sabato 31 dicembre 2016

Il 2016 finisce, la gratitudine no!

Anche il 2016 se ne va e I simboli della discordia compie quattro anni e mezzo sul web. Si chiude un anno di decisa soddisfazione, per vari motivi. Innanzitutto appartiene al 2016 il record assoluto di visualizzazioni per un post del sito (quello in cui a fine maggio annunciavo la costituzione del Partito comunista italiano); quell'articolo e il suo seguito hanno continuato a portare un traffico significativo su queste pagine, che così sono diventate un punto di passaggio per un numero sempre maggiore di curiosi e di "drogati di politica".
La categoria dei #politicsaddicted, in effetti, sembra destinata a sorprendere sempre. Gli appassionati spuntano dove meno ce li si aspetta o dove è più naturale trovarli: in una facoltà di scienze politiche come allo sportello di una banca, a un convegno di vessillologia o comunicazione politica come in un anfratto semisconosciuto di Facebook.  A loro va la mia gratitudine innanzitutto per aver incrociato il mio sito per caso o per scelta e per esserci tornati altre volte: senza di loro superare il traguardo delle 300mila visite totali non sarebbe stato possibile. Ancora maggiore, tuttavia, è la gratitudine per coloro che hanno contribuito a questo sito facendosi intervistare, fornendomi di materiale o dando un suggerimento che io poi ho sviluppato. Da una chiacchierata o da un semplice messaggio di richiesta sui social può arrivare di tutto, dall'ultimo logo appena partorito a una foto dell'ultimo congresso liberale custodita gelosamente (e cercata invano per anni). 
L'assidua attenzione e voglia di darmi una mano di alcune persone doveva essere premiata: per questo, pur non essendo questo un sito giornalistico o con collaborazioni strutturate, dal 5 aprile 2016 I simboli della discordia ha una redazione, divisa indicativamente in seniores (irrecuperabili, vista la durata della loro collaborazione), juniores (per loro c'è speranza, ma spero non guariscano: al sito verrebbero a mancare stimoli importanti) e "a loro insaputa", categoria quest'ultima che indica essenzialmente i giornalisti cui più spesso ho attinto come fonte per la scrittura dei miei articoli (e che qualche volta, all'inverso, hanno avuto me come fonte). 
Anche al di fuori della redazione, però, sono moltissime le persone che hanno fatto qualcosa per rendere migliore questo sito. Anche stavolta, dunque, altri nomi si aggiungono all'elencone inaugurato due anni fa, tutte persone che voglio (e moralmente devo) ringraziare a fondo per avermi aiutato. Possibile che qualcuno mi sia sfuggito e, nel caso, sono pronto a inserirlo: in barba a ogni regola di opportunità, che suggerirebbe la sintesi, qui voglio che ci sia spazio per tutti. Ciascuno di questi nomi merita di stare qui, altri ne arriveranno
Un ringraziamento particolare a Martino Abbracciavento, Ignazio Abrignani, Guglielmo Agolino, Tiziana Albasi, Mauro Alboresi, Alberto Alessi, Antonio Angeli, Antonio Atte, Luca Bagatin, Laura Banti, Paolo Barbi, Enzo Barnabà, Giovanni Bellanti, Pierpaolo Bellucci, Pierangelo Berlinguer, Enrico Bertelli, Niccolò Bertorelle, Raffaella Bisceglia, Mauro Biuzzi, Paolo Bonacchi, Mauro Bondì, Michele Borghi, Lorenzo Borré, Massimo Bosso, Carlo Branzaglia, Giampiero Buonomo, Giovanni Cadioli, Stefano Camatarri, Elisabetta Campus, Aurelio Candido, Maria Antonietta Cannizzaro, Monica Cappelletti, Luca Capriello, Giovanni Capuano, Francesco Cardinali, Nicola Carnovale, Elena Caroselli, Robert Carrara, Roberto Casciotta, Pierluigi Castagnetti, Marco Castaldo, FIlippo Ceccarelli, Luigi Ceccarini, Mirella Cece, Luca Cenatiempo, Raffaele Cerenza, Gioia Cherubini, Giancarlo Chiapello, Giovanni Chiarini, Emanuele Chieppa, Beppe Chironi, Giancarlo Ciaramelli, Valerio Cignetti, Valentina Cinelli, Giuseppe Cirillo, Roman Henry Clarke, Antonia Colasante, Emanuele Colazzo, Emiliano Colomasi, Daniele Vittorio Comero, Francesco Condorelli Caff, Antonio Conti, Pietro Conti, Francesco Corradini, Carlo Correr, Antonio Corvasce, Andrea Covotta, Francesco Crocensi, Natale Cuccurese, Emilio Cugliari, Johnathan Curci, Francesco Curridori, Francesco D'Agostino, Nicola D'Amelio, Michele D'Andrea, Roberto D'Angeli, Alessandro Da Rold, Paolo Dallasta, Fabrizio De Feo, Pietro De Leo, Stefano De Luca, Pino De Michele, Carlo De Micheli, Roberto De Santis, Donato De Sena, Franco De Simoni, Mauro Del Bue, David Del Bufalo, Maurizio Dell'Unto, Riccardo DeLussu, Dario Di Francesco, Roberto Di Giovan Paolo, Alfio Di Marco, Marco Di Nunzio, Alessandro Di Tizio, Antonino Di Trapani, Ilvo Diamanti, Federico Dolce, Alessandro Duce, Filippo Duretto, Daniele Errera, Filippo Facci, Leonardo Facco, Arturo Famiglietti, Giovanni Favia, Luigi Fasce, Paolo Ferrara, Emilia Ferrò, Antonio Fierro, Antonio Floridia, Antonio Folchetti, Gianni Fontana, Gabriella Frezet, Iztok Furlanič, Massimo Galdi, Vincenzo Galizia, Vincino Gallo, Luciano Garatti, Marcello Gelardini, Alessandro Genovesi, Alessandro Gigliotti, Michele Giovine, Carlo Gustavo Giuliana, Bruno Goi, Roberto Gremmo, Massimo Gusso, Vincenzo Iacovino, Vincenzo Iacovissi, Matteo Iotti, Roberto Jonghi Lavarini, Luca Josi, Orione Lambri, Piero Lanera, Calogero Laneri, Lisa Lanzone, Angelo Larussa, Michele Lembo, Pellegrino Leo, Raffaele Lisi, Max Loda, Dario Lucano, Nino Luciani, Maurizio Lupi (il Verde Verde), Bruno Luverà, Mimmo Magistro, Alex Magni, Francesco Maltoni, Gian Paolo Mara, Federico Marenco, Marco Margrita, Marco Marsili, Carlo Marsilli, Antonio Massoni, Angela Mauro, Federico Mauro, Angelo Orlando Meloni, Nicolò Monti, Roberto Morandi, Raffaello Morelli, Mara Morini, Claretta Muci, Alessandro Murtas, Antonio Murzio, Cristiana Muscardini, Paolo Naccarato, Donato Natuzzi, Ippolito Negri, Gianluca Noccetti, Matteo Olivieri, Oradistelle, Fabrizio Orano, Andrea Paganella, Roberto Pagano, Enea Paladino, Lanfranco Palazzolo, Paolo Palleschi, Enzo Palumbo, Max Panarari, Max Panero, Federico Paolone, Fabio Pariani, Ottavio Pasqualucci, Oreste Pastorelli, Alan Patarga, Rinaldo Pezzoli, Antonio Piarulli, Daniele Piccinin, Flavia Piccoli Nardelli, Francesco Pilieci, Marco Pini, Elisa Pizzi, Marina Placidi, Vladimiro Poggi, Carlandrea Poli, Alfredo Politano, Giuseppe Potenza, Cesare Priori, Giulio Prosperetti, Carlo Prosperi, Renzo Rabellino, Andrea Rauch, Michele Redigonda, Livio Ricciardelli, Egle Riganti, Francesco Rizzati, Lamberto Roberti, Donato Robilotta, Luca Romagnoli, Gianfranco Rotondi, Sergio Rovasio, Roberto Ruocco, Giampaolo Sablich, Stefano Salmè, Angelo Sandri, Maurizio Sansone, Ugo Sarao, Anna Sartoris, Alessandro Savorelli, Jan Sawicki, Gian Franco Schietroma, Renato Segatori, Oscar Serra, Gianni Sinni, Claudia Soffritti, Carlo Antonio Solimene, Simone Sormani, Valdo Spini, Ugo Sposetti, Mario Staderini, Gregorio Staglianò, Lorenzo Stella, Leo Stilo, Francesco Storace, Tiziano Tanari, Mario Tassone, Roland Tedesco, Luigi Torriani, Alvaro Tortoioli, Roberto Traversa, Ciro Trotta, Lara Trucco, Fabio Tucci, Andrea Turco, Maria Turco, Maurizio Turco, Massimo Turella, Sauro Turroni, Marco Valtriani, Max Vassura, Margherita Vattaneo, Enrico Veronese, Fiodor Verzola, Ettore Vitale, Maria Carmen Zito, Mirella Zoppi, Roberto Zuffellato, Federico Zuliani, Piotr Zygulski. 
E, già che ci siamo, chiedo scusa ad Alberto Rostagno e al gruppo di Rivarolo Rinasce per avere preso il loro simbolo a base per il mio logo di saluto al 2016...

