Si era già scritto, commentando le decisioni dell'Ufficio elettorale centrale nazionale sui ricorsi relativi all'esclusione di liste, che la vicenda più meritevole di attenzione era quella legata alla ricusazione delle candidature della Lista Referendum e Democrazia, promossa dal movimento paneuropeo Eumans, co-presieduto da Virginia Fiume e Marco Cappato: com'è noto, gli uffici elettorali circoscrizionali e regionali non hanno riconosciuto validità alla raccolta di sottoscrizioni in forma digitale (praticata per cercare di 'svecchiare' il procedimento elettorale preparatorio, pur in assenza di modifiche alle disposizioni in vigore) e i magistrati della Corte di cassazione hanno confermato il verdetto.
Nello stesso articolo si era anticipata la decisione dei promotori della lista di presentare un ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile presso il Tribunale di Milano, con l'assistenza legale di Giovanni Guzzetta, ordinario di diritto costituzionale a Tor Vergata (e la collaborazione di Giuseppe Corasaniti, docente di Diritto dell'amministrazione digitale alla Luiss e già sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione). Nel primo pomeriggio di martedì 20 settembre, tuttavia, è stata resa nota l'ordinanza con cui la prima sezione civile del Tribunale di Milano, nella persona del giudice designato Andrea Manlio Massimo Fabio Borrelli, ha respinto il ricorso presentato dal legale rappresentante dell'associazione Referendum e Democrazia Marco Perduca e da alcuni candidati al Senato in Lombardia (tra cui Alessandro Ciofini, già candidato con il Partito pirata, e soprattutto Emilio De Capitani, direttore esecutivo del Fundamental Rights European Experts Group e a lungo segretario della Commissione Libertà civili del Parlamento. Europeo); alla decisione di segno negativo si è accompagnata la condanna alle spese del procedimento cautelare (5mila euro, con in più gli "accessori di legge").
Il ricorso
I ricorrenti in sede cautelare avevano chiesto che la Lista Referendum e Democrazia fosse ritenuta ammissibile alle elezioni politiche del 25 settembre (quanto alle candidature presentate al Senato in Lombardia), ordinando all'Ufficio elettorale lombardo (superando la sua decisione del 23-24 agosto e quella dell'Ufficio elettorale centrale nazionale) di riammettere la lista, eliminando con appositi atti urgenti ogni pregiudizio alla partecipazione al voto. In alternativa (o soprattutto) si puntava a ottenere lo stesso risultato dopo aver interpellato la Corte di giustizia dell'Unione europea o la Corte costituzionale, perché valutassero se l'art. 18-bis del testo unico per l'elezione della Camera (che impone di fatto la raccolta cartacea delle firme) e l'art. 2, comma 6 del Codice dell'amministrazione digitale (a norma del quale le disposizioni del codice "non si applicano limitatamente all'esercizio delle attività e funzioni [...] di consultazioni elettorali") fossero compatibili col quadro normativo europeo o con la Costituzione. La Corte di Lussemburgo avrebbe dovuto interpretare l'art. 25, paragrafo 2 del Regolamento UE n. 910/2014 in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno ("una firma elettronica qualificata ha effetti giuridici equivalenti a quelli di una firma autografa"), valutando se con tale disposizione contrastassero quelle italiane sulla raccolta firme a sostegno delle liste; la Corte costituzionale, invece, avrebbe dovuto valutare la costituzionalità delle norme citate "nella parte in cui non consentono la sottoscrizione in formato digitale della presentazione di liste, dell'accettazione delle medesime e del deposito digitale delle stesse presso gli uffici elettorali competenti", prendendo come parametri gli artt. 2, 3, 48, 49, 51, 57, 58 e 117 Cost. (l'ultimo guardando all'art. 3 del I Protocollo addizionale alla Cedu, all'art. 25 del Patto internazionale sui diritti civili e politici dell'Onu e al citato art. 25, par. 2 del Regolamento UE n. 910/2014).
