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domenica 7 agosto 2022

Le liste e le firme: il valore delle esenzioni, il peso delle parole

Come si è già ricordato più volte in questi giorni, il deposito dei contrassegni per le elezioni politiche del 25 settembre si terrà tra il 12 e il 14 agosto presso il Ministero dell'interno. Manca dunque una settimana all'ultima giornata in cui - al di là delle curiosità e dei simboli presentati senza una reale possibilità di finire sulle schede, ma senza dubbio molto interessanti per chiunque appartenga alla classe dei #drogatidipolitica - si potrà avere un'idea più chiara degli schieramenti in campo: di solito già entro la serata del secondo giorno gran parte delle forze politiche ha provveduto a presentare il proprio emblema (nel 2018 in effetti, tra i partiti maggiori hanno depositato l'ultimo giorno - tentando di contendersi l'ultimo posto, non riuscendo peraltro nell'intento - soltanto Fratelli d'Italia e Partito democratico) e generalmente chi non ha ancora provveduto al deposito ha comunque già divulgato il proprio fregio elettorale. 
In più, i giorni del deposito sono anche quelli nei quali si definiscono esattamente le coalizioni - insieme ai contrassegni vanno depositate anche le dichiarazioni di collegamento, non più modificabili una volta scaduto il termine delle ore 16 di domenica 14 agosto - e, dando uno sguardo alle bacheche del Viminale, tendenzialmente è possibile avere un'idea abbastanza precisa delle forze politiche che potranno finire sulle schede. Gli unici dubbi, in effetti, riguardano le forze politiche che devono raccogliere le firme (se, in particolare, riusciranno oppure no a ottenere le sottoscrizioni necessarie) e quelle che, invece, ritengono di poter fruire dell'esenzione sulla base di interpretazioni estensive - e non pacifiche - delle disposizioni in vigore.
Si torna dunque, di nuovo, sulla disciplina degli esoneri, dettata dall'articolo 18-bis del d.P.R. n. 361/1957 (cioè il testo unico per l'elezione della Camera, applicabile anche al Senato e all'elezione di deputati e senatori nella circoscrizione Estero) e, con riguardo solo a queste elezioni, dall'articolo 6-bis del decreto-legge n. 41/2022 ("decreto elezioni 2022"), introdotto in sede di conversione con la legge n. 84/2022. Vale la pena riprendere un'altra volta l'argomento, anche se in questi giorni è stato già trattato più volte su questo sito, perché i simboli divulgati in questi giorni sono in grado di mostrare, talvolta in modo piuttosto plastico, il funzionamento e il "peso" dell'esenzione dalla raccolta delle firme; a volte, poi, è significativo anche il fatto che certi simboli non siano ancora stati divulgati, benché non sempre il significato che si può attribuire all'attesa nella presentazione sia identico.
Se si prendono in considerazione i simboli ufficialmente presentati questa settimana, al di là di quello dell'associazione Ambiente 2050 (dichiaratamente non destinato alle schede, come spiegato da Federico D'Incà e da Davide Crippa), se ne trovano tre che devono certamente raccogliere le firme (Unione popolare, De Luca sindaco d'Italia - Sud chiama Nord e Rivoluzione sanitaria; c'era anche il simbolo composito di ItalExit e Alternativa, la cui federazione si è nel frattempo sciolta per divergenze sulle candidature e sulla campagna elettorale), altri tre contrassegni compositi che invece certamente saranno esonerati dalla raccolta grazie all'ultima norma approvata (Impegno civico - Centro democratico, Noi con l'Italia - Italia al centro, Coraggio Italia - Unione di centro) e uno che sta cercando un'altra via per ottenere comunque l'esenzione (noi Di Centro - Europeisti).
I casi delle due liste di centrodestra presentate venerdì rappresentano un perfetto esempio degli effetti della disposizione introdotta con la conversione del "decreto elezioni 2022". Noi con l'Italia, infatti, rientrava tra le liste che avevano partecipato alle elezioni della Camera del 2018 e avevano ottenuto più dell'1% (per cui i voti della lista erano stati computati a favore della coalizione), ipotesi prevista dalla riformulazione dell'emendamento Magi-Costa: questo aveva permesso a Maurizio Lupi di presentare già il progetto di lista da solo, ma lo ha messo anche nella condizione di condividere la lista con Italia al Centro (che di per sé non sarebbe stata esente dalla raccolta firme: lo ha ricordato lo stesso Toti durante la presentazione del simbolo, giustificando anche così le maggiori dimensioni del simbolo di Noi con l'Italia, oltre che con la storia più lunga di quest'ultimo partito e con il fatto che Toti non si candida, a differenza di Lupi), recuperando dunque un soggetto importante per il centrodestra e mettendosi nella condizione di ricevere più voti, magari utili per superare la soglia di sbarramento.
Quanto alla lista di Coraggio Italia - Unione di centro, probabilmente inattesa fino a poche ore prima (in fondo una lista centrista nella coalizione c'era già), deve interamente la propria presentazione al testo originario dell'emendamento Magi-Costa, in cui si era previsto l'esonero dalla raccolta firme per le forze politiche costituite in gruppo alla data del 31 dicembre 2021: Coraggio Italia era esattamente in quelle condizioni, come pure l'Udc (anche se, essendo "in condominio" con Forza Italia, non era scontato che il partito fosse d'accordo nel concedere l'esenzione al partito di Lorenzo Cesa per una sua lista: avrebbe infatti potuto cambiare il nome al gruppo e l'esenzione sarebbe svanita).