Psi, ultimo congresso "ri-congelato", ma la battaglia prosegue

E' destino che le diatribe in casa socialista debbano "risolversi" sotto le feste di Natale, o subito dopo. Era accaduto a cavallo tra il 2005 e il 2006, nella disputa che aveva visto contrapporsi - all'interno del Nuovo Psi, all'epoca parte del centrodestra - le fazioni di Bobo Craxi (che voleva lasciare la coalizione) e di Gianni De Michelis (che invece voleva restarci), in lite sulla validità del congresso svoltosi a fine ottobre: il 30 dicembre aveva gioito Craxi jr per la sospensione degli atti congressuali, il 20 dicembre era stato invece De Michelis a esultare, perché il tribunale di Roma aveva accolto il suo reclamo, restituendogli la segreteria.   
Questa volta, invece, la fine anno è stata amara per il gruppo vicino a Riccardo Nencini, segretario del Partito socialista italiano e viceministro: due giorni fa il Tribunale di Roma ha respinto il reclamo da loro presentato contro l'ordinanza che a settembre aveva sospeso gli atti dell'ultimo congresso del partito (Salerno, 15-17 aprile 2016). A presentare ricorso erano stati alcuni iscritti al Psi, ossia Angelo Sollazzo, Pieraldo Ciucchi, Roberto Biscardini, Aldo Potenza e Gerardo Labellarte (difesi da Vincenzo Iacovino, Vincenzo Fiorini e Silvio Di Lalla), tutti legati ad Area Socialista, il gruppo politico costituito da Bobo Craxi alla vigilia del congresso "incriminato", cui i ricorrenti non hanno partecipato: per Craxi jr la fine dicembre si conferma favorevole per le decisioni attese dal Tribunale di Roma, solo che - a differenza di undici anni fa - questa volta la ragione è arrivata anche dalla seconda ordinanza cautelare, anche se ovviamente ai giudici toccherà poi pronunciarsi nel merito prossimamente.
Il collegio di tre giudici, presieduto da Francesco Mannino e avente come relatore Francesco Remo Scerrato (già ferrato in materia di diritto dei partiti: nel 2013 si è occupato della sospensione degli atti del XIX congresso della Dc guidata da Gianni Fontana, mentre ad aprile aveva reintegrato in via cautelare gli espulsi dal M5S di Roma) era stato chiamato a riconsiderare le censure mosse dai ricorrenti, in particolare relative alla "partecipazione al congresso di un numero di delegati, da individuarsi, in base alle disposizioni statutarie, in misura proporzionale agli iscritti al partito, che non trova riscontro nel numero degli effettivi tesserati, con conseguente alterazione degli equilibri previsti per la determinazione delle materie da sottoporre alle decisioni congressuali e per l'adozione delle relative delibere". L'accusa, in sostanza, era di avere "gonfiato" il tesseramento, per aumentare il numero dei delegati: in particolare, secondo i ricorrenti il numero dichiarato di tesserati non trovava corrispondenza nell'apposita voce delle entrate dovute alle iscrizioni. 
Il tribunale, in sede di reclamo, avrebbe ritenuto "condivisibile la condotta degli iscritti, che - come si legge in una nota dei ricorrenti - hanno deliberatamente evitato di ratificare una situazione non legittima" non partecipando nemmeno ai lavori del congresso (cosa che era stata stigmatizzata dalla segreteria Nencini), ma soprattutto avrebbe confermato il sospetto - fumus boni iuris - che qualcosa nel conteggio dei delegati fosse andato storto. In particolare, alla vigilia del congresso erano stati dichiarati 22mila iscritti, ma i proventi delle iscrizioni del 2014 e 2015 ne avrebbero fatti conteggiare 6mila (e il tribunale, in prima istanza cautelare, aveva calcolato "facendo applicazione della media aritmetica, [...] un ammontare 'pro tessera' pari a circa € 14, decisamente inferiore al costo minimo di ciascuna tessera che [...] corrisponde a € 20 per le iscrizioni di disoccupati e pensionati").
Proprio su questo si erano concentrate le argomentazioni della difesa di Nencini: "Abbiamo dimostrato - ha spiegato il segretario a Repubblica - che il prezzo delle iscrizioni è variabile, 30 euro per il socio ordinario, 15 euro per pensionati, la metà degli iscritti,  e studenti, in più alcune federazioni usano gli introiti per pagare gli affitti". Nonostante questo (e ritenendo, per quanto se ne sa, plausibili le spiegazioni della segreteria), il collegio giudicante avrebbe trovato altre ragioni per decidere la sospensione degli atti: in particolare, al regolamento congressuale non sarebbe stata allegata la ripartizione dei delegati suddivisi per regione, motivo per cui per i giudici non sarebbe stata indicata in maniera trasparente la platea congressuale, confermando di fatto la decisione del giudice di prime cure (per il quale il permanere degli effetti delle delibere congressuali sarebbe stato dannoso per i ricorrenti e tutti gli associati del partito).
Risultato: confermando la sospensione degli atti del congresso di Salerno, restano in piedi le delibere dell'assise di Venezia (2013) e le cariche da questo determinate, compresa la segreteria di Riccardo Nencini: lui resta al suo posto (sebbene in forza di un diverso pronunciamento congressuale), ma con amarezza: "Abbiamo perso, ma quel che è peggio - scrive in una nota - è che abbiamo perso sorprendentemente. Ogni segretario provinciale, ogni segretario regionale ha ricevuto nei tempi dovuti la nota relativa ai delegati da esprimere per il congresso nazionale di Salerno: li ha ricevuti regolarmente dalla Commissione Nazionale di Garanzia alla quale spetta - a lei, non al Consiglio Nazionale, come noi sappiamo bene - la formazione della platea congressuale e l'attribuzione dei delegati. [...] Esattamente ciò che le Commissioni di Garanzia hanno sempre fatto. [...] Siccome non li reputo degli smemorati, potevano Sollazzo, Biscardini e compagnia non ricordare una procedura che praticano da quarant'anni? Allora, perché ingenerare un pericoloso equivoco? Si illudono se pensano di mandare a rotoli la nostra storia, la nostra comunità, il nostro partito". 
Parole, quelle di Nencini, che lasciano chiaramente intendere che il contenzioso a colpi di carta bollata continuerà: "Siccome tutte le carte sono in regola, le procedure sono state tutte rispettate, porteremo di nuovo e in ogni Tribunale le nostre ragioni per ottenere un giudizio equo". E mentre Bobo Craxi fa notare che lo statuto del Psi non prevede il doppio incarico di capo del partito e membro del governo (ma per Nencini è previsto), oltre a rivendicare la sconfitta della linea del segretario sul referendum costituzionale - Nencini e il Psi ufficiale si erano schierati per il Sì, Craxi e i ricorrenti avevano sostenuto il No - per cui sarebbe opportuna almeno una cogestione del partito, non è ancora chiaro che fine farà il simbolo, non per la titolarità ma per la visibilità: anche se il tesseramento starebbe andando "proprio bene" (parole di Nencini), l'assenza dalle schede elettorali che contano è sempre più assordante. E, per i socialisti irriducibili, quell'assenza e la lite continua è un'incredibile fonte di dolore.

