C'è il quadro, ci sono la tecnica e la cornice: il soggetto, il mezzo e l'intorno meritano piena attenzione da parte di chi osserva e chi studia, nell'arte come in politica. Eppure qualche volta i dettagli stravincono e sono in grado di catturare l'attenzione più di ogni altra cosa, di spingere a cercare, a saperne di più e possibilmente a vedere con i propri occhi, anche a costo di non conoscere così bene il quadro, la tecnica e la cornice.
Sabato pomeriggio, attraverso Facebook, chi scrive ha appreso (a funerali avvenuti) della morte di Luigi Dino Felisetti, un nome che ha un peso notevole per chi conosce la politica della provincia di Reggio Emilia (anche se lui era nato a Modena). Si è addormentato a 102 anni, dopo aver vestito la toga come penalista per oltre settant'anni (si era iscritto all'ordine degli avvocati nel 1949, riuscendo tra l'altro a far assolvere Germano Nicolini - sì, al Dièvel - dall'accusa di aver ucciso don Umberto Pessina), prima aveva partecipato alla Resistenza, in seguito ha fatto parte per circa un anno e mezzo (dall'8 febbraio 1989 al 24 luglio 1990) del Consiglio superiore della magistratura, come membro "laico" forte della sua già lunga esperienza di avvocato e della stima di cui godeva nel mondo politico.
Già, perché il nome di Felisetti è stato legato per tutta la sua vita al socialismo e al Partito socialista italiano. Scorrendo rapidamente il suo cursus honorum lo si capisce molto bene: prima consigliere a San Polo d'Enza, poi consigliere provinciale, consigliere e assessore a Reggio, segretario provinciale del Psi (nel quale nell'autunno 1956 aveva co-fondato la corrente autonomistica nenniana) e deputato per quattro legislature, eletto nel 1972, nel 1975, nel 1979 e nel 1983 (l'esperienza a Montecitorio è stata parzialmente riportata nel volume Un avvocato in Parlamento, pubblicato nel 1996 e riedito vent'anni dopo da Diabasis). Nel 1987 - a 67 anni - non si ricandidò e, nella circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio, per la provincia di Reggio fu eletto Mauro Del Bue, deputato anche nella legislatura successiva e poi nella XV, eletto in quel caso nella lista composita di Democrazia cristiana (per le autonomie) - Partito socialista, dove quest'ultimo era in realtà il Nuovo Psi guidato da Gianni De Michelis, di cui nel 2003 era diventato vicesegretario (e per il quale nel 2005 era diventato sottosegretario alle infrastrutture nel terzo governo di Silvio Berlusconi).
Non stupisce affatto che proprio Del Bue, su Facebook, sia stato tra i primi a ricordare la figura di Dino Felisetti, attraverso la propria esperienza personale:
La prima volta che lo vidi ero un bambino. Coi miei genitori abitavamo in affitto in una camera e cucina di un vecchio stabile di via Baruffo. I carri armati sovietici avevano invaso l'Ungheria nell’autunno del 1956 e il Psi di Nenni si era schierato dalla parte degli insorti, il Pci di Togliatti dalla parte degli invasori. Quattro o cinque persone avevano fatto irruzione nella cucina di casa mia. E mia madre aveva posto un blocco. "Lì non si entra", mi aveva ordinato, "perché ci sono i socialisti". Seppi più tardi che si trattava di una riunione segreta della futura corrente autonomista e nenniana che intendeva rompere il patto d’unità d’azione tra Psi e Pci a seguito del dramma ungherese, corrente contestata dalla cosiddetta sinistra che invece non intendeva mollare la presa. A Reggio Emilia la posizione filo comunista nel Psi avrà la prevalenza fino alla scissione del Psiup del gennaio 1964. Tra i pionieri dell’autonomismo socialista, oltre a mio padre Stefano, c’era appunto Felisetti, con Sergio Masini e Angiolino Brozzi. E Felisetti, anzi l’avvocato Felisetti, aveva già le stigmate del leader.