Il contenzioso, comunque, si presentava fin dall'inizio proiettato anche dopo il voto, pure nell'eventualità che le richieste non fossero state accolte: i ricorrenti, infatti, avevano annunciato di voler instaurare un giudizio di merito, in cui chiedere al giudice di accertare il loro diritto a presentare liste (e vedere accettate le proprie candidature) "anche mediante documento informatico sottoscritto mediante firma elettronica qualificata a cui è associato un riferimento temporale validamente opponibile ai terzi depositato tramite supporto elettronico (pen-drive) quale duplicato informatico, ai sensi dell’art. 1 comma 1, lett. i-quinquies) del Codice dell’amministrazione digitale e con accompagnamento delle sottoscrizioni con duplicato informatico [...] dei certificati d’iscrizione nelle liste elettorali acclusi ai messaggi di posta elettronica certificata ricevuti dalle amministrazioni comunali"; se fosse stato accertato quel diritto, si sarebbe chiesta la condanna delle amministrazioni resistenti (Presidenza del Consiglio, ministeri dell'interno e della giustizia) a risarcire i danni subiti a causa della lesione del loro diritto. L'impostazione della causa di merito secondo i canoni dell'azione di accertamento e dichiarativa segue la strada già percorsa da vari anni dai giudizi intrapresi per sottoporre le norme elettorali politiche a giudizio di costituzionalità (a partire dalla causa aperta dagli avvocati Aldo Bozzi, Claudio Tani e Felice Besostri, alla base di Corte cost., sent. n. 1/2014) e che era stata ritenuta valida dalla Corte costituzionale - con la sentenza n. 48/2021 - anche con riferimento alle presunte lesioni del diritto di elettorato passivo, legate tra l'altro alle norme sulla raccolta firme (sul punto, però, bisognerà tornare più avanti).
Non disponendo del testo del ricorso, per il contenuto occorre rifarsi all'intervento di Giovanni Guzzetta alla conferenza stampa dell'associazione Referendum e Democrazia successiva al deposito dell'atto presso il Tribunale di Milano. Per dimostrare che c'era almeno il sospetto che il ricorso fosse fondato (il cosiddetto fumus boni iuris), il ricorso ha innanzitutto sostenuto che già ora le sottoscrizioni raccolte digitalmente dovrebbero essere una valida forma di sostegno alle candidature da presentare: per Guzzetta e per i ricorrenti, non c'è "una ragione [...] per ritenere che non ci siano norme nel nostro ordinamento in grado di consentire la presentazione delle firme [...] in forma elettronica", si dovrebbe solo applicare il Codice dell'amministrazione digitale. I ricorrenti contestano la tesi degli uffici elettorali, basata sull'art. 2, comma 6 di tale codice, per cui quella fonte non si applica "limitatamente all'esercizio delle attività e funzioni [...] di consultazioni elettorali", espressione per Guzzetta "grammaticalmente quasi incomprensibile"; in ogni caso, l'interpretazione alla base della ricusazione "dà per scontato [...] che 'consultazioni elettorali” significhi tutto ciò che riguarda la attività che conduce alle elezioni", dalla convocazione dei comizi agli atti post-scrutinio (escludendo che la sottoscrizione di una lista sia un'attività o una funzione pubblica). Per i ricorrenti, invece, "la consultazione elettorale è il momento in cui si svolgono le operazioni di voto", cioè le elezioni propriamente dette (che iniziano con la preparazione dei seggi e cui si applica la giurisdizione delle Camere, mentre per gli atti precedenti il giudice è quello ordinario, secondo Corte cost. n. 48/2021). Voler leggere, come gli uffici elettorali, in modo estensivo l'espressione, includendovi pure gli atti preparatori alle elezioni, limiterebbe i diritti delle persone (qui, il diritto di elettorato passivo) e andrebbe contro il principio generale per cui, se una disposizione limita un diritto fondamentale, va letta in senso restrittivo (per contenere quella limitazione).
L'esistenza del Regolamento UE n. 910/2014 sull'identificazione elettronica e sui servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno, poi, per Guzzetta e per i ricorrenti dovrebbe "riavvicinare le legislazioni, proprio in tema di identità digitale, e [...] creare un quadro normativo unitario, quindi un'armonizzazione proprio in tema di firme elettroniche", soprattutto grazie all'art. 25. paragrafo 2, in base al quale "una firma elettronica qualificata ha effetti giuridici equivalenti a quelli di una firma autografa". Secondo loro non si poteva opporre, come hanno fatto gli uffici elettorali, che il regolamento riguarda in realtà le "transazioni elettroniche" e non può estendersi anche a ogni altro settore in cui è richiesta una firma. Il regolamento (noto come "regolamento eIDAS"), oltre a essere direttamente applicabile, porrebbe dunque un principio generale in materia di validità della firma elettronica qualificata: su quella base, ogni norma interna in contrasto dovrebbe essere disapplicata direttamente da ogni pubblica autorità, inclusi ovviamente gli organi incaricati di vagliare le liste e i giudici.
