Non è stata fortunata la via della giustizia amministrativa per i due partiti che avevano scelto di ricorrere al Tribunale amministrativo regionale del Lazio nel tentativo di vedere riammessi i loro contrassegni in vista delle elezioni europee 2019 (chiedendo contestualmente di essere messi nella condizione di presentare le liste, dal momento che il termine era scaduto due giorni fa). Ieri, infatti, la sezione II-bis del Tar Lazio ha respinto i ricorsi della Democrazia cristiana e di Pensioni & Lavoro.
La questione più ampia riguardava, come si è visto nei giorni scorsi, la Democrazia cristiana, alla quale erano stati contestati dalla Direzione centrale dei servizi elettorali del Ministero dell'interno sia l'uso dello scudo crociato (impiegato da anni anche nelle aule parlamentari dall'Udc), sia l'impiego senza titolo del nome e del logo del Partito popolare europeo: si è detto anche che Maurizio Benedettini e Nicola Troisi (rispettivamente depositante del contrassegno e segretario amministrativo della Dc) avevano contestato la tesi dello scioglimento del partito dei democristiani (citando le varie pronunce culminate con la nota sentenza di Cassazione a sezioni unite del 2010), ritenendo di essere i continuatori sul piano giuridico dell'attività del partito nato nel 1943 e, in quanto tali, rivendicando la legittimità dell'uso esclusivo dello scudo crociato, indebitamente utilizzato dall'Udc (del cui emblema avevano chiesto l'esclusione); i ricorrenti avevano poi sostenuto la non necessità di esibire documenti che provassero l'adesione formale della Dc ai popolari europei, essendo sufficiente la condivisione di quegli stessi ideali per consentire l'indicazione del partito europeo di riferimento (che la Dc storica aveva contribuito a fondare).
La questione più ampia riguardava, come si è visto nei giorni scorsi, la Democrazia cristiana, alla quale erano stati contestati dalla Direzione centrale dei servizi elettorali del Ministero dell'interno sia l'uso dello scudo crociato (impiegato da anni anche nelle aule parlamentari dall'Udc), sia l'impiego senza titolo del nome e del logo del Partito popolare europeo: si è detto anche che Maurizio Benedettini e Nicola Troisi (rispettivamente depositante del contrassegno e segretario amministrativo della Dc) avevano contestato la tesi dello scioglimento del partito dei democristiani (citando le varie pronunce culminate con la nota sentenza di Cassazione a sezioni unite del 2010), ritenendo di essere i continuatori sul piano giuridico dell'attività del partito nato nel 1943 e, in quanto tali, rivendicando la legittimità dell'uso esclusivo dello scudo crociato, indebitamente utilizzato dall'Udc (del cui emblema avevano chiesto l'esclusione); i ricorrenti avevano poi sostenuto la non necessità di esibire documenti che provassero l'adesione formale della Dc ai popolari europei, essendo sufficiente la condivisione di quegli stessi ideali per consentire l'indicazione del partito europeo di riferimento (che la Dc storica aveva contribuito a fondare).
Il ricorso, tuttavia, secondo il collegio giudicante (tutto composto da donne, presieduto da Elena Stanizzi) è affetto da "sicura infondatezza". Per quanto riguarda lo scudo crociato, la legge è chiara nel non consentire la presentazione di contrassegni che contengano simboli "usati tradizionalmente da partiti presenti in Parlamento", come può dirsi appunto per l'Udc (mentre la Dc storica non è presente in Parlamento dalla fine del 1993 - inizio del 1994). I ricorrenti in effetti non hanno contestato questo (e nemmeno la confondibilità dei contrassegni in sé), ma si ritenevano legittimati in quanto sostenevano di essere proprio la stessa Dc che aveva smesso di operare all'inizio del 1994, per cui erano i soli titolari legittimi dell'emblema: si è detto più volte in questo sito che le cose stanno diverdamente, le magistrate però su questo si sono espresse solo in modo collaterale, rilevando che i ricorrenti si sono "limitati ad affermare, senza fornire alcun concreto elemento a comprova, l’identificazione del proprio partito con quello della Democrazia Cristiana 'storica”', emergendo, per contro, proprio dalle stesse sentenze del Giudice Ordinario richiamate dalla difesa dei ricorrenti e prodotte in atti, nella loro integralità, dalla difesa dei controinteressati, che tutti gli attuali soggetti che pretendono di accreditarsi nell’opinione pubblica come Partito della Democrazia Cristiana, non hanno in verità, alcuna continuità storico giuridica con tale soggetto"; al di là di questo, il collegio ha precisato che "esula dal presente giudizio ogni accertamento circa l'effettiva spettanza del diritto assoluto sui segni distintivi, neppure ricompreso nell’ambito della giurisdizione di questo giudice". Come dire che l'infinito contenzioso sul piano civile su chi rappresenti la Dc e sia titolare dei suoi segni non interessa quando, in sede elettorale, si deve solo decidere se un contrassegno può creare confusione tra gli elettori, qualora voglia usarlo una formazione diversa da chi lo ha usato a lungo e fino a ieri (e vorrebbe continuare) nelle aule parlamentari, a differenza del gruppo che rivendica il segno. Viene insomma confermata la posizione che il Viminale e l'Ufficio elettorale naziomale hanno almeno dalle europee del 2004 (a tutela degli elettori dell'Udc; in realtà avevano già iniziato prima).
