mercoledì 22 novembre 2017

Dc, la sentenza di Rotondi vale molto meno del previsto

Qualche giorno fa, nel parlare del possibile ritorno della Democrazia cristiana (con nome e simbolo insieme) sulle schede elettorali, era rimasta in sospeso una domanda: che sentenza a lui favorevole sostiene di avere in mano Gianfranco Rotondi? Per tanto tempo ha detto (non di rado a sproposito) di essere ancora lui a tutelare giuridicamente gli interessi di ciò che resta della Dc; poco più di un mese fa, però, aveva fatto un salto di qualità. 
Il 16 ottobre, infatti, aveva dichiarato: "Mi è stata notificata una sentenza di Appello, che inibisce l’uso del nome Democrazia cristiana a uno dei tanti movimenti, che lo hanno rivendicato. Il preuso ed i patti sottostanti per i Giudici di Secondo Grado confermano il nostro diritto all'uso del nome del partito"; con "nostro", evidentemente, poteva solo riferirsi al partito non più operante Democrazia cristiana per le autonomie (nato solo Democrazia cristiana) che lui aveva fondato nel 2004. Una manciata di giorni dopo, sempre Rotondi era andato oltre: "una sentenza della Corte di Appello stabilisce che il nome è nostro". Dunque la Democrazia cristiana è lui? Dirlo sarebbe piuttosto azzardato, per tante ottime ragioni. 
Certo, è vero che tutto questo lo ha dichiarato proprio Rotondi, in più tempi e in più sedi, dunque verrebbe la tentazione di pensare che sia vero. Forse però è opportuno applicare alle sue parole una massima espressa da lui stesso in un'intervista concessa quattro anni fa all'autore di queste righe: "Bisogna avere il coraggio di credere a un politico, ma anche la prudenza di dubitare: non prendere per oro colato tutto quello che dice, fare qualche verifica ed essere anche un po' tolleranti". La tolleranza con lui non è mai stata lesinata, vista la sua presenza parlamentare lunga cinque legislature e le sue innumerevoli dichiarazioni spesso filoberlusconiane e sempre molto democristiane: passare alle verifiche, a questo punto, è assolutamente legittimo.
Così, avendo cura e pazienza di fare qualche indagine, si scopre che non c'è alcuna sentenza di ambito democristiano emessa a ottobre o poco prima. Rotondi ha bluffato? Ovviamente no, una sentenza c'è, ma è stata depositata lo scorso febbraio, una manciata di giorni prima che all'Ergife si riunissero gli irriducibili Dc nel tentativo di riattivare il partito con una sorta di "nulla osta" dal Tribunale di Roma; quella vicenda - tutt'altro che chiusa e risolta, come è noto - non c'entra però nulla con la decisione di cui il leader di Rivoluzione cristiana parla (né ovviamente lui ha detto che c'entrasse, giustamente).
Di che sentenza si tratta allora? Quando Rotondi ha parlato di Corte d'appello, pensando alle cause in cui era coinvolto anche lui come Democrazia cristiana per le autonomie, veniva da individuare soltanto una causa, iniziata nel 2006 dalla Democrazia cristiana, per lo meno da quella che si riteneva rappresentata dal segretario politico Angelo Sandri. Lui si era rivolto al tribunale di Roma per chiedere l'accertamento della nullità di tutti gli atti con cui si era "archiviata" l'esperienza della Democrazia cristiana e se ne era gestito il patrimonio (da restituire), nonché per ottenere l'inibizione dell'uso del vecchio nome e del simbolo a chi ne faceva ancora uso (sul presupposto che questi spettassero alla Dc-Sandri, che si riteneva continuatrice della Dc "storica"): l'azione era rivolta contro il Ccd (che allora ancora esisteva), il Cdu (che aveva sospeso la sua attività, ma di cui Rotondi figurava ancora come tesoriere), il Ppi (anch'esso in sonno, ma giuridicamente esistente), l'Udc e, appunto, la "Associazione Partito Politico Democrazia Cristiana", che poi si sarebbe chiamata Democrazia cristiana per le autonomie.
La sentenza di primo grado (c.d. "sentenza Vannucci") arrivò nel 2009 e fu interamente sfavorevole a chi aveva intrapreso l'azione: il giudice disse che non c'era stata alcuna volontà di costituire nuovi partiti nel 1994, che la Dc aveva semplicemente cambiato nome in Ppi (nel modo sbagliato, come si sarebbe appreso in seguito) e che certamente la Dc-Sandri non era in continuità giuridica con il partito storico; sulla base di questo, il tribunale respinse tutte le domande di quest'ultima. Sull'uso della denominazione "Democrazia cristiana", in particolare, nella sentenza si disse che quel nome era stato abbandonato da tempo da Ppi e Cdu ed era usato "in via esclusiva da DC-Rotondi fin dalla relativa costituzione [...] col consenso degli altri partiti" derivati dalla Dc, dunque anzi era il partito di Rotondi a ottenere che alla Dc-Sandri fosse inibito l'uso dell'antico nome e della sigla.
