendo ottenuto meno del 40%). Parrini ha apprezzato, anche per la necessità di inquadrare le modifiche alla disciplina elettorale (e non solo) degli enti locali in una riforma complessiva del Tuel, valutando con cura l'impatto di ogni modifica proposta.
Se la mattina del 1° marzo il ddl ha terminato il suo percorso in commissione, alle 13 scadeva il termine per presentare gli emendamenti in assemblea: proprio in quella sede, l'emendamento ritirato in commissione è stato riproposto, con due differenze non trascurabili. La prima consisteva nella precisazione che alla lista/coalizione legata al sindaco eletto a primo turno spettava comunque il 60% dei seggi: un tentativo di intervenire sul profilo critico segnalato da Wanda Ferro, ma forse non nel modo migliore (l'emendamento non interveniva per abrogare l'art. 73, comma 10 del Tuel, in contrasto con il contenuto della proposta di modifica). La seconda novità riguardava i firmatari: oltre al forzista Paroli, c'erano il leghista Tosato e Marco Lisei di Fratelli d'Italia, come a dire che in questo caso erano tutti e tre i partiti principali della coalizione di centrodestra a farsi carico di una proposta che all'inizio era essenzialmente di Forza Italia. Non si trattava di esponenti di primo piano (quindi l'esposizione non era eccessiva), ma il dato non era irrilevante.
Su queste basi, la polemica dev'essere stata notevole: nel suo articolo del 2 marzo per il manifesto sulla questione, Andrea Fabozzi ha segnalato che Pd, Alleanza Verdi e Sinistra e M5S si sono rivolti al presidente del Senato Ignazio La Russa, "avvertendo che se questa grave scorrettezza fosse passata 'non concederemo mai più una procedura di emergenza'", citando le parole di Parrini. Di fatto, quando dopo le 18 in aula a Palazzo Madama è iniziata la discussione sul ddl, l'emendamento era già stato ritirato. 
"Il buonsenso e il senso del pudore sono diffusi anche nella maggioranza", ha commentato in aula la senatrice M5S Barbara Floridia, confermando con le sue parole che in commissione e nei corridoi del Senato la discussione doveva essere stata molto più accesa di quanto poteva trasparire dai resoconti: "Dopo un'attenta e appassionata opposizione in Commissione, dove con un blitz stava per essere presentato un emendamento vergogna, per fortuna in maniera corretta - come correttamente si era mossa e si è mossa oggi l'opposizione - la maggioranza ha ritirato un emendamento che, a nostro avviso, era inopportuno presentare a questo provvedimento". 
Non ha condiviso la definizione di "emendamento vergogna" (probabilmente - ci si permette di dire - dettata non tanto dal contenuto, ma dal modo e dalle circostanze in cui era stato presentato) Massimiliano Romeo (Lega): "Per una volta che un leghista prende ad esempio la Sicilia, ci saremmo aspettati almeno un minimo di riconoscenza". Il capogruppo della Lega ha segnalato l'emendamento è stato ritirato nella consapevolezza "del fatto che la procedura d'urgenza su questo provvedimento è stata votata anche dall'opposizione e in segno di rispetto per un accordo che era stato preso da tutti" e non era il caso di forzare la mano. Ha però anche ribadito che la maggioranza vuole arrivare all'elezione del sindaco al primo turno con il 40% nei comuni "superiori": non a caso, proprio Romeo è primo firmatario di una proposta che, nell'intervenire sulle elezioni provinciali, prevede proprio l'elezione al primo turno del sindaco con almeno il 40%; la stessa idea è contenuta in un altro ddl a prima firma, guarda caso, di Licia Ronzulli. Per Romeo si tratta di una riforma importante perché può "aiutare a risparmiare risorse e a dare maggiore certezza, anche in vista della partecipazione dei cittadini alle elezioni, che sappiamo in molti casi al secondo turno essere assolutamente minimale".
Il ritiro del secondo emendamento, però, non ha chiuso la polemica in materia. Per Ivan Scalfarotto (Italia viva) la maggioranza aveva tentato un "colpo di mano [...] con un emendamento agganciato a un provvedimento completamente diverso [...]. Approfittando della procedura accelerata per recuperare un vecchio disegno di legge, infila all'interno di questo piccolo disegno di legge un carico da 90, una norma grandissima, che va addirittura a modificare la legge elettorale per i sindaci: una vera e propria riforma istituzionale fatta attraverso l'uso surrettizio e fraudolento di una procedura semplificata accordata da tutti", senza la proclamata ampia condivisione in materia di riforme.