Tra i simboli già noti c'è anche quello dell'Alleanza Verdi e Sinistra, presentato durante la settimana precedente da Europa Verde e Sinistra italiana. Anche questa lista può presentarsi senza firme grazie all'esonero previsto una tantum per i partiti che alla fine del 2021 potevano contare su almeno un gruppo parlamentare: qui si tratta del gruppo di Liberi e Uguali, di cui fa parte Nicola Fratoianni, unico rappresentante di Si a Montecitorio. Si è già notato che poco prima dello scioglimento delle Camere - per l'esattezza alle ore 12 del 21 luglio, ma la lettera di comunicazione era del giorno prima - il nome del gruppo Liberi e Uguali è stato modificato in Liberi e Uguali - Articolo Uno - Sinistra italiana: visto che Si non è certo in maggioranza nel gruppo (vi aderisce solo un membro su dieci), appare evidente che il cambio di nome che ha concesso l'esenzione a Sinistra italiana - e, di riflesso, alla lista in comune con Europa Verde - è stato possibile grazie alla collaborazione e alla cortesia del capogruppo, Federico Fornaro, di Articolo Uno, partito che il 29 luglio ha stretto alleanza con il Partito democratico e presenterà i suoi candidati nelle liste dem "ampie". Non è un particolare da poco: non è scorretto immaginare che tanto Articolo 1 quanto Fornaro abbiano concesso il cambio di nome immaginando una corsa elettorale della lista guidata da Bonelli e Fratoianni all'interno della coalizione guidata dal Pd; sembra anche lecito pensare lo ha scritto qualche giorno fa sul Riformista anche Aldo Torchiaro - che quella ridenominazione con annesso esonero sia avvenuta con il consenso del Pd, se non addirittura su suo impulso. Il che, a contrario, vorrebbe dire che un'eventuale scelta di Sinistra italiana (e della sua lista) diversa dall'apparentamento con il Pd metterebbe a serio rischio l'esenzione, costringendo Europa Verde e Sinistra italiana a non partecipare al voto (perché raccogliere le firme ora, avendo solo due settimane a disposizione, sarebbe praticamente impossibile).
Non a caso era firmato pure da Nicola Fratoianni l'ordine del giorno 9/3591-A/13, presentato dal deputato Pd e costituzionalista Stefano Ceccanti il 22 giugno 2022 per impegnare il governo a "valutare attentamente, nel corso dell’esame del progetto di legge sul contenzioso elettorale [...] e/o in ogni altro caso di provvedimento in materia, l’apertura all’esenzione nei confronti di partiti o gruppi politici che abbiano presentato candidature alle ultime elezioni (2019) dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia in almeno due terzi delle circoscrizioni con contrassegno congiunto che ne dimostri l’associazione ad un partito politico europeo e che abbiano conseguito almeno 400.000 voti validi a tali elezioni e abbiano partecipato all’ultima ripartizione del gettito derivante dal 2 per mille", visto che un primo ampliamento una tantum era arrivato con l'articolo inserito in sede di conversione del "decreto elezioni 2022", ma se si volevano "tenere presenti criteri ulteriori e più recenti rispetto alla trasformazione dei voti in seggi operata dal sistema elettorale per le elezioni 2018" era bene considerare "altri criteri oggettivabili per una motivata ulteriore apertura", cioè l'esito delle elezioni europee successive alle politiche e il concorso alla ripartizione del 2 per mille Irpef (che presuppone l'inserimento nel Registro dei partiti, la sottoposizione ai controlli della Commissione e la permanenza in Parlamento). II testo avrebbe così esonerato Europa Verde e l'eventuale lista cui avesse partecipato, visti il riferimento al Partito verde europeo e la percezione del 2 per mille (l'ultimo requisito mancava a La Sinistra, che pure portava nel contrassegno il riferimento alla Sinistra europea e aveva superato i 400mila voti). Il governo, col sottosegretario Sibilia, aveva accolto l'ordine del giorno, pur ritoccandolo (l'impegno, più soft, era a "valutare attentamente l'opportunità [...] di aprire all'esenzione"); com'è noto, però, il disegno di legge sul contenzioso elettorale è fermo in commissione alla Camera - e di quelle regole ci sarebbe bisogno... - e altre occasioni per ampliare le esenzioni non ci sono state.
Il testo dell'ordine del giorno non dovrebbe risultare del tutto nuovo per chi legge attentamente questo sito: si trattava infatti della rielaborazione - assai più "leggera" - dell'emendamento 6-bis.100 presentato sempre da Ceccanti in sede di conversione del "decreto elezioni 2022". Questo testo avrebbe esteso - sempre una tantum, con riguardo alle elezioni che ancora non si immaginavano così vicine - l'esenzione a varie forze politiche: visto che era sufficiente aver partecipato con un contrassegno "anche se composito" e aver ottenuto un seggio (anche nei collegi uninominali, non in una lista) o aver ottenuto almeno 150mila voti come lista e aver partecipato all'ultima ripartizione del 2 per mille, sarebbero stati certamente esentati tutti i partiti che, presenti coi loro simboli in miniatura, avevano eletto