Già, ma il dettaglio? A fornirlo è stato proprio Del Bue, ripercorrendo nel suo post la storia politica di Felisetti, che si intrecciò anche alla sua (sia per la "successione" al seggio alla Camera, ottenuto e confermato nell'epoca delle preferenze, sia per i tanti incontri avvenuti nel corso degli anni). Per Del Bue Felisetti, persona colta e sempre attenta e interessata, "non volle mai rassegnarsi alla fine del Psi" e lo testimoniò l'aver fondato "un gruppo di socialisti prampoliniani durante la fase del terrore giudiziario, che si presentò anche alle elezioni comunali del 1995 a Reggio, ottenendo per la verità un magro risultato. Ma lui non si scoraggiava".
Eccolo lì, il dettaglio, il particolare che subito dopo la lettura ha fatto venire voglia di cercare, approfondire e, soprattutto, di trovare. Un voto comunale per nulla secondario per Reggio Emilia, quello del 1995: la prima con l'eIezione diretta del sindaco e con le alleanze pre-elettorali. La prima senza il simbolo della Dc, nel frattempo trasformatasi nel Partito popolare italiano e proprio in quei giorni in preda alle lotte intestine più dure, tra sostenitori di Rocco Buttiglione e di Gerardo Bianco. Ma anche, per quanto interessa qui, la prima senza il Psi, il partito di Del Bue e Felisetti che cinque anni prima aveva ottenuto il 13,1%: nemmeno così poco, in una terra in cui il Pci (perché a Reggio si era usato ancora il simbolo del Pci, anche se la Bolognina c'era già stata e altrove si erano sperimentate altre soluzioni simboliche, più tendenti al civico come a Guastalla) prendeva il 45,4% e la Dc un decoroso 23,1%, quindi le altre forze politiche dovevano dividersi meno di un terzo dei voti validi.
Insomma, in quelle condizioni c'era da scegliere da che parte stare e, per giunta, con quale nome e con quale simbolo farlo. Sapendo che i Socialisti italiani, vale a dire il partito che - sotto la guida di Enrico Boselli - aveva cercato di raccogliere la maggior parte dell'eredità politica del Psi subito dopo lo scioglimento di quest'ultimo, non avrebbero partecipato al voto con il loro simbolo (mai finito sulle schede elettorali a livello nazionale, ma nemmeno regionale). Alle contemporanee elezioni regionali, infatti, era stato stretto un accordo con Alleanza democratica e con il Patto Segni, per presentare liste comuni nella speranza che potessero ottenere qualcosa di più nell'urna elettorale. Lo stesso accordo fu portato avanti a livello locale.
Anche a Reggio Emilia, dunque, sulle schede elettorali comparve il simbolo del Patto dei democratici, di cui i Socialisti italiani erano forza fondatrice: per il Si reggiano, coordinatore era Nando Odescalchi, consigliere regionale uscente. Il Patto (al quale guardavano anche però i repubblicani e la Federazione laburista di Valdo Spini, presente anche nel reggiano con qualche candidato) era una delle quattro liste presentate a sostegno della candidatura di Antonella Spaggiari, sindaca uscente di Reggio (eletta dal consiglio comunale il 14 giugno 1991), già segretaria e capogruppo del Pci a Reggio: oltre al Patto, c'era ovviamente il Partito democratico della sinistra, i Popolari - cioè quella parte di Ppi che si riconosceva nella segreteria di Bianco e, per evitare grane, aveva scelto di non usare lo scudo crociato ma un nuovo simbolo, con lo scudo senza croce inserito nel gonfalone - e anche anche la Federazione dei Verdi. In pratica, una delle prime prove su strada del futuro Ulivo (e infatti Rifondazione comunista stava fuori dalla coalizione).
Quella, in ogni caso, non poteva essere la "casa" dei socialisti che non si erano rassegnati alla fine del Psi e che non sentivano alcuna affinità con i Socialisti italiani (che pure avevano invitato tutte le anime socialiste a una corsa unitaria) e nemmeno con i laburisti di Spini. Si trattava, anche allora, di perseguire una via autonoma e all'inizio di marzo si svolsero i primi incontri: tra i promotori - insieme, tra l'altro, allo stesso Del Bue - c'era proprio Dino Felisetti, che però all'inizio escluse una sua candidatura ("Non sarò presente né in questa né in nessun'altra lista: alla mia età - compio 76 anni - ritengo la politica un impegno di bandiera").