Quanto alla possibilità di rivolgersi alla Corte costituzionale - in sede di ricorso d'urgenza o di giudizio di merito - per vagliare la legittimità delle norme in materia di raccolta firme (e di non applicabilità del Codice dell'amministrazione digitale alle "consultazioni elettorali"), l'argomento più forte era l'irragionevole disparità di trattamento tra le firme volte alla presentazione delle liste (ancora "costrette" all'analogico-autografo) e quelle a sostegno delle proposte di legge di iniziativa popolare e di referendum, dal 2021 possibili anche in formato digitale. Per Guzzetta si è di fronte a "una violazione [...] flagrante dell'art. 3 della Costituzione, e per giunta paradossale, perché, mentre le norme sulla raccolta delle firme o sull’esistenza necessaria di un certo numero di firme sono norme di rango legislativo, benché [...] finalizzate ad assicurare la genuinità della firma che si presenta, le norme che invece prevedono la raccolta di firme per i referendum e per le iniziative popolari sono norme previste direttamente dalla Costituzione": non avrebbe senso consentire la raccolta firme in formato digitale per un procedimento previsto in Costituzione e non permetterlo per un iter regolato solo con legge (il legislatore avrebbe potuto scegliere soluzioni diverse dalla raccolta delle sottoscrizioni, a partire dalla cauzione). Si sono indicate poi altre norme costituzionali ritenute violate dall'attuale sistema per dimostrare la serietà delle candidature: gli stessi parametri erano stati impiegati nel ricorso presentato nel 2019 da +Europa per poter indubbiare la costituzionalità della raccolta firme (sotto altri aspetti), ricorso che portò alla citata sentenza n. 48/2021. Il tutto mentre è scaduto invano il termine di sei mesi dall'entrata in vigore della "legge Rosato" entro il quale un decreto del Viminale avrebbe dovuto definire "le modalità per consentire in via sperimentale la raccolta con modalità digitale delle sottoscrizioni necessarie per la presentazione delle candidature e delle liste in occasione di consultazioni elettorali", anche con l'uso della firma digitale o elettronica qualificata.
L'ordinanza (e un dubbio che pesa)
Si è già anticipato che contro la posizione dei ricorrenti si sono schierati con nettezza la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell'interno e quello della giustizia: il 15 settembre, infatti, si sono costituiti, chiedendo - in vista dell'udienza del 19 settembre - il rigetto del ricorso. Ci sarà tempo e un altro spazio per approfondire in seguito (non disponendo, anche in questo caso, degli atti di parte) le questioni legate al merito contenute nella memoria; i promotori della lista hanno peraltro fatto sapere che, tra gli argomenti spesi dall'Avvocatura dello Stato, c'era anche quello in base al quale "le elezioni sono un complesso procedimento, con rigorose scansioni temporali che, in caso di accoglimento del ricorso, sarebbero completamente stravolte al punto da imporre di fissare una nuova data per la convocazione dei comizi elettorali. […] Di fatto il provvedimento cautelare auspicato dai ricorrenti imporrebbe di differire lo svolgimento delle elezioni". Ai veri #drogatidipolitica, tra l'altro, è sembrato di tornare indietro di quattordici anni e mezzo, quando il Consiglio di Stato aveva riammesso la Dc-Pizza (con una decisione discussa e discutibile, oltre che assai stringata) alle elezioni politiche del 2008 e il Ministero dell'interno si rivolse alla Corte di cassazione con regolamento di giurisdizione, visto che l'eventuale rinvio delle elezioni per "restituire" un mese intero di campagna elettorale al partito prima escluso avrebbe messo a rischio il rispetto dell'art. 61 Cost., a norma del quale "Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti". In quel caso il Viminale si vide riconoscere che non spettava al giudice amministrativo pronunciarsi sui ricorsi in materia di contenzioso pre-elettorale politico: in quel modo si sventò il rischio di rinvio del voto.
