"What's in a name?" La tentazione di citare il soliloquio di Giulietta nella shakespeariana Romeo and Juliet è forte, in un tempo in cui ci si confronta e si discute sui nomi nei simboli, ma anche da inserire sulla scheda. Se una settimana fa esatta al centro delle polemiche c'era il possibile inserimento di un riferimento alla segretaria Elly Schlein nel contrassegno elettorale del Partito democratico, oggi a dare via alle danze c'è una dichiarazione di Giorgia Meloni, che intervenendo alla conferenza programmatica di Fratelli d'Italia a Pescara, dopo aver annunciato la propria candidatura alle elezioni europee come capolista in tutte le circoscrizioni, ha aggiunto, tra l'altro:
Chiedo agli italiani di scrivere il mio nome, ma il mio nome di battesimo. La cosa che personalmente mi rende più fiera di questi giorni è che la maggior parte dei cittadini che si rivolge a me continui a chiamarmi semplicemente "Giorgia": non "Presidente", non "Meloni", ma "Giorgia". E guardate che per me è una cosa estremamente importante, estremamente preziosa. Io sono stata derisa per anni e anni per le mie radici popolari, mi hanno chiamata pesciarola, fruttivendola, borgatara... perché loro sono colti, si vede da questa capacità di argomentare nel profondo, la cultura... Però quello che non hanno mai capito è che io sono stata sempre, sono e sarò sempre fiera di essere una persona del popolo [...]. Se volete dirmi che ancora credete in me, mi piacerebbe che lo faceste scrivendo sulla scheda semplicemente "Giorgia" [...]
A quelle parole, evidentemente, qualcuno dev'essersi domandato se questa soluzione sia praticabile. Sul punto è intervenuto il ministro Francesco Lollobrigida, di cui Adnkronos ha raccolto la seguente dichiarazione:
Meloni ha detto di scrivere sulla scheda solo "Giorgia"? C'è la possibilità nelle elezioni di ogni tipo di dare all'elettore la scelta se mettere il nome per esteso oppure semplificarlo quando è chiarito in fase di presentazione di candidatura come è sostituibile il nome. Accade in tutte le elezioni, quindi ci sarà scritto 'Giorgia Meloni detta Giorgia'. È una possibilità che la norma dà proprio per semplificare il concetto. In questo caso assume anche un valore differente perché Giorgia ha chiarito che la sua forza, credo riconosciuta da tutti, è che lei da militante, da cittadina, da presidente del Consiglio è rimasta una donna legata ai suoi valori, considerandosi una rappresentante del nostro popolo dal quale non intende distinguersi nemmeno con questioni di natura formale.
Stanno effettivamente così le cose? In effetti la legge n. 18/1979, che regola le elezioni europee, non dice come debbano esprimersi le preferenze né, a monte, le candidature: la norma generale di rinvio al testo unico per l'elezione della Camera (d.P.R. n. 361/1957) rende applicabile l'art. 18-bis, comma 2-bis, in base al quale, con riguardo alle liste da presentare, "Per ogni candidato devono essere indicati il nome, il cognome, il luogo e la data di nascita, il codice fiscale [...]", dati che - fatta eccezione per il codice fiscale - saranno stampati sul manifesto delle candidature; le Istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature, predisposte dalla Direzione centrale per i servizi elettorali, aggiungono che "Per le candidate coniugate o vedove può essere aggiunto il cognome del marito". Quanto all'espressione del voto, anche qui la legge per le elezioni europee nulla dice: ci si deve appoggiare all'art. 69 del testo unico per l'elezione della Camera, in base al quale "La validità dei voti contenuti nella scheda deve essere ammessa ogni qualvolta possa desumersi la volontà effettiva dell'elettore", salvo che (come si legge all'art. 70) si possa ritenere in modo inoppugnabile che lo stesso elettore abbia voluto far riconoscere il suo voto; lo stesso prevede l'art. 69 del d.P.R. n. 570/1960, che regola tuttora le elezioni amministrative.
Fin qui le previsioni normative. Il resto è il regno della prassi e, a volte, delle sentenze dei giudici amministrativi. Le Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione, predisposte sempre dal Viminale, tanto nell'ultima edizione per le elezioni europee (2019) quanto in quella più recente per le elezioni comunali (2023), riportano il riferimento di una sentenza del Consiglio di Stato (V sezione, n. 198/2007), in base alla quale:
non si può dubitare che l’elettore ha inteso esprimere la preferenza a favore della candidata Anna Antonia [cognome], tenuto conto che: a) la stessa figura tra i candidati per la lista “Terra mia”: con il seguente nome: “Anna Antonia [cognome] detta: Anna”; b) nessun altro candidato nelle due liste in competizione aveva il nome proprio di “Anna”; c) nel materiale di propaganda diffuso dall’appellante la stessa venne frequentemente indicata come “Anna” senza altri riferimenti anagrafici.