Sabato 11 marzo il progetto politico-amministrativo fu presentato: "Con i compagni del Si - si legge in una nota pubblicata il 12 marzo sulla Gazzetta di Reggio - non è possibile alcuna intesa. Loro, infatti, corrono per qualche posto dentro il listone con il Pds, mentre noi corriamo per l'autonomia socialista sotto il simbolo di Prampolini". Già, perché se come nome era stata scelta l'evocativa etichetta di Partito socialista italiano autonomo, per il simbolo si era adottato un ritratto del socialista reggiano Camillo Prampolini sovrapposto al sole nascente (sullo stile del simbolo del Psi di Sergio Ruffolo) e con un libro aperto all'interno del sole, dietro allo stesso Prampolini (figura di riferimento del padre dello stesso Felisetti). Niente garofano, insomma (troppo rischioso usarlo, politicamente e non solo), ma i promotori potevano ben dire: "Saremo la sola lista socialista presente alle elezioni con il simbolo del Psi, per il quale potranno votare tutti i socialisti che, ancora convinti che gli ideali socialisti siano più vivi che mai, rifiutano di integrarsi malinconicamente con il Pds o con gli avventurosi berlusconiani".
Alla fine il nome di Felisetti finì in lista, assieme a quello di Sergio Masini e di altre 25 persone. Il simbolo dovette faticare un po' a finire sulle schede elettorali, visto che era necessario raccogliere le firme: in base alla legge allora vigente a Reggio Emilia ne sarebbero servite 700. Per il Psi autonomo, promosso da nomi di rilievo ma senza struttura e senza volontari, sarebbe stato impossibile raccoglierle tutte: per sua fortuna, tuttavia, il primo voto a elezione diretta del sindaco di Reggio coincise con il varo delle "nuove" elezioni regionali (quelle regolate dalla "legge Tatarella"), quindi vi fu una certa tendenza a rendere più miti le norme per quel turno elettorale. In sede di conversione del decreto-legge n. 50/1995 (con legge n. 68/1995), furono innanzitutto dimezzate una tantum le sottoscrizioni necessarie per le elezioni amministrative di quel turno del 1995: doverne ottenere 350 invece di 700 era già un bel miglioramento. Questo, però, rischiava di non bastare: il 29 marzo le firme raccolte - a metà della giornata - risultavano solo 222, una quota decisamente lontana dall'obiettivo, senza contare che eccezionalmente per quelle prime elezioni regionali si era già dato più tempo per consegnare le firme (il termine scadeva alle ore 12 del 25° giorno prima del voto, non del 29° come ora).
C'era però un jolly inatteso da giocare, vale a dire il decreto-legge n. 90/1995, con cui si dispose che, per le elezioni regionali, provinciali e comunali del 23 aprile 1995, le liste corredate dalle firme dei sostenitori si sarebbero potute consegnare "entro le ore 20 del 23° giorno antecedente la data della votazione". In pratica, solo per quella volta, c'era tempo fino alla sera del 31 marzo. Un regalo del tutto inatteso, quel decreto, chiesto con insistenza da Marco Pannella e dalla sua lista per rimediare alla scarsa informazione dei cittadini sulla sottoscrizione delle liste, ma bersagliato di critiche da ogni parte (salvo che dai Riformatori, incluso Paolo Vigevano eletto in Forza Italia, e dai repubblicani). Con quelle 48 ore abbondanti in più, Felisetti, Del Bue, Masini e le altre persone candidate si misero di nuovo all'opera, chiedendo sostegno per poter partecipare alle elezioni. Nel pomeriggio di venerdì 31 marzo, furono consegnate 491 firme e Felisetti poté dichiarare in un fax alle redazioni dei quotidiani: "Il cuore dei socialisti Doc ha risposto all'appello: siamo arrivati a oltre 500 firme". Il conto, in effetti, era un po' ritoccato al rialzo, ma in fondo non fu un problema; quel decreto, peraltro, non sarebbe stato convertito, decadendo sin dall'inizio, ma le elezioni nel frattempo si erano svolte e non risulta che qualcuno abbia seriamente pensato di impugnarne i risultati a causa delle liste presentate in quei due giorni di bonus.