Anche nel 2022 il rischio di rinviare le elezioni politiche sembra tramontato, ma per ragioni diverse. Se i ricorrenti rivendicavano di aver corredato le liste con "un sufficiente numero di sottoscrizioni" e di aver ottenuto che ogni firmatario usasse "una firma elettronica qualificata e una marca temporale qualificata, nel rispetto del Codice dell'Amministrazione Digitale, del DPCM 22 febbraio 2013, del Regolamento eIDAS 910/2014 e dei relativi standard ETSI, nonché delle circolari AgiD", l'Avvocatura dello Stato non si è limitata a ritenere le "sottoscrizioni non analogiche" non idonee alla valida presentazione di liste elettorali. La stessa ordinanza del giudice designato del Tribunale civile di Milano, infatti, spiega come la difesa erariale abbia eccepito anche il "difetto di prova circa la sussistenza e validità delle sottoscrizioni prescritte anche eventualmente in formato digitale", aggiungendo che il giudice civile in sede cautelare non avrebbe potuto riammettere la lista "senza preventivo accertamento della regolarità della presentazione quanto meno secondo le modalità astrattamente delineate nel ricorso introduttivo". Secondo il giudice, quel riferimento bastava a far ritenere controversa la stessa "presentazione agli Uffici elettorali regionale e centrale, da parte dei ricorrenti, di sottoscrizioni digitali regolari e in numero sufficiente"; a suo dire sarebbe toccato proprio ai ricorrenti dimostrare tale presentazione di firme digitali regolari e in numero congruo, visto che ciò "costituisce il presupposto di fatto che [...] legittimerebbe la pronuncia dei provvedimenti richiesti". Il giudice non ha creduto di essere stato "posto in condizione di verificare la sussistenza" della presentazione di un numero sufficiente di firme digitali/elettroniche regolari e questo è stato per lui sufficiente a ritenere che non ci fosse alcun elemento per credere minimamente fondata la richiesta della lista Referendum e Democrazia di essere riammessa.
Chi scrive ora dubitava che si sarebbe arrivati a un accoglimento della domanda. Un'ordinanza di riammissione della lista, inevitabilmente basata sul riconoscimento - sia pure in sede cautelare - della validità della raccolta delle sottoscrizioni in formato digitale, avrebbe di fatto spalancato la porta "per via giudiziaria" alla presentazione di liste in quel modo, alle prossime elezioni politiche e anche alle altre scadenze elettorali, cambiando profondamente l'orizzonte del voto in Italia: lo scenario al sottoscritto sarebbe certamente garbato (per il poco che possono valere le opinioni personali), ma difficilmente sarebbe stato accettabile in presenza non di un silenzio del Parlamento in materia, ma di un voto della commissione Bilancio della Camera a metà dicembre 2021 in cui i voti favorevoli all'emendamento - a prima firma di Riccardo Magi, concepito da Mario Staderini - con cui si voleva introdurre la firma in formato digitale anche per la presentazione delle liste per le elezioni politiche erano stati pari a quelli contrari (con molte assenze significative) e dunque l'emendamento era stato respinto. La posizione tenuta dal giudice designato ha permesso a costui di non pronunciarsi su una materia scivolosa, con potenziali effetti che sarebbero andati ben oltre la singola vicenda (e, anzi, la stessa ordinanza si premura di precisare che "non spetta certo al Tribunale esprimere in astratto principi giuridici, bensì risolvere concrete controversie"); le argomentazioni usate per 'sbarazzarsi' della questione, tuttavia, non soddisfano affatto.
In poche righe, in sostanza, il giudice ha detto che toccava alla lista Referendum e Democrazia dimostrare che davvero le firme erano state raccolte in numero sufficiente e che erano valide (provenendo da elettori non candidati di quei collegi e senza essere doppie): in mancanza di quella prova, non si poteva nemmeno discutere sul valore delle firme e sulla riammissione della lista. Carmelo Palma ha illustrato così il ragionamento su Public Policy: "Nella sostanza l’argomento circolare del giudice è il seguente: l'Ufficio centrale regionale non ha contato e verificato le firme depositate, ritenendo inammissibile la modalità di raccolta (firme digitali e non autografe), e dunque manca la prova che esse, nel loro numero, fossero pari o superiori a quelle previste dalla legge e fossero tutte di cittadini elettori della circoscrizione regionale; visto che però il presupposto del ricorso della lista 'Referendum e Democrazia' circa la validità delle firme digitali è che le firme fossero valide e sufficienti e l’Ufficio elettorale non le ha contate e verificate proprio perché erano digitali manca il presupposto del ricorso!". Non si vede in effetti come i ricorrenti avrebbero potuto dare la dimostrazione richiesta, visto che questa era stata consegnata su supporto informatico, cioè una pen drive, una "chiavetta Usb": ricorda Palma che "nulla avrebbe impedito al giudice di pronunciarsi sul punto dell'ammissione della lista", cosa che avrebbe potuto fare chiedendo all'Ufficio elettorale regionale di consegnare il supporto con le firme elettroniche qualificate (e, pur non avendo letto il ricorso o gli altri atti della Lista Referendum e Democrazia, ci si rifiuta di credere che in quei documenti non sia mai stata chiesta l'esibizione dei file delle firme conservate in Corte d'appello a Milano).
