sabato 27 aprile 2024

Europee, la Cassazione respinge le opposizioni sui contrassegni

L'Ufficio elettorale nazionale presso la Corte di cassazione, a quanto si apprende, ha già deciso sulle opposizioni in materia di contrassegni presentate nelle scorse ore contro le decisioni della Direzione centrale per i servizi elettorali del Ministero dell'interno e discusse quest'oggi a ora di pranzo: a quanto si sa, almeno tre delle quattro opposizioni presentate sarebbero state respinte o addirittura dichiarate inammissibili (anche se è molto probabile che anche la quarta non abbia avuto esito positivo).
Per prima il collegio ha affrontato l'opposizione presentata dal Partito animalista - Italexit per l'Italia, volta a ottenere la ricusazione del contrassegno della lista Libertà a causa della presenza della miniatura del Movimento per l'Italexit oppure, in subordine, l'eliminazione del solo elemento contenente l'espressione "Italexit". Le lamentele di Italexit (già anticipate nella memoria depositata presso il Viminale lunedì), tuttavia, non sono state esaminate nel merito: l'opposizione, infatti, è stata dichiarata inammissibile perché non sarebbe stata notificata entro 48 ore dalla decisione del Viminale "ai depositanti delle liste che vi abbiano interesse", in particolare al depositante del contrassegno Libertà. Qui indubbiamente c'era un soggetto controinteressato, visto che l'opponente aveva chiesto la ricusazione o almeno la modifica di un contrassegno altrui: non potendosi leggere diversamente la disposizione in materia di notifica, le doglianze non sono state nemmeno prese in considerazione.
Più complessa è stata la questione posta dalla Lista Marco Pannella, che aveva chiesto di riammettere il suo contrassegno Stati Uniti d'Europa. La lista Pannella aveva contestato l'idea che la tutela per i contrassegni "presentati in precedenza" privilegiasse i primi depositati per la singola elezione, credendo che la disposizione dovesse invece riferirsi al preuso pubblico di un fregio, in ambito elettorale o politico (anche senza presentare liste): il deposito nel 2019 del simbolo con la dicitura "Stati Uniti d'Europa" abbinata alla rosa nel pugno su fondo giallo, ammesso dal Viminale, avrebbe dovuto rendere ammissibile il nuovo contrassegno (quasi identico), a prescindere dal deposito precedente di alcune ore di un contrassegno con lo stesso nome da parte di un diverso soggetto (la lista Stati Uniti d'Europa promossa da +Europa, Italia viva, Psi, Radicali italiani, Libdem europei e L'Italia c'è). Al Viminale che aveva rilevato come nel 2022 la lista Pannella avesse depositato un contrassegno diverso, con la rosa nel pugno ma senza la dicitura contestata, per cui non si sarebbe consolidato un "uso notorio" dell'emblema, il depositante aveva eccepito la diversa natura delle elezioni (e dei messaggi da veicolare negli emblemi), rivendicando invece un uso continuo del concetto, del nome e del simbolo "Stati Uniti d'Europa" da parte della Lista Pannella e del Partito radicale. 
In concreto, poi, era stata contestata anche la confondibilità del contrassegno contestato con quello depositato in precedenza, in considerazione della grafica completamente diversa, apprezzabile dall'elettore comune odierno, avendo riguardo sia a vari elementi del contrassegno sia a una sua visione d'insieme. Da ultimo, si era negato che quello fatto per conto della Lista Pannella fosse un "deposito emulativo", cioè volto unicamente a precludere surrettiziamente l'uso della denominazione al soggetto che aveva depositato per primo: proprio il precedente deposito del 2019 (con ammissione) e l'uso anche successivo del fregio fatto dal Partito radicale avrebbe dovuto far considerare del tutto "genuina" la scelta di presentare il contrassegno in quest'occasione. Per il Viminale, in risposta all'opposizione della lista Pannella, l'uso dell'identica espressione "Stati Uniti d'Europa" in posizione dominante in entrambi i contrassegni avrebbe potuto "confondere anche gli elettori di non scarsa conoscenza della vita e degli orientamenti delle varie forze politiche"; nel ribadire che la tutela dei contrassegni "presentati in precedenza" deve riferirsi, come da decisioni precedenti, alla "priorità del materiale deposito del contrassegno" nella singola competizione elettorale, il Ministero dell'interno non ha ritenuto rilevanti le iniziative pubbliche in cui il simbolo di Stati Uniti d'Europa sarebbe stato usato in questi anni, o (si deve intuire) per lo meno non tanto rilevanti da compensare la mancata presentazione di liste con il contrassegno contestato e da far parlare di uso effettivo dello stesso; non è mancato un riferimento alla norma che non consente il "deposito emulativo" dei contrassegni.  