singoli parlamentari (non solo Psi e Udc, che avevano comunque il nome all'interno di un gruppo, ma anche con certezza i Centristi per l'Europa e Alternativa popolare, come pure altri partiti che hanno partecipato all'ultima ripartizione del 2 per mille essendo stati presenti in modo visibile in una delle liste che avevano ottenuto almeno 150mila voti, purché la coalizione avesse eletto almeno un parlamentare (dunque almeno Italia dei Valori ed Europa Verde). Questa soluzione, però, era inaccettabile per il centrodestra: già l'emendamento Magi-Costa riformulato esentava in modo esplicito Leu, +Europa, Italia viva (la cui collocazione "terza" allora non era scontata) e Psi, a fronte di Coraggio Italia, Noi con l'Italia e Udc per il centrodestra; la versione di Ceccanti avrebbe ampliato i soggetti esenti soprattutto nell'area del centrosinistra, con la possibilità che questi "facessero da taxi" per nuove liste esonerate che avrebbero portato voti alla coalizione, dunque il centrodestra si era messo di traverso.
L'emendamento Ceccanti avrebbe esentato autonomamente quasi con certezza anche Azione: visto che il riferimento alla partecipazione alle europee come Siamo Europei insieme al Pd con contrassegno composito (con l'elezione di Carlo Calenda) avrebbe potuto fondare quel beneficio. La stessa Azione, evoluzione di Siamo Europei (essendo lo stesso soggetto giuridico che ha cambiato nome), continua in effetti a sostenere che anche il testo attuale dell'art. 6-bis del "decreto elezioni 2022" consentirebbe l'esonero ad Azione, che avrebbe presentato come Siamo Europei "candidature con proprio contrassegno [...] alle ultime elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia in almeno due terzi delle circoscrizioni", ottenendo "almeno un seggio assegnato in ragione proporzionale". Negli articoli precedenti qui si è sostenuto che, essendo le liste che hanno ottenuto seggi alle elezioni europee (M5S, Pd, Lega, Fi, Fdi) coincidenti con quelle che li hanno ottenuti alla Camera in ragione proporzionale (si aggiunge Leu), non si sarebbe capita l'utilità di quella previsione se non ampliando il novero dei soggetti esonerati ad Azione per le ragioni già dette (e considerando che uno dei presentatori dell'emendamento è proprio di Azione). Non si può trascurare, però, che la disposizione parla di "candidature con proprio contrassegno" (non simbolo, che si riferirebbe a parte del cerchio grande) e questo requisito Siamo Europei non sembrerebbe integrarlo: nel 2019 infatti il contrassegno è stato presentato dai dem Giovanni Pappalardo e Marco Miccoli, responsabile dell'ufficio elettorale ed ex deputato, ora componente della direzione nazionale Pd, senza partecipazione di esponenti di Siamo Europei; di più, risulterebbe depositato solo lo statuto del Pd, senza alcuna dichiarazione di trasparenza da parte di Siamo Europei. Ciò renderebbe difficile (o almeno molto rischioso) sostenere che liste di Azione autonome da +Europa sarebbero esenti dalla raccolta firme. 
A dispetto delle dichiarazioni rilasciate o fatte trapelare, dunque, forse anche Azione avverte questo rischio di vedere bocciate proprie eventuali liste autonome e fino a ora è proseguita l'alleanza con +Europa (ma visto che l'equilibrio è instabile, non stupisce che il contrassegno della federazione non sia ancora stato ufficialmente presentato). Lo stesso rischio lo correrebbe presentandosi in modo autonomo sostenendo che l'iscrizione al Registro dei partiti politici basta a fondare l'esenzione, tentando di sostenere che, se l'art. 18-bis del testo unico per l'elezione della Camera, al comma 2, esonera dalla raccolta firme "i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere all'inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi", si può leggere la "o" disgiuntiva nel senso di esonerare sia i "partiti", intesi come soggetti iscritti al Registro dei partiti politici, sia i "gruppi politici" che, pur non iscritti al Registro, hanno due gruppi parlamentari. Si tratta, come si ricorderà, della stessa strada scelta da Clemente Mastella per evitare la raccolta firme, stringendo un accordo tra il suo noi Di Centro e gli Europeisti, registrati come partito e dicendo di aver avuto contatti informali con alcune corti d'appello che gli avrebbero dato ragione. Questa via esenterebbe molte liste (incluse quelle di ItalExit, Alternativa e Pli), ma si tradurrebbe in una scommessa: gli uffici elettorali circoscrizionali presso le corti d'appello potrebbero respingere tale lettura ricusando le liste. Di certo sarebbe problematico - sotto il profilo del favor partecipationis - respingerne molte; di più, basterebbe che anche solo un ufficio ammettesse una di quelle liste (decisione non più impugnabile) per far scattare l'ulteriore azzardo dei ricorsi all'Ufficio elettorale centrale nazionale, facendo magari valere il precedente della lista del Movimento Politico Pensiero e Azione (Ppa) ammesso alle europee del 2019 proprio come partito politico iscritto al Registro.
Come si vede, dunque, la questione dell'esenzione è appesa all'interpretazione di alcune parole, in particolare la congiunzione "o" (apparentemente innocua) e il nome "contrassegno". Che spesso è ritenuto sinonimo di "simbolo", ma in effetti non è la stessa cosa...