"Chi si definisce terzo polo non può che essere preoccupato del fatto che potrebbe non esserci un ballottaggio nelle elezioni dei Comuni" ha ribattuto a Scalfarotto il forzista Adriano Paroli, ricordando il dibattito già iniziato in I commissione sui disegni di legge Romeo e Ronzulli (con varie audizioni di esperti) e la pratica della vittoria al primo turno con il 40% già "rodata" in Sicilia, "dove non mi sembra che nessuno faccia le barricate, che nessuno la ritenga incostituzionale e [...] una legge vergogna". Paroli ha riconosciuto i meriti della legge del 1993, ma "un tagliando bisogna farlo": "ci troviamo, sempre più spesso, ad avere il candidato sindaco eletto al ballottaggio con meno voti di quelli ottenuti da un altro candidato sindaco al primo turno. È un'anomalia che non può lasciarci indifferenti. Così come non può lasciarci indifferenti il fatto che l'astensionismo, soprattutto nel secondo turno, sta aumentando continuamente. È necessario dare più importanza al primo turno, ma senza eliminare il ballottaggio", disinnescando "chi si candida in mezzo, pensando di arrivare al ballottaggio e di vendere i propri voti - lo dico chiaramente - al miglior offerente o a chi ha più possibilità di vincere"; più avanti ha precisato di fare riferimento non tanto a partiti presenti in aula, ma "a tante liste civiche inventate, dove i candidati prendono il 6 per cento e poi lo vendono al ballottaggio". L'intervento di Paroli - sindaco di Brescia dal 2008 al 2013, sconfitto al ballottaggio alla sua seconda candidatura - è stato significativo, anche perché ha messo in luce che il primo emendamento (a prima firma di Ronzulli) era stato ritirato "poiché il Governo aveva chiesto una riformulazione": la richiesta in effetti era stata di un approfondimento, ma dovevano esserci stati altri contatti per precisare meglio i dubbi dell'esecutivo (ed forse alcuni dubbi erano rimasti, visto che per il senatore forzista era stata chiesta, anche se ciò non emerge dai resoconti, "anche rispetto all'emendamento presentato per l'Aula, una ulteriore riformulazione, sollevando delle preoccupazioni che [...] meritavano una risposta". Il ritiro del secondo emendamento sarebbe invece derivato dalla reazione delle opposizioni che, sempre secondo le parole dell'esponente di Forza Italia, avevano "ritenuto che vi fosse reato di lesa maestà". I toni non nascondono una certa antipatia, oltre che della persona che li ha usati, dell'intera coalizione per il meccanismo del ballottaggio: al di là di alcuni casi in cui il centrodestra è stato prevalente (a partire da Bologna 1999 con la vittoria di Giorgio Guazzaloca) o determinante (per fare perdere il centrosinistra, di solito contro il M5S, come a Parma nel 2012), sono stati molto più frequenti i casi in cui il centrodestra è uscito male dal ballottaggio (per una sua scarsa capacità di richiamare i propri elettori al ballottaggio o per accordi intervenuti nel frattempo tra centrosinistra e forze escluse).
Per la senatrice Ada Lopreiato (M5S), in ogni caso, quegli emendamenti non erano "un'espressione della democrazia", essendo volti "a farsi bastare i pochi cittadini pronti a votare". Nel suo intervento in aula, il dem Dario Parrini ha ribadito di considerare il doppio emendamento "un tentativo di colpo di mano davvero pessimo", a dispetto dei "ravvedimenti postprandiali": si è provato a "sfruttare la procedura d'urgenza data all'unanimità per un provvedimento di piccola portata, da tutti condiviso, per far passare una riforma elettorale del sistema di elezione dei sindaci nei Comuni sopra i 15.000 abitanti, che è una cosa [...] iperdivisiva e di portata molto grande". Ha poi contestato la tesi del centrodestra, in base alla quale l'affluenza ai ballottaggi è sempre minore rispetto al primo turno (poi il senatore di Fratelli d'Italia Costanzo Della Porta ha ricordato che "De Magistris fu eletto con il 25 per cento dei voti al ballottaggio", in realtà però nel 2011 ebbe il 27,5% al primo turno e una quota maggiore, anche rapportata ai voti del primo turno, al ballottaggio; al più si può dire che nel secondo turno l'affluenza è calata parecchio), ha ritenuto comunque sbagliata la scelta siciliana di accontentarsi del 40% al primo turno (scelta tra l'altro "provata in una Regione a statuto speciale, che non per caso è a statuto speciale"). Ha peraltro sottolineato un altro carattere fondamentale della riforma maggioritaria del 1993, messo in luce lo stesso giorno dal costituzional-comparatista ed ex parlamentare Stefano Ceccanti con queste parole: "La legge elettorale sui comuni è datata 25 marzo 1993. [...] Fu approvata a larghissima maggioranza. In questi tre decenni è rimasta sostanzialmente invariata. Ha consentito pacifiche alternanze tra le più varie maggioranze locali. Quando si è sentita la necessità di qualche variazione, ad esempio nella durata del mandato da 4 a 5 anni, si è sempre proceduto per larghissimo consenso. Mentre, purtroppo, per la legge elettorale nazionale si sono avute approvazioni a consenso ristretto e per fini di parte da parte delle maggioranze pro tempore, fin qui la legge comunale è sempre stata al riparo di queste forzature. Sarebbe bene per tutti che restasse così. Festeggiamo consensualmente il trentesimo compleanno mantenendo la differenza tra conflitto sulle politiche e consenso sulle regole: è utile a tutti anche per avviare il dialogo su altre riforme. Bene quindi il ritiro dell’emendamento che voleva limitare il ballottaggio e bene, soprattutto, che simili tentazioni siano accantonate per sempre".
