Che Silvio Berlusconi non muoia
dalla voglia di conservare nome e simbolo del Popolo della libertà, è cosa
nota: sono circolate a più riprese voci più o meno attendibili su nuovi
possibili bozzetti del logo, per non parlare delle cicliche proposte di ritorno
alla bandiera di Forza Italia. Lo stesso fondatore del Pdl a Matrix alla fine del 2010 l’aveva detto
chiaramente: «l’acronimo non commuove e non emoziona», praticamente una
sentenza di morte per un segno distintivo e identitario, una condanna da eseguire
non appena fosse saltato fuori un degno sostituto. Eppure c’era stato almeno un
momento, poco prima, in cui addirittura qualcuno aveva fatto a gara per
rivendicarlo, anche solo per dispetto.
Tutto, in fondo, era cominciato
con quel «Altrimenti che fai? Mi cacci?», datato 21 aprile 2010, con cui fu
ufficializzato davanti ai telespettatori lo strappo tra Berlusconi e Fini, che
da quel momento sarebbero rimasti nel Pdl che avevano fondato da separati in
casa, per lo meno fino all’inizio di agosto, con la creazione di due nuovi
gruppi parlamentari, denominati Futuro e libertà per l’Italia. Tempo qualche
mese e all’inizio di novembre Fli presentò il suo primo simbolo, ma il vero
colpo di teatro lo mise in piedi il capogruppo alla Camera Italo Bocchino venti
giorni dopo: «Dicono che Berlusconi stia preparando un nuovo partito per
rinnovarsi in vista del voto. Comprendiamo la sua esigenza, anche perché il
nome e il simbolo del Pdl sono in comproprietà con Fini e non potrà
utilizzarli». In quella stessa puntata di Matrix,
infatti, l’allora Presidente del Consiglio disse: «Fli potrebbe avanzare la
volontà di appropriarsi del nome e fare ricorso: visto come si sono comportati
i giudici in altre occasioni, meglio tutelarsi».
Le cose non stavano esattamente
come aveva detto Bocchino, ma le sue parole non erano basate sul nulla. A
spulciare il catalogo online dell’Ufficio italiano brevetti e marchi, esiste un
segno distintivo del Popolo della libertà (piccolo arcobaleno tricolore, parte
superiore del cerchio azzurra leggermente sfumata verso il basso e denominazione
bianca in carattere Bodoni), la cui domanda di registrazione è stata depositata
il 20 novembre 2007: il titolare era ed è Silvio Berlusconi. Questo lo sapeva e
lo riconosceva anche Bocchino, che però citava un documento successivo di pochi
mesi al deposito, ossia l’atto notarile con cui si è costituito il Popolo della
libertà.
L’articolo 6 del documento ricomprende
tra il patrimonio comune dell’associazione politica il simbolo qui a fianco; ciò
che più interessava Bocchino, tuttavia, era l’ultimo paragrafo dell’articolo,
in base al quale, in caso di scioglimento dell’associazione per volontà unanime
degli associati, «il simbolo non potrà essere oggetto di uso da parte degli
odierni associati, o di alcuno di essi, se non con il comune espresso accordo
scritto di tutti, e compete altresì a ciascuno degli odierni associati la
capacità di agire individualmente nei confronti di eventuali terzi, con ogni
forma e in ogni sede, anche in giudizio […] per la tutela del simbolo in ogni
sua parte». Dal momento che tra i dieci contraenti c’erano tanto Rocco Crimi in
rappresentanza di Forza Italia, quanto Gianfranco Fini in rappresentanza di Alleanza
nazionale, se si fosse deciso di sciogliere di comune accordo il Pdl, per poter
continuare a utilizzare il nome Berlusconi o un altro qualunque dei contraenti –
Forza Italia compresa – avrebbero dovuto raccogliere il consenso per iscritto
da tutti gli altri soggetti, Alleanza nazionale compresa; il discorso,
ovviamente, sarebbe stato valido anche a parti invertite.
