lunedì 15 aprile 2019

Europee 2019, anche la Cassazione dice no alla Dc (che ricorre al Tar Lazio)

Lo si era detto qualche giorno fa, quando sono state rese note le decisioni della Direzione centrale dei servizi elettorali sull'ammissibilità dei contrassegni per le elezioni europee: era facile prevedere che l'opposizione della Democrazia cristiana all'invito a sostituire il suo emblema, togliendo lo scudo crociato (troppo simile a quello dell'Udc) e il riferimento al Ppe (inserito indebitamente) sarebbe stata respinta dall'Ufficio elettorale nazionale presso la Corte di cassazione. Così effettivamente è stato: venerdì il collegio di magistrati di cassazione ha respinto l'atto presentato dal depositante del contrassegno Maurizio Benedettini e dal segretario amministrativo (e legale rappresentante) della Dc Nicola Troisi, aderendo pienamente alle osservazioni formulate dai funzionari del Viminale.
In particolare, per quanto riguarda l'illegittimità dell'uso dello scudo crociato, la decisione avrebbe fatto propria la posizione ministeriale: in base a essa, da una parte, si sarebbe ribadita la presenza nelle aule parlamentari dell'Udc dal 2002 (e, a seguito di elezioni, almeno dal 2006), per cui il suo uso consolidato sarebbe stato da tutelare nell'interesse degli elettori; dall'altra, l'organo avrebbe rilevato che dopo la fine del 1993 la Dc avrebbe cessato la propria attività, non avrebbe avuto eletti e nessun partito avrebbe dimostrato di agire in continuità giuridica con il partito attivo fino all'inizio del 1994, cosa che avrebbe potuto denotare un titolo all'uso dello scudo crociato di maggior valore rispetto a quello dell'Udc. 
Per quanto riguardava il secondo profilo contestato, cioè l'inserimento indebito del riferimento al Ppe (volto, come è facile immaginare, a evitare la raccolta firme per presentare le liste), l'Ufficio elettorale nazionale si sarebbe limitato a notare che, anche in base alle fonti europee rilevanti (raccomandazioni della Commissione europea 2013/142/UE e 2019/234/UE e la risoluzione del Parlamento europeo 2013/ 21 02 INI), i partiti che desiderano usare simboli o nomi di partiti europei devono fornire la prova del loro uso legittimo, facendo valere come precedenti vincolanti le sue decisioni precedenti del 2014 (relative ai Verdi europei e non solo), in cui si era considerato il pregio della posizione di chi aveva prodotto la dichiarazione di affiliazione al partito europeo (e conseguente delega all'uso dell'emblema) firmata dal legale rappresentante di quella stessa formazione. 
La querelle, peraltro, non si ferma qui: oggi stesso, infatti, Benedettini e Troisi hanno presentato ricorso al Tar del Lazio (cosa possibile per gli atti preparatori alle elezioni europee), contestando la decisione dei magistrati di cassazione sotto entrambi i profili. Sulla questione dello scudo crociato, per i ricorrenti la posizione del ministero - acriticamente recepita dall'Ufficio elettorale centrale nazionale - sembra avere "solo ed esclusivamente valore 'politico' per danneggiare gli interessi della Democrazia Cristiana, tralasciando una valutazione, indipendente, neutrale ed oggettiva di carattere tecnico-giuridico prendendo solo spunto e riferendosi ad una confermata valutazione di prassi e precedenti che solo privi di qualsivoglia base giuridica, favorendo in tal modo gli interessi dell'Udc". In particolare, Benedettini e Troisi contestano la cessazione dell'attività della Dc e la mancata continuità giuridica: lo fanno citando la nota sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 25999/2010, confermativa della sentenza n. 1305/2009 della Corte d'Appello di Roma, e ritenendo ancora valido quanto detto dalla decisione n. 19381/2006 del Tribunale di Roma (c.d. "sentenza Manzo", riformata dalla pronuncia di seconde cure), in base alla quale la Dc non si sarebbe mai estinta. Per i ricorrenti, insomma, l'uso tradizionale dello scudo crociato è quello della Dc, non quello derivato dell'Udc, mentre - a loro dire - con le sue valutazioni di natura politica "il Ministero dell'Interno avalla, permette e traghetta in modo amministrativo l'uso di un contrassegno che già di suo il sistema giudiziario italiano in ogni ordine e grado ha negato in modo definitivo".
Nel ricorso si sostiene che i funzionari del Viminale e i magistrati di cassazione non avrebbero nemmeno letto gli atti allegati dai rappresentanti della Dc; lo studioso che non ha alcun interesse di parte e si limita a mettere in gioco la propria conoscenza - approfondita... - della vicenda si permette di interrogarsi sul livello di lettura e di comprensione di quegli stessi atti da parte di chi intende farli valere. Non si capisce, infatti, in quale fase una sentenza abbia inibito all'Udc l'uso - men che meno in ambito elettorale - dello scudo crociato. La c.d. "sentenza Manzo" del 2006 - che pure partiva da presupposti sbagliati - si limitava a dire che il Cdu non poteva molestare la Dc (allora guidata da Giuseppe Pizza, anche se il processo era iniziato sotto la segreteria di Angelo Sandri), non certo che quest'ultima aveva diritto a un uso esclusivo del segno; la sentenza d'appello del 2009, nel riformare la "sentenza Manzo" e un'altra pronuncia sempre del 2006 (favorevole invece all'Udc), disse in sostanza che nessuna delle parti del processo - Dc, Cdu, Udc - aveva titolo per inibire alle altre l'uso - di diritto privato, non elettorale - dell'emblema perché nessuna poteva vantare su di esso un diritto esclusivo. 