venerdì 30 dicembre 2016

Impegno comune, un simbolo per tante città

Alle elezioni amministrative, lo si è detto e notato in più occasioni, i simboli dei partiti da tempo sono sempre più rari, lasciando puntualmente il posto alle liste civiche. Molti simboli di queste riportano i segni territoriali più riconoscibili, magari reinterpretati graficamente; a soluzioni visive diverse, peraltro, possono abbinarsi nomi uguali. Alcune "etichette", infatti, sono particolarmente gettonate, perché sembrano portare con sé il concetto di civismo, l'idea del buon governo (almeno nelle intenzioni) e del mettere insieme le forze "dal basso" per migliorare il proprio territorio. Una di queste espressioni è certamente Impegno comune: a tutti i motivi detti prima, si aggiunge la presenza del sostantivo "comune", che rimanda tanto alla "cosa pubblica", quanto all'istituzione comunale per la quale la lista intende concorrere.
Al nome, del resto, si abbinano bene vari concetti per la traduzione in grafica. L'idea dell'impegno comune, infatti, si sposa molto bene - ad esempio - con le sagome di persone, che tendenzialmente si tengono per mano. E' il caso, per dire, della lista Impegno comune per Castro, presentata nel comune del leccese nel 2012, a sostegno del candidato sindaco Luigi Carrozzo: all'interno del contrassegno - curiosa mistura di immagini fotografiche e disegni, tricolori circolari e stradali, font bastoni e graziati - si trova l'immagine della famigliola classica, con padre, madre e due figli piccoli (uno dei quali, tra i genitori, sembra saltare, ma l'immagine che ne esce è piuttosto inquietante, dando più l'idea del sacco di patate o del quarto di bue che del bimbo), tutti ovviamente tenuti per mano per l'impegno comune.
Altrove si è cercato di puntare su un numero più ampio di persone, per dare l'idea di una comunità, di un "popolo", senza correre il rischio di far pensare al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (troppo caratterizzato politicamente e, dunque, da non evocare in nessuna maniera). A Quartucciu, comune in provincia di Cagliari, per esempio, il candidato Tonino Meloni si era fatto sostenere da Impegno comune e aveva piazzato nel simbolo - su un fondo con sfumature azzurrine in alto e gialle ocra in basso - nove sagome umane, divise in tre gruppi e tinte - guarda caso - dei colori della bandiera italiana. Perché, anche in un comune, i colori nazionali non sono fuori posto.
Qualcosa di simile è stato fatto anche a Davoli, comune della provincia di Catanzaro. Alle elezioni che si sono svolte nel 2015, il candidato sindaco Giuseppe Papaleo (poi eletto) si era presentato sostenuto dal cartello Impegno comune - Solidarietà e partecipazione: nel contrassegno elettorale, su un ground rosso, era stata radunata una dozzina di silhouette di persone, stavolta tinte dei colori dell'iride, per dare l'idea che davvero nessuno doveva essere escluso. E, per rafforzare il concetto, si è dato spazio anche alle sagome - ben visibili - di un diversamente abile in sedia a rotelle e di una mamma che spinge una carrozzina, come a dire che non si voleva lasciare indietro nessuno e tutti potevano dare il loro contributo.
Altri gruppi si sono accontentati di richiamare l'impegno di una comunità di persone attraverso uno dei simboli più gettonati alle elezioni amministrative: le mani. Anche qui, l'interpretazione ha seguito due temi principali: quello preferito è stato in assoluto la stretta di mano, già emblema storico del mutuo soccorso e della cooperazione (e spesso adottato da liste di centrosinistra. Tra i vari "Impegno comune" che hanno scelto di avvalersi delle mani che si stringono, si può scegliere il caso di Sciacca, alle elezioni del 2009: lì la lista dal nome che ci interessa appoggiò il candidato - poi risultato vincitore - Vito Calogero Bono, ponendo una vera stretta di mano sotto alla fotografia del municipio della stessa città di Sciacca (anche se il risultato non fu tra i migliori sul piano grafico).      
Altri avevano comunque optato per le mani vere, ma cogliendo l'attimo che immediatamente precede la stretta di mano (o forse la segue, chissà). E' il caso, ad esempio, della lista Impegno comune che, alle amministrative del 2015 a Travagliato (piccolo centro del bresciano, noto agli appassionati di calcio per aver dato i natali a Franco Baresi, capitano storico dei rossoneri), aveva candidato Gianfranco Michelini alla poltrona di primo cittadino: le mani, su uno sfondo azzurrino sfumato (con scritte ancora bianche e azzurre) e circondate da un tricolore discreto, finivano per toccarsi appena, coi polpastrelli intenti a sfiorarsi, appunto subito prima o subito dopo la stretta di mano.
Altri, invece, hanno preferito limitarsi a stilizzare le mani, sempre però offrendo l'idea della stretta e della complementarietà dell'apporto degli elettori/amministratori, in un patto da rinsaldare. Come esempio si può prendere la lista civica L'impegno "comune" (con le virgolette a sottolineare l'ambivalenza della parola evidenziata, senza possibilità di avvalersi dell'alternanza tra maiuscole e minuscole), presentata a Leggiuno in provincia di Varese, a sostegno del candidato Domenico Bavila: due mani, disegnate in modo speculare e curiosamente in verde, danno l'idea di volersi raggiungere e stringere, anche se la distanza tra loro c'è (anche per questo, forse, serve impegno).
Altre volte il tema delle mani è stato interpretato in chiave più ironica e, volendo, anche simpatica per l'occhio. Si può andare, per esempio, a Larciano, comune in provincia di Pistoia: lì la locale lista Impegno comune aveva candidato nel 2014 Antonio Pappalardo, mentre al turno elettorale di quest'anno (evidentemente anticipato) sosteneva Lisa Amidei. In entrambe le consultazioni, l'elemento grafico principale era rappresentato da una stilizzazione del castello di Larciano, con due finestre/feritoie che somigliavano a due occhi e due braccia arancioni stilizzate che abbracciavano il monumento: un'immagine felice, a quanto pare, visto che la lista è sempre uscita vincitrice dalle urne.
Altri hanno puntato sulle mani, ma senza la stretta canonica. Così, se la lista Impegno comune presentata a Santa Maria Capua Vetere, nel casertano, a sostegno di Antonio Mirra (una campagna che merita di essere osservata meglio a parte), schierava cinque mani strette "a pentagono", per rafforzare l'idea di collaborazione, nel comunello di Bonefro (provincia di Campobasso) di mano nel 2015 ne bastava una sola: questa raccoglieva i monumenti principali del centro storico e li portava su di sé, come a volerli proteggere o, volendo, innalzare (il profilo della mano sembra quello di una colomba). Purtroppo per la candidata Claudia Lalli, meno di sessanta voti l'hanno separata dalla vittoria.
C'è poi chi ha lasciato completamente al di fuori la componente "umana" o "manesca", preferendo appoggiarsi soltanto alla natura. E' il caso, per esempio, del comune cosentino di Tortora, in cui l'anno scorso è stato riconfermato il sindaco Pasquale Lamboglia: in entrambi i casi si è fatto sostenere dal suo Impegno comune, che schierava all'interno del contrassegno un girasole con metà di una corolla vistosa, stilizzata (al pari del gambo e dell'unica foglia), mentre l'altra metà del fiore veniva sostituita da tre archi di cerchio blu, un po' eco e un po' emiciclo comunale; a completare il quadro, una piccola "spruzzata" di vernice tricolore in basso a sinistra.
C'era l'ambientazione naturale anche a Rogeno, comune in provincia di Lecco che ha "rinnovato" la propria amministrazione due anni fa. Inserire le virgolette sembra opportuno, visto che anche in questo caso si è stati di fronte a una riconferma: il sindaco uscente Antonio Martone, dunque, era riuscito a ottenere di nuovo la fiducia dei suoi concittadini. La maggioranza dei voti, dunque, è andata a una lista caratterizzata dall'arcobaleno che si staglia sul cielo e sfuma nell'avvicinarsi alla terra. La resa grafica era buona; peccato per la scelta della font Comic Sans Serif, che ha tolto un po' di eleganza alla composizione (per la prossima volta, ci si potrebbe mettere più... impegno).
Da ultimo, c'è chi non si è affidato nemmeno alla natura per tentare di conquistare la poltrona di primo cittadino. Come esempio prendo la lista Impegno comune presentata nel 2014 a Calvagese della Riviera, altra località bresciana: qui la formazione a sostegno di Anna Maria Fracassi ha mancato per 41 voti la vittoria. Il gruppo, per rappresentarsi, ha scelto quattro cerchi, a sembianza di sfera grazie all'uso della luce, vicini e disposti a losanga, ricordando un po' l'antica pulsantiera del Super Nintendo (ma la posizione dei colori era diversa). Non si trovano in rete spiegazioni sul significato dell'emblema, ma forse non occorre nemmeno cercarle: il centro del messaggio era il nome e la vittoria, a ben guardare, era davvero a un soffio.

mercoledì 28 dicembre 2016

Riscossa Italia, appena nato (ma già presente in Senato)

