Si immagini di riavvolgere la storia di 35 anni, tornando indietro allo stesso giorno di oggi, dell'orwelliano 1984: che Italia politica si troverebbe? Quali partiti? Una risposta indiretta si trova guardando i simboli depositati in vista delle elezioni europee del 17 giugno - presentati al Viminale tra il 29 e il 30 aprile - ed effettivamente utilizzati sulle schede. Gli elettori del 1984 potevano scegliere tra 11 emblemi: Partito comunista italiano, Democrazia cristiana (fu l'anno del famoso sorpasso comunista sui democristiani), Partito socialista italiano, Movimento sociale italiano - Destra nazionale, la bicicletta Pli-Pri ("per la Federazione europea"), Partito socialdemocratico italiano, Partito radicale, Democrazia proletaria, Südtiroler Volkspartei, l'alleanza Union Valdôtaine - Partito sardo d'azione e - unico partito a non conquistare seggi - la Liga Veneta (che nel 1983 aveva ottenuto due parlamentari e in quell'occasione proponeva un rassemblement più ampio, denominato "Unione per l'Europa federalista"). Nelle bacheche del Viminale i contrassegni pervenuti erano poco più del doppio, cioè 27; tra questi però figuravano anche sei emblemi ricusati (comprese tre versioni della Liga Veneta e il vecchio simbolo del Psi precraxiano) e i fregi non accoppiati di Pli, Pri, Psdaz e Uv), dunque i simboli effettivamente non utilizzati erano solo 6.
Tra questi, tuttavia, mancava un partito nato ufficialmente in uno studio notarile 35 anni fa esatti (appunto), cioè poco più di due settimane prima del deposito degli emblemi elettorali, anche se aveva iniziato a muovere i primi passi già un paio di anni prima: si trattava della Lega autonomista lombarda. Pochi avrebbero scommesso che, dieci anni esatti più tardi, il soggetto politico che ne costituiva l'evoluzione - ossia la Lega Nord - sarebbe stato parte integrante di un'ormai prossima maggioranza di centrodestra (guidata da Silvio Berlusconi), uscita dalle prime elezioni con sistema elettorale misto a prevalenza maggioritaria; ancora meno persone avrebbero potuto immaginare che, 35 anni dopo, una nuova evoluzione di quel partito si sarebbe trovata a co-guidare (ma da una posizione di maggior forza) un governo con una forza politica - il MoVimento 5 Stelle - che alle elezioni era sua avversaria.
Eppure, tutto iniziò quel 12 aprile 1984 a Varese, in via Giuseppe Bernascone 1, giusto a ridosso del centro storico; oggi, per riannodare i fili della storia, occorre spostarsi giusto di 200 metri, in via Luigi Sacco 10, dove ora si è trasferito lo studio della notaia Franca Bellorini. Davanti a lei, 35 anni fa, si presentarono sei persone, cioè Umberto Bossi (allora di professione "editore"), la sua futura moglie Manuela Marrone ("maestra elementare"), Pierangelo Brivio ("commerciante" e marito della sorella di Bossi, Angela), il rappresentante di commercio Marino Moroni, l'odontotecnico Emilio Benito Rodolfo Sogliaghi e l'architetto Giuseppe Leoni, futuro compagno di scorribande parlamentari di Bossi.
Quel giorno, dunque, ci si misero in sei a fondare la "Lega autonomista lombarda" (con sede provvisoria a Milano, in via Bardelli 1), che non aveva come scopo il lucro, "bensì il raggiungimento della autonomia amministrativa e culturale della Lombardia": questo stava scritto nell'atto costitutivo (documento di quattro pagine) e nell'art. 4 dello statuto ad esso allegato (altre dieci pagine), precisando che quel fine realizzava "le aspirazioni delle popolazioni locali ad un autogoverno che tenga contro della necessità di uno sviluppo sociale legato alle caratteristiche etniche e storiche del popolo lombardo". Peraltro, stando al successivo art. 5, chiunque - anche non lombardo o, in astratto, non del Nord Italia - poteva far parte della Lega (sì, perché dopo l'art. 1 il partito è sempre stato citato così, anche se il nome integrale era più lungo), purché condividesse "i principi fondamentali della causa autonomista", sottoscrivendone gli obiettivi e seguendone "il programma e l'azione"; ogni richiesta di adesione, tuttavia, doveva essere sottoposta al Consiglio federale - massimo organo politico esecutivo della linea dettata dal Congresso, nonché titolare della gestione amministrativa - dai responsabili delle organizzazioni periferiche, che doveva accompagnarla con il "proprio giudizio di merito".