Quella decisione fu impugnata dalla Dc di Sandri: l'appello iniziò nel 2010, ma la sentenza - la n. 805/2017 - è arrivata solo dopo sette anni (mese più, mese meno). La decisione di qualche mese fa di fatto ha confermato integralmente - al di là delle parti della sentenza relative a questioni di rito - quanto era stato detto nel 2017, soprattutto perché chi aveva impugnato aveva di fatto omesso di presentare documenti a suffragio delle proprie tesi (non versando nel processo i documenti del primo grado). Sulla questione del nome "Democrazia cristiana", la Corte d'appello di Roma sostenne che il titolo riconosciuto a Rotondi non derivava (tanto) da una concessione rilasciata dal Ppi all'impiego di quella denominazione (documento effettivamente esistente e datato 21 dicembre 2004, ma che secondo la Dc-Sandri non contava nulla, perché il Ppi non avrebbe potuto disporre del nome della Dc), ma da "una situazione di fatto, ossia [d]all'oggettiva utilizzazione esclusiva di tale denominazione da parte della DC-Rotondi; di modo che la stessa aveva acquisito, in forza alla percezione che di essa si aveva tra quanti condividessero gli ideali di ispirazione cattolica, una forza distintiva". 
Questa decisione, evidentemente, non dev'essere piaciuta alla Dc-Sandri che nelle settimane scorse deve avere presentato ricorso in Cassazione: in seguito a questo, probabilmente a Gianfranco Rotondi è tornata in mente quella sentenza di qualche mese prima e ha pensato che potesse essere utile in questo periodo pre-elettorale, anche solo per muovere un po' le acque a suo favore. Tutto legittimo, ovviamente, ma a questo punto è il caso di guardare con un minimo di attenzione in più al contenuto di quella sentenza, per capire cosa dica davvero a favore di Rotondi.
Gli dà ragione? Certamente sì, nel senso che respinge completamente, tra l'altro, l'appello della Dc-Sandri nei suoi confronti. Dice che Rotondi - assieme alla "sua" Dca - è il solo titolare del nome della Democrazia cristiana? Questo no. La decisione si limita a dire che in primo grado si era riconosciuto che il suo partito era l'unico a utilizzare quel nome e quindi, come tale, era stato identificato; del valore della concessione della denominazione da parte dei rappresentanti del Ppi nulla si dice (lo stesso Rotondi, in più di un'occasione, ha ricordato che nel 2005, dopo aver partecipato alle elezioni regionali e ad almeno una suppletiva con il nome Dc, gli stessi rappresentanti del Ppi gli avevano cortesemente chiesto di non utilizzare più quell'etichetta così com'era, portandolo a integrare il nome in Dca). 
A questo si deve peraltro aggiungere che, a dire il vero, almeno dal 2002 un partito denominato Democrazia cristiana ha tentato di presentarsi alle elezioni con nome e simbolo tradizionali, riuscendoci solo a livello locale (fatta eccezione per la lista Dc-Paese nuovo alle europee del 2004, dalla quale però era stato fatto sparire il nome dal simbolo, e per la Dc-Pizza presente come "pulce" nel simbolo della Lista consumatori nel 2006). Questo elemento, in effetti, sembra sfuggito a tutti i giudici che si sono occupati di questo filone della vicenda e non sarebbe stato male approfondirlo meglio, se non altro per evitare di lasciare punti potenzialmente in ombra. 
Di certo, però, la Dca di Rotondi è stato il solo partito a riuscire a partecipare con quel nome a consultazioni elettorali di rilievo e a ottenere anche eletti (nel 2006, grazie al simbolo condiviso con il Nuovo Psi). Probabilmente si è ritenuto che questo fosse sufficiente a far ritenere più "degno di protezione" l'interesse di Rotondi all'uso di quel nome e a evitare che altri lo impiegassero. Certamente oggi l'ex ministro per l'attuazione del programma berlusconiano potrebbe riprendere l'uso della sua vecchia Dca (ammesso che gli convenga) senza disturbi; al limite potrebbe anche tentare di unire quel nome allo scudo dell'Udc, se quel partito fosse d'accordo. Da qui a dire, però, che nome e scudo sono suoi, per giunta in forza di una sentenza, ce ne corre parecchio. Rotondi certamente lo sa e, magari, potrebbe leggere queste righe allargando le mani e ammiccando lievemente, come a dire: "io ci ho provato, se qualcuno mi crede, perché no?"

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