Quanto al veto posto all'uso del fregio del Partito popolare europeo senza un'adesione documentata, le giudici si limitano a notare che "la nota dell’8 aprile 2019 inviata dal Vice Segretario Generale e rappresentante legale del PPE al Ministero dell’Interno" prova che i partiti aderenti al Ppe sono solo sei (Forza Italia, Sudtiroler Volkspartei, Popolari per l’Italia, Alternativa Popolare, Partito Autonomista Trentino Tirolese e l'Udc) e che il partito europeo "ha espressamente negato l’uso del proprio simbolo a formazioni diverse da quelle sopra indicate" (in più si sposa la tesi del Vimimale, per il quale dalla disciplina europea emergerebbe "la necessità della prova della legittimazione all'utilizzazione del simbolo del partito europeo, dovendosi, comunque, escludere che la mera dichiarazione di volontà unilaterale di affiliazione da parte della formazione politica nazionale possa ritenersi idonea a fondare una pretesa di utilizzo", per salvaguardare i diritti dei titolari dell'emblema ed evitare di confondere gli elettori circa la reale appartenenza a un partito europeo). Il ricorso dunque è stato respinto, con tanto di condanna dei ricorrenti Dc a rifondare le spese di giudizio all'Udc (3500 euro), "tenuto conto della sussistenza di un orientamento consolidato della giurisprudenza sulle questioni controverse".
Quanto invece al ricorso del depositante di Pensioni & Lavoro, con cui (secondo la "dottrina" del Gran Cancelliere Ugo Sarao), si rivendicava l'uso legittimo del simbolo del Labour Party britannico, il Tar ha rilevato che il ricorrente, "al di là di generiche riflessioni sulla riconducibilità del simbolo della rosa alla Internazionale Socialista e a numerosi partiti europei", ha insistito sulla non necessità dell'autorizzazione del partito laburista, "per l’inesistenza di una norma nazionale o comunitaria che stabilisca il corrispondente obbligo" e perché anche secondo lui l'affiliazione sarebbe solo un atto unilaterale: in realtà l'affiliazione tra partiti a livello europeo rappresenta, alla luce delle norme nazionali ed europee, "un preciso istituto giuridico, subordinato all'accordo tra due formazioni politiche ed alla relativa prova" e le stesse Istruzioni del Viminale aveano richiesto di "produrre l’attestazione/dichiarazione del presidente segretario o altro rappresentante legale del partito europeo di riferimento che affermi l’esistenza di un collegamento (o affiliazione /associazione) con detto partito nazionale e la conseguente legittimazione all'utilizzo del simbolo e/o della denominazione del partito o gruppo politico europeo all'interno del contrassegno che il medesimo partito nazionale deposita al Ministero dell’interno".
Di più, il collegio nota che il divieto di confondibilità deve essere applicato anche a tutela dei partiti europei, "anche in base alla natura europea della consultazione, ed al conseguente aumento del rischio di confusione degli elettori e di lesione del principio di trasparenza e chiarezza del voto", tutela garantita dal rilascio del consenso all'uso del simbolo. Una soluzione che, come detto in precedenza dai magistrati di Cassazione, risponde a "evidenti ragioni di equità".