Quanto detto da Bocchino era
vero, ma sulle conseguenze di quella norma è bene fare attenzione. La regola
vista parlava espressamente di «scioglimento» del partito, cosa che fino a quel
momento Berlusconi non aveva in animo di fare; tra l’altro, visto che erano stati
i “futuristi” ad abbandonare il gruppo, come dissidenti non potevano vantare
alcun diritto sul patrimonio (simbolo compreso), come gli stessi ex An sapevano
molto bene per i loro rapporti burrascosi con la Fiamma Tricolore. Il
responsabile elettorale del Pdl, Ignazio Abrignani, aveva poi precisato subito
che in ogni caso il partito, mediante il congresso costitutivo, si è dato uno
statuto e lì stanno le regole da rispettare: all’art. 16-bis, in particolare, si legge che «È conferito al Segretario
Politico Nazionale il potere di utilizzare i contrassegni elettorali del Popolo
della Libertà e di presentare e depositare le liste e candidature elettorali […]
in sede nazionale e locale; le funzioni connesse a tali attività possono essere
svolte a mezzo dei coordinatori nazionali e di procuratori speciali all’uopo
nominati».
Ricapitolando, la titolarità del
simbolo (come “marchio”, ma come è noto in politica valgono regole diverse) era
di Berlusconi, il quale in qualche modo l’avrebbe conferito al partito come
parte del patrimonio (anche se i due emblemi non sono uguali); l’uso spetterebbe
invece al solo segretario nazionale, al più attraverso i coordinatori, restando
valida la regola dell’assenso scritto di tutti i fondatori solo in caso di
scioglimento. Ben difficilmente, dunque, Fini o i finiani avrebbero potuto
contendere con qualche speranza il simbolo a chi era rimasto all’interno del
Pdl.
La storia poteva finire qui, ma c’è
chi non ha resistito a dare il suo contributo alla vicenda, anche a rischio di
piazzare inconsapevolmente qualche buccia di banana. Quella volta ci pensò
Domenico Auricchio, sindaco di Terzigno, ovviamente pidiellino: il logo, manco
a dirlo, era opera sua. «Il simbolo del Pdl l’ho creato io. Mi sono presentato
con questa lista alle elezioni comunali del maggio 2007 e sono diventato
sindaco per la prima volta. Poi, con una scrittura privata, il 24 agosto
successivo, l’ho ceduto a Silvio Berlusconi che è l’unico titolato ad
utilizzarlo»: l’emblema sarebbe stato coniato per contrassegnare un’aggregazione
tra Forza Italia ed An e nei mesi successivi sarebbero iniziati i contatti con
Berlusconi, fino all’atto di cessione.
Tutto torna? Probabilmente sì,
tranne una cosa di non poco conto: chi scrive si è fatto mandare dal comune di
Terzigno il simbolo in questione e in effetti la grafica era identica, ma –
sorpresa – il contrassegno era del «Partito della libertà» e non del Popolo. La
dicitura (scritta ancora in carattere Bodoni e non “bastone” come sarebbe stato
in seguito) era quella che a dicembre del 2007 era risultata “sconfitta” nel referendum con cui i cittadini erano
stati chiamati a scegliere il nome. Quella volta, dunque, il Popolo vinse sul
Partito: tanto basta per dire che il simbolo usato a Terzigno è diverso (e in
una parte fondamentale come il nome) da quello poi oggetto dell’atto
costitutivo. In più, mentre il sindaco Auricchio rispolverava il proprio
passato di creatore di simboli, era in corso una causa tra Pdl e Federazione
dei liberali per la titolarità dell’espressione «Partito della libertà»: dell’esito
della causa (la sentenza sarebbe arrivata nel 2012) converrà riparlare, ma
basti sapere che fino alla fine del 2010 i provvedimenti dei giudici non erano
stati favorevoli agli esponenti del Pdl. In quel momento, dunque, l’intervento
di Auricchio rischiava di essere dannoso per il suo stesso partito: un ottimo
risultato, per una mossa difensiva…
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