I membri dell'Ufficio elettorale nazionale si sono posti anche qui il problema della mancata notifica dell'opposizione al depositante dell'altro simbolo contenente la denominazione Stati Uniti d'Europa: non c'era a rigore un controinteressato (la Lista Pannella non ha chiesto la ricusazione o sostituzione di quel contrassegno), ma si poteva comunque parlare di liste "che [...] abbiano interesse" all'esito dell'opposizione. Dalla decisione del collegio, però, si apprende che alla camera di consiglio ha partecipato il depositante di Stati Uniti d'Europa (Nicolò Scibelli): questi effettivamente non aveva ricevuto la notifica dell'opposizione, ma "ha dichiarato di non dolersi [...] della mancata notifica [...], né di avere motivo per contrastare la posizione dell'opponente". L'opposizione è stata così ritenuta ammissibile: se ci si fosse limitati a quest'osservazione, non ci si sarebbe stupiti se l'Ufficio elettorale nazionale avesse deciso di riammettere il contrassegno di cui il Viminale aveva chiesto la sostituzione. 
I giudici, invece, hanno confermato il giudizio di confondibilità, alla luce dei criteri dell'art. 14, comma 4 del d.P.R. n. 361/1957, criteri considerati "equiordinati" e comunque riferiti ai contrassegni "considerati nella loro capacità indicativa d'un determinato gruppo partecipe della competizione elettorale" (e non, dunque, nel loro uso al di fuori di quella procedura). Ritenendo che tanto la componente grafica quanto quella "scritta o denominativa" di un contrassegno "possono porre problemi di confondibilità pur nel contesto di un'innegabile diversità visiva dei contrassegni", per il collegio la scritta perfettamente corrispondente e "che domina per dimensioni entrambi i contrassegni" rappresenta l'unico elemento di confondibilità, ma poiché "funge da uguale elemento denominativo" è sufficiente a creare il rischio di confusione: non basterebbero a evitarlo le differenze grafiche tra i due emblemi, non negate, perché presupporrebbero "una scelta da parte dell'elettore che sia frutto della memorizzazione del logo nel suo insieme visivo, mentre nulla autorizza a escludere che questi ricordi soltanto o principalmente la denominazione del contrassegno. Di qui un'innegabile possibilità di disorientamento nella scelta". Dopo aver concluso che la confondibillità c'è, per l'Ufficio elettorale nazionale la tutela prevista dal testo unico per l'elezione della Camera deve andare a chi ha fisicamente depositato per primo il simbolo al Viminale nella singola competizione, non a chi rivendica il preuso "il cui richiamo implicherebbe un'inammissibile esegesi controletterale della norma" (e per sostenere la correttezza dell'interpretazione proposta si sottolinea che la fattispecie del "deposito emulativo", o "disturbatore" come si legge nella decisione, sarebbe stata introdotta proprio per limitare la portata del preuso). Queste considerazioni per i giudici sono state sufficienti per confermare il verdetto di esclusione, senza valutare gli argomenti in materia di "deposito emulativo" (tema ritenuto comunque "sovrabbondante" rispetto al tema della confondibilità).