giovedì 11 giugno 2020

Regionali 2020, i problemi di date, firme, par condicio e simboli spiegati bene

La partita che riguarda il turno elettorale che si sarebbe dovuto svolgere alla fine della primavera e che è stato rinviato a causa dell'emergenza legata alla pandemia da Covid-19 sembra ancora aperta. Fino a qualche manciata di ore fa sembrava ormai certo il voto per elezioni suppletive, comunali e referendum costituzionale nei giorni del 20 e 21 settembre, così come sembrava inevitabile che le elezioni regionali sarebbero state convocate per gli stessi giorni: ciò permetteva di ragionare su dati oggettivi per determinare gli adempimenti necessari e le scadenze relative alle varie competizioni in vista. Ora, mentre si allungano i tempi - principalmente per un disegno ostruzionistico e dilatorio di Fratelli d'Italia - per l'approvazione alla Camera della legge di conversione del decreto-legge n. 26/2020, che ha permesso il rinvio delle elezioni comunali e regionali, spuntano o riemergono incertezze, problemi e tensioni. 
Il quadro è complesso e merita di essere analizzato con cura pezzo per pezzo, anche nelle sue ricadute in tema di simboli e presentazione delle liste. Anche perché non è indifferente scegliere una data o un'altra per il voto, ma nemmeno agire sul procedimento elettorale e (appunto) sugli adempimenti e sulle scadenze che a questo si connettono.


Decadenza del decreto alle porte

L'unica certezza incrollabile è che il "decreto elezioni 2020" sarà vigente fino al 19 giugno ed entro quel giorno dovrà completarsi l'esame del disegno di legge di conversione (con l'approvazione del medesimo testo da parte di entrambe le Camere), altrimenti - come prevede l'articolo 77, comma 3 della Costituzione - il decreto decadrà, perdendo efficacia fin dall'inizio. 
Si tratterebbe di una situazione davvero delicata, da evocare giusto al fine di evitarla. Conseguenza immediata della decadenza sarebbe il venir meno del prolungamento della durata delle amministrazioni comunali e regionali uscenti: almeno in teoria, il governo (in particolare la ministra dell'interno) dovrebbe senza alcun ritardo indicare per le elezioni comunali la prima data utile. Guardando all'art. 3 della legge n. 182/1991 (che disciplina lo svolgimento delle elezioni amministrative), la data - meglio: la doppia giornata - dovrebbe essere fissata dal Viminale "non oltre il 50° giorno precedente quello della votazione" (con immediata comunicazione ai prefetti, che materialmente convocano i comizi elettorali): se il ministero provvedesse nelle ore successive alla decadenza del decreto, si dovrebbe votare per forza il 9 e il 10 agosto, visto che il 9 cade giusto al 50° giorno a partire dal 20 giugno; la data si allontanerebbe se si ammettesse che il Viminale - in analogia a quanto previsto dalla citata sentenza n. 36/2019 del Tar Basilicata, vista quando si parlava di accorpamento delle elezioni - ha tempo al massimo 20 giorni per convocare le elezioni, sempre con un anticipo di almeno 50 giorni sulla data del voto. Fino a tale data, ovviamente, resterebbero in carica le amministrazioni uscenti ma - essendo già scadute - dovrebbero farlo in regime di prorogatio, dunque con poteri limitati. 
E le regionali? La situazione sarebbe sulla carta ancora più problematica: convocare i rispettivi comizi elettorali toccherebbe proprio a ciascun Presidente di Regione (in base al contenuto dei vari statuti), a mandato scaduto per la decadenza del decreto e dunque in regime di prorogatio; regime che inevitabilmente durerebbe per un altro paio di mesi.
Già solo su queste basi si capisce perché sarebbe del tutto inopportuno rischiare uno scenario simile. Si deve anche riconoscere che, per queste stesse ragioni, qualcuno potrebbe cercare di rintracciare presupposti per la reiterazione del decreto, sostenendo che questo potrebbe essere "fondato su autonomi (e, pur sempre, straordinari) motivi di necessità ed urgenza" (citando la sentenza n. 360/1996 della Corte costituzionale, con cui si era posto un limite alla reiterazione dei decreti-legge): il trovarsi un numero così ampio di enti in regime di prorogatio (dunque con gravi limiti all'azione) e l'incertezza sugli sviluppi della pandemia potrebbero anche costituire ragioni con un fondo di ragionevolezza; sarebbe poi difficile risolvere eventuali problemi legati alla decadenza del decreto con lo strumento della regolazione dei "rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti" (previsto dall'art. 77, ultimo comma Cost.), inadatto all'evidenza a porre rimedio a situazioni di questo tipo in cui i rapporti giuridici c'entrano poco. Dall'altro lato, per chi contestasse la soluzione di un nuovo decreto-fotocopia sarebbe facile citare la stessa sentenza n. 360/1996, per la quale i motivi alla base del nuovo decreto "in ogni caso, non potranno essere ricondotti al solo fatto del ritardo conseguente dalla mancata conversione del precedente decreto" e il contenuto del nuovo decreto "non potrà porsi in un rapporto di continuità sostanziale con il decreto non convertito". Basta lo spettro di tale scenario incerto e ricco di contese a suggerire di non arrivare alla decadenza del "decreto elezioni 2020".