Grazie a questa serie di ragioni, in ogni caso, il Partito socialista italiano autonomo riuscì a presentarsi e, fedele alla vocazione espressa nel nome, non aderì alla coalizione di centrosinistra né si alleò con altre forze, ma presentò un proprio candidato sindaco: si trattava di Lucio Consolini, preside di lungo corso e per molti anni amministratore nelle Unità sanitarie locali. "Abbiamo voluto ricostituire un partito che è andato dissolto dopo Tangentopoli - spiegò a Massimo Sesena che lo intervistava per la Gazzetta -. Dopo questi avvenimenti, che hanno colpito tutti i partiti, vediamo tuttora presenti nel nostro panorama politico il Pci sotto una denominazione nuova, il Pds e la vecchia Dc, sia pur frantumata in tre gruppi. Questo, a differenza di quanto è successo per il Psi: dalla scena nazionale è tragicamente assente o quasi una forza socialista. Noi abbiamo voluto dare continuità ad una presenza socialista che, se è stata tragicamente colpita ai suoi vertici da persone che hanno tradito il mandato, è pur sempre stata composta da migliaia di persone oneste, corrette e laboriose che hanno sempre avuto un'attività politica cristallina. Sotto il simbolo di Prampolini vorremmo continuare a testimoniare questi ideali, possibilmente tenendo unite tutte le forze d'ispirazione socialista". E al giornalista che gli chiedeva come mai, in nome dell'unità, il gruppo non avesse scelto di unirsi ai Socialisti italiani, Consolini rispose con nettezza: "Noi abbiamo voluto rimanere noi stessi: le eventuali alleanze con altre forze politiche potranno intervenire dopo che avremo dimostrato una nostra presenza, portato avanti i nostri programmi". Programmi che continuavano a qualificarsi di centrosinistra, benché vari voti socialisti fossero andati verso il centrodestra e soprattutto verso Forza Italia ("Può darsi che i voti socialisti, per delusione verso il partito, siano andati a rafforzare il Polo. Ma i principi sono validi, sono attuali e noi rimaniamo su quelle posizioni").
Chiuse le urne il 23 aprile 1995, il giorno dopo si passò allo scrutinio anche per le elezioni comunali. Antonella Spaggiari ottenne la sua prima investitura diretta a mani basse (62223 voti, pari al 64,78%, con il Pds al 46,54% e i Popolari al 9,93%, molto al di sotto delle vecchie percentuali della Dc), la lista unica di centrodestra (Il Polo di Reggio, che candidava come sindaco Giampiero Barazzoni) si fermò al 21,7%; Lega Nord e Rifondazione comunista corsero da sole, ottenendo rispettivamente il 3,09% e il 5,74%. E il Psi autonomo? Il suo candidato dovette accontentarsi di 1265 voti, l'1,32% in tutto; la lista, a causa di qualche voto arrivato solo al candidato sindaco o di qualche voto disgiunto, ottenne ancora meno (1102 voti, l'1,19%).
Il risultato non era stato eccezionale e faceva una certa impressione notare che il numero più alto di preferenze era sì toccato a Dino Felisetti, ma il contatore si era fermato a 48 (quando, nell'intera circoscrizione che andava da Piacenza a Modena, nel 1983 l'avvocato aveva ottenuto 12410 preferenze). Messo però a confronto con il 5,3% del Patto dei democratici nel quale i Socialisti italiani avevano avuto un ruolo importante (eleggendo peraltro uno dei due consiglieri ottenuti, dalla lista, Roberto Pierfederici, rimasto anche in seguito in sala del Tricolore), il risultato di quella lista messa in piedi in pochi giorni non sfigurava. Non a caso, da quell'esperienza in seguito sarebbe partito il primo nucleo reggiano di un altro Partito socialista, quello guidato da Ugo Intini e che come simbolo aveva (tra l'altro) un mazzo di garofani.
In seguito Felisetti si sarebbe ancora diviso tra la passione per il foro e quella per la politica, sempre in area socialista, tra garofani e rose: "Io avevo scoperto in lui - ha ricordato sempre Del Bue, tuttora direttore dell'Avanti on line - un combattente coraggioso, anzi temerario. A ottant’anni si era messo a girare in lungo e in largo la provincia per incontrare compagni come se di anni ne avesse venti". Anche quell'avventura di una manciata di anni prima, senza fiori nel simbolo, ma sempre sotto le insegne di Prampolini, meritava di essere ricordata con numeri e immagini, senza rischiare di finire dimenticata o scolorita nelle pagine perse. Proprio quel dettaglio, tra le righe di un post molto più ricco, l'ha strappata all'oblio: il dettaglio che ha fatto la differenza.
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