Nel sito del Senato non se ne trova ancora traccia, guardando ai nomi dei gruppi parlamentari, ma da qualche giorno all'interno dell'aula è rappresentato un nuovo soggetto politico, che sta muovendo i primi passi in un tempo tutt'altro che semplice. Si tratta di Riscossa Italia, partito qualificabile come "sovranista", ma non riducibile a questo: "Con Riscossa Italia - si legge sulla pagina Facebook del movimento - ci proponiamo il ripristino della piena applicazione della Costituzione primigenia. Fuori dall'UE, fuori dall'euro e messa al bando del neoliberismo. Per tornare a dare dignità al nostro Paese ed al nostro popolo". 
A dare rappresentanza parlamentare alla formazione di nuovo conio è la senatrice Paola De Pin, eletta col M5S, poi aderente ai Verdi e, qualche mese fa, al gruppo Euro Exit assieme alla collega Monica Casaletto. Dopo qualche settimana, la dicitura "Euro Exit" era stata inserita nel logo di Alternativa per l'Italia, movimento rappresentato dalla sola senatrice De Pin. Il fatto che lei abbia ora aderito a Riscossa Italia (circola una sua foto in cui indossa il distintivo del partito) fa pensare a una scissione all'interno del gruppo originario, visto che Alternativa per l'Italia esiste e opera tuttora.   
Che il lavoro di Riscossa Italia sia all'inizio lo dimostra il fatto che il sito ufficiale - www.riscossaitalia.it - è ancora in allestimento, mentre esistono già gli account dei principali social network. Principio cardine della formazione, di cui è segretario l'avvocato Marco Mori, è il ritorno al testo della Costituzione "così come fu ideata e redatta dall'Assemblea Costituente, messa in pericolo dal sistema neoliberista, che usa i Trattati Europei e la moneta Euro come strumenti distruttivi": è lo stesso segretario Mori a parlare - nel suo sito personale - del neoliberismo come di "un crimine contro l'umanità". E visto che l'intero sistema europeo sembra informato per intero a questo pensiero economico, non stupisce che un punto centrale del programma politico sia "Uscita unilaterale ed immediata sia dall'euro che dall'Unione Europea, organizzazione criminale dedita al consolidamento del potere finanziario internazionale a scapito dei popoli e della democrazia".
Se le parole sono pietre, quelli di Riscossa Italia ne sono ben consapevoli e le usano come armi ben indirizzate. Più sobrio - fin troppo, verrebbe da dire - appare invece il simbolo scelto per la formazione. Il nome quasi sparisce, scritto in un Franklin Gothic Condensed bianco su fondo azzurro lievemente sfumato; in basso c'è ovviamente un tricolore - immancabile per un movimento sovranista - reso con tre spicchi uniti a formare una superficie ondulata e contenenti le parole chiave del partito, "democrazia", "lavoro" e "sovranità". Si segnala la permanenza dell'espressione "Euroexit" (stavolta senza spazio) e un'insolita corona gialla "eccentrica", a contornare il tutto. Ci sarà tempo, nelle prossime settimane, per capire le ragioni che hanno portato all'emblema e, soprattutto, le prime mosse di rilievo nella marcia di avvicinamento alle elezioni: un percorso certo, di cui ancora nessuno conosce la data di scadenza.

martedì 27 dicembre 2016

Verso il ritorno della Dc: un cammino irto di insidie

Non avrebbero forse osato dirlo, almeno in gran parte di loro, ma il regalo che molti (ex?) democristiani avrebbero voluto trovare sotto l'albero sarebbe stata proprio la Dc, nel senso del loro partito di nuovo attivo e funzionante. Come è noto, qualcosa che va in quella direzione è accaduto: senza aspettare Natale, il Tribunale di Roma il 13 dicembre - curiosamente, per restare in tema, nel giorno di santa Lucia, in cui i bambini del nord ricevono i doni - ha disposto di convocare l'assemblea degli iscritti della Democrazia cristiana, in base all'art. 20, comma 2 del codice civile, per i giorni 25 e 26 febbraio 2017 (all'hotel Ergife di Roma). 
Per qualcuno è già una vittoria (e in un certo senso lo è, visto che non si era mai arrivati fino a quel traguardo), per altri la sfida è appena iniziata: hanno ragione soprattutto loro, perché ogni passaggio da questo momento in poi è particolarmente delicato. Basta un errore, una dimenticanza qualunque nel percorso che il giudice ha avallato - almeno per ora - e il lavoro fatto fino a quel momento può andare in fumo, visto che sono già stati annunciati alcuni ricorsi contro questo iter: era accaduto proprio così nel 2012, quando i componenti dell'ultimo consiglio nazionale Dc non furono convocati con avviso personale (come volevano le disposizioni attuative del codice civile) e il XIX congresso, che elesse segretario Gianni Fontana, fu viziato dallo stesso problema e da altre violazioni statutarie, rinviando ancora una volta il ritorno del vecchio scudo crociato.
A tracciare pubblicamente, anche solo in linea di massima, il percorso da seguire è stato Nino Luciani, primo firmatario (con Alberto Alessi, Renzo Gubert, Luigi D'Agrò e Renato Grassi) della richiesta al Tribunale di Roma di convocare l'assemblea degli aderenti alla Dc e, in quanto tale, designato dal giudice a provvedere a tutte le formalità necessarie per la convocazione e a presiedere - temporaneamente - la seduta dell'assemblea. Una convocazione di assemblea che arriva - è lo stesso Luciani a dirlo - "dopo numerosi eventi politici e giuridici catastrofici, per la Dc, in un periodo di vent'anni", caratterizzati dai numerosi tentativi di raccogliere l'eredità (politica, patrimoniale e simbolica) del partito di Piazza del Gesù, non di rado sfociate in controversie giudiziarie: solo le sentenze della Corte d'appello di Roma del 2009 e delle sezioni unite della Cassazione del 2010 hanno cercato di porre rimedio, sostenendo che "non è mai esistito un problema di successione alla Dc, perché - così ricorda Luciani - lo scioglimento fu disposto da un organo che non avevo il potere di legge per farlo e dunque, giuridicamente, la Democrazia cristiana esiste tuttora". Per inciso, è corretta l'ultima parte, anche se alla sopravvivenza del partito si collegano conseguenze diverse da quelle immaginate dai "riattivatori" Dc; meno preciso è ciò che precede, visto che non ci fu lo scioglimento del partito, ma solo un cambio di nome fatto male.
Nel ricordare il precedente poco felice della Dc-Fontana (naufragata in tribunale), Luciani ha sottolineato che l'assemblea di cui il Tribunale di Roma ha disposto la convocazione non dev'essere conclusa - come sarebbe facile fare - con il congresso del partito: "l'una - scrive - è una assemblea di primo grado (vale dire è sovrana); invece il congresso è un'assemblea di terzo grado, ossia di eletti dalle sezioni locali, poi dai congressi provinciali, poi dai congressi regionali, oggi non più fattibili perché le sezioni locali non esistono più". Una volta eletto un presidente, a norma dell'art. 20, comma 2 c.c., si dovrebbe arrivare a un congresso: questo, però, solo dopo che la stessa assemblea degli iscritti sarà stata riconvocata per modificare in modo significativo lo statuto (ex art. 21, comma 2 c.c., che richiede la presenza di almeno tre quarti dei soci e il voto favorevole della maggioranza dei presenti), vista l'enorme difficoltà di attuare lo statuto degli anni '80 in un partito privo di organi e tutto da ricostruire.
Rivolgendosi a coloro che avevano delegato il "gruppo dei 5" a chiedere la convocazione dell'assemblea, Luciani assicura: "In febbraio sarete convocati mediante apposito avviso personale, in base al codice civile". E' chiaro che la convocazione - presumibilmente con raccomandata - non riguarderà solo le circa 200 persone che hanno dato la loro delega, ma dovrà pervenire personalmente a tutti i 1742 "confermati iscritti" nel 2012, secondo l'elenco prodotto in tribunale da Luciani; così come sarebbe opportuno che la convocazione partisse prima di febbraio, in modo da permettere ai singoli associati di prenotare per tempo treni, aerei e alloggi senza svenarsi.
Prima della scadenza di fine febbraio, in ogni caso, per Luciani è necessario incontrarsi prima, per un convegno nazionale di preparazione - da tenersi, secondo lui, nella sua Bologna entro gennaio, con la partecipazione di vari docenti unviersitari - per "una prima discussione tra i soci su un codice etico del cristiano impegnato in politica", con l'idea di rivolgersi alla Chiesa cattolica (volendo costruire un partito laico, sia pure ispirato alla Dottrina sociale della Chiesa) e al Paese "per rivendicare il ruolo storico della Dc". Questo riguarderebbe soprattutto la prima fase della vita repubblicana (che per Luciani arriva fino al 1970), ma senza trascurare la seconda, fatta concludere con il 1994 e caratterizzata - oltre che da "Mani pulite", dal "compromesso storico" col Pci: "quell'accordo di potere, che salvaguardava la Dc nel governo nazionale e inseriva il PCI nelle Regioni, dando inoltre alle Regioni stesse la delega di gestire il Servizio sanitario nazionale - si domanda Luciani - fu "vera gloria" della Dc o, invece, sarebbe stato più corretta una alternanza con il Pci nel governo nazionale, se questa fosse stata la scelta degli elettori?".
Prima ancora del convegno, tuttavia, c'è un'altra necessità, davvero impellente: quella della cassa. L'uso della sala Leptis Magna dell'Ergife - la cui disponibilità è stata determinante per ottenere la convocazione dell'assemblea degli associati Dc - costa 7.120 euro; almeno altri 7.000 serviranno per spedire con raccomandata gli avvisi personali agli iscritti da convocare, così come occorrerà mettere in conto altre spese, ad esempio per la propaganda e - voce da non sottovalutare - per l'assistenza legale che dovesse rendersi necessaria per rispondere ai ricorsi fin qui minacciati. Per questo Luciani ha aperto un conto corrente bancario e chiede ai vari soggetti interessati "un contributo libero, volontario" per completare l'opera iniziata: il gioco della Democrazia (cristiana), certamente coinvolgente, purtroppo non è gratis e non basterà lo scudo crociato a ripararsi dalle spese.