Poco oltre, il Consiglio di Stato precisava che non poteva ravvisarsi l'intenzione dell'elettore di farsi riconoscere, perché "il nome di 'Anna' ha rappresentato una modalità di espressione della preferenza che avrebbe potuto essere usata da chiunque, in quanto rientrante tra le espressioni identificative della candidata comunicate in precedenza agli elettori". Di fatto, dunque, la decisione ammette che chi vota possa esprimere una preferenza "utilizzando espressioni identificative quali diminutivi o soprannomi, comunicate in precedenza agli elettori", evidentemente nei limiti di quanto comunicato in sede di presentazione delle candidature e divulgato attraverso innanzitutto il manifesto ufficiale delle candidature.
Com'è noto, l'uso del soprannomi, degli pseudonimi o delle versioni alternative dei nomi delle persone candidate in Italia ha una lunga storia. In effetti spesso questo riguardava il nome con cui la singola persona era più nota (il caso più famoso è probabilmente quello di "Pannella Giacinto detto Marco"), senza che questo mutasse il cognome da scrivere sulle schede, ma con il tempo è capitato che si indicassero veri e propri modi alternativi di esprimere il voto, ad esempio quando il cognome era noto con più versioni ("Mario D'Ambrosio detto Dambrosio" o "Maria Dimasi detta De Masi", dalle ultime elezioni amministrative di Roma), quando potevano sorgere dubbi su quale fosse il nome o il cognome tra due o più elementi identificativi ("Manfredi Maria Granese detto Manfredi", "Andreea Arnatu detta Andrea") o ancora quando il cognome risultava particolarmente difficile da scrivere per cui si suggeriva di optare per il nome: sempre alle ultime elezioni comunali a Roma si sono trovati "Zeinab Ahmed Dolal detta Ahmed detta Hamed detta Zeinaba" o "Malena Halilovic detta Malena" (curiosamente non si avvalse invece di questa possibilità Jas Gawronski, nelle sue candidature alle elezioni europee prima con il Pri e poi con Forza Italia).
Il sistema dello pseudononimo, insomma, sembra ormai piuttosto rodato, a dispetto della sua mancata previsione esplicita. Vero è che in vari casi si è probabilmente esagerato: sempre nelle ultime elezioni comunali romane, al di là del ben noto candidato sindaco "Giuseppe Cirillo detto Dr. Seduction", si è trovato un "Franco Deiana detto Sgarbi" (ovviamente nella lista Rinascimento Sgarbi - Cambiamo Roma), uno stratagemma astuto per recuperare i voti di chi avesse scritto il nome del critico d'arte sulla scheda: difficilmente però si raggiungerebbe il livello toccato nel 2011 alle elezioni comunali di Torino, in cui - mentre il centrodestra aveva candidato Michele Coppola e una delle coalizioni in campo aveva contrapposto Domenico Coppola - tra i candidati di una lista figurava "Denis Stefano Martucci detto Coppola",
Tornando all'uso del semplice nome per indicare una preferenza, bisogna riconoscere che varie sentenze se ne occupano. Conferma il contenuto della pronuncia già vista la sentenza n. 1602/2017 del Tar Catanzaro, per cui "L’esigenza di garantire l’attribuzione del voto e la possibilità di esprimere lo stesso comporta ugualmente il rigetto del motivo di impugnazione [...] con riferimento all’indicazione del solo nome, posto che l’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa è nel senso di consentire anche l’attribuzione del voto in caso di utilizzo del soprannome, purchè tale utilizzo consenta di identificare il soggetto di riferimento". Invece la sentenza n. 2/2023 del Tar Molise, per esempio, a fronte di una scheda di un'elezione comunale che a fianco del secondo contrassegno riportava il prenome "Marco", ha confermato l'annullamento della scheda stessa perché l'unico candidato con quel nome era candidato nell'altra lista, dunque sarebbe stato impossibile desumere l'univocità del voto (per lista e candidato) "con un sufficiente grado di certezza".
Quest'ultima decisione, in particolare, suggerisce un'accortezza necessaria: per evitare qualunque tipo di contestazione, sarà fondamentale che nessuna delle cinque liste circoscrizionali di Fratelli d'Italia contenga candidate che abbiano come prenome "Giorgia". E, più in generale, elettrici ed elettori di Fdi che vogliano votare la presidente del Consiglio in quel modo dovranno fare attenzione a scrivere il prenome esattamente di fianco al simbolo del partito: qualora anche solo una lista dovesse candidare una persona di nome Giorgia, infatti, qualora la persona in cabina scrivesse il nome in un altro punto della scheda verrebbe meno la certezza dell'univocità del voto.
Al di là delle riflessioni su norme e prassi, si deve dire che in effetti Giorgia Meloni nella sua carriera politica si è presentata in varie occasioni facendo leva sul proprio prenome: al di là del suo libro Io sono Giorgia, non si può dimenticare che una delle liste presentate nel 2016 a sostegno della sua candidatura alla guida del comune di Roma si chiamava Con Giorgia Meloni sindaco, con il nome in enorme e centrale evidenza (fu l'unica altra lista, oltre a quella di Fdi, a ottenere un consigliere). Nel contrassegno odierno il nome è di nuovo quasi centrale; il cognome spicca decisamente di più, ma ci penseranno elettrici ed elettori del partito, secondo la richiesta della presidente del Consiglio e di Fdi, a far pesare il nome, grazie alla prassi (e con attenzione alle procedure).
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