E' destino che le diatribe in casa socialista debbano "risolversi" sotto le feste di Natale, o subito dopo. Era accaduto a cavallo tra il 2005 e il 2006, nella disputa che aveva visto contrapporsi - all'interno del Nuovo Psi, all'epoca parte del centrodestra - le fazioni di Bobo Craxi (che voleva lasciare la coalizione) e di Gianni De Michelis (che invece voleva restarci), in lite sulla validità del congresso svoltosi a fine ottobre: il 30 dicembre aveva gioito Craxi jr per la sospensione degli atti congressuali, il 20 dicembre era stato invece De Michelis a esultare, perché il tribunale di Roma aveva accolto il suo reclamo, restituendogli la segreteria.
Questa volta, invece, la fine anno è stata amara per il gruppo vicino a Riccardo Nencini, segretario del Partito socialista italiano e viceministro: due giorni fa il Tribunale di Roma ha respinto il reclamo da loro presentato contro l'ordinanza che a settembre aveva sospeso gli atti dell'ultimo congresso del partito (Salerno, 15-17 aprile 2016). A presentare ricorso erano stati alcuni iscritti al Psi, ossia Angelo Sollazzo, Pieraldo Ciucchi, Roberto Biscardini, Aldo Potenza e Gerardo Labellarte (difesi da Vincenzo Iacovino, Vincenzo Fiorini e Silvio Di Lalla), tutti legati ad Area Socialista, il gruppo politico costituito da Bobo Craxi alla vigilia del congresso "incriminato", cui i ricorrenti non hanno partecipato: per Craxi jr la fine dicembre si conferma favorevole per le decisioni attese dal Tribunale di Roma, solo che - a differenza di undici anni fa - questa volta la ragione è arrivata anche dalla seconda ordinanza cautelare, anche se ovviamente ai giudici toccherà poi pronunciarsi nel merito prossimamente.
Il collegio di tre giudici, presieduto da Francesco Mannino e avente come relatore Francesco Remo Scerrato (già ferrato in materia di diritto dei partiti: nel 2013 si è occupato della sospensione degli atti del XIX congresso della Dc guidata da Gianni Fontana, mentre ad aprile aveva reintegrato in via cautelare gli espulsi dal M5S di Roma) era stato chiamato a riconsiderare le censure mosse dai ricorrenti, in particolare relative alla "partecipazione al congresso di un numero di delegati, da individuarsi, in base alle disposizioni statutarie, in misura proporzionale agli iscritti al partito, che non trova riscontro nel numero degli effettivi tesserati, con conseguente alterazione degli equilibri previsti per la determinazione delle materie da sottoporre alle decisioni congressuali e per l'adozione delle relative delibere". L'accusa, in sostanza, era di avere "gonfiato" il tesseramento, per aumentare il numero dei delegati: in particolare, secondo i ricorrenti il numero dichiarato di tesserati non trovava corrispondenza nell'apposita voce delle entrate dovute alle iscrizioni.
Il tribunale, in sede di reclamo, avrebbe ritenuto "condivisibile la condotta degli iscritti, che - come si legge in una nota dei ricorrenti - hanno deliberatamente evitato di ratificare una situazione non legittima" non partecipando nemmeno ai lavori del congresso (cosa che era stata stigmatizzata dalla segreteria Nencini), ma soprattutto avrebbe confermato il sospetto - fumus boni iuris - che qualcosa nel conteggio dei delegati fosse andato storto. In particolare, alla vigilia del congresso erano stati dichiarati 22mila iscritti, ma i proventi delle iscrizioni del 2014 e 2015 ne avrebbero fatti conteggiare 6mila (e il tribunale, in prima istanza cautelare, aveva calcolato "facendo applicazione della media aritmetica, [...] un ammontare 'pro tessera' pari a circa € 14, decisamente inferiore al costo minimo di ciascuna tessera che [...] corrisponde a € 20 per le iscrizioni di disoccupati e pensionati").
Proprio su questo si erano concentrate le argomentazioni della difesa di Nencini: "Abbiamo dimostrato - ha spiegato il segretario a Repubblica - che il prezzo delle iscrizioni è variabile, 30 euro per il socio ordinario, 15 euro per pensionati, la metà degli iscritti, e studenti, in più alcune federazioni usano gli introiti per pagare gli affitti". Nonostante questo (e ritenendo, per quanto se ne sa, plausibili le spiegazioni della segreteria), il collegio giudicante avrebbe trovato altre ragioni per decidere la sospensione degli atti: in particolare, al regolamento congressuale non sarebbe stata allegata la ripartizione dei delegati suddivisi per regione, motivo per cui per i giudici non sarebbe stata indicata in maniera trasparente la platea congressuale, confermando di fatto la decisione del giudice di prime cure (per il quale il permanere degli effetti delle delibere congressuali sarebbe stato dannoso per i ricorrenti e tutti gli associati del partito).
Il collegio di tre giudici, presieduto da Francesco Mannino e avente come relatore Francesco Remo Scerrato (già ferrato in materia di diritto dei partiti: nel 2013 si è occupato della sospensione degli atti del XIX congresso della Dc guidata da Gianni Fontana, mentre ad aprile aveva reintegrato in via cautelare gli espulsi dal M5S di Roma) era stato chiamato a riconsiderare le censure mosse dai ricorrenti, in particolare relative alla "partecipazione al congresso di un numero di delegati, da individuarsi, in base alle disposizioni statutarie, in misura proporzionale agli iscritti al partito, che non trova riscontro nel numero degli effettivi tesserati, con conseguente alterazione degli equilibri previsti per la determinazione delle materie da sottoporre alle decisioni congressuali e per l'adozione delle relative delibere". L'accusa, in sostanza, era di avere "gonfiato" il tesseramento, per aumentare il numero dei delegati: in particolare, secondo i ricorrenti il numero dichiarato di tesserati non trovava corrispondenza nell'apposita voce delle entrate dovute alle iscrizioni.