venerdì 23 dicembre 2016

Noi Repubblicani, un nuovo simbolo appare a cena

A volte i simboli nuovi vengono strombazzati in ogni dove, sperando che rimangano impressi (anche quando, magari, non ne vale affatto la pena); altri volte invece un simbolo appena nato spunta così, senza troppo clamore, per vedere più o meno di nascosto l'effetto che fa. Qualcuno nemmeno gli fa caso, altri invece se ne accorgono, dunque curiosità e dubbi di varia natura iniziano a farsi strada. A volte finiscono persino sui giornali, com'è accaduto pochi giorni fa per un'iniziativa politica legata a Daniela Garnero, già coniugata Santanchè
Tutto è iniziato venerdì 16 dicembre, in un hotel alla periferia di Milano (a Pero, per l'esattezza): la struttura era stata scelta come teatro della "Cena di Natale" (maiuscole comprese) organizzata appunto dalla deputata, già pitonessa, e dal senatore Mario Mantovani; con loro, c'erano anche i parlamentari Giuseppe Romele, Luca Squeri e Sante Zuffada, nonché Paolo Del Debbio in veste di intervistatore e Mario Cipollini come "ospite". Quello che interessa qui non è tanto il sold out della serata (oltre mille presenze, tutte paganti), né i contenuti dei discorsi dei presenti, quanto piuttosto "un mistero inquietante - ha scritto su Libero all'indomani della cena Azzurra Noemi Barbuto - al quale nessun commensale sapeva rispondere: cosa significava il simbolo impresso sul menù?"
Già, perché sul menù e, prima ancora, sulle cartoline d'invito alla cena si vedeva un cerchio con la scritta Noi Repubblicani - Popolo sovrano. La grafica era di respiro americano, per i colori usati (rosso e blu), per le font utilizzate (stile Clarendon) e per le stelline, anche se queste sono rigorosamente tricolori; al centro, manoscritta e sovrapposta a un azzurro scorcio d'Europa con l'Italia in evidenza, la parola "Noi", piuttosto gettonata nel centrodestra degli ultimi anni, avendola già fatta loro prima Angelo Pisani (Noi consumatori), poi Annagrazia Calabria e, più di recente, Matteo Salvini e Diego Della Valle. 
"Questo - aveva spiegato Squeri alla cronista di Libero - è il simbolo di una nuova corrente interna a Forza Italia che fa il suo esordio ufficiale questa sera"; Barbuto però ha guardato oltre, parlando espressamente di tecniche di "pubblicità subliminale". "Fai una cena - ha spiegato - ed il simbolo è lì sotto i tuoi occhi, poi ne fai un' altra, ridi, mangi e scherzi, ed il simbolo è lì, sotto i tuoi occhi; poi ne fai un'altra, finché alla fine ti accorgi di essere della corrente 'Repubblicani, noi, popolo sovrano' bla bla bla del partito di Forza Italia. Già la politica italiana appare alquanto incasinata, ad aggravare la situazione caotica dei partiti ci si mettono pure le correnti. Peraltro con nomi che più lunghi non si può". Anche gli altri giornali alla corrente forzista alla prima uscita hanno mostrato di credere fino a un certo punto: Marco Cremonesi, sul Corriere, ha parlato di "un bollo tondo, assolutamente identico al simbolo di una lista elettorale. Certo, in cima all'invito c'è il simbolo di Forza Italia. Almeno per il momento".
L'impronta americana del dopo-Trump è ben visibile e non sarebbe nemmeno la prima volta che si cerca di costruire "qualcosa di repubblicano" da contrapporre a "qualcosa di democratico" (anche se al tandem Fini-Segni del 1999 era andata male e anche ad alcuni successori); l'idea è di tenere una "grandissima convention a febbraio", con persone riunite da tutta l'Italia, nel tentativo di "dare più forza a Forza Italia" e in generale al centrodestra, con Lega e Fratelli d'Italia (alle cui platee strizza l'occhio il riferimento al "popolo sovrano"); nel frattempo le occasioni di far conoscere l'emblema non mancheranno. Un emblema che, comunque, era già stato modificato (in meglio) rispetto alla prima versione visibile in rete, che aveva mantenuto il "Noi" nella parte superiore della corona bianca, mentre al centro aveva piazzato una gigantesca "R" rossa, che voleva richiamare il tricolore assieme alla circonferenza interna verde (poi resa invece in blu). L'idea forse era di riferirsi ai Repubblicani con leggerezza (vista anche la font Centaur utilizzata), ma quella lettera piazzata lì sembrava piuttosto un corpo estraneo nella grafica e averla sostituita è stato un bene; aver tolto il "noi" dalla corona, poi, ha permesso al logo di "respirare" un po' di più, ponendo le stelline in fila e non ammassate a triangolo (mentre la mappa centrale, debitamente sfumata, è più leggera di prima). 
I ripensamenti grafici "in zona Cesarini", insomma, per una volta hanno fatto bene all'emblema. Che resta non particolarmente gradevole, ma ha se non altro il pregio della chiarezza. Se poi si tratterà di una corrente interna a Forza Italia o di un ulteriore movimento radicato nel centrodestra (del resto il dominio www.noirepubblicani.it è stato acquistato, a nome di Dimitri Kunz, compagno di Garnero), è presto per capirlo: il battesimo, intanto, c'è stato e chissà che, cammin facendo, non si faccia qualche altra modifica... 

mercoledì 21 dicembre 2016

M5S, un movimento vale due?