Nell'ovvio rispetto del ragionamento seguito dal collegio di giudici di Cassazione, probabilmente occorrerebbe riflettere sull'opportunità - sulla base delle norme vigenti o anche ipotizzando una loro modifica - di non privare di tutela il preuso di un simbolo o di un contrassegno (anche quando non si sia concretizzato nella presentazione di liste: lo stesso deposito presso il Viminale è un uso di natura pubblica, anche grazie alla pubblicità data a questa fase di presentazione dai media e dallo stesso Ministero dell'interno). Posto che "Stati Uniti d'Europa" è, prima ancora che il nome di una futura lista e di un progetto elettorale non concretizzatosi nel 2019, un ideale cui poter tendere e che certamente non può essere esclusivamente di una parte politica (un po' come il dirsi comunisti, socialisti, liberali etc.), essendo stato proposto e citato da varie figure nel corso del tempo, si avverte qualcosa di "non giusto" nel mero giudizio di confondibilità che porta all'esclusione di un contrassegno e che, pur valendo soltanto per questa competizione elettorale, difficilmente potrebbe non avere strascichi futuri. Com'è noto, la legge tutela espressamente i nomi e i simboli dei partiti presenti in Parlamento, non tanto a vantaggio dei partiti quanto del loro elettorato (reale o potenziale); ci si dovrebbe però chiedere se sia giusto, per il futuro, non tutelare il preuso di un simbolo per il solo fatto che questo non si è trasformato in lista e (dunque) non si è nemmeno affacciato alle aule parlamentari. Anche perché, in mancanza di tutela, qualunque soggetto politico nascente, magari come aggregazione di soggetti esistenti, potrebbe in futuro prendere spunto per il proprio nome da quelli di simboli depositati in passato (anche solo al turno elettorale precedente) non seguiti dalla presentazione di liste e farlo proprio, magari avendo l'accortezza di mettersi in fila in anticipo per assicurarsi un titolo preferenziale in sede di valutazione dei contrassegni e, ancora prima, di pubblicizzare in modo consistente la propria iniziativa per far avvertire un legame tra il nuovo nome scelto e la propria iniziativa politico-elettorale.
Sul discorso della confondibilità, vale la pena sottolineare che le riflessioni dell'Ufficio elettorale nazionale sul rischio di confusione creato anche solo dal nome sembra frutto soprattutto della modifica del 2005 all'art. 14 del d.P.R. n. 361/1957, quando la "legge Calderoli" precisò che gli elementi di confondibilità dovevano rilevare "anche se in diversa composizione o rappresentazione grafica" (comma 4; il comma precedente da allora sanziona anche la riproduzione di "simboli, elementi e diciture, o solo alcuni di essi", ma qui non può parlarsi in pieno di "uso tradizionale"). Non è affatto improbabile che il giudizio di confondibilità formulato dipenda anche e soprattutto dal fatto che il simbolo escluso non contenga altri elementi letterali e che l'elemento in comune sia proprio la potenziale denominazione e non una semplice unità testuale.
Maurizio Turco, a nome della lista Pannella, ha già annunciato il ricorso al Tar del Lazio, rimedio previsto per le elezioni europee in base al codice per il processo amministrativo. Ricorso che farà anche la Democrazia cristiana: Nino Luciani, che aveva depositato il contrassegno con lo scudo crociato in qualità di segretario politico (insieme al segretario amministrativo Carlo Leonetti), ha fatto sapere che la sua opposizione è stata respinta, in particolare per l'uso dello "scudo crociato con croce rossa su sfondo bianco e scritta bianca 'LIBERTAS'" nel simbolo, il che lo renderebbe confondibile con quello dell'Udc, presente in Parlamento; è stata respinta contestualmente la richiesta di imporre la sostituzione del contrassegno dell'Udc. 
L'Ufficio elettorale nazionale, in particolare, dopo aver ricordato i numerosi contenziosi pre-elettorali precedenti (per cui il collegio di giudici di Cassazione si è dovuto occupare di opposizioni in materia in tutte le elezioni politiche ed europee a partire dal 2006), ha ribadito come - al pari di quanto si è ricordato all'inizio - in questa sede non contino le norme civilistiche e, in effetti, nemmeno troppo gli esiti dei contenziosi su chi sia correttamente titolare della Dc, ma "unicamente [...] la normativa, di rilevanza pubblicistica, dettata dall'art. 14" del testo unico per l'elezione della Camera, "al fine di garantire una corretta e consapevole scelta da parte dell'elettore verso una determinata forza politica e di tutelarne 'l'affidamento identitario' che ogni elettore ripone nei segni, simboli ed espressioni che individuano un determinato partito". L'articolo prima citato, in particolare, prevede una tutela ad hoc di cui beneficiano i partiti presenti in Parlamento, il cui simbolo "da essi tradizionalmente usato" viene protetto per evitare il "rischio di possibili errori o confusioni elettorali" a danno di quelle formazioni (anche se l'art. 14, comma 6 tutela innanzitutto i potenziali elettori). 