Il fatto che buona parte del dibattito si sia svolto sulla questione del ballottaggio nei comuni "superiori" non poteva soddisfare la proponente del disegno di legge in questa legislatura, la leghista Daisy Pirovano: "Purtroppo anche oggi, per motivi diversi, i grandi Comuni hanno cercato di oscurare i piccoli. [...] Vi ricordo che i piccoli Comuni [...] sono il 54% del territorio del Paese - con riferimento ai Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti [...] - e rappresentano il 70% dei Comuni italiani. Stiamo parlando di una buona parte del territorio che merita la dovuta attenzione. [...] più il Comune è piccolo, più un amministratore locale (sindaco, assessore o consigliere) deve occuparsi di ogni genere di cosa: dal netturbino alle piccole e grandi manutenzioni; se non ci sono i soldi per gli eventi bisogna trovare il volontariato e sono i primi che devono dare il buon esempio. [...] Quindi, fare l'amministratore in un piccolo Comune è anche un grande peso e una grande responsabilità e lascia poco tempo alla vita privata. Siccome i cittadini vedono i loro amministratori, quando vi dicevo che l'affluenza al voto è inversamente proporzionale al numero degli abitanti, parlando delle comunali, ma poi passando alle politiche, è anche perché - come ben sappiamo - nelle comunali, soprattutto nei piccoli centri, c'è un rapporto diretto: i cittadini conoscono il loro sindaco, conoscono l'assessore e il consigliere e c'è uno scambio diretto. C'è un programma che i cittadini votano e non solo; in base alla legge che qui è stata approvata, i Comuni devono anche fare il rendiconto di fine mandato, che è un obbligo; e nel rendiconto di fine mandato bisogna dire ai cittadini che cosa è stato fatto nei cinque anni di amministrazione e poi i cittadini decideranno [...] se rivotare o meno i loro amministratori, in base a quello che hanno dimostrato di aver fatto rispetto alle promesse [...]. Questo impegno viene assunto in condizioni spesso critiche, perché i soldi sono sempre meno e le emergenze si susseguono [...]. Quindi, un cittadino ci pensa due volte prima di buttarsi nell'avventura, che pure è straordinaria, di fare il sindaco. Noi dobbiamo aiutare i Comuni per aiutare la gente a riavvicinarsi ai Comuni stessi".
Quanto alla questione della raccolta firme, Pirovano ha chiarito - per chi non avesse ancora compreso il senso della modifica normativa proposta - che la reintroduzione delle sottoscrizioni è stata chiesta "per evitare che ci siano liste cosiddette farlocche e, quindi, con candidati che non hanno niente a che vedere con la vita del Comune, che non abitano nel Comune e non hanno nemmeno in esso legami perché è lecito e capita che si candidino nelle liste persone di Comuni vicini, fra l'altro anche come sindaco; magari sono nati lì o lì hanno degli interessi. Però, purtroppo, è capitato e capita ancora che ci si approfitti del fatto che nei Comuni sotto i mille abitanti non ci sia una raccolta firme per candidarsi e a volte ci si candidi solo per avere dei permessi retribuiti, a volte semplicemente per mettere una bandierina in quel Comune, magari andare a fare un'opposizione, più o meno litigiosa, comunque per creare un po' di scompiglio o magari per un tornaconto personale. Quindi, il numero di firme è ridotto [...], ma almeno c'è qualcuno residente nel Comune che mette la propria firma per dire che una determinata lista è bene che si presenti".
Queste cose, come altre, sono ben note a chi segue questo sito e altri spazi simili. Non ci si sente dunque in colpa per aver dedicato un certo spazio alla questione dell'elezione al primo turno con il 40% dei voti, cosa che - tra l'altro - potrebbe aumentare i simboli o comunque non farli diminuire: un alto numero di liste civiche, paraciviche o personali potrebbe servire a tentare di raggiungere la soglia del 40% (in fondo non c'è la clausola di sterilizzazione per le liste che non partecipano al riparto dei seggi), anche se magari i seggi toccherebbero solo alle liste maggiori. Una scelta simile certamente non sarebbe di poco conto e dovrebbe essere il più possibile condivisa (e in modo palese, non come questa volta), oltre che frutto di discussioni approfondite. Restano però valide, per i comuni "inferiori", le considerazioni fatte in chiusura da Pirovano, che ci si sente di sottoscrivere: "sono tanti i motivi per cui bisogna ancora crederci, avere la voglia di fare l'amministratore in un piccolo Comune e fare il sindaco. La prima cosa, che abbiamo ancora da imparare dai nostri amministratori locali, è l'amore e il rispetto per la propria gente. Meno gioco politico, più fatti, più dialogo, più condivisione, per guardare quali sono veramente i problemi della nostra gente e perdere meno tempo, perché da casa certi spettacoli vi assicuro che anche dai sindaci non sono ben visti. Questo perché noi in Comune - dico noi per deformazione professionale - abbiamo poco tempo per litigare perché abbiamo tanti problemi da risolvere, fin quando non sarà il Parlamento e il Governo a risolverli per noi".

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