Al ragionamento di Carmelo Palma si aggiunge un altro punto: la lista avrebbe forse potuto dimostrare l'esistenza e congruità delle firme esibendo una copia informatica delle firme stesse, fornita magari su un'altra chiavetta Usb. Non può sfuggire, però, che solo pochi mesi fa, a marzo, il Garante per la protezione dei dati personali aveva espresso un parere piuttosto critico sullo schema di d.P.C.M. sulla disciplina della piattaforma per la raccolta delle firme per i referendum e le proposte di legge di iniziativa popolare: in quella sede si legge, tra l'altro, che "i dati dei sottoscrittori di una proposta di referendum o di progetto di legge vanno inquadrati nell'ambito delle particolari categorie di dati personali di cui
all’art. 9, par. 1, del Regolamento [generale sulla protezione dei dati ,il famigerato GDPR, ndb] in quanto rivelano - ancor più del dato relativo alla mera partecipazione alla consultazione referendaria - le opinioni o la posizione politica del sottoscrittore" e, come tali, erano meritevoli di particolare protezione. Considerando questo, è probabile che se i promotori o i candidati della lista avessero conservato copia delle sottoscrizioni e dei dati personali a queste connessi, sarebbe stata rilevata una violazione delle norme in materia di privacy: questo avrebbe avuto conseguenze pesanti e magari il giudice si sarebbe rifiutato di considerare valido questo modo di dimostrare l'esistenza e regolarità delle sottoscrizioni.
Il reclamo e altri problemi all'orizzonte
Com'era prevedibile, i ricorrenti hanno deciso di presentare reclamo contro la prima decisione del Tribunale di Milano, per loro decisamente insoddisfacente. Era altrettanto prevedibile che l'udienza per trattare il reclamo - presentato il 21 settembre - fosse fissata a rito elettorale già compiuto, col serio rischio che quel passaggio si riveli del tutto inconsistente e improduttivo di effetti (essendosi ormai svolte le elezioni). Diverso si presenta il discorso per il giudizio di merito da instaurare in seguito: lì, proprio com'è avvenuto dopo il ricorso di +Europa presentato nel 2019 (a 'bocce elettorali ferme'), potrebbe esserci più facilmente lo spazio per valutare la situazione 'a cognizione piena' e per sollevare una nuova questione di legittimità costituzionale sulle disposizioni in materia di raccolta firme, stavolta con riguardo alla validità delle sottoscrizioni ottenute in forma digitale.
Proprio questa vicenda, peraltro, sembra dimostrare in modo concreto che la strada tracciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 48/2021, per cercare di 'dare comunque un giudice' ai contenziosi sui diritti eventualmente lesi nel procedimento pre-elettorale politico, è fondamentale ma non è sufficiente. L'udienza fissata presso il Tribunale di Milano in sede cautelare è arrivata solo sei giorni prima delle elezioni (un tempo in cui è anche solo difficile immaginare che un giudice si prenda la responsabilità di bloccare la 'macchina elettorale' e mandare al macero le schede già stampate), il reclamo addirittura dopo il voto: difficile immaginare che un sistema simile possa garantire una qualche forma di tutela giurisdizionale a chi si sente leso nel proprio diritto di elettorato passivo. Queste osservazioni sembrano ancora più calzanti con riguardo a casi come questo, nei quali non si discute tanto su una 'ingiustizia del caso singolo' (errato conteggio delle firme, validità di singole sottoscrizioni o delle loro autenticazioni...), ma sulla legittimità delle norme che regolano il procedimento, magari con la necessità di rivolgersi alla Corte costituzionale: se 'a bocce elettorali ferme' (si sarebbe tentati di dire 'in tempo di pace') questo è concepibile ed è accaduto, in prossimità delle elezioni (dunque 'in tempo di guerra') è ben difficile che qualcuno si prenda la responsabilità di una scelta che potrebbe bloccare il cammino verso il voto a poca distanza dall'apertura delle urne o, comunque, rischiare seriamente di delegittimare il voto stesso (se il giudice avesse scelto di sollevare la questione di costituzionalità, si sarebbe votato comunque, ma con una rilevante spada di Damocle sul valore e sulla serietà di queste elezioni).