Quando votare: le richieste delle Regioni, l'emendamento Sisto

Una volta spiegato perché conviene a tutti completare il percorso di conversione del decreto-legge nei tempi prescritti, continua a pesare come un macigno la posizione dei presidenti delle Regioni, ribadita più volte nel giro di pochi giorni. L'ultima comunicazione risale al 9 giugno, nella lettera inviata al presidente del Consiglio, ai ministri Francesco Boccia, Luciana Lamorgese e Federico D'Incà dal presidente della Conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna) e dal suo vice Giovanni Toti (Liguria): in quel documento i presidenti, a nome di tutti i presidenti (uscenti) delle Regioni interessate dal voto, hanno ribadito la  posizione della Conferenza delle Regioni "precedentemente assunta in merito alla finestre elettorali" e annunciato "l'intenzione delle Regioni interessate di utilizzare la prima domenica utile del mese di settembre per l’indizione delle elezioni regionali, anche al fine di garantire il regolare avvio dell’anno scolastico e di limitare l’eventuale nuovo rischio epidemiologico". Ciò significherebbe votare il 6 e il 7 settembre, o per lo meno avrebbe significato questo.fino a qualche manciata di ore fa.
L'irritazione delle Regioni verso il Governo e il Parlamento, al punto da aver fatto loro parlare di "palese violazione del principio di leale collaborazione tra le istituzioni", è stata generata dall'approvazione nella seduta di lunedì 8 giugno dell'emendamento 1.650 a prima firma del deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto: con esso, in sostanza, si è ridotta la "finestra" entro cui convocare le sole elezioni regionali, facendola partire dal 15 settembre e tagliando fuori di conseguenza le prime due domeniche del mese come primo giorno utile di votazione. Sisto aveva spiegato che l'emendamento voleva evitare "una serie di arbitri da parte di chi poteva decidere il voto regionale", situazioni che avrebbero potuto confondere l'elettore e che si sarebbero potute evitare dicendo chiaramente che "non si può andare al voto, alle regionali, prima del 15 di settembre" ed evitando ogni altro "balbettio" sulle date; sull'emendamento la relatrice Anna Bilotti (M5S) aveva espresso parere favorevole e il governo si era espresso allo stesso modo. Le Regioni, però, ritengono che la determinazione della data delle elezioni sia interamente di loro competenza. Esse, evidentemente, sono convinte che la determinazione della "finestra", soprattutto in questo momento eccezionale, non rientri nell'ambito dei "principi fondamentali" in materia elettorale previsti dall'art. 122, comma 1 Cost.; questo, nonostante proprio l'art. 5 della legge n. 165/2004 - che appunto fissa questi principi - nel determinare la durata degli organi regionali stabilisca anche il termine entro il quale devono tenersi le nuove elezioni.
Difficile dire quante possibilità abbiano le Regioni di convocare davvero le loro elezioni per una data anteriore al 15 settembre: l'approvazione del citato emendamento Sisto è parso un segnale chiaro della contrarietà alla posizione delle Regioni da parte della maggioranza del Parlamento, come per invitare i presidenti a desistere; è altrettanto significativo che l'emendamento votato sia stato presentato da deputati e deputate di Forza Italia, partito che non appartiene alla maggioranza di governo ma sembra mostrarsi meno chiuso a determinate offerte di collaborazione o comunque meno bellicoso.
Certo è che, nell'ipotesi in cui le Regioni decidessero davvero di indire le elezioni per il 6 e 7 settembre (e c'è da scommettere che, in quel caso, ci sarebbe più di un ricorso contro quelle decisioni), i contrassegni, le candidature, le firme a sostegno e gli altri documenti necessari dovrebbero essere consegnati tutti entro le ore 12 dell'8 agostoIn tutte le Regioni chiamate al voto in questo turno elettorale, che abbiano normato espressamente la presentazione delle liste (Veneto, Toscana, Marche e, almeno in parte, Puglia) o che, non avendo emanato disposizioni specifiche in materia, applicano semplicemente la normativa nazionale (Liguria, Campania) vale infatti la regola in base alla quale i documenti relativi alle candidature si presentano ai rispettivi uffici elettorali "dalle ore 8 del 30° giorno alle ore 12 del 29° giorno antecedenti quelli della votazione". Vale peraltro la pena di precisare che quest'osservazione riguarda le leggi elettorali regionali vigenti: le Regioni potrebbero sempre decidere di modificarle, anche in maniera radicale e anche a proposito di questi passaggi. 
A formulare la richiesta di votare all'inizio di settembre sono stati presidenti di Regione di colore politico diverso. Appare evidente, tuttavia, che una soluzione simile farebbe infuriare Fratelli d'Italia, convinta che una campagna elettorale condotta quasi interamente in agosto sarebbe insostenibile da vari punti di vista (compresi i danni che arrecherebbe al settore turistico in piena stagione estiva) e, soprattutto, aggraverebbe lo squilibrio tra i presidenti uscenti in cerca di riconferma, sovraesposti in queste settimane, e gli altri candidati, che avrebbero a quel punto pochissimo tempo per preparare le candidature e farsi conoscere adeguatamente a elettrici ed elettori. Senza contare che, a quel punto, non è affatto detto che come data unica per il voto (referendum compreso) si scelga quella, con ciò che ne consegue in termini di maggiori spese (e chiusure non scongiurate delle scuole).


Ritardare il voto o anticipare le firme?