Fin dalla propria nascita, soprattutto a partire dalla marcia verso il Parlamento, il MoVimento 5 Stelle non ha goduto dei favori dei media (Rete a parte, ma nemmeno tutta) e si è attirato l'antipatia (o il disprezzo) di molti partiti. Anche per questo, il M5S è apparso spesso in uno stato di lotta permanente con l'esterno. Il solo periodo di vero "vento in poppa" forse è iniziato il 20 giugno, con la doppia vittoria ai ballottaggi di Roma (attesa) e di Torino (inaspettata); quella fase però ha iniziato a scricchiolare con le prime defezioni nella giunta Raggi ed è crollata del tutto nei pochi giorni in cui si sono concentrate le dimissioni di Paola Muraro, l'esplosione del caso Marra e il ridimensionamento di Daniele Frongia. 
Eppure, anche in quel periodo, le acque non sono state tranquille sul fronte interno: si pensi innanzitutto a tutta la logorante trafila del "caso Pizzarotti" a Parma (del cui esito qui ci si occuperà, appena Effetto Parma farà nascere un simbolo), o alle vicende delle "firme false" (o ricopiate?) a Palermo e non solo. Impossibile non ricordare, però, anche l'ordinanza con cui, a luglio, il tribunale civile di Napoli aveva sospeso le espulsioni di una ventina di attivisti (creatori di Napoli libera, gruppo "segreto" nato su Facebook per stimolare un confronto pre-elettorale che coi vertici, a loro dire, era stato negato), ma soprattutto aveva detto a chiare lettere che, "nonostante il Movimento 5 Stelle nel suo statuto ('Non-statuto') non si definisca 'partito politico', ed anzi escluda di esserlo, di fatto ogni associazione con articolazioni sul territorio che abbia come fine quello di concorrere alla determinazione della politica nazionale si può definire 'partito'". Anche il M5S, insomma, per i giudici era un partito e come tale andava trattato, senza alcuna differenza di forma e di sostanza.
Discendeva (anche) da quel pronunciamento dei giudici - oltre che da un'ordinanza analoga del tribunale di Roma risalente ad aprile - la decisione da parte di Beppe Grillo di mettere mano alle regole fondamentali del MoVimento. Vennero cambiati di certo il Non-Statuto e il Regolamento (già esistente dal 23 dicembre 2014, ma non citato dal Non-Statuto, almeno fino a settembre), messi in votazione a fine settembre - dopo varie settimane di rinvio, condite da polemiche visto che il voto era stato annunciato senza che all'inizio fosse disponibile il contenuto delle proposte - fino alla fine di ottobre (col dubbio rimasto sulla validità della votazione, non avendo partecipato alla consultazione online i tre quarti degli aderenti al MoVimento, quota richiesta dall'art. 21, comma 2 del codice civile, in mancanza di altre precisazioni nei documenti fondativi dell'associazione), ma non solo. Già, perché qualcosa nel frattempo era già cambiato: mi riferisco, in particolare, allo statuto notarile formato il 14 dicembre 2012 e significativamente innovato il 12 dicembre 2015 (questa, almeno, è la data indicata dalla difesa del M5S all'interno dei vari processi cautelari: dalla parte di atto notarile resa disponibile dal legale non si poteva leggere altro).
Se ai più la coesistenza di uno "statuto" e di un "non-statuto" può creare essenzialmente perplessità, per chi segue la vicenda stellata da un punto di vista giuridico la questione appare piuttosto chiara: il MoVimento, in realtà, ne vale due, nel senso che esistono due soggetti diversi che hanno (quasi) lo stesso nome. Il più risalente sarebbe il MoVimento 5 Stelle "nato" il 4 ottobre 2009 a Milano, al Teatro Smeraldo, in corrispondenza con l'evento "di lancio": la data, peraltro, non si trova su nessun documento "classico" (men che meno su atti notarili, allora inesistenti), né si legge sul Non-Statuto, datato 10 dicembre 2009. Questo M5S, con sede presso l'indirizzo web del MoVimento, sarebbe quello che nel tempo ha contato centinaia, migliaia di aderenti e come tale ha operato sul territorio; vista la sua esistenza de facto, non fondata su documenti scritti, ciascuna delle varie liste certificate, comunali o regionali, ha comunque dovuto costituire una propria associazione per dimostrare in modo più efficace la propria esistenza giuridica e agire (a livello elettorale, innanzitutto) senza problemi.
L'atto costitutivo notarile - con allegato statuto - del 14 dicembre 2012, invece, sembrerebbe indicare la nascita di una diversa associazione, comprendente Beppe Grillo, il nipote Enrico Grillo e il commercialista Enrico Maria Nadasi, in qualità di soci fondatori (nonché - in seguito - Gianroberto Casaleggio come socio ordinario) e con sede a Genova, in via Roccatagliata Ceccardi n. 1/14. Il nome di quest'ente all'origine era "Movimento 5 Stelle", cioè con la "v" minuscola: "nel carattere di una lettera, la 'v' di Vaffa, si annida - ha scritto in modo icastico Annalisa Chirico sul Foglio - un equivoco sostanziale". O meglio, si annidava, visto che il nuovo testo del 12 dicembre 2015 ha inserito la "V" maiuscola, eliminando la differenza tra le due denominazioni. 

lunedì 19 dicembre 2016

Democrazia cristiana, la parola "fine" è ancora lontana

Basta fare un rapido giro su questo sito per rendersi conto di quanto la querelle infinita relativa alla Democrazia cristiana sia una fonte continua di notizie e di spunti per l'approfondimento, non solo - ovviamente - di questioni "simboliche", ma più in generale di problemi legati al "diritto dei partiti": un terreno fino a qualche tempo fa quasi inesplorato dal legislatore, ma talmente litigioso da richiedere per forza l'intervento dei giudici (che, a loro volta, avevano come primo problema la scelta delle regole da applicare).
Dopo la notizia - che questo sito ha dato per prima giovedì scorso - della fissazione dell'assemblea degli iscritti alla Dc per il 25 e 26 febbraio prossimi da parte del Tribunale di Roma, su richiesta di oltre il 10% degli iscritti risultanti dagli elenchi dei soci della Dc-Fontana (tentativo peraltro bloccato dallo stesso giudice che ora ha disposto la convocazione dell'assemblea), era inevitabile attendersi reazioni da alcuni dei personaggi a vario titolo coinvolti in questa complicatissima vicenda giuridica e giudiziaria.
Il Tempo, nel dare conto venerdì della decisione del giudice Guido Romano, in un ampio servizio di Carlantonio Solimene ha raccolto l'interesse di Gianfranco Rotondi (che persevera nel definirsi "ultimo rappresentante legale dello Scudo Crociato", ma dovrebbe dire almeno che lo sarebbe tutt'al più come ultimo tesoriere del Cdu, alla pari dei legali rappresentanti del Ppi, Luigi Gilli e Nicodemo Oliverio) e il parere nettamente contrario di Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario politico del Ppi-gonfalone, ossia il soggetto giuridico che appare maggiormente in continuità con la Dc che nel 1994 cambiò il nome (appunto) in Partito popolare italiano. E se Rotondi annunciava (avendo dalla propria anche Rocco Buttiglione e forse il segretario Udc Lorenzo Cesa) di non voler ostacolare il tentativo di Alberto Alessi, Nino Luciani e altri, ritenendo che il percorso iniziato da loro "debba essere portato avanti in armonia con tutti coloro che ritengono di far parte in qualche modo della storia democristiana", Castagnetti parlava senza mezzi termini di "una cosa semplicemente assurda" - soprattutto per il fondamento sugli elenchi degli iscritti relativi a un precedente tentativo bloccato dai giudici - e dava per certa "una reazione legale".  
Venerdì è intervenuto pure Ettore Bonalberti, tra i più attivi nel percorso che nel 2012 aveva portato al consiglio nazionale e al congresso (poi demoliti dal Tribunale di Roma) che avevano portato Gianni Fontana alla segreteria. Scrivendo su Formiche.net, di cui è contributore, Bonalberti ha sostenuto che il decreto del giudice "permette, finalmente, di dare pratica attuazione alla sentenza della Cassazione n. 25999 del 23.12.2010" in base alla quale "la Dc non è mai stata giuridicamente sciolta" (il che è vero, ma con conseguenze diverse da quelle sostenute da Bonalberti). Ottima notizia per chi ha "dal 1993 [...] operato, tra mille difficoltà e incomprensioni, per la ricomposizione dell’area democratico cristiana, popolare e liberale" e, dopo la Cassazione, di avere "concorso a riaprire nel 2012 il tesseramento alla Dc di tutti i soci che erano stati iscritti allo scudo crociato nel 1992, data ultima del tesseramento della Dc storica". Bonalberti si è detto grato a "quanti in tutti questi anni della dolorosa diaspora democristiana, hanno sofferto e si sono battuti per dare pratica attuazione alla sentenza della Suprema Corte", compresi Luciani, Alessi e Pellegrino Leo, "tra i principali protagonisti di quest’ultima fase nei rapporti con il tribunale di Roma e nei primi adempimenti da esso richiesti". Per Bonalberti il ritorno della Dc sarebbe una mossa "contro le logiche dell’imperante capitalismo che determina l’asservimento dell’economia reale e della politica ai propri fini speculativi": servirebbero "forze giovani e cristianamente ispirate" per creare una nuova classe dirigente "attraverso una nuova Camaldoli programmatica, da tenersi a primavera, con le espressioni migliori della cultura cattolica e popolare, della vasta e articolata realtà sociale" dei laici, pure in prospettiva elettorale.
Qualche cautela in più è stata espressa da Franco De Simoni, altro iscritto alla Dc nel 1992-1993 e parte dell'associazione-comitato omonimo (guidato e rappresentato da anni da Raffaele Cerenza), il quale ha affidato a una nota alcune riflessioni. Richiamata anch'egli la sentenza del 2010 della Cassazione, De Simoni ha ricordato che "negli anni molti amici hanno cercato di ridare vita organizzativa alla Dc ma, mancando il rispetto dello Statuto e del codice civile, non sono mai riusciti nell'impresa": facile citare la sentenza n. 14046/2014 del Tribunale di Roma, dichiarativa della nullità del Consiglio nazionale "convocato dall'on. Fontana e presieduto dall'on. Darida nel 2012" per la mancata convocazione di tutti i componenti "mediante avviso personale", come richiederebbero le disposizioni attuative del codice civile. Il timore di De Simoni è che, anche dopo il decreto del Tribunale di Roma sulla convocazione dell'assemblea degli associati alla Dc, "ancora una volta, in mancanza del coinvolgimento di tutti gli iscritti del 1992/1993, e senza la massima pubblicità nelle forme previste dallo Statuto della Dc e dal Codice Civile, anche questo tentativo sarà destinato al fallimento, come i precedenti": per questo, "il Comitato Democrazia cristiana - iscritti 1992/1993", nato per "creare le condizioni per lo svolgimento del XIX Congresso nel rispetto dello Statuto del Partito approvato nel 1984 e tuttora in vigore [...] esprime la massima disponibilità ad organizzare un coordinamento nazionale di tutte le associazioni che si richiamano alla storia della Dc e a trovare tutte le forme di pubblicità dell'iniziativa, per fare in modo che si arrivi finalmente a organizzare il XIX Congresso in modo corretto".
Una voce decisamente contraria alla decisione, infine, è arrivata sabato dal Consiglio nazionale della Democrazia cristiana: ovviamente non quella che Alessi e gli altri vogliono riconvocare, ma quella che si riconosce nella segreteria politica del friulano Angelo Sandri. Durante la riunione dell'organo, al teatro Testaccio di Roma, "si è anche dibattuto - così si legge in un testo pubblicato nel gruppo Facebook "Il Popolo della Democrazia cristiana" - su un articolo pubblicato dal Tempo [...] riguardante la convocazione di un'Assemblea di Iscritti ad un fantomatica Associazione della Democrazia Cristiana prevista per fine Febbraio 2017" (peraltro inserendo un riferimento a Gianfranco Rotondi, del tutto fuori luogo). Il punto sarebbe stato illustrato dallo stesso Sandri, "che ha ribadito le tappe dl un percorso politico-giuridico che ha segnato una continuità della mai decaduta Democrazia Cristiana, dal 1994 ad oggi e che non può più essere messo in discussione da chicchessia". Non solo: ben lungi dall'idea di preparare la celebrazione del XIX congresso, il gruppo legato a Sandri sempre sabato ha annunciato l'indizione del XXIII congresso, che si terrà a metà febbraio a Roma, dunque pochi giorni prima dell'assemblea disposta dal Tribunale. 
A dispetto della comune appartenenza ai valori della Dc, dunque, a dividere i "riattivatori" democristiani ci sono ancora molte cose - compresa la numerazione delle assise congressuali - e c'è da scommettere che la vicenda vedrà di nuovo le aule di tribunale. E i mille pezzi dello scudo, invece che riunirsi, potrebbero frantumarsi ancora di più.