Il tribunale, in sede di reclamo, avrebbe ritenuto "condivisibile la condotta degli iscritti, che - come si legge in una nota dei ricorrenti - hanno deliberatamente evitato di ratificare una situazione non legittima" non partecipando nemmeno ai lavori del congresso (cosa che era stata stigmatizzata dalla segreteria Nencini), ma soprattutto avrebbe confermato il sospetto - fumus boni iuris - che qualcosa nel conteggio dei delegati fosse andato storto. In particolare, alla vigilia del congresso erano stati dichiarati 22mila iscritti, ma i proventi delle iscrizioni del 2014 e 2015 ne avrebbero fatti conteggiare 6mila (e il tribunale, in prima istanza cautelare, aveva calcolato "facendo applicazione della media aritmetica, [...] un ammontare 'pro tessera' pari a circa € 14, decisamente inferiore al costo minimo di ciascuna tessera che [...] corrisponde a € 20 per le iscrizioni di disoccupati e pensionati").
Proprio su questo si erano concentrate le argomentazioni della difesa di Nencini: "Abbiamo dimostrato - ha spiegato il segretario a Repubblica - che il prezzo delle iscrizioni è variabile, 30 euro per il socio ordinario, 15 euro per pensionati, la metà degli iscritti, e studenti, in più alcune federazioni usano gli introiti per pagare gli affitti". Nonostante questo (e ritenendo, per quanto se ne sa, plausibili le spiegazioni della segreteria), il collegio giudicante avrebbe trovato altre ragioni per decidere la sospensione degli atti: in particolare, al regolamento congressuale non sarebbe stata allegata la ripartizione dei delegati suddivisi per regione, motivo per cui per i giudici non sarebbe stata indicata in maniera trasparente la platea congressuale, confermando di fatto la decisione del giudice di prime cure (per il quale il permanere degli effetti delle delibere congressuali sarebbe stato dannoso per i ricorrenti e tutti gli associati del partito).
Risultato: confermando la sospensione degli atti del congresso di Salerno, restano in piedi le delibere dell'assise di Venezia (2013) e le cariche da questo determinate, compresa la segreteria di Riccardo Nencini: lui resta al suo posto (sebbene in forza di un diverso pronunciamento congressuale), ma con amarezza: "Abbiamo perso, ma quel che è peggio - scrive in una nota - è che abbiamo perso sorprendentemente. Ogni segretario provinciale, ogni segretario regionale ha ricevuto nei tempi dovuti la nota relativa ai delegati da esprimere per il congresso nazionale di Salerno: li ha ricevuti regolarmente dalla Commissione Nazionale di Garanzia alla quale spetta - a lei, non al Consiglio Nazionale, come noi sappiamo bene - la formazione della platea congressuale e l'attribuzione dei delegati. [...] Esattamente ciò che le Commissioni di Garanzia hanno sempre fatto. [...] Siccome non li reputo degli smemorati, potevano Sollazzo, Biscardini e compagnia non ricordare una procedura che praticano da quarant'anni? Allora, perché ingenerare un pericoloso equivoco? Si illudono se pensano di mandare a rotoli la nostra storia, la nostra comunità, il nostro partito".
Parole, quelle di Nencini, che lasciano chiaramente intendere che il contenzioso a colpi di carta bollata continuerà: "Siccome tutte le carte sono in regola, le procedure sono state tutte rispettate, porteremo di nuovo e in ogni Tribunale le nostre ragioni per ottenere un giudizio equo". E mentre Bobo Craxi fa notare che lo statuto del Psi non prevede il doppio incarico di capo del partito e membro del governo (ma per Nencini è previsto), oltre a rivendicare la sconfitta della linea del segretario sul referendum costituzionale - Nencini e il Psi ufficiale si erano schierati per il Sì, Craxi e i ricorrenti avevano sostenuto il No - per cui sarebbe opportuna almeno una cogestione del partito, non è ancora chiaro che fine farà il simbolo, non per la titolarità ma per la visibilità: anche se il tesseramento starebbe andando "proprio bene" (parole di Nencini), l'assenza dalle schede elettorali che contano è sempre più assordante. E, per i socialisti irriducibili, quell'assenza e la lite continua è un'incredibile fonte di dolore.
Parole, quelle di Nencini, che lasciano chiaramente intendere che il contenzioso a colpi di carta bollata continuerà: "Siccome tutte le carte sono in regola, le procedure sono state tutte rispettate, porteremo di nuovo e in ogni Tribunale le nostre ragioni per ottenere un giudizio equo". E mentre Bobo Craxi fa notare che lo statuto del Psi non prevede il doppio incarico di capo del partito e membro del governo (ma per Nencini è previsto), oltre a rivendicare la sconfitta della linea del segretario sul referendum costituzionale - Nencini e il Psi ufficiale si erano schierati per il Sì, Craxi e i ricorrenti avevano sostenuto il No - per cui sarebbe opportuna almeno una cogestione del partito, non è ancora chiaro che fine farà il simbolo, non per la titolarità ma per la visibilità: anche se il tesseramento starebbe andando "proprio bene" (parole di Nencini), l'assenza dalle schede elettorali che contano è sempre più assordante. E, per i socialisti irriducibili, quell'assenza e la lite continua è un'incredibile fonte di dolore.
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