Si è già visto la scorsa settimana che il gruppo Fdi insisteva - oltre che per non accorpare al voto comunale ed eventualmente regionale anche il referendum costituzionale, per la totale differenza di obiettivi e impostazione - perché i comizi elettorali venissero spostati più avanti di almeno una settimana, dunque al 27-28 settembre 2020 (con eventuale ballottaggio per i comuni non conquistati al primo turno e, sulla carta, anche per la Toscana se ce ne fossero le condizioni). Quella data certamente non eviterebbe ulteriori chiusure delle scuole (al più non produrrebbe un rientro di pochi giorni o il differimento dell'inizio delle lezioni direttamente al post-elezioni); probabilmente però sarebbe accolta con maggior favore dagli operatori del turismo (e dalle famiglie interessate ad andare in ferie a settembre), oltre che da coloro che volessero candidarsi, sia per preparare i documenti con più calma - la consegna delle liste sarebbe fissata per il 28 e il 29 agosto - sia per svolgere una campagna elettorale più lontana dalle distorsioni legate all'emergenza Covid-19.
Se il tempo a disposizione per una campagna "equa" è da giorni uno degli argomenti più richiamati da Fratelli d'Italia, nella seduta di martedì si è registrata una proposta avanzata a titolo personale da Piero Fassino (Pd): questi, riconoscendo come "non privo di senso" l'argomento di chi lamenta la scomodità di depositare liste, firme e documenti a metà agosto inoltrata e di raccogliere tutto nei giorni precedenti, ha proposto di anticipare i tempi di deposito delle candidature: "Si usa il mese di giugno e di luglio per fare le liste, raccogliere le firme, le si depositano il 31 luglio e la gente va in ferie tranquilla tutta e si vota il 20 settembre". Un risultato da ottenere con un semplice emendamento della relatrice. La proposta è stata ribattuta ieri dal deputato dem e costituzionalista Stefano Ceccanti: "La legge sulla par condicio - ha detto in aula - funziona con una scansione in due tempi. Fase uno: c'è una par condicio che si attiva col decreto di indizione, che vale per le forze politiche già rappresentate; fase due: si presentano le candidature e la par condicio scatta sulle candidature. Allora, è chiaro che, se noi spostiamo i termini della presentazione delle candidature, si espande la fase due". 
In sostanza, se tra l'indizione delle elezioni e l'ammissione delle candidature ci sono meno garanzie per chi non è rappresentato nelle aule e anche per chi è minoranza, anticipare la presentazione delle candidature alla fine di luglio o alla prima settimana di agosto tenendo ferma la data del voto - se si ritiene che il 20 e il 21 settembre siano "data baricentrica", per riprendere un'espressione impiegata proprio da Ceccanti, rispetto alle richieste delle Regioni e a quelle delle opposizioni - significa che la campagna elettorale vera e propria dura non quattro settimane ma sei o sette, durante le quali si applicano le norme più garantiste sulla par condicio a tutti i candidati, che in questo caso sono noti prima. Una scelta simile, ovviamente, dovrebbe comportare secondo il costituzionalista "massima flessibilità poi sugli strumenti pratici e su come scriverl[a]": ci si permette di dire, per esempio, che avere due o tre settimane in meno per la raccolta firme potrebbe richiedere o almeno suggerire un ulteriore taglio delle firme richieste per le sole elezioni regionali o misure simili. Il che vorrebbe dire anche spianare la strada - per chi sa come e dove raccogliere le sottoscrizioni - a liste dai simboli furbetti, che alle regionali servono sempre, per raccattare voti o anche solo per non farli prendere a qualcun altro.


Anticipare (solo) gli/le aspiranti è legittimo? 