La tanto citata sentenza della Cassazione a sezioni unite del 2010, nel dichiarare inammissibili (per ragioni solo formali) i ricorsi di tutte quelle parti, semplicemente ha consolidato la decisione del 2009, precisando anche - dichiarando infondato il ricorso del Partito popolare italiano - che le considerazioni sull'invalidità dell'atto con cui la Dc aveva cambiato nome in Ppi avevano valore solo tra le parti del processo e non avevano dichiarato nullo un bel niente: come dire che, in effetti, non è vero che la Dc ha concluso la propria esistenza giuridica dopo la fine del 1993, ma soltanto perché il soggetto giuridico Dc è lo stesso che dal 1994 si chiama Ppi (anche se ha cambiato nome nel modo sbagliato, in violazione dello statuto) e che dal 1995 ha adottato il gonfalone come suo simbolo (ed è attualmente ancora esistente). Nessuno dei procedimenti avviati nel corso del tempo per "risvegliare" la Dc, dunque nemmeno quello che ha visto la convocazione dell'assemblea dei soci disposta dal Tribunale di Roma e che aveva portato all'assemblea di febbraio 2017 (che elesse alla presidenza Gianni Fontana) e al congresso dell'ottobre 2018 (che ha portato alla segreteria Renato Grassi), ha mai seriamente contestato - e forse nemmeno preso sul serio - questo punto, che pure emerge con una certa chiarezza dalla sentenza di Cassazione del 2010 e da quella d'appello del 2009.
Il ricorso della Dc, invece, insiste nel dire che l'esclusione del proprio simbolo dalle elezioni comporta per il partito "un danno all'immagine ed un danno patrimoniale di ingenti quantità", perché di fatto si consente l'uso dello scudo crociato all'Udc nata ben dopo la Dc (ma non c'è una sola sentenza, tra quelle passate in giudicato, che accerti la continuità giuridica della Dc-Grassi-Fontana con la Dc del 1943: lo stesso Tribunale di Roma, disponendo alla fine del 2016 l'assemblea dei soci, si era basato sull'elenco degli iscritti del tentativo di riattivazione del 2012 e non aveva certo fatto alcuna valutazione sulla bontà di quella lista); proprio all'Udc, anzi, dovrebbe essere inibito l'uso dello scudo, protrattosi illegittimamente fino a oggi, perché prima della valutazione sulla presenza o meno in Parlamento di un partito dovrebbe venire quella sulla legittimazione originaria all'uso del segno, che per i ricorrenti è senza dubbio della Dc ora in attività (come se fosse esattamente lo stesso soggetto giuridico in opera dal 1943); nel ricorso peraltro si mette in dubbio l'effettivo uso tradizionale del simbolo dal parte dell'Udc ("il simbolo utilizzato negli anni [...] è stato modificato in tutte le tornate elettorali") e la stessa presenza del partito nelle aule parlamentari (i tre senatori ad esso riconducibili farebbero parte del gruppo di Forza Italia, dopo essere stati eletti nei collegi uninominali e non, come si legge nel ricorso, nella lista Noi con l'Italia, che non aveva raggiunto la soglia del 3%).
Sulla questione legata alla legittimazione all'uso del simbolo del Ppe, il ricorso sottolinea che l'onere di fornire la prova della legittimazione all'uso in capo ai partiti nazionali è contenuto in atti non vincolanti e obbligatori (raccomandazioni della Commissione europea e una risoluzione del Parlamento europeo), avendo questi mero valore di "indicazioni e riferimenti per lo sviluppo del fine e dello spirito europeo"; né sarebbero vincolanti, in questo senso, le decisioni precedenti dell'Ufficio elettorale nazionale citate in precedenza, anzi considerarle tali viene equiparato a "un delirio giuridico" in cui lo stesso ufficio sarebbe caduto. "L'unica norma di legge che deve essere rispettata da tutti in relazione all'indicazione di un contrassegno e/o denominazioni di partiti europei nel contrassegno nelle elezioni nazionali - si legge nel ricorso - è l'art. 3-ter della decisione (UE Euratom) n. 994 del 2018 nel quale si permette l’indicazione di un'affiliazione di un partito nazionale ad un partito europeo", mentre nessuna norma primaria interna impone obblighi di dare prova della legittimazione all'usol'affiliazione, anzi, sarebbe "una mera dichiarazione di volontà, un atto unilaterale e non un contratto tra le parti" (anche in senso etimologico, la parola indicherebbe "condivisione di valori, di etica, d'ideali e principi che non necessariamente richiede un'iscrizione formale tra le parti"), dunque sarebbero "ultronee ed irrituali" le osservazioni inviate dal Ppe, "in quanto non sono parte del procedimento e quindi non possono e non devono essere prese in considerazione".
In definitiva, i rappresentanti della Dc chiedono la riammissione del proprio contrassegno nella sua interezza (scudo crociato ed emblema del Ppe), la contestuale esclusione dell'emblema dell'Udc e, da ultimo, che "vengano sospese e congelate le operazioni elettorali preparatorie per le elezioni europee del 2019", ottenendo un termine di almeno 7 giorni dalla notifica della sentenza per depositare le liste per le europee. La decisione dovrebbe arrivare in un paio di giorni; difficile, in ogni caso, che la sentenza sia di segno diverso rispetto a quanto è stato deciso fin qui

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