Per i giudici, l'Udc è presente in Parlamento "già da più di vent'anni" e, dal punto di vista della norma che si considerano, non sarebbero rilevanti "il pre-uso di un simbolo [...] e le questioni circa la legittimità e titolarità di tale pre-uso, pure sollevate dagli opponenti, anche richiamando controversie e giudicati civili" (a partire, c'è da giurarlo, dalla pluricitata sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione del 2010); conta piuttosto il fatto che l'Udc sia presente in questa legislatura attraverso un gruppo condiviso al Senato e una componente condivisa alla Camera (anche se, com'è noto, alle elezioni politiche del 2022 - come in quelle del 2018 - i parlamentari dell'Udc sono stati eletti solo nei collegi uninominali, mentre le liste cui il partito ha partecipato assieme ad altre forze politiche non hanno superato le soglie di sbarramento). Ciò basta, per il collegio, a far scattare la tutela privilegiata per le forze politiche presenti in Parlamento, mentre sulla base dell'art. 14 citato non può riconoscersi come "tradizionale" l'uso dello scudo crociato da parte della Dc, perché "dal 1993 quel partito ha definitivamente cessato la propria attività politica, da quella data non ha più avuto alcun rappresentante eletto in Parlamento e, quindi, il gruppo politico non può accreditarsi legittimo continuatore di quel partito, mancando proprio la dimostrazione storico-giuridica della 'continuità'".
Non concorda affatto con i contenuti della decisione Luciani: da una parte, come si è ricordato più volte su questo sito, lui è convinto che la Democrazia cristiana da lui guidata sia in piena continuità con quella che aveva operato fino al 1994, per aver seguito - dopo la ricordata sentenza di Cassazione del 2010 - il percorso indicato dal tribunale di Roma nel 2016, per cui l'uso dello scudo crociato dovrebbe considerarsi "tradizionale"; dall'altra parte, ritiene che l'Udc sia presente in Parlamento solo dal 2006 (dopo le elezioni politiche di quell'anno, a nulla rilevando il periodo 2002-2006, visto che alle politiche del 2001 l'Udc non esisteva ancora) e che in questa legislatura e in quella precedente l'Udc non possa considerarsi presente in Parlamento, visto che nel 2018 e nel 2022 le liste i cui contrassegni contenevano il simbolo del partito non sono arrivate al 3%. Per Luciani, poi, i giudici non avrebbero tenuto conto di pronunce civili che sancirebbero l'impossibilità di separare nome e simbolo di un partito, dovendosi impiegare nel caso criteri di precedenza storia (ovviamente, di nuovo, sulla base dell'asserita continuità tra Dc "storica" e Dc-Luciani). Per tutte queste ragioni, la Dc - che nelle scorse settimane ha intentato un'azione civile, di cui si parlerà a tempo debito, si rivolgerà ai giudici amministrativi, sperando che possa accadere qualcosa di simile a quello che - pur nella differenza delle condizioni, trattandosi allora di elezioni politiche e non vigendo ancora per le europee il citato codice del processo amministrativo - era in un primo tempo avvenuto nel 2008 con la Dc-Pizza, riammessa dal Consiglio di Stato dopo l'esclusione da parte di Viminale e Ufficio elettorale centrale nazionale.
Nulla è cambiato anche per Parlamentare indipendente, il contrassegno presentato da Lamberto Roberti e ritenuto non in grado di consentire la presentazione di liste (un tempo si sarebbe detto "senza effetti"), a seguito della mancata presentazione della dichiarazione di trasparenza. Roberti aveva contestato sia il fatto che la comunicazione della Direzione centrale per i servizi elettorali abbia parlato di "partito" e non di "candidato individuale" ("Quanto affermato è palesemente falso e trattandosi di atto della procedura elettorale, rileva il reato di falso in atto pubblico finalizzato ad un più grave reato quale Attentato alla Costituzione, essendo il sottoscritto unico cittadino italiano portatore del diritto elettorale passivo. Il Diritto elettorale passivo ed attivo è un principio fondamentale inalienabile"), sia la mancata previsione della possibilità di presentare candidature individuali alle elezioni europee (problema già sollevato nel 2019, ma appunto in sede di valutazione delle liste), sia la richiesta dello statuto o della dichiarazione di trasparenza, a suo dire onere non esigibile per una candidatura individuale che, "non essendo vietata", sarebbe "ammessa d’ufficio, anche perché è l’unica rispettosa del principio costituzionale del diritto elettorale passivo del cittadino". L'Ufficio elettorale nazionale, però, ha dichiarato inammissibile l'opposizione di Roberti: questo sia perché il gravame sarebbe stato presentato leggermente oltre il termine di 48 ore previsto dalla legge, sia perché la regola della necessità della dichiarazione di trasparenza non ammetterebbe eccezioni, nemmeno per le candidature individuali.

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