In sede di "comitato dei nove" - vale a dire l'organo nominato dalla commissione competente della Camera per esaminare (e anche proporre) emendamenti e sub-emendamenti al testo che si sta per esaminare - non si sarebbe però trovato un accordo. In base a quanto detto in aula da Sisto, le opposizioni avrebbero proposto di introdurre una "fattispecie a formazione progressiva" sulla par condicio, facendo scattare quest'ultima con la semplice indicazione anticipata del candidato alla presidenza della Regione e lasciando il deposito delle liste e delle firme tra il 30° e il 29° giorno prima del voto:"io prima stabilisco una candidatura [a presidente], soprattutto se non ha bisogno di sottoscrizioni - e tutte le regioni hanno la possibilità di candidati presidenti che possano essere tali senza sottoscrizioni, se appartengono a partiti presenti nella consiliatura ovvero in un ramo del Parlamento - quindi, io posso presentare la candidatura ai fini della par condicio e completare la fattispecie a formazione progressiva col deposito delle liste nel trentesimo giorno".
Una soluzione simile, invece, per Ceccanti non sarebbe compatibile col dettato costituzionale: così si toccherebbe "il cuore delle leggi elettorali regionali, che si basano sull'idea che un candidato presidente di regione esiste perché ha delle liste di appoggio. Quindi, non sarebbe un intervento minimale, sarebbe un intervento che noi, dal centro, prendiamo le leggi elettorali regionali e le riscriviamo nel cuore: questo l'articolo 122 non ce lo consente". Per il deputato e costituzionalista, quindi, prevedere che basti indicare una candidatura a presidente per far scattare la par condicio com'è nella "fase due" quando ancora non ci sono liste a suo sostegno (senza le quali la candidatura a presidente non sarebbe ammessa; molte Regioni tra l'altro esigono che una lista sia presente, avendo raccolto firme sufficienti, in almeno metà delle circoscrizioni perché il simbolo finisca sulla scheda) non tocca solo le norme sulla par condicio, di solito intese come norme "di contorno", ma stravolge pure le leggi elettorali regionali. Meglio sarebbe, allora, scegliere comunque il prima possibile la persona da contrapporre al presidente uscente, così da conquistare prima l'attenzione dei media e degli elettori.
La questione oggettivamente è molto scivolosa, per varie ragioni. Da un certo punto di vista si può comprendere, conoscendo soprattutto la verve di Francesco Paolo Sisto, che un conto è fare le cose, un altro è volerle fare e un altro ancora è dire di volerle fare, per cui se tutti lo si vuole quasi per ogni esigenza si può trovare una soluzione, anche quando è borderline (lo stesso Ceccanti ha ricordato come l'intervento per tagliare le firme anche per le regionali sia "ai limiti della compatibilità costituzionale"). Le disposizioni, tuttavia, devono essere tenute seriamente in conto. Così, l'art. 122 Cost., nel delineare la competenza regionale in materia di "sistema di elezione", entro i principi fondamentali stabiliti con legge statale, è stato puntualmente interpretato - dalle Regioni stesse, ma anche dalla dottrina maggioritaria e dalla Corte costituzionale - in modo estensivo: le Regioni sono ritenute competenti a regolare non solo il sistema elettorale (per trasformare i voti in seggi) e il meccanismo di assegnazione dei seggi, ma anche in generale il procedimento elettorale. Si può dire che la par condicio appartiene piuttosto alla legislazione elettorale "di contorno", ma non per questo pare che le Regioni possano essere escluse dalla competenza in materia.
La "legge della Repubblica" con cui si dettano i principi fondamentali in materia di elezioni regionali, peraltro, contiene una disposizione qui rilevante. All'art. 4, tra i principi che limitano la potestà legislativa regionale c'è la "contestualità dell'elezione del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale, se il Presidente è eletto a suffragio universale e diretto", cosa che avviene per tutte le Regioni interessate dal voto; si prevede però anche l'ipotesi di un presidente della Regione non eletto a suffragio universale e diretto, dovendosi comunque prevedere l'elezione (evidentemente da parte del consiglio regionale) entro 90 giorni. In entrambe le fattispecie, emerge la centrale importanza del deposito delle candidature al consiglio regionale: l'elezione del presidente, se diretta, non può essere disgiunta da quella del consiglio per cui le candidature devono per forza essere collegate e venire contemporaneamente a esistenza: ove non sia diretta, essa è un'elezione di secondo grado che inevitabilmente è subordinata alla valida presentazione di candidature per il consiglio regionale. Certamente quel principio si può cambiare (ammesso che convenga), ma se lo si fa occorre farlo in modo esplicito, tanto più di fronte a una legge che si richiama espressamente all'art. 122 Cost.
Esiste poi un argomento decisamente pratico, che non depone a favore dell'utilità della soluzione di cui ha parlato Sisto. In base all'art. 4, comma 2, lett. a) della legge n. 28/2000 (quella sulla par condicio), tra la convocazione dei comizi e la presentazione delle candidature gli spazi tra le forze politiche sono divisi tra i "soggetti politici presenti nelle assemblee da rinnovare, nonché tra quelli in esse non rappresentati purché presenti nel Parlamento europeo o in uno dei due rami del Parlamento". Se, come si è visto, il deputato forzista ha chiesto di dare pari spazio ai candidati delle forze presenti in consiglio o in Parlamento (e che incidentalmente sono di solito anche esenti dalla raccolta firme), questa parità è di fatto già prevista per quelle forze politiche e potrebbe utilmente essere completata - senza bisogno di una legge - con l'indicazione del candidato o della candidata nel tempo più breve possibile, così da concentrare su di lui/lei gli spazi a disposizione della forza politica in procinto di presentare una lista.  

L'esame del disegno di legge di conversione proseguirà nel pomeriggio di oggi, nell'attesa di scoprire se ulteriori contatti in sede di "comitato dei nove" avranno portato qualche progresso rilevante in materia di campagna elettorale e presentazione delle candidature. Un anticipo dei tempi potrebbe scoraggiare la presentazione di liste, ma eventuali ulteriori tagli alle firme richieste (anche se su quegli emendamenti il voto c'è già stato) potrebbe risultare allettante per qualcuno e far comparire un simbolo sulla scheda con pochissime sottoscrizioni. In fondo è questione di numeri, di date e, ovviamente, di interessi contrapposti

mercoledì 29 novembre 2017

Liberi e Uguali a sinistra? Ma LibertàEguale c'è già...