La situazione, in realtà, è ancora più complicata di così, come dimostra (almeno) una coppia di casi decisi stavolta dal giudice amministrativo: due giorni fa, infatti, il Tar Roma (sezione II-bis) ha emesso due sentenze che meritano di essere prese in considerazione. La prima è stata pronunciata sul ricorso di Impegno civico, l'associazione legata all'ex consigliere regionale del Lazio Fabio Desideri, con cui si era impugnata l'ammissione del contrassegno della lista Impegno civico - Centro democratico, chiedendo pure di ritirare schede e manifesti elettorali già stampati contenenti quel nome e quel simbolo; la seconda segue invece a una delle bocciature delle liste di noi Di Centro - Europeisti (in particolare in Puglia), con le ricorrenti che chiedevano la riammissione della lista. Entrambi i ricorsi sono stati dichiarati inammissibili per difetto assoluto di giurisdizione: questo non stupisce, visto che Corte cost. n. 48/2021 aveva individuato per gli atti preparatori alle elezioni la giurisdizione del giudice civile; sono però alcune riflessioni del Tar - quasi identiche nelle due pronunce - a risultare significative e non proprio soddisfacenti.
Nessun dubbio sul fatto che le disposizioni in vigore affidino al giudice amministrativo solo la giurisdizione sul contenzioso per le elezioni amministrative, regionali ed europee. I giudici però insistono nel dire che il contenzioso sulle elezioni politiche è "ripartito tra l'Ufficio centrale nazionale - competente per [...] le controversie relative alla esclusione di liste e candidature - e le Assemblee di Camera e Senato, cui è attribuito il controllo del procedimento elettorale, in virtù di una norma eccezionale di carattere derogatorio"; a loro sostegno citano la sentenza n. 9151/2008 delle sezioni unite civili di Cassazione (che disse l'ultima parola sul 'caso Pizza') e la n. 259/2009 della Corte costituzionale (che aveva affidato al Parlamento la cognizione dei ricorsi, individuando gli strumenti del conflitto di giurisdizione o del conflitto di attribuzioni per reagire al continuo sottrarsi delle stesse Camere alle decisioni in materia), ricordando pure che il governo non aveva esercitato la delega a introdurre la giurisdizione amministrativa esclusiva nelle controversie sull'iter preparatorio alle elezioni politiche. Per il Tar, però, non cambia nulla neanche dopo la sentenza costituzionale n. 48/2021: "ciò - si legge nelle sentenze - non autorizza a ritenere tout court che la presente controversia possa essere devoluta, illico et immediate, alla cognizione del giudice ordinario", poiché "in un quadro in cui è la stessa Costituzione a disporre termini stringenti per il completamento del procedimento per l'elezione delle Camere" (il termine di 70 giorni dallo scioglimento), "la semplice devoluzione della controversia al giudice ordinario, in assenza della previsione di un rito ad hoc esperibile dinanzi a quel plesso giurisdizionale, che assicuri una giustizia pre-elettorale tempestiva, si tradurrebbe, di fatto, in una forma di tutela che interviene ad elezioni concluse, precludendo così la possibilità di una tutela giurisdizionale efficace e tempestiva delle situazioni soggettive immediatamente lese dai predetti atti".
Per il Tar Roma, dunque, il giudice civile è sì il giudice del procedimento pre-elettorale politico, ma di fatto ora questo può procedere solo all'accertamento, almeno fino a un intervento del legislatore che preveda un rito di cognizione piena ma "compatibile con le esigenze di certezza e celerità" legate all'iter elettorale. Quell'intervento, com'è noto, non c'è stato, né per regolare il procedimento davanti al giudice civile, né per prevederlo davanti al giudice amministrativo: si è ricordato che il progetto di legge in materia, approvato in Senato proprio dopo la sentenza n. 48/2021, non ha poi terminato il suo percorso alla Camera. Ora, non è dato sapere se la posizione del Tar romano sia diffusa anche altrove, ma chi studia il diritto costituzionale ed elettorale non può essere soddisfatto: se anche dopo la sentenza n. 48/2021 della Corte costituzionale si pensa che il giudice civile, non avendo adeguati strumenti per farlo, non possa comunque occuparsi pienamente del contenzioso pre-elettorale politico, ciò comporta che quelle situazioni sarebbero ancora una volta prive di giudice, almeno finché permane l'inerzia del Parlamento. Inerzia che si somma all'inerzia di Parlamento e Governo in materia di raccolta firme in forma digitale: una somma che purtroppo incide - e pesantemente - su un diritto assolutamente rilevante, parte fondamentale della nostra democrazia.
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