Bocciatura dunque anche per l'intero contrassegno di Pensioni & Lavoro: la sua esclusione, come per la Democrazia cristiana, potrebbe essere definitiva, a meno che uno dei due partiti scelga di impugnare la rispettiva sentenza e rivolgersi al Consiglio di Stato. Sperando di ottenere da Palazzo Spada quel provvedimento favorevole che finora è mancato (anche se questo comporterebbe inevitabilmente lo stop alla macchina elettorale, cosa che rende più improbabile una sentenza di accoglimento).
Quanto al veto posto all'uso del fregio del Partito popolare europeo senza un'adesione documentata, le giudici si limitano a notare che "la nota dell’8 aprile 2019 inviata dal Vice Segretario Generale e rappresentante legale del PPE al Ministero dell’Interno" prova che i partiti aderenti al Ppe sono solo sei (Forza Italia, Sudtiroler Volkspartei, Popolari per l’Italia, Alternativa Popolare, Partito Autonomista Trentino Tirolese e l'Udc) e che il partito europeo "ha espressamente negato l’uso del proprio simbolo a formazioni diverse da quelle sopra indicate" (in più si sposa la tesi del Vimimale, per il quale dalla disciplina europea emergerebbe "la necessità della prova della legittimazione all'utilizzazione del simbolo del partito europeo, dovendosi, comunque, escludere che la mera dichiarazione di volontà unilaterale di affiliazione da parte della formazione politica nazionale possa ritenersi idonea a fondare una pretesa di utilizzo", per salvaguardare i diritti dei titolari dell'emblema ed evitare di confondere gli elettori circa la reale appartenenza a un partito europeo). Il ricorso dunque è stato respinto, con tanto di condanna dei ricorrenti Dc a rifondare le spese di giudizio all'Udc (3500 euro), "tenuto conto della sussistenza di un orientamento consolidato della giurisprudenza sulle questioni controverse".
Quanto invece al ricorso del depositante di Pensioni & Lavoro, con cui (secondo la "dottrina" del Gran Cancelliere Ugo Sarao), si rivendicava l'uso legittimo del simbolo del Labour Party britannico, il Tar ha rilevato che il ricorrente, "al di là di generiche riflessioni sulla riconducibilità del simbolo della rosa alla Internazionale Socialista e a numerosi partiti europei", ha insistito sulla non necessità dell'autorizzazione del partito laburista, "per l’inesistenza di una norma nazionale o comunitaria che stabilisca il corrispondente obbligo" e perché anche secondo lui l'affiliazione sarebbe solo un atto unilaterale: in realtà l'affiliazione tra partiti a livello europeo rappresenta, alla luce delle norme nazionali ed europee, "un preciso istituto giuridico, subordinato all'accordo tra due formazioni politiche ed alla relativa prova" e le stesse Istruzioni del Viminale aveano richiesto di "produrre l’attestazione/dichiarazione del presidente segretario o altro rappresentante legale del partito europeo di riferimento che affermi l’esistenza di un collegamento (o affiliazione /associazione) con detto partito nazionale e la conseguente legittimazione all'utilizzo del simbolo e/o della denominazione del partito o gruppo politico europeo all'interno del contrassegno che il medesimo partito nazionale deposita al Ministero dell’interno".
Di più, il collegio nota che il divieto di confondibilità deve essere applicato anche a tutela dei partiti europei, "anche in base alla natura europea della consultazione, ed al conseguente aumento del rischio di confusione degli elettori e di lesione del principio di trasparenza e chiarezza del voto", tutela garantita dal rilascio del consenso all'uso del simbolo. Una soluzione che, come detto in precedenza dai magistrati di Cassazione, risponde a "evidenti ragioni di equità".
Bocciatura dunque anche per l'intero contrassegno di Pensioni & Lavoro: la sua esclusione, come per la Democrazia cristiana, potrebbe essere definitiva, a meno che uno dei due partiti scelga di impugnare la rispettiva sentenza e rivolgersi al Consiglio di Stato. Sperando di ottenere da Palazzo Spada quel provvedimento favorevole che finora è mancato (anche se questo comporterebbe inevitabilmente lo stop alla macchina elettorale, cosa che rende più improbabile una sentenza di accoglimento).
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