In Italia, come appassionati e archeologi di musica leggera sanno bene, periodicamente spuntano accuse di plagio e copiatura varia. In quei casi, la linea difensiva del presunto copiatore contiene quasi sempre un certo ragionamento: le note sono sette, 12 a voler considerare anche le alterazioni, dunque gli accordi armonici e orecchiabili, così come le linee melodiche gradevoli sono limitati, quindi non c'è dolo se due brani si somigliano, magari senza che il secondo autore abbia mai conosciuto il brano che si presume vittima di plagio. Qualcosa di vero nel ragionamento c'è, ma non per questo le condanne per plagio non sono state emesse.
Qualcosa di simile sembra accadere anche con riguardo ai simboli politici, ma anche semplicemente per i nomi di partiti e movimenti. L'ultimo episodio, fresco fresco, riguarderebbe una creatura politica non ancora nata, anzi nascitura, questione di giorni. Il nuovo soggetto politico nascente a sinistra, che dovrebbe raccogliere Possibile, Sinistra italiana, Articolo 1 e magari anche alte cariche istituzionali (a partire da Pietro Grasso e Laura Boldrini), potrebbe chiamarsi Liberi e Uguali. Niente simbolo grafico, per quanto se ne sa, anche se la presentazione ufficiale del logo potrebbe esservi sabato: si è parlato del nome su fondo rosso. Gli appassionati di grafica politica non sono contenti, ma per qualcuno è proprio il nome a essere inopportuno. Perché da 18 anni esiste già la LibertàEguale. Con tutte le maiuscole. Si tratta di una associazione attiva in ambito politico, nata nel 1999 da "riformisti provenienti dalle più diverse esperienze nell’ambito del centrosinistra italiano", come si legge nel sito, per "fare dell’Italia una nazione con maggiore Libertà e maggiore Eguaglianza".
Nell'organo di presidenza sono rappresentate varie culture politiche, a partire da quelle confluite nei dem. Ci sono ex parlamentari (tra gli altri Franca d'Alessandro Prisco, Claudio Petruccioli, Luigi Covatta), altri in carica (come Pietro Ichino, Alessandro Maran, Lia Quartapelle); ci sono filosofi, giuristi ed economisti come Michele Salvati. A presiedere l'associazione è l'attuale viceministro all'economia Enrico Morando, mentre vicepresidente vicario è Stefano Ceccanti. Ed è proprio il docente di Diritto costituzionale comparato ed ex senatore Pd che, dalle pagine del suo blog personale, rivendica la primogenitura, prima ancora che del nome, dell'idea che gli sta dietro: "Vorrei gentilmente avvisare, se fosse vero, che l’associazione Libertà Eguale compie 18 anni domani, si riunisce sabato, in contemporanea a loro (tanti auguri, comunque) a Orvieto e, tra le tante differenze, non aspetterebbe mai le scelte di un magistrato per guidarla". L'avviso è ancora relativamente amichevole, ma poco disposto ad acquiescenze: "Ovviamente - continua Ceccanti - se si tentasse di impadronirsi del nome ci sarebbero consequence".
Di grane giuridiche e giudiziarie legate all'uso di un nome che sembrava troppo simile a qualcosa di già esistente se ne sono viste altre, anche in tempi relativamente recenti. Uno dei casi che avevano fatto maggiormente discutere risale al 2008, quando un gruppo di politici di area cattolica, guidato dall'ex segretario Cisl Savino Pezzotta, nonché dagli ex Udc Mario Baccini e Bruno Tabacci, aveva avuto in mente di costruire la Rosa Bianca, mettendo proprio quel fiore nel simbolo su fondo blu. Il riferimento, forse, era a metà tra il Bianco fiore della Dc degli esordi e la weisse rose cristiana e antinazista, ma i promotori avevano dimenticato un piccolo particolare: in Italia la Rosa Bianca esisteva già da almeno 30 anni, essendo un'altra associazione "per l'educazione alla politica e alla democrazia" nata sempre in ambito cattolico e tra i suoi fondatori annoverava Paolo Giuntella, per anni cronista al Popolo e a lungo quirinalista al Tg1. La sua associazione si rivolse al Tribunale di Roma per far valere il preuso del nome e, già che c'era, anche del sito internet, lamentando un elevato rischio di confondibilità, soprattutto a causa del comune impegno in ambito politico e per il bagaglio ideologico affine. I giudici accolsero quella domanda e il gruppo di Pezzotta dovette rapidamente modificare il proprio nome in Rosa per l'Italia.
In ambito cattolico, in effetti, le polemiche sui nomi non sono mancate. Si pensi, ad esempio, a quando Gianni Alemanno volle fondare il movimento Prima l'italia, dimenticandosi che quell'espressione era già stata utilizzata in ambito politico negli ultimi tesseramenti e nelle ultime campagne della Democrazia cristiana, prima che scegliesse di ribattezzarsi (facendolo male) Partito Popolare italiano. Per non parlare, tra l'altro, di tutte le volte in cui qualcuno ha cercato di chiamare la propria iniziativa Italia Popolare o semplicemente Popolari: tutti quanti, si chiamassero Alemanno, Berlusconi, Mauro, Alfano o in altra maniera, si sono puntualmente trovati una diffida da parte dell'associazione Italia popolare, legata all'ex parlamentare Ppi Alberto Monticone e attualmente portata avanti da Giancarlo Chiapello.
Certo, in quei casi il nome era proprio identico ed era più facile sostenere il preuso, mentre qui da una parte ci potrebbero essere i Liberi e Uguali, dall'altra c'è già da tempo la Libertà Eguale. Tutto risolto allora? Beh, non proprio. Si tratta pur sempre della combinazione degli stessi concetti, pur se espressi con parole appena un po' diverse,  all'interno dello stesso ambito politico, per cui la confondibilità non può essere affatto esclusa. Ne sa qualcosa Il Senatore Carlo Giovanardi, a suo tempo fondatore del partito Popolari Liberali, con il quale entro nel Pdl berlusconiano. Poco tempo dopo, infatti, si vede recapitare una diffida dall'Associazione Liberal popolari, già esistente, che gli intimava di abbandonare l'uso del nome. Le due denominazioni, per quanto simili, oggettivamente non erano identiche, eppure il tribunale di Roma in un'ordinanza diede torto a Giovanardi (che da allora infatti ha utilizzato molto meno il simbolo inizialmente creato), proprio perché i giudici avevano dato rilievo alla combinazione dei concetti, oggettivamente più proteggibile rispetto ai concetti singoli. 
La scena proposta oggi, tra l'altro, dovrebbe essere un déjà vu per chi pochi mesi fa ha fondato Articolo 1, visto che il nome inizialmente scelto, Movimento Democratico Progressista, è stato messo in secondo piano dopo il pronto avviso di un gruppo di democratici vicini a Renzi che in Calabria alle regionali aveva presentato la lista Democratici progressisti. 
Per evitare l'ennesima diffida con strascico legale, in un tempo pericolosamente vicino allo scioglimento delle Camere e che richiede la piena disponibilità del nome e del simbolo che si usa, forse per il nascente rassemblement di sinistra è meglio correre ai ripari e sforzare un po' di più la fantasia; in fondo, forse, le combinazioni interessanti in politica non sono ancora terminate.