domenica 18 dicembre 2016

Sel chiude bottega: analisi di un emblema al capolinea

Le storie umane nascono per durare il più a lungo possibile; a volte terminano troppo presto, a volte troppo tardi, ma la fine è scritta nel loro Dna fin dall'inizio. L'atto conclusivo (o ciò che direttamente lo precede) è arrivato ieri anche per Sel. Una sigla che, all'inizio della storia - databile al 16 marzo 2009, giorno della conferenza stampa di presentazione - significava Sinistra e libertà, ma già qualche mese dopo - in particolare dall'assemblea fondativa del 19 e 20 dicembre 2009 - aveva il significato completo di Sinistra ecologia libertà. Sette anni di vita con lo stesso nome, che si sono di fatto chiusi ieri alla Domus Australia di via Cernaia a Roma: il penultimo passo, annunciato da tempo, verso la nuova avventura di Sinistra italiana destinata a prendere ufficialmente il via tra qualche mese.
Ho detto penultimo passo perché, per quello che si è potuto capire, l'ultimo atto - ossia la decisione definitiva di scioglimento - spetterà alla segreteria, una volta completate le assemblee locali svoltesi nei giorni scorsi. Niente congresso nazionale dunque, cosa che a qualcuno non è piaciuta, così come una parte degli iscritti non condivide l'approdo - previsto dal 17 al 19 febbraio 2017 - all'interno di Sinistra italiana, per cui alcuni (come Luciano Uras) sono già approdati al Pd o si sono avvicinati, aggiungendosi a coloro che hanno percorso la stessa strada nei mesi scorsi (tra loro, ad esempio, Gennaro Migliore). 
Non spetta a questo sito dire se Sel è stata davvero - come si leggeva nel sito alcuni giorni fa - "un'esperienza di straordinaria ricchezza, che [...] ha dato molto in termini di riflessione, di legami umani e patrimonio politico"; certamente di fatto ieri si è conclusa una storia, vissuta quasi sempre ai margini. Prima della politica parlamentare (nel 2009 il cartello Sinistra e libertà mancò l'obiettivo dello sbarramento al 4% e non riuscì a entrare a Strasburgo), poi della politica che conta: nel 2013 fece parte della coalizione Italia bene comune di Pierluigi Bersani e, permettendo al centrosinistra di ottenere il premio di maggioranza alla Camera, ottenne un discreto numero di seggi, ma con la nascita del governo Letta si collocò subito all'opposizione e lì è rimasta per tutta la legislatura. 
Negli iscritti  c'è la consapevolezza di dover puntare a far introdurre nell'agenda del paese la lotta alla crisi economica e alla diseguaglianza viva nel paese, l'impegno per le politiche ambientali, l’innovazione e la ricerca, per i diritti di cittadinanza e per la conversione dell'economia verso sistemi "più solidali e intelligenti". Tutto ciò, peraltro, non sarà (più) fatto o tentato sotto il simbolo di Sel, uno dei primi emblemi essenzialmente "letterali" degli ultimi dieci anni: l'area del contrassegno colorata di rosso - che contenesse o meno il riferimento a Nichi Vendola - non aveva una funzione grafica precisa, se non quella estetica, risultando molto più importante il contenuto testuale dell'emblema. 
Certo, anche il simbolo - provvisorio? - di Sinistra italiana è fondamentalmente letterale, anche se la sigla è stata scritta in un modo riconoscibile e minimamente studiato. Non basta però rilevare questo per assicurare che anche nel nuovo soggetto politico si potrà "provare a costruire una memoria condivisa, [...] riflettere su ciò che siamo stati e su ciò che sarà". Di certo Sinistra italiana non potrà, non vorrà essere una riedizione della Sinistra - l'Arcobaleno del 2008 o (peggio) della Rivoluzione civile di Ingroia (2013), con cui si era cercato di tenere insieme i pezzi della sinistra radicale (e non solo quella), rimanendo però regolarmente fuori dalle aule parlamentari. Proprio all'interno della Camera e del Senato, invece, è nato il nucleo di Sinistra italiana e lì vorrà rimanere e tornare, per incidere sulle scelte politiche in modo più significativo di quanto non sia stato fatto finora. Certo gli affezionati al rosso, anche solo per ragioni storiche, con l'ultima versione emblema avranno di che essere contenti, vista l'abbondanza del colore. 

sabato 17 dicembre 2016

Quanto vale il simbolo del M5S?