Questo mondo associativo era compendiato in un simbolo, descritto all'art. 2 dello statuto come "un cerchio racchiudente il profilo della Regione Lombardia con all'interno la figura di Alberto da Giussano come rappresentato nel monumento di Legnano e la scritta Lega Lombarda": non c'era alcuna grafica allegata allo statuto, ma era chiaro che si trattava del guerriero di legnano con lo spadone sguainato che nel corso degli anni si è stagliato - pur con qualche modifica nel disegno, a partire dalla sparizione del sasso su cui si poggiava il piede della statua - nel simbolo della Lega lombarda, dell'Alleanza Nord, della Lega Nord e, dal 2018, della Lega. Di certo, anche se nello statuto non era scritto, Alberto da Giussano faceva parte del patrimonio immateriale e morale del partito, mentre le risorse finanziarie dovevano derivare, oltre che dalle tessere e dalle offerte o dal finanziamento pubblico, dalla "vendita di pubblicazioni edite dal Movimento autonomista". E non c'era il rischio che il patrimonio del partito - allora davvero esiguo, se non quasi inesistente - potesse finire in mani "straniere": l'art. 24 dello statuto precisava che, in caso di scioglimento del partito - competenza del Congresso - si doveva disporre la destinazione del patrimonio "a beneficio della cultura lombarda".
Quel giorno Emilio Sogliaghi uscì come presidente dell'associazione (e, come tale, legale rappresentante della stessa), mentre Umberto Bossi divenne il primo segretario ed entrambi, assieme agli altri quattro contraenti, risultarono i primi componenti del Consiglio federale del partito. Nemmeno lo stesso Bossi, forse, poteva immaginare che tre anni dopo sarebbe stato eletto al Senato - diventando, per antonomasia, il Senatùr - e dal 1987 sarebbe sempre stato nel Parlamento italiano o europeo, facendo pure due volte il ministro. Nel frattempo, il 4 dicembre 1989, era stata fondata - da un altro notaio, stavolta a Bergamo - la Lega Nord, di cui Bossi divenne segretario e legale rappresentante: in quell'occasione si federarono la Lega lombarda (che portò con sé il simbolo, stavolta abbinato al profilo del Nord Italia), la Liga veneta, nonché Piemont autonomista, la Lega emiliano-romagnola, l'Uniun ligure e l'Alleanza toscana, ma le prime due - che avevano un'esistenza acclarata e consolidata, anche sul piano economico - mantennero per un certo tempo autonomia giuridica ed economica, dipendendo dalla Lega Nord "soltanto per ciò che riguarda la linea politica e strategica definita dagli organi della Federazione". Sembra davvero una vita fa, invece sono solo trent'anni...
La prima pagina dell'atto costitutivo |
Quel giorno, dunque, ci si misero in sei a fondare la "Lega autonomista lombarda" (con sede provvisoria a Milano, in via Bardelli 1), che non aveva come scopo il lucro, "bensì il raggiungimento della autonomia amministrativa e culturale della Lombardia": questo stava scritto nell'atto costitutivo (documento di quattro pagine) e nell'art. 4 dello statuto ad esso allegato (altre dieci pagine), precisando che quel fine realizzava "le aspirazioni delle popolazioni locali ad un autogoverno che tenga contro della necessità di uno sviluppo sociale legato alle caratteristiche etniche e storiche del popolo lombardo". Peraltro, stando al successivo art. 5, chiunque - anche non lombardo o, in astratto, non del Nord Italia - poteva far parte della Lega (sì, perché dopo l'art. 1 il partito è sempre stato citato così, anche se il nome integrale era più lungo), purché condividesse "i principi fondamentali della causa autonomista", sottoscrivendone gli obiettivi e seguendone "il programma e l'azione"; ogni richiesta di adesione, tuttavia, doveva essere sottoposta al Consiglio federale - massimo organo politico esecutivo della linea dettata dal Congresso, nonché titolare della gestione amministrativa - dai responsabili delle organizzazioni periferiche, che doveva accompagnarla con il "proprio giudizio di merito".
Questo mondo associativo era compendiato in un simbolo, descritto all'art. 2 dello statuto come "un cerchio racchiudente il profilo della Regione Lombardia con all'interno la figura di Alberto da Giussano come rappresentato nel monumento di Legnano e la scritta Lega Lombarda": non c'era alcuna grafica allegata allo statuto, ma era chiaro che si trattava del guerriero di legnano con lo spadone sguainato che nel corso degli anni si è stagliato - pur con qualche modifica nel disegno, a partire dalla sparizione del sasso su cui si poggiava il piede della statua - nel simbolo della Lega lombarda, dell'Alleanza Nord, della Lega Nord e, dal 2018, della Lega. Di certo, anche se nello statuto non era scritto, Alberto da Giussano faceva parte del patrimonio immateriale e morale del partito, mentre le risorse finanziarie dovevano derivare, oltre che dalle tessere e dalle offerte o dal finanziamento pubblico, dalla "vendita di pubblicazioni edite dal Movimento autonomista". E non c'era il rischio che il patrimonio del partito - allora davvero esiguo, se non quasi inesistente - potesse finire in mani "straniere": l'art. 24 dello statuto precisava che, in caso di scioglimento del partito - competenza del Congresso - si doveva disporre la destinazione del patrimonio "a beneficio della cultura lombarda".
Nessun commento:
Posta un commento