Ciò che sta accadendo all'amministrazione di Roma, prima grande città guidata da rappresentanti del MoVimento 5 Stelle, è inevitabilmente al centro di commenti accorti o violenti, riflessioni più o meno lucide, scambi di idee di varia natura. Non utilizzerò questo post per ingrossare le file dei commentatori (anche perché ciò rischierebbe di comportare giudizi di natura politica che esulano del tutto dagli scopi del mio sito); c'è però almeno un aspetto delle vicende di queste ore che merita di essere analizzato, anche dal punto di vista di questo particolare osservatorio, dunque a questo mi limiterò.
Dopo le dimissioni dell'assessora Paola Muraro e l'arresto del dirigente comunale Raffaele Marra, sui media si sono rincorsi (almeno) tre possibili scenari, oltre alle dimissioni della sindaca Virginia Raggi (richieste dall'opposizione, ma anche da alcuni attiVisti più intransigenti): un segno di discontinuità importante con l'allontanamento del capo della segreteria politica della sindaca Salvatore Romeo e il "demansionamento" del vicesindaco Daniele Frongia (strada effettivamente percorsa), la decisione di "autosospensione" della sindaca (eventualità peraltro dalla difficile traduzione giuridica) e la possibilità che alla stessa Raggi - e alla sua giunta - venisse revocato l'uso del simbolo del M5S, con una sostanziale "sfiducia" da parte del capo politico e dei dirigenti del MoVimento.
Proprio questa terza ipotesi, non concretizzatasi ma probabilmente prefigurata (stando a molte ricostruzioni di stampa), suggerisce un approfondimento. Ciò se non altro perché - in base alle stesse ricostruzioni - Virginia Raggi avrebbe seriamente valutato la possibilità di rimanere alla guida della Capitale anche senza poter più disporre del contrassegno con cui era stata eletta. Lo stesso scenario - va subito precisato - sarebbe stato considerato "assolutamente impraticabile" da due personaggi di primo piano della maggioranza (il presidente del consiglio comunale e precedente candidato sindaco Marcello De Vito e il capogruppo Paolo Ferrara). Di certo, anche in presenza di una decisione così grave da parte del MoVimento, Raggi non avrebbe avuto alcun obbligo di dimettersi (a meno, ovviamente, di vedere approvata una mozione di sfiducia in consiglio), dunque avrebbe potuto restare al suo posto, pur dovendo scegliere per sé e soprattutto per la sua maggioranza un'etichetta diversa. Con quali effetti, però?
La situazione più critica, manco a dirlo, si sarebbe posta al nuovo appuntamento elettorale, in caso di ricandidatura della sindaca uscente. Anche prima, in ogni caso, la sindaca fino alla fine (naturale o anticipata) del suo mandato si sarebbe di certo sentita ricordare di continuo dagli aderenti al M5S che doveva il suo ruolo amministrativo interamente al MoVimento 5 Stelle e al suo logo. Detto in altri termini, Raggi e gli altri, in un'altra lista e sotto un altro simbolo, avrebbero rischiato percentuali da prefisso telefonico e magari non sarebbero stati eletti.
Sarebbe andata per forza così? Non possiamo saperlo, ma certamente i precedenti non depongono a favore di Raggi e della sua maggioranza. Quello più noto di tutti riguarda Giovanni Favia, che nel 2010 aveva ottenuto il 7% col M5S alle regionali in Emilia Romagna (alla prima partecipazione elettorale del MoVimento, quando ancora le percentuali a due cifre erano lontane), mentre alla fine del 2014 il suo progetto civico Liberi cittadini (da lui promosso, senza la sua candidatura diretta) superò a stento l'1%; negli anni Favia aveva ottenuto la stima di vari attiVisti per il suo impegno, ma dopo la revoca del simbolo seguita alla trasmissione del noto "fuorionda" contro Casaleggio sr le cose erano cambiate non poco.
In generale, comunque, dopo le prime esperienze delle Liste ciViche a 5 Stelle (2009) e le prime uscite elettorali del MoVimento (2010), a partire dalla partecipazione alle regionali in Sicilia (2012) il M5S spesso ha visto concretizzarsi una tendenza: a un numero di voti consistenti per il simbolo si accompagna una bassa espressione di preferenze a favore dei singoli candidati. Il fenomeno è poco evidente nei comuni medio-piccoli (su quella scala casi i candidati consiglieri sono piuttosto conoscibili da parte dei cittadini, compresi i non militanti), mentre si accentua - e di molto - quando il numero di elettori coinvolti si allarga. Almeno all'ultimo turno elettorale, in realtà, Roma ha costituito un'eccezione: Marcello De Vito infatti è risultato il top scorer assoluto delle preferenze nel 2016 e pure l'attuale capogruppo Ferrara si era ben difeso; nel 2013, invece, pur essendo andata abbastanza bene a Daniele Frongia e a Virginia Raggi, il distacco tra le preferenze ottenute da loro e dagli altri candidati era comunque ben visibile. Un fenomeno simile si è riscontrato - non senza polemiche, puntualmente rimbalzate sui vari media - con riferimento alle consultazioni interne per determinare la composizione delle liste nelle realtà più grandi (comprese, dunque, le cd. "parlamentarie"): in quei casi, come è noto, alla base delle candidature c'è stato un numero decisamente ridotto di voti online.
Questo ovviamente non significa che all'interno del M5S sia impossibile costruire un consenso personale per la singola persona: il risultato di De Vito, come si diceva, smentisce quella tesi. E' un fatto, però, che la struttura del M5S è profondamente diversa rispetto - ad esempio - a quella dei partiti della Prima Repubblica, il cui grado di penetrazione era tale da riuscire a mobilitare una vasta parte dell'elettorato e da poter prevedere con un minimo scarto il numero di preferenze che ciascun candidato avrebbe ottenuto (con tutto ciò che di negativo ciò comportava, in termini di clientele, lotte intestine tra candidati, etc.). Prima del 1992 il simbolo contava molto - anche più di oggi, probabilmente - ma anche il nome o il numero da scrivere accanto aveva decisamente peso ed erano piuttosto rari i voti alla sola lista, senza l'espressione di preferenze.
Oggi è cambiato il contesto in cui i partiti si muovono e sono cambiati profondamente gli stessi partiti; guardando al solo MoVimento 5 Stelle, però, è facile sostenere che, grazie alla popolarità di Beppe Grillo e all'impegno profuso da lui negli anni (anche dopo il "passo di lato" annunciato), il simbolo del M5S "rappresenta il primo vero prodotto" del MoVimento stesso che ha raggiunto la "maturità". Traggo il virgolettato da Brand Identikit, volume di Gaetano Grizzanti (pubblicato da Logo Fausto Lupetti editore e da poco aggiornato): ovviamente il M5S non è un'azienda, ma è l'attuale conformazione della politica (tutta, senza eccezioni) che quasi obbliga ad applicare le regole del mercato e del marketing anche agli attori politici. In questo senso, diventa fondamentale il concetto di brand equity, che Grizzanti definisce come "l'insieme dei valori distintivi e differenzianti con cui una marca presidia il territorio mentale dell'individuo, grazie ai quali si pone e compete sul mercato". 
Ora, premesso che il simbolo del M5S è stato registrato come marchio da molto tempo e che via via è diventato anche una marca, un brand (inteso come l'insieme dei motivi per cui si preferisce un prodotto - o un partito - rispetto a un altro), basta sostituire nella citazione precedente "simbolo" a "marca" e "tra gli elettori" a "sul mercato" e il tutto si fa chiaro. Il M5S si riassume innanzitutto nel suo simbolo, di cui prima era titolare personalmente Grillo mentre ora ne è titolare il MoVimento come soggetto giuridico (di cui Grillo peraltro resta presidente). La sola presenza dell'emblema sulle schede è in grado di portare una rilevante fetta di elettori a votare per il M5S, a prescindere dalla conoscenza dei singoli candidati. Questi ultimi, candidati in un'altra lista avente lo stesso programma ma con contrassegno diverso, potrebbero magari riscuotere consenso, ma di certo non potrebbero beneficiare del "valore aggiunto" rappresentato dalla brand equity del simbolo del MoVimento 5 Stelle: dovrebbero dunque investire molto (in termini di energie, propaganda, risorse anche economiche) per ottenere visibilità e riconoscibilità, sperando che il tutto si traduca in consenso.
A dispetto delle attese che il titolo di questo post può aver ingenerato, non mi azzarderò a valutare economicamente il simbolo del M5S (sarebbe fuori da ogni logica volerlo fare, ma potrei dire lo stesso per ogni altro emblema politico, scudo crociato compreso). Anche dare un valore percentuale, in termini di consenso, non è troppo serio e saggio: troppe variabili da considerare, col rischio di ritenere rilevante ciò che non lo è (lo sanno bene i sondaggisti, che di fronte a fatti di ogni tipo si sono sentiti chiedere puntualmente "e questo quanto sposta?"). Forse dire che il M5S porta con sé un patrimonio "irriducibile" che va dal 5 al 10 % dei voti (a seconda che la competizione sia locale o più vasta) e da lì può ampliarsi non è sbagliato, ma l'ipotesi va presa con tutta la cautela possibile, essendo priva di fondamento scientifico e magari smentibile al prossimo appuntamento elettorale. Di sicuro, chiunque intenda agire come il MoVimento, ma senza le stelle (dunque senza disporre del simbolo) si pone automaticamente in una condizione di concorrenza spietata: per vincere dovrebbe dimostrare di essere più genuino dell'originale, ma farlo dovendo combattere contro il potenziale evocativo dell'ultimo vero brand comparso in politica (nato giuridicamente "debole", ma rafforzatosi di molto con l'uso) è un'impresa quasi disperata. E, forse, non seria.